Madonna no-bit
Nel 1990 l'album Immaculate Collection, di Madonna, vendette venti milioni di copie. Oggi i suoi lavori ne vendono circa un milione e mezzo, ed è una cifra ora considerata un grande successo. Di qui la decisione dell'artista di non rinnovare il contratto con il colosso Warner, e di puntare su concerti dal vivo e altre iniziative paganti, ad esempio l'utilizzo del nome come logo per vestiario ed altro. E Wall Street plaude all'ascesa dei titoli di Live Nation, che organizzerà i concerti e il merchandising di mutande e scarpette.
Le case discografiche incolpano la pirateria informatica, ma la vera causa sta nella progressiva smaterializzazione delle merci, nel passaggio dagli atomi ai bit, dagli oggetti reali a quelli virtuali, dalla merce discreta che si acquista e si consuma alla merce-servizio continua per la quale si paga un canone. Siamo di fronte al trionfo della rendita da proprietà (del nome, della voce e del corpo) sulla produzione industriale del disco con relativo marketing. Già, perché la rendita non deriva affatto da una vendita materiale ma da una qualità sociale, la proprietà privata.
I Radiohead hanno preso una decisione ancor più drastica: hanno pubblicato il loro ultimo album solo su Internet in cambio di una libera sottoscrizione. Risultato: un milione e mezzo di copie prelevate in tre giorni, il 35% vendute, le altre gratis, comunque alcuni milioni di dollari incassati senza intermediari. Siamo agli estremi: da parte di Madonna il ritorno allo spettacolo di una volta, alla fruizione di una merce alquanto corporea, della sua voce, delle scarpette firmate; da parte dei Radiohead la fuga in avanti della digitalizzazione totale per la quale il prezzo non ha più senso. Tuttavia non si tratta di effettive contraddizioni fra opposti, ma di due facce dello stesso fenomeno: l'oggetto si paga, il bit sfugge. Ognuno di noi sa come gli vengano spillati ben più quattrini nel continuum dei canoni (energia, telefono, affitto, mutuo, gas, rate, trasporti, ecc.) che non acquistando singole merci. Ognuno di noi è passato attraverso la riproduzione e/o l'utilizzo "pirata" degli impalpabili bit di un CD o DVD. Ma non potrà riprodurre Madonna in carne ed ossa.
Anche altri artisti come Bob Dylan, McCartney, gli Eagles e Prince hanno provato a vendere senza casa discografica, un passo certo suggerito dalla difficoltà di vendere i bit quando sono incisi su un oggetto fisico riproducibile. David Bowie, o chi per lui, emise titoli sulle canzoni del proprio catalogo garantendoli con i futuri incassi e assecondandone l'aumento di prezzo sul mercato, cosa che gli portò 55 milioni di dollari netti. Qui abbiamo rendita pura, garantita solo dall'impalpabile rapporto giuridico della proprietà.
Siamo solo agli inizi. Abbiamo fatto l'esempio della musica perché mentre scriviamo ne ridondano i giornali, ma potremmo parlare di qualsiasi altra merce. La smaterializzazione crescente si accompagna con l'espansione di Internet, il mezzo per eccellenza che permette lo scambio dei bit. Il principio è già stato formalizzato dagli economisti: bisogna regalare la merce discreta in modo da legare a sé il cliente e non spillargli più un prezzo bensì un flusso.
Immaginiamo ora che sparisca il prezzo per tutte le merci, che rimanga solo il flusso. Un operaio restituirebbe istantaneamente il salario ricevuto per pagare ciò che gli serve per vivere e riprodursi, come se pagasse un canone per la propria vita. Il processo appare completamente insensato, così come non ha senso l'equazione: vita = + salario – salario. I segni + e - si annullano, rimane la vita a costo zero.