Dieci anni dalla crisi "asiatica"

Il 2 luglio del 1997 le avvisaglie di crisi, già avvertite in Asia da molti mesi, esplosero in Thailandia con un crollo in borsa cui seguì una fuga di capitali, una restrizione del credito e una svalutazione della moneta. Nei mesi successivi la crisi toccò la Malesia, l'Indonesia, la Corea e tutti i paesi asiatici continentali meno la Cina e l'India. All'inizio del 1998 la crisi incominciò ad estendersi a tutto il mondo, e nel giro di tre anni aveva già passato gli oceani, toccato Russia ed Europa, per arrivare infine in America Latina. Secondo molti economisti si trattò della più grande crisi globale dopo la Grande Depressione iniziata nel 1929.

Come in tutte le crisi dell'ultimo mezzo secolo, il Capitale in generale non ne soffrì molto e non ci fu alcuna recessione mondiale. Ne soffrirono invece le popolazioni, che per prima cosa videro i prezzi degli alimentari andare alle stelle, tanto che in diversi paesi esplosero rivolte per il pane o per il riso. Si trattava degli effetti di una politica imposta − al solito − dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, che avevano applicato le ricette consuete: rialzo dei tassi, iniezione di capitale creditizio e risanamento dell'economia attraverso le cosiddette liberalizzazioni. Quello che fu un disastro per le popolazioni fu un affare per i privati stranieri (tra i quali i maggiori sottoscrittori del FMI, USA e Giappone, avevano alle spalle i ministeri nazionali del tesoro). Infatti la liberalizzazione significò – e il caso della Corea fu il più drammatico – vendere a prezzo stracciato industrie e banche in difficoltà, soprattutto agli americani, e veder sparire all'estero i profitti, dato che le multinazionali sono assai abili a non pagare le tasse agli Stati in cui operano. Una volta riassestate, fabbriche e banche furono rivendute ad alto prezzo, con enormi profitti. Da notare che queste operazioni garantirono vantaggi a medio termine solo agli Stati Uniti, dato che il Giappone era entrato in una crisi che sarebbe stata decennale e che non riuscì ad evitare nonostante la liberalizzazione riguardasse anche i suoi maggiori prodotti d'esportazione.

La crisi del 1997 ha però insegnato, non solo ai paesi asiatici, che le ricette del FMI e della Banca Mondiale erano escogitate proprio per favorire i maggiori paesi imperialisti. I tutori di allora, di fronte alla crisi, si erano ben guardati dal liberalizzare sé stessi e avevano invece adottato politiche statali per sostenere i consumi interni e l'apparato produttivo a spese degli altri. Da allora molti paesi in via di sviluppo hanno adottato anch'essi una politica di controllo economico per sostenere il mercato interno e avviare un minimo di intervento sociale a favore di popolazioni precedentemente sprovviste di tutto. L'esempio sarà contagioso.

Oggi gli Stati Uniti insistono di nuovo in modo assai sospetto sulle liberalizzazioni, specie nei confronti di India e Cina, gli unici due paesi asiatici che si erano salvati rifiutando la liberalizzazione di dieci anni fa. E, guarda caso, nell'attuale crisi partita dai mutui subprime, americani, giapponesi ed europei non stanno affatto liberalizzando a casa loro, anzi, chiedono maggiore controllo dei flussi finanziari. E, ancora non a caso, non aumentano affatto i tassi d'interesse, anzi, li abbassano. Avevano predicato agli asiatici normative e trasparenza, e adesso si trovano con milioni di mutui insolventi incapsulati segretamente in fondi d'investimento e titoli che servono agli istituti americani per rastrellare capitali e risparmi nel mondo. Avevano criticato le politiche statali dei paesi asiatici volte ad evitare il collasso delle banche, ma adesso corrono a salvare dal collasso le proprie.

Rivista n. 22