Tre classici sulla crisi

John Kenneth Galbraith, Il Grande Crollo, pagg. 218, Rizzoli 2004, € 8,60.
Charles Kindleberger, La Grande Depressione nel mondo 1929-1939, pagg. 297, Etas Libri 1982, € 20,14.
Hyman Minsky, Potrebbe ripetersi?, pagg. 394, Einaudi 1984, € 18,08.

Tre classici, ovvero come la borghesia affronta il problema della crisi senza poterlo capire. Essendo la crisi un invariante del modo di produzione capitalistico, dal nostro punto di vista i tre libri sono sulla crisi in generale, non sulla specifica crisi che sconvolse il mondo e fu superata solo con quel piano keynesiano universale di distruzione e ricostruzione chiamato Seconda Guerra Mondiale.

Infatti, anche se gli autori si riferiscono agli avvenimenti specifici del decennio che precedette la guerra, non possono fare a meno di chiedersi se processi analoghi possano un giorno riprodursi nonostante le differenze di epoca. Galbraith ammette alla fine del suo saggio che scrivere un'opera del genere significa di per sé cercare il modo per evitare prossime catastrofi. Kindleberger riconosce l'impotenza delle borghesie nazionali di fronte al collasso: il paese imperialista decadente, l'Inghilterra, e il paese imperialista emergente, gli Stati Uniti, si trovarono nell'impossibilità di prendere provvedimenti per stabilizzare il sistema in rovina. Minsky annota le differenze epocali ma conclude che, nonostante tutto, il collasso del sistema si può evitare solo con un piano di distribuzione del valore all'interno della società.

Tutti e tre gli autori individuano come causa del Grande Crollo una intrinseca mancanza di razionalità nel sistema, mancanza che non poteva non ripercuotersi sulle decisioni degli uomini. Galbraith tratteggia una storia della stupidità economica umana con notevole humour, Kindleberger ne analizza freddamente premesse e conseguenze, Minsky cerca di opporre all'anarchia del mercato l'esigenza di un governo dell'economia, se non mondiale almeno centralizzato per nazioni e ne propone modelli matematici. Tutti e tre sono convincenti nell'analisi degli effetti del capitalismo quando giunge alla crisi, ma nessuno di loro ci spiega perché vi giunga e come evitarla nel futuro. Ci dicono che non si ripeterà il '29 tale e quale, e siamo d'accordo, ma affidano il futuro del capitalismo alle ricette improvvisate che gli uomini riescono ad escogitare sulla base dei meccanismi capitalistici.

Galbraith individua ad esempio cinque punti deboli del sistema anni '20: l'eccessiva concentrazione della ricchezza in poche mani, la struttura societaria non trasparente, la struttura bancaria senza controlli, la strozzatura nella bilancia dei pagamenti a danno dei paesi debitori, l'intervento economico di tipo immediatista basato sull'apparente ragionevolezza e non sul calcolo. Kindleberger individua tre soluzioni: apertura del mercato per le merci in eccesso, istituzione di prestiti anticiclici a lunga scadenza, sostegno massimo al credito durante le crisi. Minsky propone una rivalutazione della teoria keynesiana dell'investimento in cui la speculazione non sia fine a sé stessa ma rientri nella categoria classica del capitale finanziario come equivalente di capitale da credito alle attività produttive.

Nella lettura ci si rende conto facilmente di come nessuno degli autori abbia individuato il cuore del problema. Senza negare il capitalismo non lo poteva affatto.

Rivista n. 24