Feticcio Europa, il mito di un imperialismo "europeo"

"Il Piano Monnet ha cessato di essere un piano francese per divenire uno dei piani secondari di un sistema che ha il suo perno fuori di Francia. Il riflesso più immediato si avrà, naturalmente, nella politica finanziaria, uno dei presupposti fondamentali del Piano Marshall. In Francia, come in tutti i paesi occidentali, il capitalismo si salva alla sola condizione di vendere la propria gelosa indipendenza a Zio Sam".

"Il destino del piano Monnet", in Prometeo n. 10 del 1948

L'Europa non è mai esistita. Ora si tratta di crearla davvero".

Jean Monnet, 1950.

"Il Movimento Federalista Europeo non risponde ad altro che al migliore consolidamento della dittatura del Capitale americano sulle varie regioni europee e, al tempo stesso, della interna dominazione sul proletariato americano, le cui vane illusioni di prosperità hanno per sicuro sbocco l'austerità che oggi la più ipocrita delle borghesie fa inghiottire alla classe operaia d'Inghilterra".

"United States of Europe" in Prometeo n. 14 del 1950.

Il movimento europeista nacque giacobino con la Rivoluzione Francese, si ripropose contro di essa come programma reazionario, rinacque a metà Ottocento come corollario dei moti sociali, percorse il Novecento tra socialismo riformista, liberalismo e fascismo, e infine si concretizzò nel secondo dopoguerra come espressione di un'ideologia nazionalista continentale, semplice estensione dell'ideologia patriottica nazionale. Ma le basi materiali su cui formalmente sorse risiedevano nella politica degli Stati Uniti, che avevano vinto la guerra e avevano bisogno di utilizzare un fiume di dollari immobilizzati dalla Grande Depressione. Dollari che furono elargiti secondo un piano preciso dettato dalle nuove opportunità scaturite dal dopoguerra. Non a caso tale piano fu elaborato e proposto dal segretario di Stato americano Marshall, non un politico ma uno stratega, ex capo di stato maggiore durante la Seconda Guerra Mondiale. Si trattava della continuazione della guerra con altri mezzi.

Anche il movimento operaio fu toccato dall'ipotesi europeista, e lo slogan "Stati Uniti d'Europa" divenne fonte di discussione all'interno dei partiti rivoluzionari. Lenin non si dilungò troppo sull'argomento: come parola d'ordine per la prospettiva rivoluzionaria, disse, poteva anche andare, ma dal punto di vista della realtà borghese era un'assurdità. Ovviamente i comunisti erano − e questo assunto è ancora valido − per il superamento delle suddivisioni nazionali e per l'accorpamento in grandi unità statali anche borghesi, perché ciò sarebbe stato favorevole allo sviluppo del proletariato; anche se bisognava tener conto che la forza di uno Stato è sempre in funzione antiproletaria. I comunisti avrebbero auspicato addirittura gli Stati Uniti del Mondo, pur non negando affatto che fosse possibile la vittoria della rivoluzione anche in un singolo paese. Ma, realisticamente, il compimento di una unità politica effettiva, europea o mondiale, federata o meno, sarebbe stata possibile solo come risultato rivoluzionario. In ultima analisi una unione armonica fra più Stati borghesi per Lenin era impossibile e la sua eventuale realizzazione sarebbe già stata "sinonimo di socialismo".

Lo slogan europeista in bocca a un borghese, egli diceva, è un assurdo: prima ancora che per le ragioni politiche dovute al consolidarsi storico delle identità nazionali, per ragioni prettamente economiche. Sul mercato mondiale ogni borghesia nazionale si scontra con l'altra per la ripartizione del plusvalore complessivo prodotto, e la concorrenza su questo terreno vitale può solo generare accordi temporanei, alleanze di interessi contro altri interessi. Invitava a tener presente la legge dello sviluppo ineguale del capitalismo, che significa in ogni tempo legge delle ineguali determinazioni all'accelerazione storica fra aree diverse del mondo. Al suo tempo, tra l'altro, la politica coloniale influenzava moltissimo quella fra gli Stati, per cui la forza dittava in modo più chiaro di adesso sulla diplomazia.

Venendo alla questione europeista odierna, la prima cosa che balza agli occhi è proprio l'assurdità di un processo che viene avviato sull'unico terreno possibile, cioè proprio con quegli accordi economici derisi da Lenin. Il tutto nell'evidente mancanza di intenti politici comuni, negati dall'ineliminabile nazionalismo delle varie borghesie. All'inizio degli anni '50 alcuni statisti di paesi europei si incontrarono per stabilire un coordinamento su tre punti: integrazione doganale, produzione di carbone e acciaio, sviluppo della ricerca nel campo dell'energia atomica e delle sue applicazioni. Come vedremo in dettaglio, l'intenzione europeista divenne un piano permanente orientato addirittura all'unificazione fra Stati.

Questo accordo permanente su punti prettamente economici fra "briganti imperialisti" non smentiva per nulla le proposizioni di Lenin, ne cambiava semplicemente la chiave di lettura. In effetti i vecchi paesi imperialisti non avevano affatto messo in campo una forza centripeta propria, ma avevano riflesso le esigenze del capitale americano, il vero vincitore finale della guerra. L'organizzazione economica previa della futura Unione non era altro, dunque, che un assetto favorevole ai piani internazionali degli Stati Uniti, primo fra tutti quello per l'investimento dei capitali americani, in esubero fin dalla Grande Crisi. Non a caso la Comunità Economica Europea nacque affossando le precedenti spinte mitteleuropee e abbracciando velocemente una politica occidentalista fondata sul Piano Marshall (1947) e sull'Alleanza Atlantica (1949). Per chi avesse bisogno dei nomi illustri ne citiamo alcuni significativi: Churchill, Monnet, Spaak, De Gasperi e Schuman. I migliori campioni dell'atlantismo.

La storia d'Europa fra unità statale e federalismo

Contro le legioni romane che inesorabilmente occupavano l'Europa vi furono esempi di federazioni fra tribù e popoli. Tradizionalmente isolati in comunità ristrette, Italici, Celti, Liguri, Germani, ecc. furono spesso obbligati a coalizzarsi sotto un comando unico. Lo stesso Annibale cercò di federare le popolazioni italiche contro Roma, riuscendovi in parte. L'Alto Medioevo fu caratterizzato dall'impossibilità di realizzare sia un'unità centrale sia una federazione fra le sopravvissute città dell'Impero. La Lega Lombarda fu una federazione di liberi Comuni medioevali minacciati dall'avanzata degli eserciti imperiali. La Lega Anseatica una potentissima federazione su base comunale governata da una lex mercatoria accettata da tutti per manifesto interesse comune. In Italia, secoli più tardi, Carlo Cattaneo elaborò una teoria federalista fondata su una sintesi della storia comunale nel contesto europeo, giungendo a una concezione particolarissima, storicamente molto interessante dal nostro punto di vista, che potremmo chiamare "federalismo sistemico" e che nulla aveva a che fare con le successive ideologie federaliste.

Sul cosiddetto federalismo di Cattaneo è bene che ci soffermiamo un momento per fare un confronto fra ciò che ha prodotto la borghesia nella sua fase rivoluzionaria e ciò che produce ora nella sua fase decadente. Cattaneo partì dal presupposto che ogni nazione segue un suo percorso storico peculiare, dovuto a cause materiali che danno luogo a uno sviluppo differenziale. Sarebbe inutile e anzi dannoso negare questa peculiarità, come del resto sarebbe dannoso persistere in un sistema di vasi incomunicanti territoriali, residuo feudale, negazione dell'ulteriore sviluppo economico e sociale. L'Italia, con le spiccatissime e precoci peculiarità dei suoi Comuni e delle sue Repubbliche Marinare, era per Cattaneo il paradigma del futuro sviluppo generale dell'Europa, un campo sperimentale avanzato per una teoria generale dello sviluppo capitalistico. Naturalmente la borghesia rivoluzionaria avrebbe rappresentato il motore dello sviluppo nazionale ed europeo, perché l'industria ha bisogno di scienza, razionalità, piano e organizzazione. Milano e la Lombardia erano parte di un sistema, ed era ininfluente che prima dei moti risorgimentali esso si chiamasse "impero austro-ungarico". Era all'interno di quel sistema che le città e le loro regioni potevano dare un apporto "sistemico": ad esempio con la diffusione di un'agricoltura intensiva basata sul controllo comune delle acque, che in Lombardia era di livello pari se non superiore a quella dell'Inghilterra.

Dopo i moti risorgimentali Milano divenne parte del sistema savoiardo-piemontese, rozzamente centralizzatore e più arretrato rispetto a quello austro-ungarico. Fu questa la ragione per cui Cattaneo, che pur aveva partecipato alla direzione militare della rivoluzione borghese, manifestò un'opposizione anti-piemontese ancora prima che fosse raggiunta l'unità nazionale. Opposizione pragmatica e per nulla ideologica, dato che la borghesia del '48 era stata inconseguente sul piano politico-militare e che in seguito Cavour aveva esportato le leggi savoiarde a tutta l'Italia, impedendo praticamente alla rivoluzione di fare quel che fanno tutte le rivoluzioni, cioè sconvolgere alla radice le vecchie sovrastrutture. Il Piemonte ultra-conservatore non era neppure riuscito a copiare, come si fa in genere dopo le guerre vinte, il meglio della struttura statale degli avversari austriaci e borbonici.

In Cattaneo quindi non troviamo una ideologia ma una teoria federalista, una concezione del mondo basata su sistemi (statali, scolastici, scientifici, produttivi, agricoli, metropolitani, psicologici, ecc.) formati di parti in grado di partecipare al tutto secondo un piano unico dettato dall'interesse comune. Non era un'idea "politica" ma un progetto di società (sarebbe quindi ora di finirla con la favola del Cattaneo federalista in senso proto-leghista, un insulto alla memoria dello scienziato).

Al contrario, l'Unione Europea è il prodotto di un'idea, non di un progetto sociale. C'è un completo rovesciamento rispetto al disegno storico di un Cattaneo: non abbiamo parti che partecipano a un tutto, mosse da un interesse comune, ma parti che cercano di usare il tutto per i propri interessi particolari. E così naturalmente rimangono le parti, mentre il tutto si dissolve in un nulla di fatto. Come dimostreremo.

La storia non è nuova. Ed è anche per questo che gli esempi storici di unità federale quasi scompaiono di fronte a quelli della superiore potenza invasiva delle unità statali, cioè dell'unità territoriale, economica e politica, imposte dall'alto. L'Impero Romano è stato forse l'esempio più completo di unità sistemica sotto un potere centrale unico. Anche gli imperi di Carlo Magno, di Federico II, di Carlo V raggiunsero vertici di unità e centralismo. Napoleone, Hitler e Stalin sono personaggi che evocano piani di tentato europeismo. Non fu episodio da poco l'unione bismarkiana della Germania, ottenuta per mezzo di una tipica "rivoluzione dall'alto" che produsse la grande riunione dei 39 staterelli tedeschi dell'ex Confederazione Germanica, un gigante federato e nello stesso tempo centralizzato nel cuore dell'Europa (all'epoca la Germania comprendeva parte della Francia, della Polonia e della Russia attuali).

Oggi l'Unione Europea non riesce neppure a formalizzare e a far funzionare un accordo interstatale per un vero coordinamento, né riuscirà mai ad amalgamare degli stati-regione in una federazione di länder alla tedesca. Nell'epoca dell'imperialismo non essendovi più territori contesi da dinastie, vige la guerra di tutti contro tutti per accaparrarsi il valore di una produzione socializzata in un unico grande mercato globale. Non vi è unione possibile fra borghesie quando ogni nazione produce ai quattro angoli del pianeta e vorrebbe solo per sé profitti e vantaggi.

Dal Piano Monnet al Piano Marshall

Jean Monnet, artefice del piano omonimo di ristrutturazione economica della Francia alla fine della Seconda Guerra Mondiale, era fuggito negli Stati Uniti nel 1943, e aveva subito collaborato con gli americani accettando la proposta di Roosevelt per una missione in Algeria, finalizzata a ricucire in chiave gaullista resistenziale i rapporti fra le scomposte fazioni dell'esercito francese. Il Piano Monnet (Plan de Modernisation et d'Équipement) era stato voluto dalla borghesia francese rappresentata da De Gaulle. Esso era complementare alla politica americana di ricostruzione post-bellica e propugnava quelle "riforme di struttura" che diventeranno cavallo di battaglia di tutta la sinistra europea, compresa quella trotskista. La Francia si ritrovava con gli investimenti coloniali e i relativi profitti decurtati, con un'economia interna fuori controllo e, soprattutto, con una produzione per addetto nell'unità di tempo che già nel 1938 era solo un terzo di quella americana e due terzi di quella inglese e di altri paesi europei (che sarebbero poi stati molto più provati dalla guerra). Il piano, agganciandosi ai primi "aiuti" americani, avrebbe dovuto riportare l'economia postbellica almeno al livello del 1938 in due anni, per poi proseguire nell'ammodernamento della struttura produttiva. Ma a quella data definirlo complementare alla politica americana era un eufemismo, dato che ormai si inseriva perfettamente nell'ambito del ben più vasto Piano Marshall (ERP, European Recovery Program). I due piani si integravano per la semplice ragione che allo stesso modo si integravano gli interessi degli Stati Uniti e quelli dei disastrati paesi europei in una duplice unità-alleanza, quella atlantica e quella europeista. Nel 1947 si consumava dunque un matrimonio d'interessi fra l'esuberanza americana di capitali e la carenza europea, matrimonio che avrebbe subito prodotto due interessanti rampolli: l'OECE (Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica, OCSE dal 1961) con sede a Parigi, e l'ECA (Economic Cooperation Administration) con sede a Washington.

L'integrazione del Piano Monnet col Piano Marshall finiva per estinguere il primo nel secondo e ciò aveva un riflesso nell'integrazione fra OECE ed ECA: il primo organismo, europeo, rispecchiava le esigenze della ricostruzione, mentre il secondo, americano, erogava i capitali sotto forma di prestiti pluridecennali da restituire in parte senza interessi e in parte con interessi molto bassi (2,5%). Il piano americano funzionava così: ogni nazione europea che vi aderiva doveva presentare all'OECE di Parigi la lista di tutte le materie prime, i mezzi di produzione e i generi alimentari di prima necessità ritenuti utili per il rilancio dell'economia e da acquistare all'estero; dopo l'approvazione, la lista passava all'ECA di Washington che nel Piano rappresentava il potere esecutivo. Era quindi il governo americano che in ultima istanza approvava le riforme di struttura e i conseguenti investimenti, rimborsando gli acquisti o pagando direttamente le forniture. Naturalmente in dollari.

Ottenuti i finanziamenti, ogni nazione doveva depositare il controvalore dei dollari in moneta locale (marchi, franchi, sterline, lire) in un apposito fondo, destinato a sua volta al finanziamento di investimenti interni per infrastrutture, ricostruzione delle aree urbane o stimoli all'industria. Il capitale originario, che era stato ottenuto in dollari, doveva infine essere restituito (naturalmente) in dollari. Come abbiamo visto, i dollari prestati erano stati spesi all'estero, quindi alienati in cambio di merci; i dollari da restituire dovevano essere racimolati da ogni paese sul mercato estero in cambio di produzione. Risulta del tutto evidente che l'origine della cooperazione europea era molto americana: un fiume di dollari precedentemente bloccati dalla Grande Depressione veniva messo in moto grazie alla guerra senza però rimanere nei singoli paesi. Questi ne beneficiavano attraverso il fondo in moneta locale che avrebbe rivitalizzato l'economia in modo da permettere al debitore di restituire (in dollari, ricordiamo) i capitali ricevuti. Entrò in Europa l'equivalente di circa 1.400 miliardi di dollari odierni e ne uscirono pochi di più, ma nel frattempo s'era realizzata un'area europea del dollaro, un'entità geopolitica ed economica contro la quale nessuna moneta o governo locale avrebbe potuto nulla per decenni.

L'Italietta all'epoca era governata da personaggi meno miserabili di quelli odierni. Vicepresidente del governo e ministro dell'economia era Luigi Einaudi. Sentito probabilmente odore di fregatura negli "aiuti" americani che aiutavano più l'America che altro, ridusse al minimo l'accesso ai dollari (l'Italia chiese in tutto solo l'11% dell'intero ammontare del piano Marshall), avviò la ricostruzione con una feroce politica di sfruttamento del proletariato interno e destinò buona parte della valuta americana a riserva monetaria dello Stato. Gli Stati Uniti inviarono una commissione dell'ECA, la quale inoltrò al governo italiano una nota ufficiale di rimostranza. Da quel momento l'ambasciatrice di Washington Clara Boothe Luce si mostrò assai zelante in quella che non solo gli stalinisti dell'epoca definirono "pesante interferenza nella politica interna dell'Italia".

Imperialismo europeo?

L'impossibilità da parte dell'Italia di far valere uno straccio di "sovranità nazionale" è solo il caso più eclatante. Il cosiddetto imperialismo europeo si fonda su un agglomerato di nazioni che tutte, quale più quale meno, hanno abdicato rispetto alla propria sovranità. E può imperare una nazione che prima di tutto obbedisce a chi impera sul serio? A parte il fatto che l'imperialismo è il modo di essere del capitalismo attuale, indipendentemente da quante sono le potenze veramente imperialiste (e quindi è sbagliato aggettivarlo con il nome di una nazione o di un continente), l'Europa non potrà avere un ruolo imperialistico unitario sulla base delle sue sole forze interne. Soltanto eventi sociali catastrofici a livello mondiale potranno forse obbligare, dall'esterno, i paesi europei ad adottare una qualche forma di azione unitaria. Come del resto è già successo per i processi federativi storici citati e come in parte è successo per quelle briciole di unità attuale (ma, significativamente, tutti i tentativi di coordinamento militare compiuti dal 1954 a oggi, sono falliti).

Purtroppo l'ideologia federalista prese piede persino nell'Internazionale Comunista, la cui struttura federale si rifletteva sul programma e sulla tattica. Nell'IC infatti vigevano rapporti del tutto formali fra partiti distinti, ognuno dei quali non rappresentava affatto una "comune" locale facente parte di un unico organismo mondiale ma era, a parte un paio di eccezioni, un apparato indipendente, con una politica accomodata secondo presunte specificità nazionali anche nel caso di paesi allo stesso livello di sviluppo, mentre gli iscritti erano "bolscevizzati" d'ufficio sul modello moscovita. L'Internazionale era quindi ridotta a mero centro di risonanza dei vari dibattiti intorno a famigerate "questioni", e in quanto tale subiva la nefasta influenza della periferia, in primo luogo quella del partito russo, forte della propria vittoria. Non per niente infine si sciolse per diventare poco più di un ufficio di informazione e coordinamento (Cominform).

Da anni c'è chi, all'interno del tribolato ambiente dei cosiddetti comunisti, parla di "borghesia imperialista europea" contrapposta a quella americana e legata al "modello renano", cioè al capitalismo tedesco. E spesso, all'opposto, si leggono critiche all'operato di un'Europa succube degli USA, come se un'Europa economica e politica esistesse e potesse essere qualcosa di diverso. Così si opera un'astrazione che Marx e soprattutto Lenin bollerebbero come prettamente idealistica. In Europa, fra le 27 nazioni che si autoproclamano Unione, alcune possono essere definite imperialiste, non certo tutte. Al loro interno, come in ogni paese imperialista o aspirante a diventarlo, dominano borghesie nazionali che hanno interessi propri. L'imperialismo è un fatto unitario in quanto stadio estremo raggiunto dal sistema del Capitale, ma immaginare che paesi concorrenti possano definirsi uniti solo perché sono collocati sullo stesso continente e perché così dicono di sé stessi, è pura fantasia. Nemmeno le timide reazioni ai pesantissimi interventi degli Stati Uniti sull'economia e sulla politica estera dell'Unione Europea possono essere considerate il sussulto di un "imperialismo europeo". I due aggregati sociali non si possono neppure mettere a confronto: da una parte abbiamo un vero Stato unitario suddiviso in regioni che chiama Stati; dall'altra 27 Stati-nazione, diversi per potenza, interessi e persino sviluppo economico. Spesso nemici e capaci di voltare le armi gli uni contro gli altri ancora oggi.

Non si può negare in assoluto che possa un giorno esistere un'Europa unita o federata. Sotto la pressione di sconvolgimenti nell'assetto economico e politico mondiale, potrebbe verificarsi una polarizzazione guidata dal paese più forte o da più paesi interessati a raggiungere quel risultato. E allora avremmo anche un'integrazione del proletariato europeo, con un potenziale grande vantaggio dal punto di vista rivoluzionario. Ma lo scenario presenta variabili in grado di annichilire del tutto questo vantaggio. Ad esempio, un'Europa unita può essere il risultato di una estrema spinta americana per frenare potenze emergenti come Cina e India, magari coalizzate con altri paesi imperialisti. In questo caso il proletariato sarebbe schiacciato dalla triplice azione dello stato nazionale, di quello federale e degli Stati Uniti. Non proprio una prospettiva allettante.

Naturalmente esiste anche la possibilità che un affasciamento delle popolazioni d'Europa avvenga attraverso una rivoluzione proletaria che incendi l'intero continente. Rispetto a questa ipotesi, Trotsky affermava, sull'onda della rivoluzione vittoriosa in Russia, che l'Europa aveva davanti a sé due sole prospettive: diventare un mostro borghese unico, statale o interstatale, contro il quale però il proletariato si sarebbe gettato con unico slancio, oppure diventare un concentrato statale unico in conseguenza della rivoluzione proletaria continentale. A ben vedere si tratta di una prospettiva unica, piuttosto arbitrariamente divisa in due.

Con il realismo maturato mediante l'analisi della sconfitta, la nostra corrente osservò anni dopo che sarebbe stata più probabile una guerra, e che comunque l'avvento di un mostro statale unico non avrebbe potuto che portare alla triplice oppressione per il proletariato, perché il mostro sarebbe stato di certo subordinato alla politica estera degli Stati Uniti (Struttura economica e sociale…). Meglio dunque le borghesie divise che federate nell'unico modo che oggi il capitalismo consentirebbe loro: contro il proletariato (United States of Europe). Ma il futuro capitalistico è tale da muovere all'ottimismo: anche se si giungesse mai a un grande Stato borghese unico, esso sarebbe condannato lo stesso. La dialettica storica ci dice che quanto più sarà grande il mostro statale, quanto più sarà difficile abbatterlo, tanto più sarà grande l'onda rivoluzionaria che dilagherà nel mondo.

Contro questo realismo ottimistico, che ha le sue radici nella storia passata, il cui decorso conosciuto ci dà la dinamica necessaria per capire il domani, stanno esplodendo fenomeni di partigianeria più o meno evidenti che noi inquadriamo da tempo nel fenomeno generale che una volta i comunisti chiamavano socialsciovinismo. Solo non avendo capito un accidente di come poté succedere che le socialdemocrazie della Seconda Internazionale votassero i crediti di guerra e affiancassero le borghesie nazionali nel primo macello imperialistico mondiale, si può ora sostenere che è possibile una solidarietà qualsiasi con ogni forza che combatta l'odiato "imperialismo americano".

Queste sono follie che si pagano. Chi oggi è filo-islamico perché gli islamici "sparano agli americani" sarà capacissimo di diventare filo-europeo quando determinazioni materiali schierassero alcuni paesi europei (non l'Europa!) contro gli Stati Uniti. Del resto vi sono tutti i prodromi di un tale partigianismo, comprese le teorie giustificatrici ad hoc. Ricordiamo che i "comunisti" obbedienti a Mosca non reagirono affatto quando fu firmato il patto con il nazismo, e diventarono filoamericani solo quando le truppe tedesche invasero l'URSS, per poi voltar gabbana un'altra volta dopo la guerra, quando fu chiaro chi l'aveva vinta davvero. Gli stolti non avevano capito che per gli americani "la strada per Berlino passava da Mosca".

E gli attuali arrabbiatissimi mangiaebrei che vorrebbero distruggere Israele forse non sanno che la "questione palestinese" nacque in una corsa degli americani a bloccare quella dei russi per il controllo del Medio Oriente, tramite Israele o qualsiasi altra leva che potesse servire allo scopo. Si trattava di scegliere: chi avesse sostenuto Israele avrebbe gettato i paesi arabi in braccio all'avversario; il Dipartimento di Stato era contrario, la Casa Bianca favorevole; i sionisti ne approfittarono e proclamarono lo Stato di Israele mettendo gli USA di fronte al fatto compiuto. Mosca abbozzò e riconobbe subito il nuovo stato sionista. Nello stesso tempo, seguendo la strada perfettamente prevista dal Dipartimento di Stato USA, fece propria la "causa araba" piegandola alla propria politica imperialista. Da allora ebrei e arabi si massacrano (con esiti alquanto sbilanciati) per altrui interessi. Questa è l'invarianza assassina di ogni controrivoluzione moderna.

Da più parti si incomincia a immaginare un ipotetico vantaggio per il proletariato nel caso di una effettiva unione europea. Specie per fermare l'attacco americano contro il resto del mondo. Certo, si dice, non che l'Europa non sia imperialista, ma se fosse unita potrebbe contrastare efficacemente la strapotenza americana e impedire l'incubo della triplice oppressione sul proletariato, cosa che non mancherebbe di "risvegliare" quest'ultimo dal torpore in cui è caduto. Fra diversi esempi di infatuazione europeista "di sinistra" ne scegliamo uno che ci sembra assai significativo:

"Il problema dell'Europa resta centrale, […] quello su cui troveranno un terreno di verifica le speranze di rompere la cappa di piombo che pesa sul movimento operaio e di rovesciare la tendenza verso conflitti tra Stati in tendenza verso il comunismo. […] Si tratta di costruire un movimento democratico, proiettato all'interno dell'Europa, che susciti il massimo di mobilitazione contro il coinvolgimento nelle strategie americane e soprattutto contro l'americanizzazione della vita civile. […] La cartina di tornasole per giudicare la validità delle prese di posizione, delle iniziative e delle lotte è che esse vadano nel senso di spezzare il blocco di interessi imperialistici dominato dagli Stati Uniti, che costituisce in questa fase il più grande pericolo per il futuro dell'umanità e, per spezzarlo, è necessario utilizzare tutti i fattori destabilizzanti, in particolare la tendenza, che ha maggiori potenzialità oggettive e soggettive, alla costruzione dell'Europa in autonomia, combattendo la linea di darle una posizione subordinata o, peggio, di farne una propaggine anche politica e culturale dell'America. Certamente nel prossimo futuro non mancheranno spinte in un senso o nell'altro. […] Un'Europa che rompesse con la delega dei propri interessi imperialistici all'egemonia americana sarebbe meno imperialista? Certamente no. Ma si sarebbe spezzato in due tronconi conflittuali un monolite che già esiste e che oggi impedisce alle classi subalterne qualunque movimento" (Il mistero della Sinistra, pag. 278-281).

Dunque la "costruzione" di un movimento democratico − quindi interclassista ecc. − favorirebbe la "tendenza" verso il comunismo. Non c'è limite alla mistificazione sinistrorsa quando tutto viene sottratto ai fatti e piegato all'opinione. È lapalissiano constatare puramente e semplicemente che vi è un'oppressione congiunta a danno del proletariato da parte di America e paesi europei, e che la situazione sarebbe ancora peggiore se fosse realizzabile una Unione Europea sotto bandiera americana. Ma di qui a chiamare il proletariato alla lotta per le borghesie di un'Unione Europea Autonoma ce ne corre. La differenza fra un comunista e un nazionalcomunista sta proprio in quella frase buttata lì a registrare un "piccolo" particolare assai realistico: "Certamente nel prossimo futuro non mancheranno spinte in un senso o nell'altro". Su questo possiamo giurare. Non mancheranno, da parte di America e Stati europei, forti richiami alle rispettive partigianerie. Del resto si sono già fatte più volte le prove generali dopo il fatidico 11 settembre 2001. Forza partigiani, il reclutamento è incominciato.

Un cadavere che compie cinquant'anni

L'anno scorso la rivista di geopolitica Limes uscì con una monografia sull'Unione Europea intitolata L'Europa è un bluff. Sottotitolo: In morte di un'ideologia. Vi si osservava che, mentre altri paesi stanno emergendo come nuovi protagonisti sulla scena mondiale (Cina, India, Brasile, ecc.), non esiste un soggetto europeo in grado di fare altrettanto. Esisterebbe sì una Unione Europea, ma essa non sarebbe in grado di giocare un ruolo sulla scena politica internazionale. Questa affermazione è ambigua: se l'Europa non gioca alcun ruolo, è perché non esiste. E se è ancora in queste condizioni dopo cinquant'anni ci sarà pure un motivo.

Il 25 marzo del 1957 fu siglato il Trattato di Roma con il quale nacque ufficialmente la CEE. Sei paesi, Italia, Germania, Francia, Belgio, Lussemburgo e Olanda, davano l'avvio a quello che sarebbe dovuto essere un processo di unificazione dell'Europa. Da allora, per ben cinquant'anni, un fiume di retorica è stato riversato sulle popolazioni, dalle scuole alle case, senza riuscire a nascondere il fatto che l'Unione non c'è ancora. Nonostante i due milioni di documenti europeisti presenti nell'archivio del movimento Federalista Europeo, ogni paese del vecchio continente è rimasto arroccato su una propria politica nazionale e non vi rinuncia. Con l'ingresso di nuovi aderenti, le differenze fra le nazioni fondatrici non si sono affatto ridotte, anzi, si sono ampliate.

Eppure vi sarebbero alcune condizioni materiali favorevoli: una storia fatta di radici comuni; un'unità territoriale ben fornita di estese vie di comunicazione; un'industria ancora possente e mediamente poco incline a farsi "virtuale"; una produzione di qualità tendente all'esportazione; un Prodotto Interno Lordo che assomma a circa 14.000 miliardi di dollari (poco più di quello americano); una popolazione di quasi mezzo miliardo di persone. Ciò nonostante, più i confini si allargano, più si sommano nuove entità nazionali, più le cifre dei dati economici e demografici aumentano, più si aggravano le contraddizioni interne.

Allo stato delle cose l'Unione Europea non è neppure comparabile ad una organizzazione interstatale per una modesta cooperazione continentale, come ad esempio è il NAFTA (Nord American Free Trade Agreement), che in qualche modo arriva a coordinare economie tanto diverse come quella degli Stati Uniti, del Canada e del Messico, per un interscambio di capitali e di produzione: una specie di divisione internazionale del lavoro più o meno concordata, senza velleità ideologiche federative, in cui gli Stati Uniti sono il centro motore e gli altri due paesi un complemento. Il Messico fornisce forza-lavoro a buon mercato e un sottosistema produttivo collocato nelle vicinanze della comune frontiera, costituito di piccole e medie industrie (maquilladoras) fornitrici delle grandi multinazionali statunitensi; il Canada esporta verso gli USA petrolio grezzo e gas, legname, polpa di cellulosa per carta e consente il passaggio sul proprio territorio degli oleodotti provenienti dall'Alaska. Il NAFTA ha pochi anni, funziona meglio del cinquantenario Mercato Comune Europeo e consente agli Stati Uniti di sfruttare gli altri paesi né più né meno che in altre aree del mondo. In un pianeta globalizzato non è la contiguità territoriale che decide le sorti degli accordi e delle inimicizie, ma è certo che in Europa non vi è un attrattore storico così potente come gli USA nel Nordamerica.

Germania, Inghilterra, Francia e Italia si equivalgono come potenza produttiva pro capite, ma nessuno di questi paesi potrebbe svolgere una funzione unificatrice europeista. La Germania è tradizionalmente e giustamente considerata un gigante economico ma un nano politico; l'Inghilterra è proiettata altrove; la Francia è troppo legata alla propria peculiarità nazionalista; l'Italia è una portaerei protesa sul Mediterraneo e quindi è una chiave di volta per la strategia americana nel Sud Europa con conseguenze ovvie per la sua sovranità nazionale.

Ma allora, che tipo di fenomeno è questo dell'Unione Europea, che si trascina da mezzo secolo senza risultati, che produce divisioni più che unità, che stimola l'intervento americano invece di neutralizzarlo?

Certo, c'è l'Euro, c'è la Banca Centrale Europea, non ci sono più i posti di controllo politici e doganali alle frontiere, c'è un parlamento comune e persino una bozza di Costituzione, per quanto macchinosa, pletorica e mai ratificata. Naturalmente questi sono fatti concreti, alcuni dei quali, come la moneta unica, producono persino effetti rilevanti sul piano internazionale. Tuttavia, come vedremo meglio in seguito, la spinta all'Unione è diventato un fatto meccanico provocato più dall'esterno che dall'interno, mentre dai singoli membri non vengono che freni. Lo stesso Euro è una moneta che si è potuta affermare e consolidare esclusivamente sulla base di spinte extracomunitarie, perché altri paesi l'hanno fatta diventare moneta di riserva, a prescindere dalle varie borghesie europee, che hanno avuto debole voce in capitolo. In effetti l'Euro ha infastidito il dollaro intaccando la sua potenza solo sui mercati valutari e finanziari internazionali, mentre l'Unione Europea ha curiosamente evitato di avvalersi della propria posizione di primo produttore del mondo e di appoggiarsi come un vero global player sulla propria moneta. Siamo di fronte a una valuta che, unica al mondo, acquista forza per circostanze del tutto eccezionali, in grado di darle un ruolo internazionale senza che essa sia realmente l'espressione di una potenza "nazionale", federata o meno. La Cina emergente, il Giappone disastrato, i paesi petroliferi e persino la Russia hanno avuto più voce in capitolo dell'Europa nello stabilire la funzione e il corso dell'Euro.

Ecco perché possiamo capire che cosa sia l'Unione Europea solo ignorando le dichiarazioni ufficiali, ciò che dice di sé stessa, e riferendoci invece al quadro generale di sviluppo delle forze produttive sulla scena mondiale entro cui è nato e maturato il processo di unificazione. Siamo di fronte a un eccellente esempio di come le forze produttive spingano verso un determinato sviluppo (raggruppamento delle forze statali in aggregati più potenti della somma delle singole parti), laddove le sovrastrutture ideologiche e politiche si oppongono a tale processo. È indubbio che il Capitale giunto a questo livello di autonomizzazione avrebbe bisogno di un piano sovranazionale per poter sopravvivere, ma è altrettanto indubbio che le forze che lo rappresentano sono più propense alla conservazione che al cambiamento. Così, mentre la tendenza è verso quella che la nostra corrente chiamava "inflazione dello Stato", i singoli componenti del sistema si trasformano in "catene per l'ulteriore sviluppo" della stessa società capitalistica. Il Capitale di per sé tenderebbe a darsi un sovrastato con un piano mondiale di produzione. Tenderebbe persino a sfruttare economicamente i guai che esso stesso provoca nell'ecosistema, trasformandoli in business. E in effetti si dà strumenti internazionali che tentino di controllare le schegge indisciplinate prodotte dai rigurgiti delle vecchie società morenti.

Invece, mentre il Capitale avrebbe davvero bisogno di sviluppare un'autentica globalizzazione del proprio sistema, le singole nazioni avanzano a fatica con timidissimi accordi tra loro, non ne vogliono sapere di organismi sovranazionali che negherebbero le loro prerogative e si arroccano in difesa di queste ultime.

L'Europa è una manifestazione lampante di potenzialità mature rispetto allo stesso assetto capitalistico del mondo, ma neutralizzate dal fatto che al potere vi è una classe proprietaria, impossibilitata a pensare guardando ad orizzonti più vasti delle frontiere che delimitano il proprio dominio. L'Europa è un epifenomeno rispetto al fenomeno generale: neppure gli Stati Uniti hanno il "coraggio" di mettere in pratica ciò che teorizzano con le loro sparate ideologiche da missionari invasati. Si guardano bene dall'americanizzare il mondo sul serio, quindi dal bombardarlo e dall'invaderlo con milioni di uomini, come nella Seconda Guerra Mondiale, per piegarlo al "nuovo secolo americano". Si limitano a vivacchiare del plusvalore altrui indebitandosi miseramente, rammollendo dal punto di vista imperialistico fino al punto di rischiare la loro egemonia, la cui perdita sarebbe fatale, perché significherebbe catastrofe economica e di certo fame interna, quindi guerra civile (e non sarebbe male come prospettiva).

Non si può parlare di Europa senza avere come sfondo l'epoca dell'imperialismo, quella fase suprema di socializzazione delle forze produttive che richiederebbe una società nuova e invece è bloccata da quella vecchia. Per cui tutto − dalle classi all'economia, dalla politica alla scienza − risulta immobilizzato, ingessato, congelato, paralizzato, a dispetto di una fibrillazione attivistica che tutto coinvolge ma che nulla cambia. E tutto si mistifica, dalla guerra umanitaria al liberismo reintrodotto con decreto statale. Lenin definiva questa fase "capitalismo di transizione", un capitalismo che era ormai "un involucro che non corrisponde più al suo contenuto". A ridosso delle appesantite procedure, dietro al lento e macchinoso processo di unità europea, si nascondono e agiscono determinazioni che, come abbiamo visto, partono da lontano nella storia delle guerre vinte e perse, in quella di nazioni ex coloniali decrepite che non possono più né recuperare la loro giovinezza, né tornare al dominio del mondo, né rinunciare alla propria cecità nazionalistica e unirsi.

L'universalismo del Capitale è dunque un'apparenza: da una parte tende ad essere totalizzante, a conquistare il mondo, ma dall'altra non potrà mai essere "totale" perché genera continuamente differenziali di sviluppo fra aree geografiche e fra paesi, rendendoli o ferocemente concorrenti o divisi in paesi sfruttatori e paesi sfruttati. In un insieme di nazioni come quelle europee il differenziale di sviluppo fa sì che ad esempio la Romania, la Polonia, la Bulgaria, siano aree con industria a bassa composizione organica di capitale, quindi sfruttabili per la manodopera a basso prezzo, per il drenaggio di plusvalore assoluto invece che relativo, quindi per la realizzazione di un alto saggio di profitto (vale a dire una controtendenza alla legge della sua diminuzione storica nei paesi più avanzati). Perciò è stato "naturale", mentre si inneggiava alla "comunità europea", bloccare sia il movimento di lavoratori che quello di determinate merci a basso contenuto tecnologico attraverso le frontiere. Ragioni economiche impongono la realizzazione di superficiali accordi economici, ma impediscono la nascita di una vera unità politica, l'unica che potrebbe davvero cambiare radicalmente l'economia del continente e farlo diventare il gigante che non riesce ad essere.

Lo sviluppo della forza produttiva sociale non può essere fermato. Può scendere la massa della produzione, ma tutti sanno che anche una crisi di vaste proporzioni accelera anziché rallentare l'innovazione tecnica e organizzativa, quindi la socializzazione sempre più spinta della produzione. E mentre tale sviluppo tende a rompere i confini angusti delle vecchie nazioni, queste si fanno strumento di conservazione e impediscono qualsiasi parvenza di armonizzazione fra il carattere sociale della forza produttiva e il sistema della proprietà con tutte le sue sovrastrutture politiche. I vecchi paesi imperialisti mantengono le loro prerogative di quando contavano ancora qualcosa e le riversano su un contesto che fa benissimo a meno di vecchi arnesi ideologici. Così rimane nell'ombra, inaffrontato, il problema dell'integrazione economica e politica, mentre assume importanza spropositata il "dibattito" sulla costituzione, con i suoi corollari su fumosi distinguo ideologico-religiosi che riempiono centinaia di pagine, quando le costituzioni vere, uscite dagli svolti storici importanti, sono sintetiche e trasparenti.

L'Unione Europea come tentativo di cartello

Fomentati da Mosca, gli stalinisti degli anni '50 sbraitavano contro quella che chiamavano "Europa dei monopoli". Erano per le riforme di struttura, il che voleva dire rafforzamento dell'industria e quindi, nell'epoca imperialistica, dei monopoli; ma per ragioni di schieramento dovevano contrastare un processo economico e politico di mercato comune europeo occidentale, che nasceva anche in risposta a quello dell'area russa (Comecon). Comunque non avevano tutti i torti: paradossalmente, l'ideologia del libero mercato europeo produsse come prima istituzione un cartello, cioè un monopolio, fra produttori europei del carbone e dell'acciaio. Su pressioni della Francia, preoccupata per l'evidente perdita di prestigio internazionale entro il meccanismo atlantico, venne accettato dai paesi europei il piano Schuman (1953); piano che aveva l'ambizione di costituire la spina dorsale della ricostruzione, basata sugli investimenti nel settore dei mezzi di produzione e perciò principalmente sul carbone e sull'acciaio. Nella prospettiva di un piano energetico generale, a questo organismo (CECA) si affiancò l'Euratom (CEEA), mentre di petrolio, per la maggior parte saldamente in mano americana, nessuno avrebbe avuto il coraggio di parlare fino alla crisi energetica che seguì alla Guerra del Kippur (1973). La triade delle comunità europee si completò con il Mercato Comune Europeo (MEC), che si sarebbe occupato delle normative commerciali e dell'agricoltura.

Il lettore avrà notato che ne abbiamo parlato al plurale. Così si faceva allora, segno che il percorso dalle "comunità europee" all'Unione era una specie di navigare a vista, senza un piano politico, nonostante le singole tessere del futuro mosaico prendessero il nome altisonante di "piano". Insomma, mentre il piano americano fu redatto e realizzato nel giro di pochi mesi, il piano europeo langue da mezzo secolo (da sessant'anni, se si inizia dall'integrazione di cui abbiamo parlato). Un periodo talmente lungo da essere sufficiente per il superamento storico dell'importanza, almeno nell'area occidentale, del carbone, dell'acciaio e dell'uranio. Restano l'agricoltura e il petrolio. Temi sui quali l'Unione non è affatto unita, dato che i vari paesi si muovono secondo linee prettamente nazionali, anzi, nazionalistiche. Altro che imperialismo europeo. Sin dal primo tentativo di cooperazione politica, quando nacque il Consiglio d'Europa (1949, con Francia, Gran Bretagna, Benelux più Danimarca, Irlanda, Italia, Norvegia e Svezia), che fu sostanzialmente un compromesso fra posizioni britanniche e franco-belghe, ogni singolo passo verso il tentativo di unione europea è avvenuto sotto la pressione di spinte esterne. Così come furono esterne le ragioni che fecero cadere "piani" faticosamente elaborati.

Le tre comunità europee nacquero nel pieno della ricostruzione ma anche della Guerra Fredda. Tra Francia e Germania c'erano ancora tensioni, e la questione delle riparazioni di guerra non si fece violenta come dopo la Prima Guerra Mondiale solo perché l'Europa era ancora occupata dalle truppe americane, attraverso cui Washington dittava sul serio e imponeva le proprie condizioni sia ai vinti che agli pseudo-vincitori. Tutto ciò si sommava a una capacità produttiva di carbone e acciaio da parte dei vari paesi come retaggio della produzione di guerra, che non venne lasciata cadere ma venne addirittura incrementata con la costruzione di nuovi centri siderurgici. Di qui la sicura prospettiva della sovrapproduzione e della concorrenza se non si fosse corso ai ripari: sottoponendo ad esempio le produzioni primarie, agricoltura, energia e acciaio ad alcune autorità sovranazionali. Insomma, un monopolio in grande. Di conseguenza si imposero le varianti al piano Monnet e il nuovo piano Schuman, non a caso entrambi francesi, accolti subito dalla Germania e dall'Italia a simboleggiare fortemente il nuovo determinismo dell'asse fra Po e Reno studiato da Engels.

La CECA nasce ufficialmente il 18 aprile del 1951. Gli ideologi dell'Europa Unita vedono la dinamica federalista come un fenomeno ormai inarrestabile e come un traguardo vicino. Si scatenano a tutto campo i rappresentanti dell'intelligentia provenienti dalla piccola borghesia che riempie i parlamenti. Si incominciano a teorizzare integrazioni nei trasporti, nell'agricoltura, nella sanità. E, siccome la lingua batte là dove il dente duole, uno dei primi argomenti europeisti è proprio l'assetto militare dell'ipotetica futura Europa, un'area che all'epoca era ancora occupata militarmente da più di un milione di soldati stranieri. La cooperazione militare è infatti la chiave di volta della volontà politica, perché sotto un unico comando si dovrebbe raccogliere la forza necessaria a sostenere nel mondo la politica unitaria federalista. Sembra la soluzione che più di ogni altra può accelerare la nascita di una comunità politica. Ma ovviamente su questo terreno gli ostacoli sono maggiori che in tutti gli altri campi.

La Comunità Politica Europea

Si possono anche siglare tutti gli accordi economici di questo mondo e aggiornarli all'infinito con trattative estenuanti persino sulle virgole e sulle sfumature delle traduzioni, ma è certo che una vera unione federale si dimostra solo con un piano comune di politica estera, il che è sinonimo di politica militare. È specialmente su questo punto che crollano miseramente anche le più ardite costruzioni sul presunto "imperialismo europeo", e ovviamente sulle presunte conseguenze politiche nazionalcomunistiche. Torneremo in seguito sull'inesistenza di un vero programma militare comune europeo; per il momento vediamo come il difetto stia nel manico, cioè soffra di una tara originaria.

Nel tormentato cammino verso il Trattato di Roma del '57, la CED (Comunità Europea di Difesa) fu varata abbastanza presto, il 27 maggio 1952, in seguito a sollecitazioni della NATO, a sua volta sollecitata dagli Stati Uniti impegnati nella guerra coreana. Gli stessi sei paesi che fonderanno la CEE, firmarono a Parigi un trattato che prevedeva la progressiva integrazione del comando militare e via via degli eserciti fino alla realizzazione di uno strumento militare sovranazionale unico alla scala europea (il piano prese il nome dal francese René Pleven). La CED avrebbe quindi potuto affiancare l'altra comunità europea, la CECA, nata nel 1951. Ovviamente gli Stati Uniti pretesero che l'esercito unico fosse sottoposto al controllo della NATO, e a questo punto il veto francese non permise di raggiungere un qualche risultato pratico oltre alle dichiarazioni di principio.

Comunque il piano prevedeva che, in attesa di nominare un unico ministro della difesa per la forza militare unificata, la procedura fosse demandata ai ministeri degli esteri. Questo perché era risultata subito chiara la necessità di armonizzare le politiche estere prima di fare qualsiasi altro passo. Manco a dirlo, i sei paesi avevano sei politiche estere non solo diverse ma, ad esempio nel caso della Francia nei confronti degli altri cinque, contrapposte. Infatti la Francia perseguiva una politica estera e militare autonoma, spesso in contrasto con quella dell'Alleanza Atlantica, e quindi anche in contrasto con quella del Belgio e dell'Inghilterra (quest'ultima non avrebbe fatto parte della CEE ma sarebbe rimasta solo nel Consiglio d'Europa) a proposito delle colonie, all'epoca ancora in lotta per l'indipendenza.

Per ovviare alle divergenze, fu votata all'unanimità dalla CECA (10 settembre 1952) la futura costituzione della CPE, Comunità Politica federale Europea, con lo scopo di studiare almeno forme di collaborazione sullo spinoso problema militare. Sei mesi dopo una "assemblea costituente" non riesce a ratificarla, mentre nella stessa occasione viene votata all'unanimità la meno impegnativa "Carta dell'Unione Europea" (10 marzo 1953). Se la CPE fosse rimasta in vita sarebbe stata una vera e propria quinta Comunità Europea, a riprova della ricordata frammentazione "a soggetto" degli organismi costitutivi.

Ora, nei parlamenti si può anche discutere all'infinito su politiche in contrasto, ma un esercito obbedisce solo a criteri esecutivi basati su una politica univoca per ottenere sul campo risultati che ad essa si conformino, anzi, che da essa siano delimitati od orientati. Perciò, in mancanza non solo di un accordo, ma anche di una prospettiva a lungo termine, il trattato costitutivo della CPE rimase sottoscritto solo da Germania e Benelux, mentre Francia e Italia lo rifiutarono con motivazioni diverse, a sottolineare come al solito le proprie prerogative nazionali.

Nell'ottobre del 1954, nel corso di una riunione dei ministri della NATO e sempre per "suggerimento" americano, venne varata la UEO (Unione Europea Occidentale), la cui politica militare non era che un ripiego rispetto alle velleità di costituire un esercito europeo unico. Tale politica si sarebbe basata sulla formazione di contingenti militari nazionali, separati dai rispettivi eserciti e posti sotto il comando supremo della NATO. Alla UEO e alle sue implicazioni militari aderirono Francia, Italia, Germania, Benelux, e questa volta anche l'Inghilterra. L'esecutivo fu insediato a Londra e il Comitato Militare a Parigi.

Francia e Inghilterra comunque continuarono a rappresentare interessi e visioni politiche opposti, mentre la tutela americana lasciava ben poco spazio ad altre soluzioni. Una volta dimostratasi impraticabile l'integrazione politica sulla base della più efficace cartina di tornasole che esista, quella militare, il cammino verso il trattato di Roma e passi successivi non solo si presentò irto di difficoltà, come recitano i resoconti, ma sopravvisse su soluzioni di ripiego. In mancanza di meglio, infatti, la prospettiva rimase quella dei tre trattati separati, rifiutati però dall'Inghilterra, e la base dell'ideologia europeista fu resa assai traballante; finché, nel 1956, si presentò una situazione internazionale che impresse alla politica estera dei maggiori paesi una svolta che la nostra corrente definì "storica" per via del definitivo sopravvento degli Stati Uniti sui rappresentanti del vecchio imperialismo, lo stesso che vorrebbe ora unificare l'Europa:

"Secondo noi, l'avvenimento più im­portante, quello che avrà decisive influenze sul futuro [del Medio Oriente], è rappresentato dalla irruente penetrazione del capitale americano" (Suez, vertenza fra ladroni).

Europa centrifugata

Nel 1954, in Egitto, il colonnello Gamal Abd el Nasser aveva preso il potere dichiarandosi "non allineato" rispetto agli schieramenti imperialistici. Nel 1956 gli Stati Uniti e l'Inghilterra rifiutarono i prestiti necessari ai progetti di sviluppo imperniati intorno alla diga di Assuan. Per tutta risposta l'Egitto nazionalizzò il Canale di Suez, peraltro annunciando che avrebbe indennizzato gli azionisti (per lo più francesi e inglesi) e garantito la navigazione a tutti. Il Canale rimase temporaneamente bloccato e siccome era in corso una disputa per le incursioni di guerriglieri arabi contro Israele, fu bloccato anche il porto israeliano di Eilat sul Golfo di Aqaba. Israele sferrò un attacco a sorpresa e riuscì a neutralizzare parte dell'esercito egiziano. Nello stesso tempo la Francia e l'Inghilterra inviarono truppe da sbarco ad occupare la zona del Canale per ristabilire la "loro" proprietà su di essa. Gli Stati Uniti approfittarono dell'occasione storica e paracadutarono, sotto l'egida dell'ONU, truppe d'interdizione contro quelle francesi e inglesi spazzando via per sempre ogni velleità di politica e intervento internazionale delle vecchie potenze coloniali europee. Il vecchio imperialismo delle cannoniere era morto. Sconfitto sul campo senza che fosse sparato un colpo, fu costretto ad accettare la situazione di fatto imposta dal giovane imperialismo di segno americano. Da quel momento gli Stati Uniti vararono una specifica politica estera non solo per il Medio Oriente ma per il mondo intero (Dottrina Eisenhower), sfociata l'anno successivo nello sbarco in Libano per reprimere una rivolta panaraba.

Nasser ottenne crediti e armi dall'URSS, che fra l'altro finanziò e costruì l'immane diga di Assuan. Invece di penetrare intelligentemente nel loro ex mondo coloniale, le potenze europee si erano tagliate fuori da sole. Per di più non furono in grado di rispondere, nemmeno sotto la spinta di fatti contingenti di grande portata come le successive guerre medio-orientali o le manovre americane sul dollaro, con un serrare i ranghi sul vecchio continente per contrastare l'ondata egemone degli Stati Uniti. Da allora l'Inghilterra non entrerà più in conflitto con questi ultimi accontentandosi di gestire in posizione subordinata le rendite derivanti dal suo ex impero, mentre la Francia, pur continuando a coltivare un ridicolo senso della grandeur passata, non conterà più niente, e si impantanerà nella macelleria insensata d'Algeria. Nemmeno il tentativo di rappresentare da sola un freno alla strapotenza americana potrà darle il lustro perduto. Anche il cercato il dialogo con l'URSS non poteva che essere basato sul nulla, e la proposta di una "Europa dall'Atlantico agli Urali" non fu nient'altro che un'ambizione parolaia. E, infine, solo un astio suicida poteva spiegare l'offensiva francese contro l'ingresso dell'Inghilterra nella CEE (1961 e 1967). De Gaulle sosteneva che l'Inghilterra è il cavallo di Troia degli Stati Uniti. Verissimo, ma faccia o non faccia parte dell'Unione, la mancata unità degli altri paesi induce nell'Inghilterra stessa un'autorità che altrimenti non avrebbe. Il nazionalismo è un residuo del passato, ma è addirittura ridicolo se si limita alle parole, come dimostrò la clamorosa uscita della Francia dalla NATO (1966), gesto che i rapporti reali di forza evidenziarono come isolato e poco significativo, peraltro cancellato da un successivo, sommesso ritorno all'ovile atlantico.

L'ultimo sprazzo di fronte imperialistico realizzato a Suez non ebbe conseguenze sul periodo che seguì. La Francia, pur essendo molto attiva nel processo di formazione della CEE, sul piano pragmatico cedette posizioni nei confronti di Germania e Italia. Ma i due paesi sconfitti nell'ultima guerra non poterono supplire da soli alla manifesta mancanza di unità fra gli europeisti. Il risultato fu un calvario fatto di tempi lunghissimi e di realizzazioni parziali, spesso messe in discussione per interessi di piccolo cabotaggio. Due anni dopo l'istituzione della CEE e il quasi invisibile tentativo da parte dei sei paesi fondatori di affrancarsi dalla tutela americana, il continuo gioco di veti incrociati tra Francia e Inghilterra indusse quest'ultima a farsi promotrice di una specie di anti-CEE, l'EFTA (European Free Trade Association). Al nuovo accordo aderirono otto paesi: Austria, Danimarca, Finlandia, Inghilterra, Norvegia, Portogallo, Svezia e Svizzera.

Due Europe, quindi, ognuna con i propri regolamenti, statuti, accordi interstatali e aree di scambio. La seconda, per di più, in grado di togliere alla prima l'intero mercato internazionale dei capitali finanziari che passava per l'Europa, e che allora faceva capo a Londra. L'assunto di Lenin sull'impossibilità da parte degli Stati imperialisti di andare oltre a eventuali accordi temporanei fra nemici viene dunque ampiamente dimostrato, così come viene dimostrata l'intrinseca impossibilità degli Stati specificamente europei di combinare qualcosa di unitario. Se in passato vi furono tentativi di centralizzazione federativa, sia sotto l'impulso di minacce esterne, sia per opera di fenomeni centralisti totalitari, oggi nemmeno l'evidente interesse nel contrastare la strapotenza americana riesce a mettere insieme uno straccio di azione imperialistica che possa definirsi europea.

Dopo estenuanti trattative, nel 1973 l'Inghilterra entrò finalmente a far parte della CEE insieme a Danimarca e Irlanda. Nel 1981 aderì la Grecia. Nel 1986 fu la volta di Spagna e Portogallo. Nel 1995 di Austria, Finlandia e Svezia. Nel 2005 vi entrarono altri dieci paesi, fra cui la Polonia. Quest'anno hanno aderito Romania e Bulgaria. Siamo partiti dall'Europa dei Sei e siamo arrivati, per adesso, all'Europa dei Ventisette. In lista d'attesa ci sono Turchia e Ucraina. Qualcuno propone nientemeno che Israele. Se l'Inghilterra era il cavallo di Troia degli Stati Uniti, che cosa sarà mai il mosaico attuale di forze centrifughe, composto per la maggior parte da paesi che per portare in Europa gli ordini di Washington non hanno proprio bisogno di nascondersi in un cavallo di legno?

Una moneta più unica che rara

Nel frattempo compare l'Euro, che di per sé è un'altra prova di inconsistenza per l'Europa, dato che continuano ad essere in corso sterline inglesi e cipriote, lev bulgari, fiorini ungheresi, lat latviani, litas lituani, lire maltesi, zloty polacchi, leu rumeni, corone ceche, slovacche, danesi, svedesi ed estoni. La moneta unica nasce ufficialmente il 1° gennaio del 1999 come strumento di pagamento fra banche centrali dei paesi membri, senza essere presente però sul mercato sotto forma di banconote e pezzi di conio. Solo un anno dopo viene immessa sul mercato internazionale e un altro anno ancora sarà necessario affinché venga adoperata come moneta interna. Si materializza infatti nel gennaio del 2002 in dodici dei paesi membri su quindici (Inghilterra, Danimarca e Svezia non facevano parte dell'Eurozona fin dall'inizio).

Sono dunque occorsi ben tre passaggi prima che l'Euro si configurasse come una moneta dal corso effettivo, presente nelle tasche dei cittadini come nelle riserve di stato. E, nonostante tutto, non siamo di fronte a una moneta come le altre: all'interno delle singole nazioni ha solo rivestito con nuova grafica le monete precedenti, dato che come segno di valore rappresenta capitale nazionale. Come notò The Economist, rivista borghese impegnata da un secolo e mezzo a dar consigli al capitalismo, non si possono mettere dodici aree a sviluppo capitalistico differenziato sotto il segno di un'unica moneta. Tuttavia questo sarebbe ancora il meno: anche all'interno di singoli paesi vi possono essere enormi differenziali di sviluppo fra aree nelle quali, comunque, circola la stessa moneta; ma all'interno dei singoli paesi vi è un'economia unitaria, sottoposta al controllo centrale di uno Stato con i suoi programmi economici, la sua banca centrale, il suo standard di sfruttamento della forza-lavoro, ecc.; mentre all'estero ogni moneta segue le spontanee leggi di mercato se alle spalle non ha una robusta potenza che la controlla (cfr. L'Europa disunita…).

Per queste ragioni non vi è nulla di strano nel fatto che l'Euro si sia imposto prima a livello internazionale, poi come succedaneo alle monete nazionali. Il percorso era certamente voluto dalla BCE, ma ciò non toglie che l'Euro sia soprattutto moneta per le transazioni fra Stati, anche se ha soppiantato il dollaro in misura minore di quanto venga suggerito dai grandi titoli dei media: rappresentava il 20% delle riserve valutarie mondiali prima che circolasse come moneta corrente ed oggi è passato al 25%.

Questo strano passaggio dalle monete locali all'Euro, voluto per cementare l'Europa dei Dodici intorno a un unico segno di valore, ha infine seguito una strada tutta particolare, dato che la moneta unica è rimasta refrattaria alle spinte interne mentre si è dimostrata estremamente sensibile alle spinte esterne per quanto riguarda il cambio col Dollaro. Del resto la decisione per il passaggio stesso è stata resa possibile da fattori extra-nazionali come il crollo dell'URSS e l'unificazione della Germania, mentre per quanto riguarda il cambio sono stati determinanti la discesa del valore relativo del Dollaro sul mercato mondiale, l'ascesa della Cina come grande paese produttore, esportatore e importatore, l'ormai cronica crisi energetica e non ultime le manovre e i ricatti economici fra paesi concorrenti.

Il fenomeno è unico e irripetibile perché risponde a esigenze scaturite da un mercato insofferente rispetto al vecchio assetto strutturato sul Dollaro. Se non ci fosse stato l'Euro, entro pochi anni la sua funzione sul mercato mondiale sarebbe probabilmente stata svolta da un'altra valuta, per esempio il Marco. Il parametro di valore per l'Euro fu naturalmente il Dollaro. Immessa sul mercato delle valute, la moneta unica europea non resse al primo impatto e si svalutò da un rapporto virtuale di 1/1 a 1 euro per 0,85 dollari. Oggi è così richiesto per gli scambi internazionali che è arrivato a un rapporto di 1 euro per 1,48 dollari. Se continua la tendenza l'Euro finirà per sv0lgere in parte, spontaneamente, la funzione che avrebbe dovuto svolgere il Bancor (la moneta internazionale ipotizzata da Keynes), nonostante sia una valuta ibrida ed esista ancora il dollaro, al momento per niente spodestato dal suo trono, come moneta di scambio e di riserva.

Da 0,85 dollari per un euro a 1,48: una rivalutazione del 74%. A prima vista nessuna economia del mondo, specialmente se di paesi esportatori netti come i maggiori d'Europa, potrebbe resistere a una oscillazione del genere in pochi anni, perché ciò significa in linea teorica che i prodotti esportati costano all'estero il 74% in più. Tuttavia la maggior parte delle transazioni si svolgono ancora in dollari e i paesi europei acquistano materie prime in euro, quindi la pesante rivalutazione ha avuto un suo bilanciamento. Soprattutto alcuni paesi produttori di petrolio hanno incominciato ad incassare pagamenti in euro, con evidente vantaggio per sé stessi e per i paesi compratori.

Le popolazioni che si sono viste cambiare le monete nazionali in euro non sono state minimamente sfiorate da questi cambiamenti, a parte l'immediata speculazione dei soliti bottegai e piccoli fabbricanti che ne hanno approfittato per aumentare i prezzi. E il fatto che la moneta unica non abbia potuto rappresentare un mezzo di arbitraggio di merci e capitali per livellare le condizioni interne dell'Europa, e anzi le abbia congelate, è una delle dimostrazioni che la cosiddetta Unione Europea dopo cinquant'anni non è in grado di fare politica economica.

La solita prova del nove l'abbiamo considerando che di fronte al formidabile sviluppo dell'Euro come valuta internazionale non vi è stato il corrispondente sviluppo di un centro politico di controllo − e qui non è solo un problema di politica estera ma di strutture − in grado di ottimizzarne gli effetti positivi e mitigarne quelli negativi. Anzi, c'è il sospetto che gli Stati Uniti abbiano saputo utilizzare meglio dell'Unione Europea gli effetti dell'Euro sul mercato mondiale, se non altro come spauracchio per tenere a bada i sempre più numerosi nemici della politica americana.

Siamo in una situazione assurda: l'Euro funziona da catalizzatore dei malumori internazionali contro il persistente strapotere degli Stati Uniti; per alcuni paesi extraeuropei, come quelli produttori di petrolio e materie prime, rappresenta realmente un freno all'invadenza del dollaro, e quindi ai loro occhi è un elemento di emancipazione rispetto al tentativo americano di completare il ciclo di dominio post-bellico; persino la Russia, che geopoliticamente è in Europa più che in Asia, fa leva sull'Euro per "suggerire" la modifica degli schieramenti euro-asiatici; paradossalmente, solo l'Unione Europea non sa che farsene della situazione oggettivamente nuova, che ormai non è più solo potenziale ma effettuale.

L'Unione Europea nell'epoca della guerra preventiva

Spazzati via i residui coloniali e l'influenza degli stati che vi erano legati, gli Stati Uniti hanno proiettato la loro potenza su buona parte del mondo producendo dei "campi di forza" ideologici, sostenuti beninteso da grandi basi militari, truppe d'occupazione e dollari, in grado di determinare un'automatica adesione dei governi alla politica americana. Da notare che tale processo ha prodotto anche la propria antitesi, nel senso che non può esistere uno schieramento senza che i campi schierati siano almeno due. Perciò è stata proprio l'azione americana a produrre i vari blowback, contraccolpi, che una pubblicistica ormai imponente ritiene responsabili della creazione del nemico "canaglia" e "terrorista".

In questa polarizzazione del mondo, l'Europa – unita o no – non si è mai inserita come elemento autonomo ma si è sempre schierata in modo manicheo, rifiutando qualsiasi ipotesi di avvicinamento a regimi diversi rispetto alla "democrazia occidentale" (mentre gli Stati Uniti appoggiavano "qualsiasi figlio di puttana purché fosse il loro figlio di puttana", come disse una volta Franklin Delano Roosevelt). Un simile atteggiamento da vinti ha effetti sull'attuale politica estera e conseguentemente ogni cancelleria europea non può che congratularsi per l'americanizzazione dei paesi ex Comecon entrati nell'Unione o candidati a suon di "rivoluzioni arancione e bigliettoni verdi", come annota sarcasticamente persino The Economist. Mentre magari pone un sacco di problemi all'ingresso della Turchia, una potenza regionale con enormi potenzialità di sviluppo e ponte verso l'Eurasia, abitata da centinaia di milioni di turcofoni fino entro i confini della Cina (cfr. La grande cerniera balcanica…").

Ora, ingerenze da parte di alcuni potenti Stati nei confronti di altri Stati ve ne sono sempre state, ma dalla Seconda Guerra Mondiale in poi l'ingerenza fu specificamente finalizzata ai risvolti strategici della polarizzazione intorno ai due blocchi imperialistici USA e URSS, almeno fino alla scomparsa di quest'ultima. La teoria della guerra infinita e preventiva pubblicata con grande clamore da Washington non è nata dall'oggi al domani, fa parte del processo di affermazione e di sopravvivenza della più grande potenza del mondo, per il momento senza rivali alla sua altezza.

L'URSS non c'è più e gli Stati Uniti incominciano ad avere gli acciacchi da vecchiaia. Non producono più la metà del PIL e delle esportazioni mondiali, base della loro forza. Nonostante l'inevitabile decadenza economica, sono costretti ad aggirarne gli effetti negativi ponendosi nei confronti del pianeta come primo controllore dei flussi di valore, vuoi derivanti dalle multinazionali industriali, vuoi dalla rendita petrolifera, vuoi dai diritti su film e canzonette (un incredibile 45% del PIL americano è costituito da rendite su "diritti" da brevetti, d'autore, ecc.). E naturalmente sono costretti a difendere la loro posizione con l'enorme apparato militare.

Per questo motivo devono intervenire a tutto campo, impedendo coalizioni e sbarrando la strada a eventuali concorrenti. La guerra preventiva non è una guerra d'aggressione, come si ostinano a strillare i sinistri, i pacifisti e il variopinto mondo terzomondista e antiamericano. Non è più l'epoca delle incursioni-aggressioni vichinghe, saracene o mongole: oggi la guerra preventiva è squisitamente difensiva. È paradossale, ma è così: gli Stati Uniti hanno raggiunto una posizione che adesso è da difendere contro eventuali aspiranti all'alternanza. I quali, entro uno o due decenni, potrebbero essere: Cina, India, Russia, Giappone, Europa, con annesse tutte le alleanze geopoliticamente possibili, che vanno dal Brasile a ipotetici aggregati islamici. Si capisce subito che nel breve elenco l'Europa è l'elemento disomogeneo, estraneo all'insieme.

Cina, India, Russia e Giappone sono Stati unitari, mentre l'Europa non solo non è uno Stato, ma tanto meno è unitaria, e per di più ha al suo interno un sottoinsieme politicamente "arancione" legato come non mai ai "dollari verdi" del concorrente o potenziale avversario. Anche la Germania è uno Stato unitario economicamente forte, ma la sua potenziale funzione di guida politica ed economica è più annichilita che mai proprio a causa della sua appartenenza all'Unione. Per di più essa è, proprio come le altre nazioni più importanti, legata al suo diretto concorrente e potenziale nemico tramite il comune mito democratico.

In queste condizioni sarebbe assai difficile quell'operazione di propaganda tipica che precede tutte le guerre e che consiste soprattutto nel dipingere l'avversario come un classico "altro da sé", un diverso pericoloso per la "nostra" integrità ideale, culturale, etnica, e argomenti del genere.

L'assurda condotta del cosiddetto imperialismo europeo

Per Lenin un paese è imperialista quando si caratterizza per una esuberanza di merci e soprattutto di capitali (che deve esportare), per la sua partecipazione alla spartizione del mondo con altri paesi imperialisti e per la capacità economico-militare di controllare direttamente o indirettamente le aree spartite. Anche se ogni singolo paese importante dell'Unione Europea ha tutti i caratteri imperialistici, l'insieme presenta contraddizioni che non gli permettono di aspirare a una vera condizione imperialistica collettiva. Non esiste un coordinamento per la collocazione all'estero di merci e capitali; non esiste alcuna possibilità di spartizione del mondo secondo aree di influenza: dopo la dissoluzione dell'URSS, si è dissolto anche il bipolarismo della Guerra Fredda e l'Europa non è subentrata nella concorrenza con gli Stati Uniti; non esiste alcuna capacità di intervento economico-militare per acquisire e mantenere il controllo di una qualsiasi area del mondo.

Per i rivoluzionari comunisti un polo imperialistico europeo potrebbe anche andar bene (dei pericoli abbiamo già detto). Lungi dal prefigurare fronti democratici e schieramenti partigiani, sarebbe certamente un formidabile acceleratore delle tensioni internazionali, in grado di smuovere la palude politica, sovrastrutturale, che è in palese e tremenda contraddizione con il maturare di enormi tensioni interne al capitalismo mondiale come sistema. Ammesso e non concesso che fosse possibile il polo suddetto, l'effetto acceleratore indotto sarebbe del tutto opposto rispetto a quello, ipotizzato dai neo-resistenziali, di un'Europa antiamericana che affascia borghesia e proletariato: quest'ultimo avrebbe ben poche possibilità materiali di schierarsi con un ipotetico centro europeo e molte di farlo contro di esso. Diverrebbe comunque più chiaro il rapporto di classe, com'è sempre successo quando nella storia si è sgomberato il campo dal "rumore" sociale dovuto alle aspirazioni irredentistiche, nazionalistiche, patriottiche. Quelle che oggi infestano l'Europa, appunto.

È ovvio che un'Europa unita o federata, che parlasse una sola voce in politica estera, rappresenterebbe una potenza ragguardevole, in grado di insidiare l'ascesa di qualunque altra potenza e perciò di contribuire al declino dell'egemonia americana. E sarebbe anche un potente centro di gravità per l'aggregazione di un più vasto blocco capitalistico, comprendente ad esempio la Russia, con ulteriore affasciamento del proletariato. Ma questa ipotesi è alquanto sovrastimata da tutti. In primo luogo dal governo americano, che l'adopera con larghezza, come pretesto, per fare azione disgregatrice preventiva, nel caso che eventi imponderabili portino a forme meno sgangherate di unione. Dal governo russo, che teme una vera unione in grado di offuscare il ruolo eurasiatico della Russia, costretta in quel caso ad agire subordinatamente rispetto alla nuova potenza. Dagli stessi governi europei, che pur millantando l'Unione come già realizzata in pieno, fanno di tutto per affossare masochisticamente quel poco che è stato realizzato, guardandosi dal mettere in moto quel minimo di programma centrale che potrebbe dare una parvenza di governo, e lasciandosi invece trascinare dalla corrente. Da tutti gli altri paesi, che sono costretti a una schizofrenia diplomatica, dovendo fingere da una parte di avere a che fare con una entità federale, lavorando però dall'altra, in pratica, separatamente con i singoli governi. Infine dai vari sinistri, che hanno la manìa di ricavare le loro analisi più dalla propaganda della borghesia che dai fatti concreti ed evidenti.

La sovrastima dell'unità raggiunta non è mitigata neppure da fatti eclatanti come il comportamento suicida dei paesi europei, Germania in testa, quando iniziò la disgregazione iugoslava e la conseguente guerra balcanica. L'Unione in quanto tale fu inesistente, ma i principali paesi presero singolarmente iniziative di senso opposto a quello che un minimo di fiuto geopolitico avrebbe consigliato (muovendo a critica gli stessi centri di ricerca borghesi). Balcanizzare i Balcani dopo che una sanguinosa storia li aveva in parte unificati è un qualcosa che sfugge ad ogni comprensione. La Germania si affrettò a riconoscere gli staterelli ex iugoslavi proprio in un'area dove già circolava il Marco e le strutture produttive erano basate su capitali e impianti europei. L'Italia partecipò direttamente alla guerra prendendo ordini dagli americani che non vedevano l'ora di ribalcanizzare i Balcani proprio per impedire la formazione di un asse geopolitico europeo sulla grande cerniera che dal Baltico va alla Turchia.

E altri esempi potrebbero essere fatti, dall'intervento diretto e indiretto nelle due guerre d'Iraq all'acquiescenza di fronte alle deliranti smargiassate dei neocons americani sulla "guerra al terrorismo", dall'invio di corpi di spedizione ovunque lo chiedano gli americani, come in Afghanistan, ai rapporti con paesi importanti come la Cina, verso la quale l'Europa si confronta in ordine assolutamente sparso.

L'Europa, a partire soprattutto dall'asse italo-franco-tedesco che ne è stato il motore, non ha saputo approfittare del crollo dell'URSS. Il diverso scenario che si presentò con questa svolta epocale avrebbe permesso di approfittare della situazione promossa dagli stessi Stati Uniti durante la "guerra fredda", quando avevano favorito e aiutato l'integrazione europea come fattore di contenimento dell'avversario sovietico. Non ha saputo approfittare della propria potenza economica complessiva e ha finito per rivelare un fondamentale punto debole: la forza economica non si traduce automaticamente in forza politico-militare se non poggia su determinazioni storiche comuni. E i paesi europei hanno una lunghissima storia di guerre e concorrenza fra loro, non di unione.

Un tentativo di approfittare dello smembramento dell'URSS, da parte dell'Unione s'è in realtà verificato. Ma con esiti opposti rispetto alle intenzioni. Proprio il crollo del sistema orientale sembrò provocare una potente accelerazione del processo di integrazione, tuttavia la fretta di mettere le mani sui brandelli dell'URSS e sugli altri paesi dell'Est prima che cadessero sotto il controllo americano non fece altro che portare all'aggregazione di alcuni di essi ormai da tempo sotto tale controllo. Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Romania e Bulgaria erano oggetto delle attenzioni americane, con esiti alterni, ben prima che maturassero le candidature. E, mentre queste maturavano, sui paesi chiave cadeva una pioggia di dollari, in confronto alla quale il misero 1,27% del PIL europeo concesso da Bruxelles risultava ridicolo. Per di più la motivazione ufficiale fu che l'Unione combatteva al suo interno ogni forma di assistenzialismo e che non voleva alimentarlo in paesi che stavano per entrarvi. In tal modo tutte le premesse per una frattura in seno all'UE erano poste, in barba al primo dei comandamenti dell'imperialismo che è: esporta i tuoi capitali e controlla il loro impiego con le banche e con le armi.

Così la strategia americana continua ad incontrare ben pochi ostacoli; e infatti prevede l'installazione nel cuore dell'Europa di missili offensivi a medio raggio, cui si abbinerà un apparato difensivo antimissile, nipote del programma che al tempo di Reagan veniva chiamato delle "Guerre Stellari". Siamo al massimo dell'acquiescenza politica, al limite della sottomissione, altro che imperialismo europeo concorrente degli Stati Uniti. Con la doppia adesione dei paesi dell'ex patto di Varsavia all'Unione Europea e alla Nato, la "proiezione di potenza" americana si spinge verso Oriente e lambisce direttamente l'Eurasia saldando velocemente tra loro gli anelli della catena di basi militari che circonda il pianeta.

Nessuno ha una capacità di "fare sistema" come gli Stati Uniti, tanto meno l'Unione, la cui struttura è pregiudicata da una penetrazione americana che non ha alcuna contropartita. La strategia di Washington si incunea dunque fra l'Europa e l'Eurasia impedendo ogni saldatura, anche per interessi contingenti. Costruisce, seppur tra alti e bassi, quella "nuova Europa" che Donald Rumsfeld aveva individuato negli ex paesi del blocco sovietico, più affidabile e alternativa alla "vecchia Europa" incentrata sull'asse originario Roma-Berlino-Parigi. Una politica estera polverizzata e aggettivata come polacca, ungherese, bulgara, rumena, francese, tedesca. ecc. è indubbiamente una manna per l'America che avrebbe qualche problema di fronte a una politica estera organica.

Guerre senza fronti, sistema fuori controllo

Se il capitalismo arrivato alla sua fase imperialistica riuscisse ad armare senza contraddizioni il suo braccio esecutivo facendone davvero il gendarme del mondo, l'umanità cadrebbe in una specie di schiavitù senza scampo per decenni. Tuttavia, come abbiamo detto più volte, il braccio esecutivo armato del capitalismo mondiale sarà super fin che si vuole, ma il superimperialismo eterno non esiste. Specie del tipo auspicato dall'ideologia infantile del Project for a New American Century curato dai neocons americani.

Abbiamo visto che la situazione sul campo, con la quale deve fare i conti l'Unione Europea, vede gli Stati Uniti in preminenza assoluta sul piano finanziario e militare nonostante l'evidente declino economico in confronto al resto del mondo. La prospettiva di perdere questa supremazia – è scritto nei documenti ufficiali del Pentagono – non è presa minimamente in considerazione dagli Stati Uniti, a costo di impedire comunque l'ascesa di pretendenti al primato, cioè distruggendoli preventivamente. La vecchia strategia del contenimento è morta, Washington tende a non lasciar crescere nulla che poi si debba contenere. Ne risulta che allo storico declino economico corrisponde un'accresciuta ma contingente potenza finanziaria e militare. È in tale quadro dinamico che dev'essere osservata l'evoluzione del sistema-mondo comprendente USA e Unione Europea insieme a tutti gli altri paesi. In poche parole la situazione attuale non è eterna ed è fatta di materia esplosiva: quando la curva del declino d'America incrocerà quella della sua crescente potenza finanziaria e militare, necessaria per mantenere la propria preminenza, esploderà inevitabilmente l'intero sistema capitalistico. Il quando e il come sono incognite da studiare, ma esso esploderà. È come se vi fosse una curva discendente della produzione di alimenti a confronto con una ascendente della popolazione: quando le curve s'incontrano qualcosa deve esplodere.

In effetti è già possibile vedere nel sistema qualche grave elemento di instabilità. Anche se Unione Europea, Cina, Russia o altri paesi non sono in grado di competere con gli Stati Uniti sul piano finanziario e militare, rappresentano tuttavia delle forze che partecipano per i quattro quinti alla formazione del valore mondiale (53.000 mld $ contro i 13.000 degli USA). L'Europa dei 27 contribuisce per un quinto, alla pari con gli USA, la Cina da sola per un sesto. Anche soltanto da questi semplici dati appare evidente che gli Stati Uniti non possono assolutamente permettere una sincronizzazione dei movimenti di valore, alla quale corrisponderebbe prima o poi una corrispondente sincronizzazione della politica, della finanza e degli eserciti.

Siccome al momento non c'è alcuna sincronizzazione tra gli Stati concorrenti o nemici degli USA, la guerra tra potenze si svolge indirettamente, per interposta persona (proxi war, guerra per procura), intorno a singole questioni. Il conflitto interimperialistico si è modificato: non è più quello classico, con il suo alternarsi di fasi pacifiche e guerresche, con gli scontri condotti sulla base di alleanze e di fronti militari ben delineati. Tutto ciò si è dissolto per lasciare il posto a quella che abbiamo chiamato "politiguerra", una guerra permanente senza fronti, che è la risultante della guerra commerciale fusa con la guerra guerreggiata. Non è una novità, solo una generalizzazione, e questo non significa che in futuro non si possano costituire fronti di guerra "mondiale", ma nel frattempo ogni paese deve fare i conti separatamente con la potenza militare americana e con la sua rete di dominio finanziario e politico che fa il giro del globo.

Ciò che caratterizza l'imperialismo non è una forma di conflitto particolare rispetto a un'altra. È invece la differenza nella rapidità di sviluppo dei diversi elementi che compongono l'economia mondiale, e che modificano i rapporti reali di potenza molto prima che si modifichino le strutture politico-militari degli Stati e ovviamente le loro diplomazie. Del resto le guerre si succedono senza assomigliarsi mai. La Seconda Guerra Mondiale è stata diversa dalla Prima; e la Terza, se vogliamo mantenere questa arbitraria numerazione, non assomiglierà assolutamente alla Seconda. La causa della prossima guerra sarà una verifica dei mutati rapporti di potenza fra i paesi capitalistici per instaurarne di nuovi. Mentre in passato le guerre generali si sono combattute per stabilire egemonie future, quella prossima ventura sarà combattuta per impedire il modificarsi dei rapporti di forza esistenti. Anzi, questa guerra è già in atto da sessant'anni.

Essa serve a prevenire qualcosa che ancora non c'è nell'ipotesi che si potrebbe formare. Sarebbe incomprensibile la recente guerra di Israele contro il Libano se non si facesse ricorso alla teoria della guerra preventiva. Un mese di guerra unilaterale che ha prodotto migliaia di morti, un milione di profughi su quattro milioni di abitanti, 15.000 abitazioni rase al suolo, l'intera infrastruttura del paese distrutta. Una guerra apparentemente inutile, dato che l'obiettivo, la forza armata hezbollah, non è stato minimamente intaccato e che il terrore sulla popolazione civile non ha mai rappresentato un deterrente contro i guerriglieri. Ma Israele è una piccola nazione artificiale, già in decadenza, un'isola circondata da un mare ostile, giovane, in rapido sviluppo economico e demografico. La guerra preventiva non è un'opzione, è un obbligo, per quanto illusorio nel tempo. Eleviamo all'ennesima potenza la situazione di Israele e avremo quella degli Stati Uniti, ormai vecchia potenza decadente circondata da nazioni a capitalismo giovane e dinamico, con una popolazione dieci volte superiore.

Le caratteristiche della guerra sono cambiate anche per ragioni tecniche, legate allo sviluppo delle forze produttive. A detta degli specialisti borghesi uno scontro fra nazioni come quello della Seconda Guerra Mondiale ma combattuto con armi attuali sarebbe impossibile. Il volume e la potenza di fuoco sarebbero tali da superare la capacità produttiva delle fabbriche e la quantità di obiettivi disponibili. Ovviamente è un ragionamento per assurdo, dato che non si ripeterà quella guerra. Ma quando vi sono state analogie, lo svolgimento della battaglia ha dimostrato l'assunto degli specialisti: durante la Guerra del Kippur, ad esempio, gli eserciti egiziano e israeliano verificarono un enorme consumo di materiali fin dalle prime ore. Dopo pochi giorni la guerra sarebbe finita comunque per esaurimento di mezzi. E si era svolta in un deserto. Un altro esempio è riportato dal generale Fabio Mini, che cita la "battaglia dei tre ponti" a Nassiriya: una semplice operazione di polizia in cui furono impegnate le truppe italiane, le quali spararono 100.000 colpi di ogni tipo in poche ore rimanendo senza munizioni e rischiando di rimanere in trappola.

Le dottrine militari, che riflettono il modo di combattere in ogni epoca, ci prospettano oggi guerre estremamente mobili, senza fronti e soprattutto senza distinzioni fra militari e civili. I bombardamenti a tappeto e la violenza sulle popolazioni durante la Seconda Guerra Mondiale avevano già ampiamente annunciato che era finito per sempre lo scontro fra "eserciti", e che anzi sarebbe stato più sicuro fare il mestiere di soldato in guerra che non rimanere casa. Scompare la distinzione fra militari e civili, ma sfuma anche la distinzione fra pace e guerra, come s'è visto negli ultimi sessant'anni di "pace" o guerra "fredda". Per tutti questi motivi le possibilità di guerra anziché limitarsi, s'ingigantiscono. I massacri a colpi di armi da fuoco si accompagnano a quelli dovuti al modo di essere dell'economia, pilotata o spontanea; nell'ambiente asettico di una grande banca può passare il filo che lega l'economia a milioni di morti; il sangue di un guerrigliero islamico o di un soldato tecnologico è quotato a Wall Street come alla borsa di Riyad. E in tutto questo giuoco bellico vediamo presenti paesi imperialisti o subimperialisti come la Cina, il Brasile, il Giappone o il Sudafrica, ma non vediamo una entità che si chiama Europa.

La crisi che ormai si trascina dalla metà degli anni '70 non è risolvibile come le precedenti. Le "ripresine" che si succedono alle recessioni non sono più in grado di rivitalizzare il capitalismo, che inesorabilmente sta precipitando verso la catastrofe. Ci sono troppe componenti del sistema non più passibili di riordinarsi in base ai comandi che giungono dalla sovrastruttura politica. Troppi elementi del Capitale incominciano a comportarsi autonomamente e a produrre effetti molto prima che i politologi e gli economisti se ne accorgano. Ormai non passa giorno senza che qualche "specialista" di questo o quel settore non lanci allarmi sul sistema out of control. Ma più il sistema si sottrae alle regole, più gli uomini moltiplicano le regole nella speranza di riprendere la gestione del sistema stesso.

Possiamo dire di trovarci di fronte a una specie di legge fisica, cui peraltro è difficile sfuggire. Ora, si tratta di capire chi possa non solo dettare delle regole ma controllare effettivamente un sistema divenuto così autonomo e globale, fatto di intrecci tanto fitti che ogni Stato è ormai un anello della catena di operazioni del capitale monetario internazionale. Si tratta di capire se c'è chi possa aspirare al grado di gendarme planetario, di baluardo a difesa del capitalismo e perciò intraprendere una guerra globale contro gli Stati Uniti. Di nuovo non vediamo una entità che si chiama Europa, i cui paesi si fanno i fatti propri in concorrenza fra loro.

In compenso vediamo − abbiamo già visto − che ognuno di questi paesi è facilmente acquistabile per venale interesse, giusta la principale legge del capitalismo che è quella del valore. Tra rivoluzioni più o meno arancione e sussulti di tradizione nazional-stalinista, le partigianerie assumono un ruolo fondamentale. Esse sono il tramite attraverso cui le grandi potenze si fanno la guerra senza cannoni. E sono indispensabili anche e soprattutto in caso di guerra con cannoni, perché non esiste Stato di questo pianeta che abbia soldati sufficienti per fare la guerra globale da solo.

Nella Seconda Guerra Mondiale gli americani si impegnarono sullo scacchiere mondiale mettendo in campo 12 milioni di uomini armati con un dispiegamento di mezzi mai visto prima e dopo di allora. La guerra tecnologica di oggi richiede per il combattimento meno soldati, ma l'occupazione del territorio ne richiede di più, come insegnano il Vietnam e l'Iraq. Per questo gli Stati Uniti puntano su una catena di grandi basi permanenti da cui far muovere truppe estremamente mobili. Ma questo sistema, che peraltro nessun altro paese possiede, necessita di una forza complementare alleata, insomma di carne da cannone non americana.

Perciò la situazione attuale si caratterizza anche per le politiche di spietata balcanizzazione dell'avversario, che necessitano di partigianerie e le favoriscono enormemente. Ma in una guerra senza fronti, il partigiano non è più quello che combatte nelle retrovie, è quello che viene spedito nelle zone calde del combattimento. Infatti le truppe partigiane che difendono gli interessi degli USA sono in prima linea in Bosnia, Iraq, Afghanistan, Libano, ovunque, a decine di migliaia.

Dato che la politiguerra non ha più bisogno di ordine, e anzi il caos permette di condurla meglio, ecco che si sviluppa l'indifferenza totale nei confronti della situazione sociale dei paesi coinvolti. I generali europei ad esempio, sono "culturalmente" lontani dal comportamento dell'esercito americano, che non ha più un codice militare di occupazione per far funzionare amministrazioni e servizi, sia pure attraverso governi fantoccio. Per questo sono più consapevoli che non i propri governi rispetto all'inadeguatezza politica delle strutture militari sotto comando altrui. Sono però oggettivamente complici sia dei propri governi che degli americani: quando saranno costretti a combattere in un'Europa completamente balcanizzata e tenuta scientemente in un caos di tipo jugoslavo-iracheno sarà troppo tardi per far valere altri tipi di programma.

Anche i vecchi colonialisti-militaristi europei non scherzavano quanto al divide et impera, all'oppressione e ai massacri. Ma tendevano a risparmiare le proprie forze, dato che non ne disponevano di altre. Quindi stabilizzavano il loro potere attraverso un tentativo di assimilazione reciproca delle "culture", tanto che, mentre trafficavano e sfruttavano, conoscevano la civiltà dei colonizzati meglio di questi ultimi. Ovviamente non è una questione culturale, è un cambiamento di epoca che trivializza ogni rapporto.

Così tutto va bene per condurre la nuova guerra planetaria: nel documento della Casa Bianca detto della "guerra preventiva", c'è un appello esplicito alle Organizzazioni Non Governative affinché si arruolino nell'esercito della democrazia e della pace. Ormai si legge tranquillamente sui giornali che le ONG fanno parte della logistica bellica. Hanno il compito di occuparsi delle popolazioni che rimangono maciullate dalla guerra "umanitaria", sono composte di volontari magari coraggiosi e pieni di abnegazione, ma ingabbiati come non mai nella logica degli eserciti occupanti, a volte decisamente embedded, incorporati come i cronisti di guerra, dato che non potrebbero muovere un dito se le loro organizzazioni non fossero integrate nei piani militari, esattamente come le truppe d'appoggio sotto comando americano-NATO.

Vuote istituzioni

In tutti gli Stati federali esistono governi a livello locale e un governo centrale al di sopra delle parti. In Europa non mancano i governi nazionali ma un governo centrale non esiste, tantomeno al di sopra delle parti. E, date le premesse, non esisterà mai.

Abbiamo visto come sia stato importante, nei momenti decisivi del processo di "unificazione" europea, lo stimolo venuto dall'esterno. D'altra parte abbiamo anche constatato che questo stimolo è stato unidirezionale fin dall'integrazione del francese Piano Monnet con l'americano Piano Marshall: quando serviva agli Stati Uniti, lo stimolo muoveva energie e dollari; quando provocava qualche sprazzo di autonomia, s'impantanava ogni decisione. Sarà poco originale dire che la sovrastruttura politico-amministrativa è il riflesso della struttura sostanziale, ma questa determinazione è quella che ha esattamente plasmato l'Unione Europea fin dagli inizi: la struttura sostanziale è nella retorica delle "nazioni sovrane" e non basta cambiarne il nome per cambiarne la natura.

Perciò le istituzioni europee sembrano fatte apposta per sovrintendere al nulla, come un'artificiosa riproduzione di quei "mulini a chiacchiere" che sono i parlamenti nazionali. Con la differenza che questi ultimi sono affiancati da un esecutivo, che da essi non dipende, in grado di centralizzare gli interessi della borghesia in quanto classe.

La Costituzione Europea, tanto per cominciare, è una nullità emblematica. In effetti non esiste ancora, dato che la sua redazione è ferma a un "Trattato per la Costituzione europea" che i giornalisti per brevità chiamano Costituzione). Si tratta di un documento in tre volumi, di 852 pagine complessive (cfr. bibliografia), zeppo di procedure e di compromessi scaturiti da decenni di discussioni e limature. The Economist (21 giugno 2003) osservò con pesante ironia che le costituzioni nascono da guerre o rivoluzioni, non da chiacchiere a tavolino, e pose in copertina un cestino della carta straccia con la scritta: "Dove archiviare la costituzione europea". La rivoluzione borghese americana, ad esempio, si era data una costituzione chiara e semplice di una decina di pagine. La stessa considerazione vale, in generale, per tutte le rivoluzioni e costituzioni. Persino la borghesia italiana, non certo avara di formalismi giuridici e svolazzi burocratici, era stata costretta da una guerra spaventosa e dalle truppe americane di occupazione in casa, a scrivere una costituzione di venti pagine. Gli europeisti hanno invece impiegato mezzo secolo per scrivere un trattato monumentale per la loro Costituzione spinti non da processi storici unificanti, ma da compromessi fra Stati in disaccordo fra loro. Un risultato tra l'altro rifiutato da alcuni referendum; e se questi ultimi fossero stati indetti in tutti i paesi, dicono i sondaggi, la cosiddetta costituzione sarebbe stata rifiutata a furor di popolo (che ovviamente non l'ha letta; ma, democraticamente: vox populi vox dei). Del resto la stessa considerazione vale per l'Euro, che pur circola nelle tasche dei cittadini.

Il Parlamento Europeo, di tutto il fumoso apparato rappresentativo è l'istituzione più inutile. Vi siedono 785 eurodeputati, eletti direttamente dai cittadini con meccanismo proporzionale, per cui i seggi sono assegnati in rapporto alle popolazioni degli Stati membri. Non ha praticamente poteri. Gli è negato ogni intervento su voci come giustizia e fisco. Il Consiglio d'Europa e la Commissione Europea gli si possono rivolgere per avere consigli che però non sono vincolanti.

La Commissione Europea è l' "esecutivo" dell'Unione. Vedremo il perché delle virgolette. È formata da 27 commissari, che restano in carica per 5 anni e sono nominati dagli esecutivi dei singoli paesi. Ovviamente sono dei semplici portavoce dei rispettivi governi, in collegamento continuo e diretto con essi. La Commissione Europea controlla la burocrazia, cioè un esercito di 24.000 funzionari stipendiati, dislocati in diverse città europee: Strasburgo, Francoforte, Bruxelles. Può decidere solo per le spese interne, cioè quelle utili alla sopravvivenza propria e dei commissari. Apre ufficialmente le sedute europee. Partecipa, in quanto costituita da rappresentanti dei vari paesi, ai trattati commerciali e a quelli sulla concorrenza. Non ha insomma alcun potere esecutivo.

Il Consiglio d'Europa è un altro organismo di rappresentanza dell'Unione. Non ha corrispondenti negli esecutivi nazionali. È costituito dai 27 capi di governo dei paesi comunitari. Si riunisce quattro volte l'anno e nomina il Presidente della Commissione Europea.

Il Consiglio dei Ministri: è un'appendice del Consiglio d'Europa quando alle sue sedute partecipano anche i ministri nazionali competenti per gli argomenti discussi: a seconda dei casi, ministri degli Esteri, dell'Economia, delle Finanze, dell'Agricoltura, ecc. Di fatto è un coordinamento dei ministri nazionali capeggiato dai rispettivi premier. Vota a maggioranza qualificata su argomenti secondari, mentre per quelli principali (modifica delle norme giuridiche, criminalità, polizia, fisco, ecc.) richiede l'unanimità.

La Corte Europea di Giustizia è composta da 27 giudici, uno per ogni paese dell'Unione, assistiti da otto avvocati generali. Giudici e avvocati generali sono nominati dai governi degli Stati membri con mandato di 6 anni, rinnovabile. La Corte è responsabile solo per le leggi europee, non ha voce in capitolo sulle leggi nazionali, e può esprimere solo dei pareri. Non si occupa di questioni penali all'interno dei singoli paesi.

La Banca Europea d'Investimento nominalmente è il primo istituto di credito multilaterale del mondo, più grande anche della Banca Mondiale. Ma, mentre la Banca Mondiale ha potere esecutivo, la BEI gestisce le cordate per determinati investimenti nei singoli paesi quando lo decide la Commissione.

La Banca Centrale Europea emette la moneta unica e ne controlla l'andamento con occhio attento all'inflazione. Non può intervenire nella politica finanziaria dei singoli paesi. Emana disposizioni non vincolanti attraverso il Parlamento e il Consiglio europei.

Ognuno dei 27 paesi ha diritto di veto. Perciò la Lituania, poniamo, con 3,5 milioni di abitanti, potrebbe bloccare un progetto proposto dalla Germania, che di abitanti ne ha 84 milioni, con peso specifico completamente diverso. Nel 2006 la Polonia da sola ha bloccato un accordo di compartecipazione tra l'intera Europa e la Russia. Era il periodo della presidenza italiana alla Commissione Europea, e Prodi, che non aveva fatto i conti con una Polonia storicamente nemica della Russia e foraggiata dagli americani, aveva pronunciato la famosa frase subito smentita dai fatti: "Noi metteremo in comune tutto con la Russia fuorché le istituzioni".

Come si vede, ci troviamo di fronte a un mastodontico apparato che non ha alcun potere decisionale e quindi non è un vero esecutivo perché deve mediare fra i governi di 27 paesi, ognuno dei quali può bloccare da solo ogni decisione. Una velleità ideologica di governo, non una forma scaturita da processi storici reali di unione o federazione.

Esercito sotto comando altrui

Come abbiamo già accennato nel capitoletto sulla Comunità Politica Europea, il campo militare rappresenta la cartina di tornasole delle frustrate aspirazioni unioniste d'Europa. Trattandosi del campo più sensibile per una entità nazionale, federata o meno, che voglia collocarsi nello schieramento imperialistico, è necessario qualche dettaglio.

La questione militare si ingarbuglia ancor di più, se possibile, rispetto a quella delle istituzioni "civili". Ma in sostanza conferma l'inesistenza sia di un "imperialismo europeo", che di un reale processo federativo. Infatti non esiste un vero esercito europeo e nemmeno un vero coordinamento degli eserciti nazionali a livello europeo. Vi sono invece ben due sistemi sovranazionali di difesa militare legati al sistema militare americano: la NATO e l'Agenzia Europea per la Difesa. Quest'ultima è diretta dai ministri della difesa di ciascun paese. Nacque nel 2004 su proposta dei paesi maggiori e fu appoggiata successivamente da 22 paesi su 25, ma solo 3 di essi offrirono soldati (1.500 ciascuno): Inghilterra, Francia e Italia. Più tardi, nel maggio del 2005, aderirono Norvegia, Svezia, Finlandia ed Estonia, che misero a disposizione altri 1.500 soldati in tutto. Oggi ne fanno parte a diverso titolo e impegno 26 paesi su 27 (non c'è la Danimarca), ma pochi di essi partecipano con soldati e mezzi militari.

In realtà l'Agenzia è un doppione della NATO ed è saldamente in mano a militari che devono sottostare agli ordini degli Stati Uniti. Questo duplicato nasce da un compromesso tra l'esigenza di una posizione autonoma in materia di difesa e la reale mancanza di un apparato logistico comune europeo che comprenda almeno la standardizzazione degli armamenti, in parte di fabbricazione nazionale (e a volte incompatibili tra loro), in parte di provenienza americana. Fu clamoroso il caso di un grande e sofisticato aereo da trasporto militare, nuovo e basato su tecnologia interamente europea sviluppata in campo civile, adottato da alcuni paesi e scartato da altri (fra cui l'Italia) che "scelsero" un vecchio modello americano.

L'Unione Europea è composta di paesi che da un lato sviluppavano sistemi d'arma nazionali, ma dall'altro facevano parte dei due blocchi militari americano o sovietico in posizione subordinata. Perciò è ovvio che non potesse disporre in breve tempo di un sistema militare, né unificato né proprio; e d'altronde non avrebbe potuto svilupparlo senza sganciarsi dal sistema americano, l'unico rimasto. Perciò i paesi occidentali continuano ad usufruire, tramite la NATO, del sistema americano, dalla sorveglianza radar alla rete dei satelliti, dalle grandi basi terrestri alla forza aeronavale, mentre i paesi orientali si ritrovano tra le mani della ferramenta inutile e devono partire da zero. Insomma, l'Unione, nel suo insieme, non ha capacità autonoma di trasporto strategico, di intelligence militare, di acquisizione degli obiettivi, di sorveglianza del teatro delle operazioni, ecc. Così come stanno le cose, le nazioni che ne fanno parte non possono far altro che dipendere completamente, per la strategia, la tattica e la logistica, dalle forze armate americane. Per cui l'unica struttura militare comune cui si possono appoggiare è quella della NATO.

Si capisce, anche solo da questo sintetico quadro, come la capacità europea di schierare e sostenere una forza d'intervento appena più consistente dei soliti reparti d'appoggio alle guerre altrui sia negata nei fatti. I 67.000 soldati che costituiscono teoricamente la task-force europea (mentre scriviamo ne sono impegnati in missione 56.000), sono dispiegabili simultaneamente in pochi giorni e sono anche in grado di svolgere una missione militare della durata di un anno, ma non sono da considerare truppe regolari di un esercito "europeo" integrato. Sono in effetti reparti distaccati della NATO, che si possono sommare solo con un'operazione di aritmetica, non certo dal punto di vista operativo militare. Entro il 2007 13 di questi reparti, di 1.500 uomini ciascuno, saranno posti sotto comando unico e messi a disposizione della NATO o dell'ONU. L'intera task-force sarà dunque comandata da un vertice militare europeo solo finché non sarà utilizzata in operazioni militari; qualora lo fosse, tutta o in parte, le unità combattenti cadrebbero sotto il comando dei due organismi internazionali.

È certo imperialista ogni singolo paese europeo importante, ma è altrettanto certo che non si può definire imperialista un'aggregazione esclusivamente formale di paesi, la quale si dimostra incapace di avere uno straccio di politica autonoma da sostenere con forze armate altrettanto autonome. Anche l'Italia è certo un paese imperialista, ma dei quasi 8.000 soldati impegnati nelle varie missioni all'estero solo 600 agiscono sotto l'egida europea, mentre sono 4.500 quelli inviati in diversi paesi per conto della NATO (cioè degli USA) e 2.500 quelli inviati per conto dell'ONU (cioè… ancora degli USA).

D'altra parte gli eserciti costano, e una vera forza armata europea integrata richiederebbe lo smantellamento di buona parte delle attuali strutture per reimpostare i sistemi, sganciarli dall'ipoteca tecnologica e strategica americana, standardizzarli ecc., con una spesa che inciderebbe enormemente sui bilanci statali. Per cui l'Unione trova addirittura comodo che siano gli Stati Uniti a sobbarcarsi buona parte (520 mld $) della spesa militare mondiale (1.300 mld $) offrendo il proprio ombrello protettivo (si fa per dire) in cambio della sovranità nazionale dei singoli paesi.

Il risultato è che questi paesi continuano a muoversi separatamente o a gruppi distinti, contribuendo all'eterno non-sviluppo della forza militare dell'Unione, a dispetto dei proclami. Francia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Italia si sono accordati per concertare una maggiore integrazione, ma essi stessi non riescono a integrarsi in quello che esiste già: quando è nato l'Eurocorps, ad esempio, al momento attivo in Bosnia, Macedonia e Repubblica Democratica del Congo, l'Italia e l'Olanda non ne facevano parte, mentre c'era la Spagna, assente invece dal gruppo "concertatore". Attualmente l'Eurocorps ha assunto il comando della forza d'intervento internazionale in Afghanistan: si è aggiunta l'Italia, ma manca ancora l'Olanda. Insomma: secondo i canoni l'Europa imperialista dovrebbe essere militarista, ma non si vede l'ombra di un militarismo "europeo".

Le politiche estere

La costituzione di una forza militare europea non può essere disgiunta dalla politica estera dell'Unione, ed è appunto contro questo paradigma che si schiantano definitivamente tutte le ideologie europeiste. Senza questo binomio non vi può essere alcun polo di aggregazione imperialistico. E non può aspirare ad esserlo una specie di "club di nazioni" autocostituitosi su basi di pura apparenza formale, funzionante su semplici accordi multilaterali simili a tanti altri esistenti al mondo fra paesi della stessa area. Nel G8 ci sono quattro paesi membri dell'Unione, ma non agiscono all'unisono e non hanno alcuna voce in capitolo di fronte a Stati Uniti e Russia. Manca un rappresentante permanente dell'Unione al Consiglio di Sicurezza dell'ONU e manca un interlocutore unico per il confronto con gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, l'India e le "aree di libero scambio" del Nord e Sud America, dell'Asia, del Pacifico, ecc. L'Unione non ha una politica estera, ne ha 27, cioè tante quanti sono i paesi che la compongono. Una unità virtuale produce un esercito virtuale e una politica estera altrettanto virtuale.

L'Unione è in prima fila sia per quanto riguarda gli investimenti all'estero sia per i cosiddetti "aiuti" ai paesi in via di sviluppo. Ma, come al solito, ogni paese agisce per conto proprio, senza un minimo di coordinamento. Anche se la somma degli "aiuti" è la più alta del mondo (il 30% del totale), produce un risultato politico pari a zero. Ben diverso risultato raggiunge ad esempio la Cina, che investendo al confronto cifre risibili ma con indirizzo unitario, sta penetrando nei domini dei paesi vecchi imperialisti sollevando enorme scalpore.

Un esempio impietoso di una tale marcia in ordine sparso, che risente di vecchiume nazionalista da colonialisti falliti, è l'atteggiamento verso la Turchia. Anche in questo caso non vi è una posizione unitaria, ma il rifiuto di accoglierla è responsabilità condivisa. La Turchia è uno dei cardini principali nei rapporti fra l'Europa e l'Asia, fra l'Europa e gli Stati Uniti. È parte essenziale del paradigma sensibile su cui si misura la capacità di penetrazione strategica verso l'Eurasia, immenso serbatoio di risorse e nodo centrale della geopolitica da sempre. In Asia centrale si stanno individuando giacimenti di gas e petrolio fra i più grandi mai sfruttati. Quella regione è già un attrattore naturale per qualsiasi paese imperialista, ma anche qui l'Unione si presenta in ordine sparso. Data l'impossibilità di coinvolgere la Russia come paese membro, la politica più ovvia sarebbe quella di anticipare USA, Russia e Cina nel gettare un ponte verso quei paesi, sfruttando la fascia turcofona che giunge fino al Sinkiang, già curata direttamente dalla Turchia. Se esistesse una capacità anche minima di allargamento della propria area di influenza imperialistica, e quindi di strategia geopolitica unitaria, le trattative con questo paese non si sarebbero arenate per decenni.

L'importanza strategica della Turchia per l'Europa va sottolineata adeguatamente. È un paese che fa parte del Patto Atlantico ed è nella NATO fin dal 1947. Ha più di 70 milioni di abitanti, è industrializzato, ha un numeroso proletariato con propaggini nel cuore dell'Europa (ci sono 4 milioni di turchi in Germania), ha una borghesia laica ancora legata alla sua rivoluzione. Ha una tradizione religiosa meno marcata rispetto al fondamentalismo presente in altri paesi islamici. Pur distaccata etnicamente e storicamente dalle popolazioni arabe, ha rapporti particolari con tutto il mondo islamico, specie quello che faceva parte dell'Impero Ottomano. Ha ancora spazio davanti a sé per lo sviluppo capitalistico e di conseguenza potrebbe rappresentare un motore ausiliario per lo sviluppo dell'economia asfittica dei paesi a capitalismo senile. Fatto non trascurabile, il suo esercito inquadra e disciplina ogni anno 1,3 milioni di giovani, donne e uomini in eguale proporzione.

Insomma, quando si parla di Europa unita, siamo di fronte a un fallimento non solo dal punto di vista della teoria rivoluzionaria dell'imperialismo, ma anche dal punto di vista della mera convenienza borghese. Un fallimento che ha visto privilegiare l'ingresso e la candidatura di piccoli e grandi paesi chiaramente al soldo del presunto concorrente e ha trascurato una potenza, locale quanto si vuole, ma proiettata in modo del tutto naturale verso il mitico Heartland della geopolitica classica, l'Asia Centrale.

Una delle spiegazioni di tanta incoerenza strategica va ricercata senz'altro nella debolezza geopolitica del ricordato nucleo renano-padano, specie della Germania, l'unico paese che avrebbe il potenziale necessario per imporre dall'alto e realizzare ciò che le finte istituzioni non riescono neppure a discutere. Ma la Germania è un paese esportatore netto di mezzi di produzione e di beni durevoli soprattutto verso gli Stati Uniti e il resto d'Europa, con consolidati rapporti anche produttivi con i paesi dell'ex blocco sovietico, per cui è chiaro che la sua politica estera è più che in altri casi pesantemente condizionata dalla struttura economica. La tradizionale Ostpolitik tedesca, cioè l'attenzione diplomatica verso l'Est, non può che essere bilanciata da una robusta Westpolitik, cioè l'attenzione al pragmatico e venale flusso di merci e capitali.

Ognuno per sé

I maggiori paesi europei soffrono indubbiamente di una malattia dovuta ai residui della loro passata potenza e vale la pena passarli brevemente in rassegna per toccare con mano le effettive risorse imperialistiche in stridente contrasto con la realtà di impotenza politica. La Germania è l'esempio più evidente fra tutti i grandi paesi d'Europa: tra di essi è incontestabilmente la più grande potenza industriale, e anche quella che meglio di tutte riesce ad innalzare il rendimento del proprio sistema con una migliore organizzazione sociale. Dell'Inghilterra è quasi superfluo parlare, almeno da quando i laburisti stessi, che sono al governo, rimproverano al loro primo ministro di averla trasformata da potenza imperiale in zerbino degli Stati Uniti; ma è comunque la maggiore "piazza" finanziaria del continente, ancora in grado di regolare importanti flussi internazionali di valore. La Francia si trova in piena schizofrenia tra l'impossibile aspirazione all'antica grandeur, un europeismo tenuto in piedi soltanto dalla convenienza dei trasferimenti agricoli (pagati in buona parte dalla Germania) e un atlantismo di facciata che non riesce a mascherare il sottostante nazionalismo antiamericano e antieuropeo; ma è anch'essa una grande potenza industriale e agraria. L'Italia, come abbiamo sempre detto, è una portaerei americana proiettata sul Mediterraneo, e la sua politica estera è scritta direttamente a Washington dai tempi di Clara Boothe Luce; ha tuttavia un'economia risultante da fattori moderni, la più alta produttività industriale d'Europa e un PIL pro capite effettivo praticamente uguale a quello di Francia, Inghilterra e Germania.

La Spagna merita qualche osservazione in più. Essa sta recuperando il tempo perduto con la mummificazione franchista e si sta avvicinando velocemente ai parametri dei paesi summenzionati. Ha ovviamente una storia imperiale, ed è l'unico paese europeo ad avere una politica estera imperialistica moderna dovuta non a eredità da rentier come l'Inghilterra ma ad attivismo finanziario recente verso la grande area di lingua spagnola. Come tutti i paesi europei ha un import-export orientato verso altri paesi europei, mentre la sua struttura finanziaria è proiettata essenzialmente al di fuori dell'Europa. Naturalmente anche la Spagna fa per sé. Le radici storiche delle direttrici su cui si muovono i suoi capitali furono sempre le stesse sotto il franchismo e sotto ogni governo successivo di destra o di sinistra, ma il capitale finanziario spagnolo è esploso come elemento dinamico puramente imperialistico abbastanza di recente. Tutti gli Stati varano politiche di facilitazioni alle esportazioni di merci e capitali, però quello spagnolo è l'unico in Europa che imposti istituzionalmente la propria politica estera in supporto ai movimenti di capitali nazionali investiti in altri paesi, tramite organismi appositi. Uno di questi è il COFIDES, una società per azioni promossa dallo Stato con capitali pubblici, la cui funzione è di dirigere e sostenere gli investimenti all'estero delle aziende private, sia quelli diretti che in joint venture, sia industriali che finanziari. Un altro è l'ICO, istituto pubblico prettamente finanziario di sostegno alle operazioni in America Latina e nei Paesi in Via di Sviluppo. Questi strumenti non assecondano affatto l'azione unitaria europea all'estero ma la complicano, dato che ogni intervento di ogni singolo Stato non fa che entrare in conflitto, per via della concorrenza, con l'intervento di altri Stati.

Il nostro elenco vuole mostrare come la somma algebrica di qualità e difetti capitalistici produrrebbe certo un micidiale insieme imperialistico, ma nello stesso tempo evidenziare le determinazioni che impediscono questa somma. Nell'Europa dei 27 non c'è traccia di autentico coordinamento delle politiche economiche, fiscali, industriali, monetarie, estere, militari. Esiste solo l'obbligo al rispetto di alcuni parametri macroeconomici secondo automatismi che gli stessi economisti borghesi reputano ridicoli. Non esistono progetti industriali tecnologici comuni se non in alcuni settori assai limitati come l'aeronautica e l'attività spaziale (e comunque anche in questi settori con gravi problemi di concorrenza).

Se esistesse anche solo una specie di "divisione internazionale del lavoro" programmata, invece del muoversi spontaneo e caotico anche in questo campo, saremmo davvero di fronte, se non a un colosso imperialistico in grado di far vedere i sorci verdi al mondo, almeno a un'area di libero scambio in grado di condizionarlo. Invece non è così per ragioni che esulano dalla volontà dei governi, come vedremo qui di seguito, con buona pace di chi paventa un "imperialismo europeo" o di chi invece lo auspica in funzione rivoluzionaria (!) anti-americana.

Sull'impossibilità degli "Stati Uniti d'Europa"

Stiamo arrivando alla fine della nostra trattazione e quindi dobbiamo tirare le somme. Torniamo quindi a Lenin e al suo scritto Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa. Egli commenta uno slogan maturato all'interno del partito bolscevico e ricorda che si tratta di una presa di posizione politica sulla quale si era deciso di soprassedere finché non si fosse sviscerato il suo lato economico. Ricorda inoltre che lo stesso slogan era già integrato da una precisazione: esso sarebbe stato del tutto reazionario se non avesse contemplato l'abbattimento delle autocrazie d'Europa.

Da questa premessa egli ricava che, giusta l'affermazione contenuta nel Manifesto del partito comunista:

"i comunisti appoggiano ovunque ogni movimento rivoluzionario diretto contro le situazioni sociali e politiche esistenti"

sarebbe errato rifiutare puramente e semplicemente lo slogan; perché ogni trasformazione sociale rivoluzionaria, anche borghese, avvicina la rivoluzione comunista, ne allarga le basi, in quanto il suo sviluppo non è un atto singolo e non può fare a meno di scombussolare tempestosamente i rapporti esistenti. Oggi in nessuna parte del mondo è operante un movimento rivoluzionario organizzato contro le condizioni esistenti. Sappiamo però, con Marx ed Engels, che vi può essere un movimento reale di trasformazione oggettivamente rivoluzionario, anche diretto dalla borghesia reazionaria (l'unità statale e le immense conquiste territoriali degli USA a spese del Messico e l'unità della Germania furono fatti positivi anche se non dipesero da una rivoluzione borghese antifeudale o anticoloniale bensì da guerre classiche). In questo caso non vi può essere naturalmente "schieramento" e "appoggio" da parte dei comunisti, ma essi possono ben rallegrarsi di un orientamento storico favorevole alla rivoluzione, anche se dovuto a realizzazioni borghesi. L'affermazione del Manifesto è dunque un invariante che oggi si può leggere solo in senso generale: i comunisti sono favorevoli a ogni trasformazione che allarghi le basi materiali della rivoluzione comunista. Ad esempio la lotta per la democrazia, nell'epoca della democrazia, è un'attività assai poco rivoluzionaria che lasciano agli americani.

Dopo il passo sull'abbattimento delle autocrazie, Lenin, come spesso gli succede di fare, dimostra come questa visione politica unilaterale, "inattaccabile", debba saltare non appena si aggiungano le necessarie considerazioni economiche; e come queste, alla fine, portino a stabilire che lo slogan "è sbagliato". Seguiamo bene il ragionamento perché esso vale come un'arma formidabile sia contro chi crede che sia in corso la formazione di un polo imperialistico europeo in funzione "rivoluzionaria" anti-americana, sia contro chi crede che esista non un gruppo disomogeneo di paesi europei imperialisti ma un "imperialismo europeo" unitario, già operante, reazionario e nemico del proletariato. Quando si fa la fotografia del panorama sociale dimenticando la dinamica storica si finisce sempre per fare pasticci.

L'imperialismo, senza aggettivi, continua Lenin, è un prodotto dello sviluppo globale del capitalismo, è lo stesso capitalismo giunto a quello stadio, quindi se fosse possibile unire degli Stati imperialisti in una entità qualsiasi, essa non sarebbe affatto un'entità in grado di rappresentare un "allargamento delle basi della rivoluzione socialista". Sarebbe semplicemente reazionaria. Lenin vedrebbe quindi una bella differenza tra la violenta aggregazione di territori, che porta ad esempio alla formazione rivoluzionaria di un paese imperialista unitario come gli Stati Uniti, e un pacifico assemblaggio di nazioni già imperialiste per conto loro.

Seguono i dati che dimostrano come un "pugno di potenze" si spartisca il mondo ed estenda il suo dominio su popolazioni molto più numerose e superfici molto più vaste dei suoi stessi popoli e territori; come esso tragga una rendita enorme dalla sua esportazione di capitali; come il suo agire sia protetto da una struttura di dominio che non si può scindere in interno, sul proletariato, ed esterno, su interi popoli per mezzo di navi cannoniere ed eserciti. Pensare che questo pugno di potenze con 300 milioni di abitanti possa rinunciare a spogliare paesi che ne contano un miliardo, sarebbe comportarsi come quel "pretonzolo" che predica ai ricchi la virtù cristiana… della distribuzione del reddito.

Stiamo riassumendo con parole nostre, ma il resoconto è fedele e ci serve per arrivare al dunque. Oggi, 2007, il pugno di potenze colonialiste non c'è più. Al suo posto c'è un paese imperialista dominante, in grado di spogliare il mondo, peraltro con altri metodi e senza bisogno di spartire nulla con nessuno. Gli Stati Uniti d'Europa sono quelli che abbiamo visto. Che cosa diventerebbero se riuscissero nel loro intento di unione? Ovviamente un'altra potenza imperialistica, in lotta con gli Stati Uniti d'America per spartirsi il mondo. Sarebbe quindi un'entità reazionaria, per di più retrocedendo nello sviluppo storico al rango perduto da cinquant'anni.

Lenin non si ferma alla velleità del pretonzolo. Prosegue con argomenti potenti contro l'illusione che una entità unitaria europea possa essere democratica e pacifica. Quando le unità imperialistiche sono più di una, la lotta per la spartizione del mondo non può che chiamarsi ricorso alla forza, cioè guerra. "È la forza che cambia nel corso dello sviluppo economico", afferma. E cita dati che dimostrano i differenziali di velocità nello sviluppo fra diversi paesi. Questi differenziali valgono per le singole aziende, per le nazioni e per i blocchi di nazioni, e in economia comportano contraddizioni che si risolvono con le crisi: in politica si risolvono con le guerre. Se quindi fossero possibili nuovi blocchi di nazioni in Europa, essi sarebbero finalizzati a conservare il loro dominio contro America e Giappone (sottolineato nell'originale) e a schiacciare la rivoluzione socialista in Europa.

Qui c'è un passaggio essenziale per il discorso che andiamo facendo: in confronto agli Stati Uniti d'America gli Stati colonialisti dell'Europa rappresentano la stasi economica, la putredine senile; riunirli in una Unione significherebbe

"organizzare la reazione per frenare lo sviluppo più rapido dell'America. Il tempo in cui la causa della democrazia e del socialismo concerneva soltanto l'Europa è passato senza ritorno".

Ma nell'epoca in cui gli Stati Uniti d'America hanno preso il posto del pugno di briganti della vecchia Europa colonialista, diventano essi stessi candidati alla putredine senile. Ci sono già dentro fino al collo. La causa rivoluzionaria della democrazia fa parte del passato in tutto il mondo. Non rimane altro che la causa rivoluzionaria del comunismo e questa prevede l'abbattimento di tutti gli Stati borghesi e di ogni loro coalizione. La vecchia Europa non può più essere né un'entità unitaria "progressista" anti-americana, né un'entità unitaria reazionaria imperialista. Il suo tempo è inesorabilmente "passato senza ritorno".

Le parole d'ordine sono materia delicata da maneggiare. Anche quelle contro la borghesia, il capitalismo, la guerra o anche solo contro avversari politici. Se non sono aderenti a una realtà riscontrabile con fatti, forze, coinvolgimento di uomini e sviluppo di movimenti, assomigliano sempre alle prediche rivolte al cielo dal pretonzolo di Lenin.

Letture consigliate

  • Lenin, "Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa", Opere Complete, vol. 21, Editori Riuniti, 1966.
  • Carlo Cattaneo, L'insurrezione di Milano, Mondadori, 1986.
  • Carlo Cattaneo, Notizie sulla Lombardia - La città, Garzanti, 1979.
  • PCInt., "La Francia e il piano Monnet", Prometeo n. 6 del 1947.
  • PCInt., "Il destino del piano Monnet", Prometeo n. 10 del 1948.
  • PCInt., "United States of Europa", Prometeo n. 14 del 1950.
  • PCInt., "Suez, vertenza fra ladroni", Il programma comunista n. 18 del 1956.
  • PCInt., Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, Edizioni Il Programma Comunista, 1976.
  • "L'Europa disunita e la moneta dei suoi Stati", n+1 n. 7, marzo 2002.
  • Marino Badiale, Massimo Bontempelli, Il mistero della Sinistra, Graphos 2005.
  • Autori vari, La guerra in Europa, Limes n. 1-2 del 1993.
  • Autori vari, L'Europa senza l'Europa, Limes n. 4 del 1993.
  • Autori vari, Euro o non Euro, Limes n. 2 del 1997.
  • Autori vari, Piccola grande Europa, Limes n. 1 del 2002.
  • Autori vari, L'Europa è un bluff - In morte di un'ideologia, Limes n. 1 del 2006.
  • "La grande cerniera balcanica", n+1 n. 17, aprile 2005.
  • Unione Europea, Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa, pagg. 349; Atto finale, pagg. 121; Protocolli e allegati, pagg. 382; http://www.governo.it/costituzione_europea.html.

Rivista n. 22