Accumulazione e serie storica
"La borghesia, una volta individualista, nazionalista, liberista, isolazionista, oggi tiene i suoi congressi mondiali e, come la Santa Alleanza tentò di fermare la rivoluzione borghese con un'Internazionale dell'assolutismo, così oggi il mondo capitalistico tenta di fondare la sua Internazionale, che non potrà essere che centralista e totalitaria" (PCInt., 1947).
"Il mercato finanziario ha bisogno di sceriffi, solo che adesso è globale e ha bisogno di sceriffi globali" (George Soros, 2008).
L'imperialismo e la staffetta dei suoi protagonisti
Elencando i paesi che si sono avvicendati nel predominio economico, politico e militare sul mercato mondiale (Venezia, Spagna, Portogallo, Olanda, Francia, Inghilterra e Stati Uniti), Marx non delinea solo una cronologia nella serie ma descrive anche i caratteri assunti dall'accumulazione nelle varie fasi storiche dell'epoca borghese, dall'accumulazione primitiva del capitalismo nascente a quella asfittica dell'imperialismo. Ogni paese della serie storica, infatti, riassume in sé i caratteri di un'epoca. L'ultimo, l'Inghilterra, già alla fine del '600 mostra la "combinazione sistematica" di tutte le caratteristiche che furono prerogativa, di volta in volta, dei paesi che l'avevano preceduta nel dominio: colonialismo, economia statale basata sul debito pubblico, drenaggio fiscale moderno, credito internazionale e protezionismo. Il capitalismo è dunque un misto di mercato selvaggio e di intervento dispotico dello Stato; il quale è in grado di accelerare artificialmente il processo di trasformazione dalla vecchia società a quella nuova. Come ha sempre fatto con un misto di violenza diretta – ad esempio attraverso l'espansione coloniale – e di leggi, cioè "violenza concentrata e organizzata della società". È in tale contesto che troviamo la celebre enunciazione: "La violenza è la levatrice di ogni vecchia società gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica" (Il Capitale, Libro I, capitolo 24.6).
Fin dalle origini della serie storica è dunque possibile individuare un'invarianza generale, sintetizzabile nella funzione dello Stato e nello stimolo del processo di accumulazione tramite il debito pubblico e il credito internazionale. Quest'ultimo ha addirittura origini medioevali ed è perfezionato dalle Repubbliche marinare, dalle Signorie, e dalle federazioni economiche nord-europee basate sull'interesse reciproco e quindi sulla fiducia nelle scritture contabili per le compensazioni al fine di non portare a spasso casse d'oro. Nella Lombard Street di Londra, non c'erano solo i "lombardi": l'appellativo designava anche fiorentini, anseatici, veneziani, olandesi. È importante annotare l'antica necessità delle scritture contabili internazionali perché su di esse e sulle promesse di pagamento si evolverà il sistema moderno del credito.
"Insieme al debito pubblico è sorto un sistema di credito internazionale che nasconde spesso una delle fonti di accumulazione originaria di questo o quel popolo. Così le infamie del sistema di rapina veneziano rappresentano ancora una delle basi segrete della ricchezza di capitali dell'Olanda, alla quale Venezia in decadenza prestò ingenti somme di denaro. Lo stesso si verificò fra Olanda e Inghilterra. Già al principio del secolo XVIII le manifatture olandesi vengono soppiantate in gran misura, e l'Olanda ha perso il suo predominio industriale e commerciale: per questo uno dei suoi affari più notevoli del periodo fra il 1701 e il 1776 diviene il prestito di grandi capitali, che finiscono per la maggior parte alla sua potente concorrente, l'Inghilterra. In maniera analoga vanno le cose oggi tra l'Inghilterra e gli Stati Uniti" (Marx, Il Capitale, libro I, capitolo 24.6).
Marx sottolinea che la dinamica storica da lui descritta è l'astrazione su di una realtà per niente lineare. Ogni fase di accumulazione trascende verso la successiva con un salto quantitativo e soprattutto qualitativo. Non aumenta soltanto la quantità di merci e di capitali scambiati e perciò il numero delle transazioni, delle navi e dei banchieri. Si pone anche la base per il passaggio dall'artigianato alla manifattura e da questa alla grande industria. Cresce il bisogno di credito e si affinano gli strumenti per erogarlo, si universalizza la carta moneta, si emettono titoli azionari e cambiari, aumenta la necessità di controlli e garanzie.
Se la storia dell'accumulazione originaria fa perno sull'espansione drogata dal debito pubblico e dal credito interno ed estero, è evidente che tutte le potenzialità del sistema devono per forza far leva su coloro che posseggono capitali in eccedenza per offrirli ad altri che ne scarseggiano. All'interno di un paese i mercanti-banchieri si autonomizzano e quando nascono le banche vere e proprie esse seguono la stessa sorte. All'esterno, fra paesi, il processo è analogo, solo che i capitali in movimento alle frontiere sono segnati in conti nazionali invece che individuali. Per cui si verifica tra paesi ciò che al loro interno si verifica fra capitalisti e fra questi e le banche. Il paese più forte si autonomizza prima come mercante e poi come banchiere internazionale. Diventa paese più influente e in tale veste rappresenta una centrale capitalistica in grado di stimolare l'economia altrui. Aumenta la propria capacità di produrre (o rastrellare presso altri) un'eccedenza di capitali e la trasforma in credito estero. In tal modo, come notava già Marx seguendo attentamente i flussi di capitali dall'Inghilterra, finanzia i propri futuri concorrenti. Non ne può fare a meno, sia perché il processo avviene per interesse reciproco, sia perché l'eccedenza di capitali è un dato fisiologico della società capitalistica; la quale produce plusvalore in modo sociale, ma in un contesto di appropriazione privata, per cui nessun movimento di capitali, sul mercato interno o estero, ha senso al di fuori dell'accumulazione.
Questa dinamica rende inevitabile il declino delle centrali capitalistiche rappresentate una dopo l'altra da vari paesi. Altrettanto inevitabile è l'emergere di nuove centrali. Siccome il credito è il mezzo con cui il capitalismo riesce a neutralizzare i propri squilibri sconvolgendo continuamente le proprie gerarchie interne, è anche il mezzo con il quale incide sulla propria sopravvivenza, come dimostrano le misure statali anti-crisi. Costretto ad espandersi senza tregua, il capitalismo deve necessariamente spostare il suo centro di accumulazione verso le aree che risultano man mano più adatte al grado di sviluppo delle forze produttive in un dato momento storico.
Così facendo rivoluziona le gerarchie che si stabiliscono nelle varie epoche fra paesi e fra aree geostoriche. Venezia si proietta sul Mediterraneo e sulla via della seta; il Portogallo e l'Olanda sulla rotta delle Indie, la Spagna verso le Americhe, l'Inghilterra e gli Stati Uniti verso il mondo intero. L'azione economica e politica esercitata dal paese dominante sul mercato mondiale suscita immancabilmente reazioni da parte degli altri paesi che ne subiscono l'iniziativa. La concorrenza che esiste tra capitalisti si manifesta fra gli Stati in altre forme e sfocia spesso in conflitto armato, provocando guerre che si protraggono in alcuni casi addirittura per secoli.
La genesi dell'imperialismo moderno è in fondo questa. I paesi costretti alla concorrenza con avversari più forti devono attrezzarsi per non soccombere. Che si arrivi alla guerra o meno, essi devono comunque assimilare rapidamente le innovazioni produttive e le tecniche finanziarie più avanzate. Ossia devono far quel che fanno normalmente anche i capitalisti nella guerra concorrenziale. Con un vantaggio. Il singolo capitalista ha come unico obiettivo quello di aumentare la scala di produzione soggetta al controllo del suo capitale; egli può avere la capacità e la possibilità di prevedere gli effetti delle sue azioni sugli altri capitalisti, ma non potrà influenzare direttamente il loro comportamento. Mentre lo Stato ha la capacità e la possibilità di manovrare l'azione combinata di tutti i capitalisti di un paese.
Se ciò ha enormi vantaggi ha anche controindicazioni gravi. Lo stimolo della produzione (debito pubblico, accesso facilitato al credito, realizzazione di infrastrutture) tende a modernizzare l'intero complesso della produzione. Vengono introdotti macchine, sistemi e metodi scientifici in grado di migliorare l'efficienza produttiva e organizzativa. Ma, come succede nelle singole realtà industriali, con questi provvedimenti sale la produttività, cioè si ottiene sempre più produzione con sempre meno forza-lavoro e con una enorme massa di capitale anticipato. Il che significa abbassamento del saggio di profitto, sia nel caso del singolo capitalista, sia, a maggior ragione, nel caso di una nazione intera.
Tutto questo è inevitabile, gli effetti però sono completamente diversi a seconda che simili trasformazioni avvengano in un paese a vecchio capitalismo consolidato o in uno a nuovo capitalismo rampante. Il vecchio capitalismo ha già alle spalle una storia di stimoli all'economia, specie nella nostra epoca keynesiana, quindi reagisce poco a nuove dosi di droga, anzi, deve fare attenzione a non andare in overdose, a non statalizzare completamente l'economia come ai tempi delle Repubbliche marinare. Il nuovo capitalismo riceve invece una sferzata di energia, ha ancora un proprio mercato interno da espandere e incomincia a presentarsi sul mercato globale con gran disappunto del paese dominante che gli ha fatto credito. Può insomma candidarsi a successore di quello che nel frattempo è diventato un avversario. Ogni serie storica coincide inevitabilmente con un nuovo balzo in avanti dell'accumulazione capitalistica. E tale balzo equivale ad un allargamento sistematico della base produttiva, ad un'estensione del mercato mondiale, all'emergere di aree produttive che costituiscono un potenziale superiore di crescita industriale e commerciale.
Ma questo passaggio non consente mai al capitalismo di superare gli elementi di instabilità che hanno condotto una potenza al declino e un'altra al dominio. Semplicemente li riproduce ad un livello più elevato. La secolare serie storica, analizzata con le leggi che regolano il modo di produzione capitalistico, non solo spiega il passato, ma rende anche evidente una dinamica che serve per capire il futuro. La legge che determina la dinamica ascendente da un paese all'altro non permette al sistema di arrestarsi se non per un collasso catastrofico. Nello stesso tempo ne evidenzia un limite, perché il processo non può essere eterno. Vi è senz'altro un punto di non ritorno, che caratterizza il momento storico in cui il sistema perde la propria capacità di riconfigurarsi. Un momento in cui non vi è più il gradino superiore al quale spostare i propri contrasti interni. Per quanto tale momento sia simbolico e possa durare anni, esso rappresenta il culmine oltre il quale questo globalizzato capitalismo precipita verso la sua fine.
La serie storica: da Venezia all'Olanda
Marx inizia la serie storica da Venezia, una delle città-stato italiane che rappresentarono terreno fertile e precoce per lo sviluppo del capitalismo tra il X e l’XI secolo. Grazie alla sua posizione geografica, che ne fa il passaggio obbligato dei prodotti provenienti dall'Oriente verso l'Europa del Nord, diventa il centro del capitalismo mercantile: spezie, tessuti, oggetti preziosi si accumulano nei suoi enormi magazzini, davanti ai quali i mercanti di tutta Europa si mettono letteralmente in coda. E controlla le rotte marittime del Mediterraneo per mezzo di una potente flotta di navi da commercio, "galere da mercato", che usano sia i remi sia le vele, molto sicure e ben difese da agguerriti mercenari. L'arsenale di Venezia si può considerare la prima vera grande industria del mondo, dato che rappresenta l'esempio più importante, per l'epoca, di grande complesso produttivo a struttura accentrata dell'economia preindustriale, potendo impiegare giornalmente diverse migliaia di operai salariati. Ma è ancora una linea di montaggio di parti costruite sul territorio dagli artigiani riuniti in corporazioni, cui viene richiesto solo un certo grado di standardizzazione. Perciò il ciclo produttivo, seppure straordinario per l'epoca, non può ancora dirsi capitalisticamente compiuto; e il numero dei navigli non è lontanamente paragonabile a quello dei maggiori paesi imperialistici che si affermeranno in seguito.
Nella prima metà del '400 Venezia schiera 45 galere militari, 300 navi commerciali "rotonde" di grande tonnellaggio e 3.000 velieri minori per la navigazione costiera. Il numero delle navi da guerra viene raddoppiato con l'ascesa dell'impero ottomano dopo la caduta di Costantinopoli e verrà di nuovo raddoppiato nel '500, in risposta alla minaccia congiunta degli Ottomani a Oriente e degli Spagnoli a Occidente. È di conseguenza considerevolmente ampliata l'area dell'arsenale, non ancora per scopi prettamente produttivi, ma per mantenere una riserva di 25, poi di 50 e poi ancora di 100 galere "a secco", pronte per ogni evenienza a scendere in acqua nel giro di pochissimo tempo.
Benché per qualche secolo la differenza di potenziale fra Venezia e i suoi avversari resti notevole, la sua egemonia poggia su basi assai fragili. La potenza di Venezia infatti si regge quasi esclusivamente sulla mobilità navale, mentre la sua ricchezza commerciale e bancaria deriva sempre più dal fatto che altre potenze la utilizzano come polo nevralgico per i loro traffici. I suoi capisaldi marittimi sono ben fortificati e presidiati, ma il flusso delle sue merci si regge in larga misura sul controllo commerciale e militare in un’unica direzione, l’Oriente. La "via della seta" continentale e le rotte marittime sono complementari, tra l’altro percorse e controllate in mortale concorrenza con Pisa e Genova prima ancora delle Crociate.
L’individuazione di rotte alternative sarà sufficiente a intaccare la supremazia proto-imperialistica di Venezia. La quasi contemporanea scoperta delle rotte per l’America e la riuscita dei tentativi portoghesi di circumnavigare l’Africa provocano lo spostamento del commercio mondiale di allora nelle due direzioni opposte e gli oceani diventano protagonisti spodestando il Mediterraneo e il Mar Nero. Spagna e Portogallo, potenze già emergenti, risultano così favorite e la loro economia riceve una sferzata di vigore prima che si compiano l'ascesa della borghesia in Inghilterra sotto Elisabetta I e il consolidamento della potenza continentale in Francia sotto Enrico IV. Ma il carattere dominante dell'imperialismo di tipo capitalistico nascente si incarna nell'Olanda (qui chiameremo sempre "Olanda" la Repubblica delle Province Unite dei Paesi Bassi, come del resto chiameremo sempre "Inghilterra" l'intero Regno Unito).
È sufficiente seguire la direzione dei flussi monetari dei banchieri veneti e la loro destinazione finale per identificare la nuova potenza in ascesa. Non potendo più competere da posizioni di forza con i propri concorrenti, diventa più sicuro e conveniente per i mercanti veneziani esaltare i caratteri di città internazionale dei traffici e dei capitali altrui. Perciò la Serenissima si trasforma in potenza rentier, mantiene in forma monetaria le eccedenze che poco per volta si trasformano in capitale da credito internazionale, e fatalmente finanzia i concorrenti, specie l’Olanda, che già si è formata una larga base economica locale.
Sarà dunque il polo imperialistico olandese, fra tutti i possibili concorrenti di Venezia, a ricostruire le reti della finanza e del commercio mondiale, fino alle Indie. Alla base dell'esplosione mercantile, produttiva e finanziaria, come sempre c'è soprattutto la produzione di merci richieste specificamente per il commercio estero. Fin dal '200 l'area che va dalle Fiandre alle città anseatiche aveva rafforzato la propria produzione e il commercio estero. L'asse virtuale che collegava la Scandinavia a Venezia attraverso l'anseatica Lubecca rappresentava un volume di scambi proporzionalmente superiore a quello odierno. Salivano verso Nord con il sale e le spezie anche le produzioni raffinate di Francia e Italia, scendevano verso Sud canapa, lana, metalli, pellicce, coloranti. La rivalità era aperta e si contendevano le vie di traffico settentrionali Danimarca, Olanda, Inghilterra e Francia. Ma la Danimarca era stata ridimensionata già nel '300, l'Inghilterra non aveva ancora raggiunto la sua caratteristica potenza navale e la Francia era bloccata da lotte intestine. L'unico paese in grado di offrire con la sua flotta e i suoi capitali il supporto logistico per le merci europee fu così l'Olanda. Con la pace di Utrecht (1475) la Lega anseatica conquistò praticamente il monopolio dei traffici lungo l'asse Baltico-Mediterrraneo e l'aumentato traffico di merci significò aumentata accumulazione di capitale. Tuttavia la Lega anseatica era una federazione tenuta insieme unicamente da una lex mercatoria, mentre l'Olanda era uno Stato che alla prima metà del '500 comprendeva l'Artois, la Fiandra, il Lussemburgo e i territori del Nord fino alla Frisia. Da una parte l'accumulo di un'immensa ricchezza commerciale, dall'altra un accumulo forse inferiore ma accompagnato dalla potenza produttiva e statale. Che si tradusse nella capacità di influenzare lo stesso flusso della ricchezza commerciale e il potenziamento della manifattura interna di trasformazione delle materie prime importate.
Già nella seconda metà del '500 la disponibilità monetaria, unita all'elevato grado di centralizzazione e industrializzazione, aveva permesso all'Olanda la costruzione a livello industriale, con un tipo di organizzazione analogo a quello dell'Arsenale di Venezia ma più evoluto, di una potente flotta. Circa un secolo dopo, però, l'egemonia mercantile e bancaria esigeva ben altri mezzi. E questi vennero introdotti sconvolgendo completamente i metodi produttivi dell'arsenale veneziano. Mentre Venezia era stata costretta a riciclare le obsolete galere militari a propulsione mista (remi e vela) per ottenerne navi da carico, la possente flotta olandese fu composta esclusivamente da innovativi modelli d'imbarcazione militari e soprattutto da trasporto a vela, più leggeri, veloci e capaci, con equipaggi ridotti e quindi meno costosi. Le navi ora erano costruite in serie, su progetto unitario che prevedeva moduli prestabiliti, affidati non a corporazioni di artigiani ma a una massa di lavoratori che erano parte integrante di un sistema industriale. Ciò comportò una differenza qualitativa in grado di affossare per più di un secolo ogni tentativo di concorrenza da parte delle altre potenze.
La flotta olandese è un buon esempio di dialettica dello sviluppo: le condizioni del commercio (concorrenza spietata, pirateria) richiedevano nuovi modelli, e questi influivano sulle condizioni del commercio stesso. A parità di stazza lorda, una nave ben progettata, dall'architettura più leggera, permette di aumentare il numero dei cannoni e soprattutto il tonnellaggio del carico pagante. Il fluiyt, vascello a flauto, 300 tonnellate di stazza, di forma cilindrica, con le murate rientranti e l'armo velico facilmente smontabile, era nato per moltiplicare la possibilità di soddisfare la crescita frenetica del mercato mondiale. Il suo successo produsse il katschip, ancora più semplice, leggero e veloce. Una variante era l'oostvarder: di stazza maggiore, progettato per un pescaggio minimo adatto alle acque basse dei porti olandesi, si rivelò perfetto per risalire gli estuari dei fiumi di paesi lontani. L'Inghilterra, non potendo competere su questo terreno, sul quale arrivò più tardi, sviluppò navi pesanti, però ben manovrabili, veloci e soprattutto armatissime (più di cento cannoni). Gli Stati Uniti, arrivati per ultimi dopo la raggiunta indipendenza, e non potendo affrontare direttamente i loro avversari e le rispettive piraterie, produssero le fregate più veloci dell'epoca e i clipper, nome generico di nave veloce di varia stazza (gli inglesi le imitarono per il trasporto veloce di merci preziose e leggere come il tè e le spezie).
Questa dialettica dello sviluppo, che qui riferiamo alle navi ma che può essere agevolmente utilizzata per comprendere altre dinamiche, come quella militare o quella del credito, va tenuta ben presente nel nostro discorso sulla serie storica dei paesi imperialisti: perché l'integrazione mondiale del giorno d'oggi, quindi il venir meno dei grandi differenziali storici di sviluppo, è il maggior limite alla possibilità di successione nella nostra epoca. Una caratteristica che contribuisce a congelare l'attuale situazione di "predominio asfittico" da parte degli Stati Uniti. Nessun paese emergente può oggi mettere in campo una forza materiale paragonabile a quella navale e bancaria dell'Olanda nei confronti di Venezia o a quella tout court imperialistica dell'Inghilterra nei confronti dell'Olanda.
Tornando all'Olanda constatiamo che, con gli elementi distintivi ricordati, la sua flotta raggiunge la supremazia numerica e tecnica. Nella seconda metà del '500 essa domina già i mari nordici fino al Baltico e quindi i mercati costieri. Non è che l'inizio di una velocissima espansione commerciale e finanziaria in tutto il mondo per più di un secolo. La Compagnia delle Indie Orientali nasce nel 1602, quella delle Indie Occidentali nel 1621. Con la fondazione di Città del Capo, nel 1652, e con lo sviluppo della colonia sudafricana, la concorrenza inglese nell'estremo Oriente è ridimensionata. A questa data l'Olanda possiede il 75% del tonnellaggio navale del mondo. Ma gli strumenti dell'espansione imperialistica non sono solo le flotte e le Compagnie. Con la prima banca di deposito e di sconto internazionale (1609) e con la sua borsa titoli, la prima del mondo moderno, Amsterdam diventa il maggior centro mondiale di traffici e di accumulazione. Nello stesso tempo, l'enorme ricchezza del paese e l'aumento della sua popolazione stridono in confronto alla scarsità di terra, per cui si sviluppano le grandi opere idrauliche per sottrarre al mare aree coltivabili ed abitabili, che permettono di avviare l'agricoltura più intensiva del mondo (presa poi a modello dalla "rivoluzione agraria" inglese).
E siccome la guerra sostiene sempre il commercio, la marina militare olandese è concepita per imporre e difendere le rotte marittime, da quelle orientali a quelle europee fino quelle atlantiche verso il Nuovo Mondo, dove è fortissima la concorrenza di Francia, Inghilterra e Spagna ed esplode il fenomeno indotto della guerra corsara. Parallelamente si sviluppano e perfezionano anche le tecniche militari di terra. L'esercito, diviso in unità tattiche di dimensioni ridotte per agevolare il mantenimento della disciplina, è razionalizzato e disciplinato con esercitazioni all'utilizzo delle armi da fuoco secondo movimenti prestabiliti.
Così, mentre il protestantesimo li assolve da ogni senso di colpa nei confronti della ricchezza accumulata, i capitalisti olandesi allargano la sfera delle loro operazioni in misura maggiore dei predecessori veneziani. Non si limitano a svolgere il ruolo di collegamento fra Oriente e Occidente con i loro rispettivi prodotti tipici, ma cercano di monopolizzare la produzione e il commercio di alcune merci-chiave universali, come i cereali, le spezie, il sale, il vetro, la carta e, non ultimi, gli schiavi per il Nuovo Mondo. Nel frattempo, affrancatasi dai vincoli con la Spagna e proclamata la Repubblica delle Province Unite (1648-50), l'Olanda diventa, con perno su Amsterdam, un emporio e una banca mondiale cui fa riferimento gran parte del commercio estero. La speculazione finanziaria raggiunge il suo culmine e, con l'esplosione dei valori fittizi dei tulipani, ha inizio la follia delle "bolle" moderne, con tanto di futures e derivati. Persino l'arte, che era già stata liberata dai veneziani dall'umanesimo rinascimentale nel '500 e gettata sul mercato, con l'Olanda esplode, mercificandosi definitivamente nel secolo successivo. Milioni di opere cosiddette fiamminghe (all'epoca le Fiandre, oggi divise tra Francia, Belgio e Paesi Bassi, erano inglobate nell'Olanda), prodotte in serie dalle botteghe olandesi e illustranti la vita quotidiana e i fasti della borghesia, imboccano le stesse strade di merci e capitali.
La serie storica: dall'Olanda all'Inghilterra
Fatalmente la lotta per la supremazia nei mari diventa guerra aperta. La Francia tenta di imporre un freno all'esuberanza olandese con una serie di dazi, e lo scontro è inevitabile. Regna Luigi XIV, e il suo alto consigliere per l'economia e la flotta è Colbert. Quest'ultimo scrive nel 1669, tre anni prima dello scoppio della guerra contro l'Olanda:
"Il commercio mondiale si svolge per mezzo di ventimila navi. Questo numero non può essere aumentato. Ogni paese si sforza di ottenerne una quota adeguata e di superare gli altri. Attualmente gli olandesi combattono questa guerra commerciale con quindici-sedicimila vascelli, gli inglesi con tre-quattromila, i francesi con cinque-seicento. Gli ultimi due paesi possono migliorare il loro commercio solo aumentando il numero delle loro navi, e possono farlo solo riducendo quello delle navi olandesi. Si tratta di stabilire chi si impadronirà della maggior parte dello stesso" (citato in Storia del capitalismo americano di Douglas Dowd).
Come si vede, non c'è posto per i numeri di altre potenze, che evidentemente hanno flotte dell'ordine di centinaia. La guerra danneggia più la Francia che l'Olanda, tuttavia Colbert riesce a raddoppiare l'entità della flotta, spremendo i francesi, specie i nobili, con le tasse. Ma non ha alternative avendo l'Inghilterra di Cromwell varato, pochi anni prima, nel 1651 l'Atto di navigazione, con il quale si escludevano tutti i paesi concorrenti dal commercio con la stessa Inghilterra e con le sue colonie. Il provvedimento aveva fatto scoppiare un'altra guerra con l'Olanda (1652) e permesso il potenziamento della flotta inglese, che a sua volta provocò altre due guerre (1665 e 1672). Non sono però le guerre a piegare l'Olanda, che anzi vince le ultime due citate, è proprio l'esuberanza capitalistica.
Come per Venezia due secoli prima, nella seconda metà del '700 per l'Olanda inizia il declino. Le sue navi da carico e da guerra non sono più le migliori, potenti e veloci. I mari sono diventati insicuri, e la difesa delle rotte commerciali contro i rivali che utilizzano al massimo la guerra corsara ha un costo sempre maggiore. L'immane quantità di legname necessaria a rinnovare quello che marciva sotto la linea d'acqua e a costruire nuove navi diventa man mano inaccessibile per una nazione che non ha foreste, e in cui ogni palmo di terra incomincia ad essere strappato al mare con lavori sempre più onerosi per essere dedicato a un'agricoltura sempre più intensiva. L'Inghilterra si prepara ad essere incontrastata sugli oceani delle due rotte d'Occidente e d'Oriente. Sviluppa una marina da guerra micidiale, portando la sintesi nave-artiglieria a livelli estremi, ma anche introducendo innovazioni nelle piccole navi veloci, per vincere nella guerra corsara. Anche l'Olanda deve subire la legge storica secondo la quale nessun impero, per quanto solido, ricco e apparentemente imbattibile, può durare all'infinito. Con la quarta guerra anglo-olandese (1781-84) la residua potenza navale d'Olanda è neutralizzata.
Già da qualche decennio i più grossi mercanti, armatori e finanzieri olandesi si sono ritirati dal commercio per dedicarsi esclusivamente alla finanza. Essi hanno abbandonato Leida, Haarlem, Delft e anche Amsterdam al seguito dei capitali che hanno imboccato la strada verso la più dinamica Londra. Là gli investimenti sono adesso così sicuri e redditizi che nel 1737 i capitalisti olandesi detengono già il venti per cento del debito pubblico inglese, circa 10 milioni di sterline. E un terzo delle azioni della banca d'Inghilterra è nelle loro mani. Alla vigilia della rivoluzione francese, il "cuore" del capitalismo si sposta dunque a Londra, dove il tremendo incontro fra lavoro salariato e capitale internazionale darà luogo alla rivoluzione produttiva che sta alla base dell'imperialismo moderno.
Nel frattempo la potenza inglese quasi non risente né della perdita delle colonie americane (1776), né della sconfitta nella guerra economico-ideologica contro l'esercito rivoluzionario francese (1793). La violenta aggressività dell'imperialismo spinge i paesi allo scontro, ognuno nel tentativo di modificare a proprio vantaggio le quote delle navi e di tutti i "numeri chiusi" alla Colbert (più tardi alla Hobson e alla Lenin). Significativa è la sequenza delle guerre tra Francia e Inghilterra. Ad appena un anno dalla pace di Amiens stipulata con Napoleone dopo la sconfitta delle prime due coalizioni antifrancesi (1802), la guerra si riaccende per mare e per terra (1803). La Francia si allea allora con la Spagna nel tentativo estremo di ottenere l'impossibile contenimento della flotta inglese, ma a Trafalgar le loro flotte vengono annientate (1805). La Francia decreta immediatamente il blocco continentale contro le merci inglesi e naturalmente l'Inghilterra blocca i mari contro il commercio estero francese.
La nuova potenza mondiale è ormai incontenibile. Nonostante le ripercussioni sociali interne dovute al blocco e all'enorme debito nazionale (rivolte, luddismo), l'industria si impone. L'Inghilterra diventa non solo la banca ma anche l'officina del mondo. Nonostante la miseria e lo sfruttamento bestiale, la popolazione, specie il proletariato, incomincia a crescere a livelli inspiegabili con i criteri della semplice demografia malthusiana. È infatti la produzione di valore che nel sistema capitalistico moderno ha come risultato l'aumento della popolazione; la quale solo con questa premessa diventa sovrappopolazione relativa. Benché la potenza dell'Inghilterra sia il risultato dello scontro vittorioso con le altre nazioni europee, il mercato del vecchio continente si fa presto troppo angusto. Il dominio sui mari e l'accumulazione sfrenata impongono una visione più ampia del concetto di mercato. Se il mercato mondiale era stato il prodotto dell'industria, ora ne diventava il fattore. La maggior parte delle esportazioni inglesi prende la via delle ex colonie del Nordamerica, dei paesi latino-americani e delle colonie dell'Asia. Con l'Inghilterra l'imperialismo si avvicina alla sua perfezione astratta. La colonia propriamente detta non ha più la funzione originaria di semplice "sbocco per le merci", ma viene integrata in un sistema economico che comprende i paesi "associati" nel commonwealth e i paesi "altri", liberi ma oggetto di attenzioni da parte dei capitali dei paesi imperialisti. Lenin fa l'esempio del rapporto Inghilterra-Argentina. Poi giunge a concludere che l'imperialismo, a questo punto estremo, non è altro che l'esplosione mondiale della produzione socializzata.
La serie storica: dall'Inghilterra agli Stati Uniti
Partendo dalle Repubbliche marinare la storia delle successioni alla guida del capitalismo mondiale è quella dei livelli crescenti di subordinazione del capitale commerciale al capitale industriale. Con il passaggio del testimone dall'Olanda all'Inghilterra questo processo si compie. Il movimento successivo, quello dall'Inghilterra agli Stati Uniti, previsto e scontato già ai tempi di Marx, assume caratteri inediti. Se con l'emergere della potenza inglese contro l'Olanda, il commercio era stato il terreno fertile per l'esplosione della grande industria, l'emergere della potenza americana contro tutti i vecchi paesi imperialisti segnerà l'era della subordinazione dell'industria al capitale finanziario.
Andiamo però con ordine. Con il trasferimento del cuore del capitalismo dal continente all'Inghilterra, il processo industriale classico si completa. Il mercante, che da tempo non si limitava ad acquistare il prodotto del lavoro per rivenderlo, ma incominciava ad acquistare forza-lavoro per produrre e vendere in proprio, diventa la figura preponderante in quanto capitalista industriale. Ad esso si affianca il banchiere che, alimentando con il credito la grande industria, contribuisce al movimento dalla manifattura a quest'ultima. Tale processo, da Venezia agli Stati Uniti, non è altro che la storia dell'accumulazione, da quella originaria a quella odierna. Ma oggi c'è da chiedersi se il ciclo possa continuare o sia passibile di interruzione.
Come abbiamo visto, la persistenza sulla scena dei protagonisti delle fasi imperialistiche storiche non è eterna, c'è la successione appena ricordata. Allo stesso modo dev'esserci una successione riguardo all'intero ciclo, anch'esso negato alla vita eterna. Il ciclo industriale moderno che si sviluppa dapprima in Gran Bretagna, poi in continente, ha trovato in America la sua massima espressione. Se con l'Inghilterra inizia l'imperialismo moderno come "fase suprema" del capitalismo, con gli Stati Uniti, a rigor di logica, dovremmo avere la conferma che esso finisce. Oltre alla fase con l'aggettivo "suprema" non ve ne potrebbero essere altre in ambito capitalistico. Se non fosse così, dovremmo trovarci di fronte alla situazione paradossale per cui si presentano altri candidati alla prosecuzione della serie storica; e le molte fasi cui essi darebbero luogo sarebbero tutte "supreme". Cosa che comporta qualche problema, non solo di linguaggio.
Non è impossibile che il capitalismo entri in situazioni paradossali e contraddittorie. Esso è il paradosso della nostra epoca per il solo fatto di esasperare la produzione sociale nello stesso tempo in cui esaspera l'appropriazione privata. Ma il concetto di serie storica si basa su una freccia del tempo, sul maturare di processi dinamici che hanno uno sbocco necessario, dipendente cioè dalle determinazioni precedenti. E le determinazioni pongono gli Stati Uniti in una situazione completamente diversa da quella in cui si sono trovati i loro predecessori. La successione mostra di interrompersi. Per capire se è vero e non prendere delle cantonate, non c'è altro modo che lavorare come al solito su invarianti e trasformazioni.
Ancora nel 1880 l'Inghilterra produce più carbone di quanto ne producano insieme Germania e Stati Uniti. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale essa perde questo primato: infatti gli Stati Uniti da soli producono quasi il doppio del carbone inglese. Nel 1900 Germania e Stati Uniti superano l'Inghilterra anche nella produzione di acciaio. La quota della Gran Bretagna nella produzione mondiale (prodotto lordo) diminuirà inesorabilmente passando dal 32% del 1870 al 14% alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, fino al 9% alla vigilia della grande depressione nel 1929. Quella degli Stati Uniti passerà dal 23 al 38% e poi al 42%. Di fronte al rampante capitalismo americano e tedesco, l'Inghilterra non possiede più l'energia necessaria per mantenere la sua egemonia. Insieme alla perdita della supremazia industriale e finanziaria, si manifesta, come nei passaggi precedenti, una "mentalità da rentier". Dato che non sono ormai possibili estesi investimenti produttivi in patria, la borghesia inglese non può far altro che optare per i più sicuri e vantaggiosi investimenti finanziari all'estero, specie negli Stati Uniti. Questa invarianza storica ha rappresentato il filo conduttore nella successione fra le potenze egemoni nel passaggio da un ciclo di accumulazione a quello successivo. Tale dinamica sarà mantenuta anche nel passaggio del testimone dall'Inghilterra agli Stati Uniti.
Il vecchio imperialismo raggiunge dunque un culmine storico nel periodo che va dalla fine dell'800 alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Sulle sue caratteristiche prende forma la teoria dell'imperialismo, da Marx a Lenin, che si condensa nella formula "fase suprema del capitalismo", monopolistica e finanziaria. La formula pone qualche problema, dato che il capitalismo è in quello stadio da più di un secolo; e Lenin è il primo a mettere in guardia rispetto alle definizioni: con un unico termine si può definire un oggetto o una condizione, ma per descrivere un processo occorre almeno una frase. Per questo la nostra corrente, badando al processo e non solo alla definizione, parlò di "imperialismo vecchio e nuovo". L'imperialismo rappresentato da Inghilterra, Olanda, Spagna, Francia, Germania, Italia, Giappone, è quello vecchio. Quello nuovo ha un solo rappresentante: gli Stati Uniti. Non scompare certo la concorrenza fra paesi imperialisti, ma il suo modo di essere comporta un assetto inedito del capitalismo. La nostra corrente individua infatti una dinamica anche nel contesto della "fase suprema". È la dinamica dovuta alla proiezione lontana di potenza, caratteristica di un "imperialismo delle portaerei", che non stacca più semplicemente le cedole del capitale accumulato ma sfrutta a proprio vantaggio il differenziale di sviluppo fra le varie aree del mondo per contrastare, tramite le cosiddette multinazionali, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto.
Dopo la Prima Guerra Mondiale incomincia a saltare il modello degli stati "padroni", delle truppe d'occupazione, delle cannoniere e delle borghesie compradoras. La Grande Depressione colpisce profondamente le società dei paesi imperialisti. La disoccupazione raggiunge il 25% negli Stati Uniti e in Inghilterra. Capitali americani fluiscono in Europa nei paesi dissanguati dalla guerra, specie in Germania. Il vecchio sistema coloniale tiene ancora, ma esplodono contraddizioni interne ai paesi che ne sono protagonisti, i quali stentano a controllare la situazione per carenza sia di potere che di capitali. La Germania si impone in pochi anni come potenza produttiva, e la limitata possibilità di espansione fisica del proprio mercato la obbliga immediatamente ad esprimere una sua teoria di "spazio vitale". Con tutte le varianti ideologiche che si vuole, è una teoria analoga a quella rooseveltiana del "Destino manifesto" e della "Missione civilizzatrice". Il Giappone segue a ruota. L'Italia, che aveva partorito l'esperimento fascista, copiato poi da tutti, si adegua. Il percorso iniziato nel 1898 con la guerra degli Stati Uniti alla Spagna è completato.
Ma non possono esservi sei o sette paesi imperialisti globali. Gli Stati Uniti aspettano fino al 1941 poi vibrano il colpo finale. Non solo ai "nemici": anche e soprattutto agli alleati. Vinta la guerra, nemici e amici vengono colonizzati alla nuova maniera americana: capitali, sviluppo, merci e Hollywood alle ex potenze che forniscono plusvalore di ritorno; miseria sottosviluppo e rapina accresciuti agli altri disgraziati paesi che non servono ai piani imperialistici o non hanno da offrire altro che materie prime. Il tutto senza governare direttamente i paesi occupati (gli sconfitti della Seconda Guerra Mondiale lo sono ancora adesso con decine di migliaia di soldati in casa) e senza oppressione politica diretta.
Oggi si registra dunque un'anomalia rispetto ai cicli precedenti. Gli Stati Uniti sono ormai assestati come unico paese rentier, ancora potentissimi, ma decisamente in declino rispetto alla loro passata influenza economica diretta (percentuale del prodotto totale del mondo). In tale situazione non rispecchiano i caratteri presenti nei paesi imperialistici dominanti nella serie storica precedente (Venezia, Portogallo, Olanda o Inghilterra). Se ci limitiamo al rapporto fra gli USA e la Cina, cioè l'unico paese che al momento potrebbe, teoricamente, aspirare alla successione, il flusso di capitali ha invertito la sua direzione: non va più dalla potenza in declino verso il paese emergente ma è quest'ultimo a finanziare il primo. Lo stesso fenomeno si osserva comunque allargando lo sguardo verso altri paesi, dall'Europa al Giappone. Il meccanismo di accumulazione mondiale appare stravolto e la serie storica mostra chiaramente un limite. Gli Stati Uniti, infatti, sembrano essere l'ultimo anello di una catena che ha portato infine a una situazione in cui le sovrapposizioni della staffetta imperialistica (il tratto di percorso sufficiente al passaggio del testimone) svaniscono, e appare compiuto il tragitto verso un sistema mondiale integrato di produzione, di scambio mercantile e di flussi finanziari. Ed è una situazione assai critica, perché di fronte a un mercato ormai globale si riproducono a scala altrettanto globale tutte le contraddizioni classiche del modo di produzione capitalistico.
La cautela è d'obbligo, dato che in assenza di scontri fra le classi anche questa specie di "imperialismo a un esponente solo" può darsi ossigeno distruggendo capitale e forza-lavoro e riattivando così il suo ciclo storico infernale; ma certo è difficile tracciare scenari a medio termine diversi da quello che abbiamo sotto agli occhi. Mentre il fulcro del mercato mondiale si è spostato verso il Pacifico, dove la Cina ha assunto il ruolo di "fabbrica del mondo", le leve del sistema finanziario e la potenza politico-militare, come s'è visto, rimangono saldamente nelle mani del paese imperialista in declino. La potenza emergente della Cina non è in grado di riunire finanza, industria e supremazia politico-militare in un unico centro di controllo. Si fa sempre più evidente un modello globale assolutamente schizofrenico in cui vige una planetaria divisione del lavoro, sociale e tecnica, fra paesi che sono simultaneamente antagonisti e complementari, nazionalisti e globalizzati. Caso estremo proprio gli Stati Uniti, che sono egemoni ma dipendenti dal capitale altrui.
Nelle serie storiche del passato, fattori importanti del crollo dell'egemonia erano sia elementi tecnici, come lo sviluppo dell'artiglieria, delle flotte, delle banche di stato e del macchinismo, sia geografici, come le nuove scoperte in grado di reindirizzare le rotte per le merci. Oggi non v'è innovazione tecnica che non diventi subito patrimonio comune, a parte la potenza necessaria, da parte delle nazioni, a utilizzarla al massimo dell'efficienza. E ormai è fenomeno del passato la scoperta di nuove rotte per le merci. Così è un fenomeno del passato il sorgere di nuove egemonie imperialistiche basate sull'aumento della potenza economica, politica e militare che scalzano quelle precedenti. Era sembrato ad un certo punto che vi fosse un bipolarismo USA-URSS, ma era un mito coltivato dagli Stati Uniti a fini di politica imperiale. Il colosso russo aveva di fatto piedi d'argilla, e assolutamente nulla avrebbe potuto fare nel caso di un vero scontro economico e/o militare con il suo avversario; e questo spiega anche la fossilizzazione dello scontro, che prese due vie estreme, quella della guerra per procura attraverso popolazioni utilizzate come carne da macello e quella del terrore atomico. È naturalmente un fenomeno assai significativo la clamorosa assenza della (dis)Unione Europea sullo scacchiere mondiale, nonostante i vecchi paesi imperialisti avessero fatto da chioccia al blindatissimo pulcino della supremazia americana manifestando una violenza non certo inferiore alla sua.
Separazione della finanza dall'industria
La separazione della finanza dall'industria non è una novità. Naturalmente non può esserci l'una senza l'altra, ma il processo di autonomizzazione del Capitale comporta il distacco della sfera monetaria da quella della produzione facendola apparire come una sovrastruttura a sé. Che ad un certo punto incomincia ad agire materialmente, tramite i suoi operatori, come se fosse veramente l'asse portante della società. In questa fase storica dunque non è tanto la separazione a comportare effetti sull'economia politica – ciò avveniva già ai tempi di Marx – quanto la nuova forma in cui la separazione oggi si presenta.
Con lo sviluppo del sistema del credito, delle società per azioni e della proprietà "diffusa" di capitali, nel capitalista si radica una mentalità indifferentista di fronte alla natura del guadagno: profitto e interesse per lui pari sono. Anzi, ormai anche l'insieme dei profitti di una grande azienda multinazionale è trattato alla stregua di interessi: vi sono aziende dal robusto passato di accumulazione industriale classica, come la Toyota, trasformate in rentier, dato che incassano più interessi da investimenti in titoli vari, compresi quelli di stato, che profitti dalla loro produzione.
L'indifferenza epocale del capitalista per l'origine del suo surplus ha conseguenze notevoli sia sul comportamento dei singoli capitalisti, sia su quello dell'intero sistema, compresa la politica degli Stati. Per Hobson, Hilferding, Bucharin e Lenin, che in ordine cronologico si sono occupati della relazione tra finanza e imperialismo, il capitale finanziario era ancora "la simbiosi fra banca e industria". Il mondo della finanza aveva la funzione di racimolare capitali nella società per fornirli alle imprese, fungeva da mediatore fra domanda e offerta di capitali. Anche se il sistema non era esente da speculazione e truffa, lo sviluppo della produzione e del consumo, degli investimenti e degli scambi era perfettamente complementare a quello delle banche e delle borse valori. E questo rapporto non era disturbato più di tanto dal potere politico, che aveva una blanda funzione di controllo, almeno fino a quando non è subentrata una legislazione sempre più invasiva prodotta dagli Stati, sfociata infine in una esaltazione del potere esecutivo, cioè nei fascismi universalizzati fra le due guerre mondiali.
Siccome il processo è storico, quindi irreversibile, la relazione di reciprocità fra capitale industriale privato e capitale azionario e bancario è stata sostituita definitivamente dalla totale sottomissione dell'industria da parte del Capitale, nel frattempo diventato completamente autonomo e globale. La cosiddetta finanziarizzazione dell'economia, infatti, relega i movimenti industriali e commerciali ad una quota irrilevante nel movimento totale dei capitali. Quello che era un mero riflesso dei rapporti reali sul comportamento dei capitalisti e degli Stati è diventato il modo di essere del capitalismo. La struttura di produzione del valore non è cambiata, ma l'economia politica sì. Il capitalismo non potrà mai più ritornare al "capitale finanziario" di Hilferding, il quale, sull'onda del giovane capitalismo tedesco, lo vedeva ancora come potenziale investimento industriale (mentre Hobson, analizzando il maturo capitalismo inglese, lo vedeva già come prodotto e fattore del moderno imperialismo).
Nel momento in cui il Capitale detta legge e si alloca nel mondo obbligando gli uomini a seguire le sue mosse e a fornirgli la legislazione adatta, sempre che semplicemente non si rassegnino impotenti davanti alle sue scorrerie, diventa persino assurdo parlare di "esportazione di capitali" come un tempo. Normalmente l'esportazione di capitali è un effetto dell'esportazione di merci. Infatti le crisi specificamente capitalistiche sono sempre state di sovrapproduzione di merci e quindi di capitali. La Cina è il maggior paese esportatore del mondo, ma il 60% delle merci che invia all'estero sono prodotte da fabbriche di aziende multinazionali con sede in altri paesi di più vecchio capitalismo. Ovviamente la Cina ci "guadagna" e accumula denaro sia con la propria produzione che con quella altrui. Come si può definire "esportazione cinese di capitali" in senso classico, il flusso di valore che deriva dai profitti delle multinazionali estere in Cina? O quello che deriva dal surplus dell'export propriamente cinese che si orienta verso gli altri paesi (specie gli Stati Uniti)? In un mondo globalizzato tale definizione non ha più senso, anche se ovviamente i capitali rimangono di "proprietà privata" e il privato borghese è registrato all'anagrafe di qualche nazione specifica. Ma sentiamo cosa dice Hobson, nel suo tempo (1902), di questi "privati" borghesi. Subito dopo riporteremo le sue considerazioni all'oggi:
"Ogni grande atto politico che coinvolga un nuovo flusso di capitale o una grande fluttuazione nel valore degli investimenti attuali deve ricevere il nulla osta e l'aiuto pratico di questo piccolo gruppo di re della finanza. Questi uomini, maneggiando la propria ricchezza e il capitale che controllano, hanno un doppio compito: primo come investitori, e secondo, soprattutto, come rappresentanti della finanza. In quanto investitori la loro influenza politica non è praticamente diversa rispetto a quella di altri investitori, tranne per il fatto che normalmente hanno il controllo delle attività in cui investono. In quanto speculatori e rappresentanti della finanza essi costituiscono il più decisivo singolo fattore nell'economia dell'imperialismo" (John A. Hobson, Imperialism, a study).
Secondo Hobson la famiglia Rothschild, con la sua rete internazionale di interessi, era in grado addirittura di rappresentare un elemento decisivo nelle guerre fra stati importanti. Oggi di "famiglie Rothschild" ne esistono ancora, ma la struttura della massa monetaria nel mondo e il suo rapporto con la finanza com'era intesa allora sono tali da impedire quella personalizzazione del Capitale così ben descritta nel brano citato. La Banca Mondiale, in occasione della crisi attuale, ha calcolato che la massa monetaria rappresentata dai soli derivati OTC (Over the counter, fuori mercato ufficiale) è di 683.000 miliardi di dollari. Siccome le transazioni su derivati di quel tipo rappresentano il 60% del totale, se ne deduce che la massa complessiva solo degli strumenti finanziari di questo tipo è intorno al milione di miliardi di dollari. Nessuno sa esattamente quale sia la massa di capitale "finanziario" (nell'accezione attuale) esistente nel mondo – derivati, azioni, titoli di stato, obbligazioni, ecc. –, tant'è vero che le cifre fornite dagli istituti come quello citato, sono "nozionali", cioè stime. Anche il PIL mondiale è una stima, dato che non tutte le nazioni hanno adottato gli stessi criteri di calcolo, ma il suo ammontare, a differenza degli strumenti finanziari di vario tipo, è abbastanza sicuro: 50.000 miliardi di dollari correnti. Quindi nel mondo si produce ogni anno un valore totale pari a un ventesimo (5%) del solo capitale fittizio impiegato nei derivati. Siamo probabilmente vicini a un rapporto PIL mondiale/massa del capitale fittizio intorno all'1-2%.
La nostra stima è confermata indirettamente da un dato ufficiale: solo il 2,5% delle transazioni monetarie nel mondo rappresenta un movimento reale di beni e servizi; il 97,5% è movimento finanziario senza corrispettivo, cioè nell'ambito della sfera finanziaria stessa. Oggi dunque il capitale finanziario alla Hobson, Hilferding, Bucharin e Lenin, cioè il capitale da investimento dei "predoni imperialisti", è assolutamente ininfluente rispetto alla natura del Capitale autonomizzato e globalizzato. Nessun Rothschild potrebbe competere con uno qualsiasi dei fondi pensione. E questi ultimi fanno parte di una catena inestricabile di fronte alla quale la cosiddetta esportazione di capitali privati non è che una goccia nel mare.
Invece in passato, quando la produzione aveva ancora tassi d'incremento significativi, le esigenze dell'accumulazione stabilivano quanta parte del risparmio disponibile dovesse essere utilizzata per gli investimenti, intesi in primo luogo come produzione di plusvalore nell'industria e solo secondariamente come capitale per il commercio di capitale e derivati monetari. I capitalisti erano fisicamente alla guida delle loro aziende oppure avevano i loro rappresentanti all'interno dei consigli d'amministrazione sia delle banche sia delle industrie. Il capitale finanziario era concentrato nelle mani di una ristretta e potente oligarchia saldamente legata al potere statale. Questa visione del capitale finanziario è particolarmente viva in Hilferding, mentre Hobson già avverte che l'imperialismo non si riflette tanto nelle sparate del primo Roosevelt sul "destino manifesto" o sulla "missione civilizzatrice" degli Stati Uniti quanto nelle esigenze reali dei grandi capitalisti. Egli infatti tratta il Capitale come un'entità sociale in espansione sul mondo intero, alla quale necessita solo di conseguenza anche un'ideologia (che peraltro individua già operante nella scuola pubblica americana).
Comunque sia, per spiegare i fenomeni socioeconomici Hobson e Hilferding, a otto anni di distanza l'uno dall'altro (1902; 1910), devono ancora far ricorso all'esistenza di gruppi di capitalisti particolarmente determinati e in grado di influenzare le scelte dei governi tramite il loro intervento diretto o attraverso lobby potenti. Oggi questa oligarchia non esiste più. Il Capitale è diventato completamente impersonale e semmai ai capitalisti è subentrato quell'esercito di funzionari stipendiati di cui parlava già Engels. Al di sopra di essi, un ceto di supermanager sanguisuga approfitta del potere individuale conferitogli dal capitalismo "diffuso" per arricchire spudoratamente senza alcuna preoccupazione per il futuro delle aziende amministrate. Tuttavia questo fenomeno di ricchezza esagerata riguarda poche centinaia di individui. In generale le vecchie oligarchie capitalistiche hanno lasciato il posto a un sistema complesso e caotico d'interessi anonimi, gestiti da schiere di impiegati e tecnici che rispondono soltanto alle esigenze automatiche del mercato e non a "padroni". La funzione del capitalista individuale è stata definitivamente eliminata, e persino i più potenti governi rispondono al mercato dei capitali con modelli ricavati dal movimento del mercato stesso. In tal modo tutte le nazioni sono legate a fenomeni micidiali di autoreferenza dei mercati, i quali diventano ingovernabili. Come dimostra questa crisi, a causa di tale ingovernabilità un eccesso di credito provoca sconquassi e si trasforma improvvisamente in un azzeramento del credito stesso, per cui i governi, schiavi degli automatismi internazionali, non trovano soluzione migliore che intervenire per… stimolarlo!
Il circolo vizioso che segna la fine di un'epoca
La perdita di autonomia da parte di capitalisti e governi li precipita tutti in un meccanismo in cui ognuno è dipendente dall'altro, per cui la serie lineare della successione storica si interrompe a causa dell'impossibilità di stabilire rapporti gerarchici alla stessa scala storica. Nella attuale crisi tutti gli Stati hanno dovuto prendere provvedimenti, come ad esempio la inedita decisione di abbassare sincronicamente il costo nazionale del denaro nell'autunno del 2008. I sintomi di sincronia erano comunque già visibili prima, e più profondi. Ad esempio l'andamento della produzione industriale è da anni vicino ai minimi incrementi, ma con variazioni sincronizzate fra tutti i paesi, a parte la Cina. Ciò è importantissimo perché il saggio d'incremento della produzione industriale è l'indice dell'andamento del saggio di profitto e, se tra i capitali sparissero del tutto le differenze di capacità (o possibilità) di valorizzazione, la vitale concorrenza lascerebbe il posto a un asfittico tentativo di sopravvivenza, i capitali non potrebbero più spostarsi nei vari paesi, o anche all'interno di essi, alla ricerca del miglior profitto.
Ne conseguirebbe una mortifera sincronia dell'andamento economico e delle politiche nazionali, la quale avrebbe un suo risvolto anche nella politica internazionale. Qualche effetto già si vede nella mancanza di spinta propulsiva della guerra sull'economia americana, nell'enorme costo delle piccole guerre e delle 800 basi militari USA sparse per il mondo e indispensabili per la dottrina di proiezione lontana della potenza. L'appello universale degli Stati Uniti per la cosiddetta guerra al terrorismo è indice di una situazione nuova. La maggiore potenza del mondo, la nazione imperialista per eccellenza, il centro egemone attorno al quale gira il pianeta, maschera la propria impotenza a fare la guerra da sola propugnando la partecipazione collettiva dei "paesi liberi" alla crociata democratica contro il Male. Senza i milioni di soldati di leva necessari, la guerra aziendalizzata e condotta da professionisti pagati costa enormemente. Quella dell'Iraq, scatenata senza saperla né poterla vincere è già costata 3.000 miliardi di dollari. E nel conto bisogna aggiungere la guerra d'Afghanistan che, tra un massacro di civili e l'altro, langue allo stesso modo. Ora, qualcuno afferma che lo scopo delle due guerre non è quello di combatterle e vincerle ma di farle durare per destabilizzare il mondo. Non siamo d'accordo.
Queste sono guerre che gli Stati Uniti hanno perso, non a causa della forza altrui ma della debolezza propria. Ci sono metodi meno impegnativi e costosi per balcanizzare il mondo, come mezzo secolo di guerra fredda insegna e come si tocca con mano in Europa. Con tutta evidenza gli Stati Uniti sono invece nella condizione di non poter più far corrispondere la loro azione politico-militare alle dottrine che la ispirano, come già aveva dimostrato sul campo la guerra del Vietnam. Le dottrine adottate dalla borghesia americana sotto l'amministrazione Bush – e non rinnegate dall'attuale – sono in netto contrasto con capacità e possibilità di realizzazione. La spesa militare è sempre stata un elemento anticongiunturale eccellente, specie per gli Stati Uniti. Ma adesso è un elemento critico invece che vantaggioso, anche perché essa si somma a quella sostenuta per immettere liquidità nel sistema bancario e produttivo per via della crisi. L'Economist del 16 maggio scorso pubblica una copertina dal titolo "Tremila miliardi di dollari dopo", dove sono raffigurati dollari in fiamme che piovono dal cielo. È la cifra che gli Stati hanno anticipato alle banche e alle industrie contro la crisi. Nell'articolo all'interno ci si chiede dove siano finiti tutti quei soldi. Bruciati? Almeno la metà erano americani. Con il costo delle guerre arriviamo quasi a metà del PIL americano in pochi anni e non si capisce chi possa pagare.
In tale contesto la dottrina di guerra americana è tecnicamente nuova ma imperialisticamente analoga a quelle elaborate a cavallo del 1900. Solo che oggi l'imperialismo in generale è in una situazione ben differente rispetto a quella dei due momenti di slancio planetario decisivo, sotto i due Roosevelt (1898 e 1941). Ed è ben differente anche rispetto a quella della delineata serie storica, in cui paesi egemoni diventati rentier lasciavano il testimone a nuovi produttivi protagonisti. Oggi gli Stati Uniti sono un paese rentier solo per quanto riguarda la capacità di convogliare valore altrui a casa propria: non tanto in base a capitali americani presenti negli altri paesi, capitali da cui si ricava un interesse, quanto grazie al contesto economico, politico e militare scaturito dalla vittoria nella Seconda Guerra mondiale. Non c'è dubbio che la potenza americana poggi su mezzo secolo di superiorità produttiva, e quindi economica e militare, ma oggi i veri stati rentier sono semmai quelli creditori, cioè quelli che, Cina in testa, prestano agli Stati Uniti le loro eccedenze in cambio di un interesse che gli americani pagano lasciando crescere il loro debito pubblico e privato.
Si tratta di un circolo vizioso infernale, perché lega come al solito il creditore al debitore, solo che nella condizione di "incatenati" si trovano in questo caso i maggiori stati del mondo. È facile intuire che una rottura di un tale fragilissimo equilibrio non potrebbe essere altro che catastrofica. Per di più quello appena descritto non è l'unico caso di equilibrio a rischio di rottura. La popolazione americana, ad esempio, è indebitata per un ammontare complessivo quasi pari al PIL degli Stati Uniti. Ciò significa che ogni americano è indebitato in media per tanti dollari quanti ne guadagna in un anno (PIL/occupati = reddito pro-capite medio; somma dei redditi diversificati individuali = PIL). Gli americani si indebitano tramite le carte di credito, e anche i loro debiti, sui quali pagano interessi salati come coloro che hanno acceso mutui subprime, sono cartolarizzati e impacchettati in strumenti finanziari. Nessuno sa quantificare il fenomeno, ma si stima che questa cartolarizzazione sia da una a due volte superiore a quella dei mutui subprime. Tra l'altro stanno crescendo le insolvenze anche nel campo dei mutui "normali". E non è finita: le operazioni con strumenti finanziari complessi sono per così dire assicurate tramite altri strumenti finanziari che dovrebbero garantire da perdite troppo elevate; ma anche le società di assicurazione sono presenti sul mercato finanziario e si assicurano a loro volta con strumenti-salvagente. Il circolo vizioso si allarga a dismisura. Una particolare forma di assicurazione sono i fondi specializzati per l'assistenza sanitaria e la pensione. Soprattutto negli Stati Uniti sono particolarmente potenti e gestiscono una gran quantità di denaro. Tramite questi fondi il sistema finanziario rastrella minuziosamente le tasche dei cittadini, trasformando ogni dollaro, inutile di per sé, in capitale. Ma anche in questo caso il fenomeno, nato per sostenere e stimolare il sistema produttivo, si è trasformato in un istituto parassitario rispetto al sistema produttivo stesso.
Vale la pena di vedere velocemente com'è andata. Una legge del 1933 (varata in seguito alla crisi del 1929) separava nettamente le casse di risparmio (che non potevano più acquistare azioni) dalle banche d'affari (alle quali era proibito raccogliere risparmi al minuto). Con la crisi del 1975 e la successiva deregulation reaganiana degli anni '80, questo divieto è stato rimosso. Al Capitale, messo di fronte alla dura legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, urgeva esasperare la raccolta di "capitali rimasti liberi nella società" per renderli produttivi di profitto o interesse. Ogni dollaro andava bene, attraverso qualsiasi istituto, dalle banche di qualsiasi tipo ai fondi d'investimento tradizionali, ai fondi privati chiusi, ai fondi pensione, ai brooker privati. L'operazione, a parte qualche evento penale clamoroso, funzionò: sull'onda del successo, si strutturò un sistema finanziario rapace e vampiresco, ma capace di utilizzare il poco profitto che veniva dalla sfera produttiva per garantire l'enorme massa di capitale fittizio che pagava sé stesso... moltiplicandosi e permettendo di scrivere nei bilanci un enorme aumento di profitti virtuali (ovviamente reali per chi li intascava al momento) passibili di cancellazione allo scoppio delle ricorrenti bolle.
Negli anni '80 esplose il fenomeno del Takeover, cioè delle scalate verso buona parte delle 6.000 società quotate nella borsa di Wall Street. L'obiettivo non era tanto l'investimento produttivo, come s'è visto, quanto l'utilizzo delle aziende come base di lancio per l'aumento del valore virtuale delle loro azioni in borsa, che forniva ai capitalisti l'illusione di una creazione di valore autentico. I consigli d'amministrazione di aziende così brutalmente "adoperate" divennero i garanti degli interessi di azionisti-speculatori, "padroni" magari per qualche giorno di quote di fabbriche mai viste.
I fondi pensione meritano un discorso a parte. Non sono altro che piani di risparmio (di salario o altro reddito) in cui il finanziamento e il rischio sono trasferiti interamente al privato sottoscrittore, ma svolgono un ruolo centrale nello sviluppo della finanziarizzazione mondiale. Quelli americani gestiscono da soli quasi diecimila miliardi di dollari, la metà dei quali investiti in azioni, cosa che li ha portati, prima della crisi, ad essere "proprietari" di oltre il 30% del valore borsistico delle 6.000 aziende quotate a Wall Street (nel 1950 ne possedevano il 3%). Il fondo dei dipendenti pubblici californiani, il più grande del mondo, controlla ad esempio un patrimonio di quasi 250 miliardi di dollari, proveniente da un milione e mezzo di sottoscrittori, avvalendosi di 2.500 impiegati. Quasi il 70% del portafoglio viene investito in azioni, il resto in obbligazioni e immobili.
Il Fondo Pensione del New Jersey è il secondo in classifica. Gestisce circa 70 miliardi di dollari allo stesso modo di quello della California. E ci sono i fondi degli altri 48 stati, i fondi di aziende "private" come la General Motors, ecc. Con il corollario di migliaia di altri fondi istituzionali e privati. Ci vuol poco a capire che Wall Street è controllata dai fondi d'investimento, che siano finalizzati alla pensione, alla sanità, al risparmio o alla speculazione non importa. E a capire che il mondo intero si sta adeguando. E a notare che adesso ci si mettono anche gli Stati con i loro fondi sovrani. I Rothschild, i Rokefeller o i Morgan citati da Hobson non contano più nulla. Non ci sono più "briganti imperialisti" individuabili in uomini, lobby o Stati. O meglio, ci sono ma devono sincronizzarsi alla musica dettata dal Capitale. Anonimo, ma più spietato dei già spietati suoi padroni di un tempo.
Il circolo vizioso si chiude su sé stesso, per definizione. Giunti a questo punto la serie storica non può continuare. È venuta meno la struttura che la permetteva, cioè la possibilità di individuare i due protagonisti del passaggio, il paese imperialista decadente e quello in ascesa. Gli Stati Uniti sono in decadenza nella proporzione del PIL, della quota di commercio e anche del welfare, pur non avendo rivali in potenza finanziaria, politica e militare. La Cina, unico candidato ipotizzabile per la successione, si trova in posizione invertita rispetto ai predecessori, finanzia il paese che dovrebbe essere rentier invece di esserne finanziata.
Ma questi aspetti sono secondari, rispetto al punto centrale. La cosiddetta globalizzazione (che noi preferiamo chiamare imperialismo) ha integrato il capitale mondiale rendendolo sempre più autonomo rispetto alle decisioni degli uomini, ridotti a macchinette di servizio. È questo che rende la successione tra paesi quasi impossibile: se la forma sociale attuale ingloba in un unico sistema i maggiori paesi del mondo, ad essa potrebbe succedere solo un "altro mondo". Saremmo alla realizzazione di quella che per Lenin era solo una metafora: l'involucro che non corrisponde più al suo contenuto. Questo sistema unico non potrebbe essere amministrato da una sola nazione ma da un'Internazionale Capitalistica, un assurdo, appunto. Ci sono dei tentativi, la cui riuscita anche parziale sarebbe già l'avvio di una forma sociale diversa. E non s'è mai visto nella storia umana un evento del genere senza lo scontro violento fra le classi principali.
Finanza internazionale
Ma siamo davvero di fronte a una forma capitalistica estrema, così integrata alla scala planetaria, così assurda da poter essere solo erede di sé stessa? Non presenta forse il mondo attuale ancora sufficienti differenziali di sviluppo, tali da permettere una ripetizione dei cicli passati? In fondo vi sono sul tappeto scenari plausibili: la Cina rappresenta il 10,6% del PIL mondiale, gli Stati Uniti il 21%; se dovesse continuare il trend attuale, essa raggiungerebbe gli Stati Uniti entro una quindicina di anni, dopo di che l'India potrebbe raggiungere a sua volta la Cina in tempi ancor più brevi. E l'Europa potrebbe bruciare tutti sul tempo unificandosi effettivamente e ponendosi fin da ora come successore imperialista credibile.
Come si sa, in una indagine scientifica non si devono scartare ipotesi che abbiano in sé anche la pur minima probabilità di verificarsi in base a presupposti dati e non immaginati. Ma ogni ipotesi dev'essere inquadrata nella dinamica che precede l'evento previsto. E la dinamica attuale lascia poco spazio alla probabilità che la successione storica continui con i caratteri della serie precedente. Non vi sono candidati sufficientemente attrezzati e soprattutto diversi. Marx già nel Manifesto prevede un "appiattimento" del mondo in seguito alla necessità di espansione del capitalismo, che tutto travolge. Alcuni autori sostengono che tale previsione non ha retto alla prova empirica, e che anzi le differenze fra paesi sono aumentate. Giusto: il differenziale di sviluppo geostorico è infatti da Marx altrettanto previsto. Si tratta di una così madornale contraddizione?
Nessun paese è completamente capitalistico, nemmeno gli Stati Uniti. Ponendo il rapporto capitalistico puro (società a due sole classi, capitalisti e operai) al 100%, la nostra corrente aveva calcolato il grado di purezza del mondo capitalistico degli anni '50. Nessun paese arrivava al 50% tranne l'Inghilterra. Oggi un paese come gli Stati Uniti, che ha il 20% degli occupati nell'industria e quasi l'80% nei servizi (0,9% all'agricoltura), si troverebbe paradossalmente ad avere un grado di purezza inferiore a quello misurato mezzo secolo fa, a causa della proliferazione di attività fittizie che servono soltanto a mascherare la sovrappopolazione relativa e assoluta. Ma ragionare a quel modo sarebbe evidentemente una sciocchezza. Quello che conta è il carattere dominante, non la percentuale nuda e cruda. E il carattere dominante ci dice che anche il più sgangherato o arretrato fra i paesi ha rapporti di capitalismo ultramaturo con il resto del mondo.
Soprattutto le differenze fra paesi capitalistici avanzati, pur presenti e apparentemente notevoli, sono in realtà insignificanti. In USA, Australia, Canada, Inghilterra i fondi pensione e le compagnie assicurative dominano il mercato mobiliare controllando circa il 50% della capitalizzazione in borsa. Se negli Stati Uniti dominano i fondi pensione, in Inghilterra dominano le assicurazioni sulla vita (il 60% del risparmio), ma dal punto di vista dell'autonomizzazione e spersonalizzazione del Capitale, con le relative conseguenze sul mercato finanziario, non cambia nulla. In altri paesi capitalisti che accusano un forte "ritardo" in questo campo, come l'Italia, i cittadini allocano il risparmio privato presso le banche, le quali lo trattano alla stregua di capitale finanziario esattamente come altrove. Tra l'altro il suddetto "ritardo" sarà di breve durata, visto che esso rappresenta un'apertura di mercato per chi già opera in quel settore. Se lo stato italiano controlla il 30% della capitalizzazione in borsa – alla faccia del liberismo – i gruppi "stranieri" ne controllano il 20% occupando il secondo posto. Fino agli anni Ottanta e Novanta, i protagonisti delle acquisizioni di aziende erano borghesi ben conosciuti, anche se spesso già le controllavano non detenendo che il 2 o 3 per cento delle azioni. Oggi la proprietà tende a spersonalizzarsi ulteriormente. Sempre più spesso, dietro i consigli d'amministrazione troviamo il capitale anonimo internazionale, qualche tipo di fondo. Alla fine del 2004, ad esempio, i private equity founds internazionali risultavano proprietari di 1.150 aziende italiane, con un investimento diretto complessivo di oltre 9 miliardi di euro. La caratteristica fondamentale di questi "padroni senza volto" è che, di solito, acquisiscono le partecipazioni nelle aziende nella completa indifferenza rispetto alla produzione delle stesse. L'obiettivo è quello di comprare e rivendere entro breve tempo giocando sull'andamento dei mercati per pura speculazione. I private equity founds in Italia hanno reso mediamente circa il 17% all'anno nell'ultimo decennio, e sappiamo che un costante rendimento al di sopra del saggio d'interesse o di profitto medio non è altro che ripartizione di valore altrui. Per arricchire oltre la media un pugno di capitalisti finanziari occorre riuscire a strappare un piccolo sovrapprofitto magari da un milione di operai.
Ma non si tratta soltanto di un capitalismo feroce, caratterizzato dall'ossessione degli speculatori per i rendimenti a breve termine. Questo è il modo di essere del capitalismo moderno, gli speculatori non sono che una conseguenza. Anzi, gli Stati li assecondano in tutti i modi aprendo o chiudendo i rubinetti della liquidità a seconda dell'andamento dei mercati, dando luogo a quella che il grande speculatore internazionale George Soros chiama popperianamente "riflessività": qualunque possessore di capitali che non basi più il suo "guadagno" sulla semplice produzione alla maniera ottocentesca agisce sulle condizioni del mercato influenzandolo; se l'economia si surriscalda, gli Stati intervengono con una stretta monetaria; se si raffredda, iniettano liquidità nel sistema regalando il denaro come sta succedendo in questo momento. Gli "operatori", cioè tutti i capitalisti che contano, lo sanno, e quindi agiscono sulle aspettative che essi stessi fomentano. Giocando indifferentemente al ribasso o al rialzo mandano il sistema in fibrillazione caotica. Al gran tavolo del poker economico i grandi accaparrano le vincite, i piccoli rimangono spennati. Garantisce la bontà delle fiches la produzione dietro le quinte. Ma non basta, perché troppi poggiano sul tappeto dei "pagherò" non onorabili. Quando le cose si mettono proprio male rimangono spennati tutti quanti, perché il Capitale agisce come se sapesse che gli eccessi vanno ogni tanto cancellati. Rimane il fatto che da decenni la struttura del sistema quella è; e ai bei tempi non si torna più:
"La caratteristica del Capitale è che esso non ha bisogno di muoversi se non simbolicamente, sotto forma di telegrammi radio e al più di pochi rettangolini di carta stampata. Resta a casa, da lì sfrutta ed opprime. Il capitale non è [più] un elemento integrativo della produzione, è un titolo che consente di sfruttarla appostandosi nei passi obbligati" (PCInt., "Punti democratici e programmi imperiali", Battaglia Comunista n. 2 del 1950).
A salvare la successione non ci sono più rotte per nuove Indie, flotte rivoluzionate da nuove tecniche armatoriali e marinare, sconvolgimenti epocali nel passaggio dalla manifattura alla grande industria. Quando in Olanda si arrivò al punto di pagare un bulbo di tulipano al prezzo di una casa di lusso, i maggiorenti delle principali città riuniti in assemblea decisero di equiparare i contratti esistenti e le opzioni per la futura coltivazione al gioco d'azzardo, che era proibito. La fine della follia fu decretata a tavolino. Ma era il 24 febbraio del 1637. Oggi i maggiorenti dei principali 20 paesi del mondo si sono ritrovati per cercare di capire che cosa fare di fronte a una montagna di capitale fittizio pari a 50, 100 o 200 volte – nessuno lo sa – il valore di ciò che il mondo produce in un anno. E hanno deciso di fabbricare altra moneta virtuale affinché la montagna non crolli. Tutti i paesi, decadenti e rampanti, si sono trovati vilmente uniti nella conservazione. Neanche l'ombra di una lotta per la successione. Ecco che cosa dice il riassunto introduttivo delle 246 pagine del Global Financial Stability Report preparato dal Fondo Monetario Internazionale per i governi del mondo che conta, riuniti in gran pompa al G20 di primavera 2009:
"Nel breve periodo, le tre priorità identificate nel precedente GFSR ed esplicitamente riconosciute nel comunicato finale del G7 di febbraio, rimangono valide: 1) assicurare che il sistema bancario possa accedere alla liquidità; 2) identificare e neutralizzare i titoli tossici; 3) ricapitalizzare le istituzioni deboli ma ancora affidabili e risolvere prontamente la situazione delle banche non solvibili."
La massima autorità monetaria dice in pratica per la terza volta ai 20 paesi più importanti del mondo che "bisognerebbe fare qualcosa". I tre punti, infatti, sono, fin dall'inizio ufficiale della crisi, a fondamento delle azioni di tutti i paesi. I quali hanno fatto quello che gli Stati Uniti hanno ordinato di fare e fatto essi stessi; e adesso aspettano fiduciosi che sempre gli Stati Uniti ritornino al treno capitalistico, possibilmente in veste di locomotiva e non di rapinatore. Non sono più i tempi in cui, per la successione al comando imperialistico, si combattevano diverse guerre navali in pochi anni, come tra Olanda e Inghilterra; o guerre mondiali come quelle che hanno portato gli Stati Uniti all'attuale asfittica egemonia.
L'omologazione unificante
Abbiamo visto che la massa di capitali in movimento giornaliero nel mondo equivale a un multiplo del PIL mondiale e si dirige dove maggiore è la possibilità di valorizzazione. Il fatto è considerato favorevolmente sia dai liberisti che dai keynesiani perché "alloca risorse finanziarie" là dove teoricamente ce n'è più bisogno, spostandole da dove sono eccedenti. Questo spostamento ha però delle conseguenze sulla politica degli stati nazionali, poiché nessuno di essi ha la possibilità di controllare una tale massa di liquidità che impone le sue regole e i suoi codici di comportamento.
Ciò vale per i paesi "minori", come ha dimostrato la crisi "asiatica" (e più tardi quella "argentina"), quando alla fine degli anni novanta i capitali defluirono all'estero in cerca di migliori investimenti, ma vale anche per i grandi paesi imperialistici. Il Capitale Globale è insofferente di fronte alle barriere, vuole scorrazzare dove gli è utile. Quando si fissa in determinati paesi, sia per le particolari condizioni di accumulazione basate sulla bassa composizione organica (manodopera a basso costo) e quindi alto saggio di profitto, sia per un flusso di valore legato alla rendita (paesi petroliferi), cerca poi vie di sbocco man mano si accresce. In alcuni di tali paesi esso ha preso la forma di fondi sovrani, cioè gestiti direttamente dagli Stati, i quali raccolgono in un unico capitale le eccedenze pubbliche e quelle che i privati non riescono a valorizzare da soli. Al momento le loro disponibilità sono intorno ai 3.000 miliardi di dollari, ma sono in crescita si calcola che entro il 2015 possano giungere a una raccolta di 15.000 miliardi di dollari, cioè più del PIL attuale americano. Questo fenomeno si aggiunge a quello dei fondi istituzionali e privati di cui abbiamo parlato.
Vediamo allora da una parte degli Stati costretti a gestire in proprio dei capitali non valorizzabili all'interno e quindi orientati al mercato mondiale; dall'altra degli Stati costretti a far debiti e quindi accettare i crediti, non importa se da fondi statali o privati. In entrambi i casi abbiamo una dimostrazione di sovranità limitata non solo nei rapporti fra Stati, ma di tutti gli Stati in rapporto al Capitale. Ne consegue una curiosa omologazione che in presenza della crisi si manifesta con una specie di palude melmosa dove nessuno riesce a prendere delle decisioni, cioè a lottare per un risultato.
L'effetto più evidente è il permanere degli Stati Uniti, nonostante la loro visibile decadenza, alla guida del sistema capitalistico mondiale, con vasto potere di interdizione e discrezionalità. Questa situazione, che ha persino il nome ufficiale di "Washington consensus", permette agli Stati Uniti, un paese assurdamente indebitato, con una moneta debole, insidiata (perlomeno al cambio) da una moneta non nazionale come l'Euro, di beneficiare del diritto di stampare moneta che altri utilizzano dopo aver esportato entro i suoi confini. È come se si andasse a fare la spesa con i soldi che ci si è stampati in casa a seconda del bisogno. Infatti l'86% delle transazioni quotidiane sul mercato dei cambi avvengono in dollari; i due terzi delle riserve delle banche centrali (comprese le due più ricche del mondo, quella cinese e quella giapponese) sono in dollari. Ancora più impressionante è l'egemonia del dollaro nel commercio internazionale, a cominciare dai mercati delle materie prime. Addirittura l'Algeria, che vende solo il 27% delle sue risorse energetiche agli USA, gestisce il 100% del suo commercio estero in dollari. La Malesia e l'Indonesia forniscono le loro risorse naturali alla Cina e si fanno pagare in dollari. Il Brasile vende zucchero a tutta l'Asia contro dollari. Iran, India, Pakistan e Bangladesh hanno creato una sorta di mercato comune, ma regolano le loro transazioni economiche in dollari; e lo stesso accade nel commercio tra Cina e Giappone, tra Cina e Corea del Sud.
È vero che anche la Sterlina rimase a lungo la moneta degli scambi e della finanza internazionale quando l'Inghilterra era già in declino e non era ormai l'economia più ricca. Ma, a differenza della Sterlina di una volta, che era convertibile in oro, il Dollaro è moneta completamente fiduciaria, senza corrispettivo, astratta e in quantità tale che al momento non si vede come potrebbe essere scalzata senza far saltare l'intero assetto mondiale del capitalismo. Infatti, nonostante l'Euro sia molto appetibile per il suo apprezzamento rispetto al Dollaro, le banche centrali dei vari paesi detengono solo un quarto delle loro riserve in tale divisa. Vale a dire, addirittura meno di quanto avevano in marchi, franchi, lire, fiorini, prima del 1999, data dell'ingresso dell'Euro sul mercato estero.
Questa situazione spiega anche il paradosso dell'astronomico debito globale americano che ha raggiunto il 400% del PIL. Nessun paese potrebbe permettersi una situazione del genere. E, se esistesse davvero una continuità storica nella successione dei paesi alla guida del mondo imperialista, a quest'ora gli Stati Uniti sarebbero scomparsi da un pezzo come protagonisti. Non è solo una questione di mancanza di eredi, la Cina che non è ancora pronta o l'Europa che non riesce ad unirsi; la potenza in declino non ha più la forza di dirigere il sistema verso un'ulteriore espansione, ma ha ancora un estremo potere di ricatto perché il mondo capitalistico all'americana non ha più la vitalità sufficiente per generare un erede. Un mondo sterile, come un vecchio che procede, drogato e imbellettato, appoggiandosi a stampelle e dotandosi di protesi sempre meno efficaci.
Le molte separazioni della società borghese morente
All'omologazione sociale corrisponde una separazione sempre più netta dei singoli aspetti del sistema capitalistico. Esso è anzi il sistema della separazione per antonomasia. Alla primaria separazione del lavoratore dal suo mezzo di produzione e dal suo prodotto, si aggiunge la separazione dell'uomo dalla sua umanità, dell'individuo dall'altro individuo, del bisogno dalla possibilità di soddisfarlo, del denaro dall'oggetto di cui rappresenta il valore, del Capitale dal capitalista, del capitale fittizio dal capitale reale e via alienando a tutti i livelli, compreso il più stupido, quello della separazione fra politici ed elettori, che tanto fa trepidare la sociologia borghese:
"In generale, il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dal suo impiego nella produzione, di staccare il capitale liquido dal capitale industriale e produttivo, di separare il rentier, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall'imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all'impiego del capitale. L'imperialismo, vale a dire l'egemonia del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo, in cui tale separazione raggiunge dimensioni enormi" (Lenin, L'imperialismo).
Oggi la separazione fra capitale finanziario e capitale industriale che Lenin considerava già enormi si è ulteriormente allargata. Gli strumenti del capitale autonomizzato, cioè banche, assicurazioni e fondi d'ogni tipo hanno acquisito dimensioni, flessibilità e capacità operativa istantanea in altra epoca impensabili. Hanno dato vita a grandi reti globali di interessi in grado di forzare localmente la legge del valore e persino di sfuggire al controllo degli Stati, inglobando anzi molte delle funzioni un tempo loro prerogativa, come pensioni, sanità, poste, ferrovie, comunicazioni. Ma proprio per questo gli Stati stessi sono costretti ad aumentare il controllo sulla grande economia e sul fatto sociale. E siccome la perdita di funzioni pratiche e la crescita del bisogno di controllo sono una contraddizione, ecco che trionfa la forma sbirresca del potere pubblico, il bisogno di far emergere esecutivi forti e relegare le chiacchiere parlamentari al ruolo di sottofondo. L'irreversibile fascistizzazione della società ha la sua verifica sperimentale proprio nella irreversibile autonomizzazione del Capitale, cui gli Stati non possono contrapporre altro che la tutela del carabiniere. Non è più lo Stato minimo e produttivo delle Repubbliche Marinare, è quello inflazionato e farraginoso della decadenza imperialista. Adeguandosi alla dinamica del Capitale verso l'autonomia, cioè verso la separazione spinta della finanza rispetto all'industria, lo Stato abdica rispetto alla sua dimensione etico-borghese e tenta di controllare il processo storico. Il miglior esempio l'abbiamo con l'elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti: continuità perfetta con le precedenti amministrazioni, provvedimenti economici di tutela del sistema bancario, nazionalizzazione delle strutture pericolanti (cioè privatizzazione dei guadagni e socializzazione delle perdite), aumento del debito pubblico e distribuzione gratuita di denaro… al circuito del capitale finanziario.
Come abbiamo scritto già molti anni fa (La crisi del sistema bancario americano, 1991), il processo di privatizzazione e deregolamentazione degli anni '80, lungi dal rappresentare un rigurgito di liberismo, fu un vero e proprio intervento dispotico dello Stato, funzionale non solo alla separazione di cui sopra ma anche ad impedire che, lasciato al controllo dei privati, il capitalismo esagerasse con la sua forma monopolistica soffocando l'economia. Con la diversificazione degli strumenti di raccolta del risparmio e dei piccoli capitali, che si è aggiunta alla deregolamentazione dei potenti fondi istituzionali e privati, lo Stato ha perfezionato il ruolo di "capitalista ideale"; e mentre ha sancito la separazione dei borghesi dal loro stesso capitale, rendendoli individualmente più egoisti che mai, li ha uniti più di prima in una classe borghese astratta e ferocemente antiproletaria. Mentre una volta il "padrone" vedeva gli operai scioperare sotto i suoi occhi, oggi il borghese alienato rispetto alla propria realtà proprietaria è un po' come il pilota militare che non vede e non sente ma bombarda esseri viventi, trasformato in un robot telecomandato via satellite da un computer situato a migliaia di chilometri di distanza. Il Capitale ha reso inutili i capitalisti, ma nello stesso tempo li ha uniti in una specie di superclasse, li ha condotti per mano nella gran macchina automatica globale della valorizzazione e della dissipazione, della produzione e della distruzione. La quale, a dispetto di Schumpeter, incomincia a non essere esattamente "creatrice".
L'estrema contraddizione si manifesta infine con la separazione fra la natura globale del Capitale e della classe che rappresenta la sopravvivenza politica della proprietà, non più funzionale al sistema nel suo complesso, e la natura particolare della proprietà stessa che, privata o statale, è sempre a base nazionale. Tuttavia, come abbiamo visto, la "nazione" ha perso da un pezzo la propria sovranità di fronte alla massa immane di capitale fittizio che ancora si chiama mercato per pura pigrizia linguistica. Separazioni e paradossi provocano inevitabilmente paralisi decisionale, blocco della dinamica storica, insomma impotenza borghese di fronte agli eventi.
Ma la separazione più micidiale è quella fra borghesia e proletariato. Nonostante l'apparente omologazione che vorrebbe un amalgama sociale dove la lotta di classe non fosse soltanto attenuata ma decisamente aliena, le condizioni materiali portano all'esasperazione del divario fra le condizioni di vita della borghesia e quelle del proletariato. Non è solo una questione di "redditi", la cui distribuzione statistica metterebbe in pericolo la sopravvivenza della cosiddetta classe media: il meccanismo perverso del divario crescente porta il sistema all'impossibilità di funzionare.
La complessità del sistema in fase imperialistica avanzata richiederebbe progetto mondiale, decisione, applicazione, dal livello produttivo a quello della circolazione dei capitali reali o fittizi. Ma tutto ciò che richiede pianificazione a lungo termine e paziente costruzione di organizzazioni, strutture, impianti produttivi, rappresenta un ostacolo. Come i manager negli istituti finanziari, così i governi non riescono più ad impostare politiche coinvolgenti d'ampio respiro, e tutti si muovono alla giornata, cioè al comando imperioso di "mercati", dove si "investe" non ad anni ma a minuti, dove sofisticati algoritmi decidono per gli uomini e spostano capitali alla velocità della luce. I programmi economici elaborati dai politici mediante le chiacchiere in obsoleti parlamenti vanno a farsi benedire e con loro anche le motivazioni ideologiche poste alla base delle vecchie contrapposizioni. Tant'è vero che da un bel po' di anni si assiste alla scomparsa dei confini "programmatici" tra le varie forze politiche borghesi. Non sono solo scomparsi i cosiddetti partiti di massa con le loro militanze contrapposte, ormai è tutto un convergere verso un centro unico e indistinto, che gli elettori vengono sollecitati a votare come i consumatori sono chiamati a comprare, cioè con titillazioni psicologiche diverse per prodotti assolutamente uguali.
Omologazione e separazione contro la dinamica storica
Ogni sistema dinamico ha bisogno di differenze al suo interno e la dinamica fra sistemi separati ha bisogno di differenze fra di essi. Insomma, affinché l'acqua di un fiume si muova dev'esserci differenza di livello, affinché scocchi un fulmine dev'esserci differenza di potenziale elettrico, affinché l'Inghilterra prenda il posto dell'Olanda dev'esserci differenza di sviluppo tra i rispettivi capitali. Persino il capitalismo non potrebbe esistere se non vi fosse stata differenza fra i prodotti scambiati fra comunità diverse nell'originario baratto. L'omologazione internazionale, cioè la cosiddetta globalizzazione, non favorisce affatto, anzi, impedisce la dinamica del sistema globale. O meglio: il mercato mondiale è diventato globale grazie alle differenze, ma adesso che è globale dovrebbe trovare altre differenze in un "altrove" che non c'è, a meno di non ipotizzare la colonizzazione di altri pianeti, renderli abitabili, ecc. E forse è proprio per questo che è nato il mito della "conquista dello spazio".
Il sistema si fa paradossale: se da una parte l'omologazione impedisce scambio, osmosi, scontro e quindi dinamica, dall'altra le molte separazioni impediscono l'unità delle forze sociali sotto la direzione della classe dominante nella competizione nazionale fra paesi. Nessuna guerra estesa è possibile senza il coinvolgimento politico della popolazione. Ma il vecchio nazionalismo ideologico e militarista è morto lasciando il posto a una sua caricatura affaristica, mentre l'internazionalismo borghese, che sarebbe necessario a un governo della globalizzazione, è impossibile.
Qui interviene il problema forse più grave che il capitalismo deve affrontare nell'epoca della sua "fase suprema": quello della funzione dello Stato. A problema grave, corrisponde una mistificazione grave, cioè l'immaginare che lo Stato sia il soggetto dell'economia politica, che rappresenti la volontà della borghesia, o peggio, di una borghesia mondiale coalizzata. In realtà, dal punto di vista volontaristico, lo Stato è ancor meno del leniniano "comitato d'affari della borghesia", dato che è un riflesso della società civile e non viceversa. E dal punto di vista operativo, essendo l'istanza in cui si condensano le esigenze molteplici della stessa società civile, esso non fa che prendere atto di ciò che è già successo al fine di porvi rimedio. La sua essenza sta quindi nella riforma e nella repressione, cioè nel manifestare la sua potenza a posteriori. Un qualcosina di meno rispetto all'hegeliano assoluto che è ancora nella testa di molti.
Lo Stato moderno è una macchina che ormai risponde in automatico alle sollecitazioni della "società civile" e di conseguenza dell'economia politica. C'era molta più manifestazione di volontà nelle città-stato marinare che non nel governo degli Stati Uniti oggi. Abbiamo visto che il passaggio da Venezia all'Olanda fu anche un passaggio di forma, passaggio in cui la differenza era visibilissima: Venezia era una città-repubblica cosmopolita al centro di una propria rete commerciale, mentre l'Olanda era una repubblica-stato al servizio di una rete commerciale altrui, alla quale metteva a disposizione le sue Compagnie delle Indie, orientali e occidentali, la propria banca e la propria flotta. In tal modo gestiva i capitali del mondo, importava materie prime ed esportava prodotti finiti, stampava libri per tutti e legava più che separare. Entrambe le entità imperialistiche vengono sostituite da una terza, l'Inghilterra, Stato in senso proprio, già multinazionale, con territorialità tributarie in tutti i continenti e banca mondiale. Gli Stati Uniti sono l'ultimo passaggio come affermazione di differenza: uno Stato-continente che sviluppa industrie multinazionali in senso stretto, che di conseguenza proietta a distanza finanza e forza armata con una rete di basi militari mai vista e che promuove inedite istituzioni per il controllo del pianeta, ONU, FMI, BRI, WTO, OMS, NATO (nell'ordine: parlamento, controllo monetario, banca, regolazione del commercio, controllo sanitario e controllo militare mondiali), ecc.
Fra tutti questi esempi non ve n'è uno che possa rappresentare compiutamente il modello di Stato che si insegna nelle scuole. In senso moderno le repubbliche marinare e anche l'Olanda sono pre-stati, l'Inghilterra e gli Stati Uniti sono Stati potenti ma la configurazione della loro presenza internazionale è già di tipo post-statale. Non nel senso banale che la borghesia non abbia più bisogno di uno stato nazionale, ma nel senso, molto pratico, che dopo gli Stati Uniti, con la loro influenza sulla struttura di controllo i cui elementi abbiamo elencato poc'anzi, non si vede quale forma inedita possa subentrare, se non direttamente un governo universale, democratico o totalitario che possa essere (comunque certamente di tipo fascista).
Tra le forme pre-statali e quelle post-statali vi fu il tentativo, sconfitto, di un super-stato napoleonico continentale che, non per niente, suscitò simpatie anche tra fazioni romantiche entro i paesi avversari. Ma proprio la sua sconfitta può essere utilizzata per spiegare il predominio delle necessità pratiche sull'ideologia: una forma iper-statale classica non sarebbe stata utile al Capitale. Esso aveva ed ha bisogno, specie oggi che è in via di completa autonomizzazione, di una forma malleabile, che risponda bene alle sue sollecitazioni. La domanda a questo punto è: può esistere una forma capitalistica sovra-statale o iper-statale a livello planetario? La risposta per noi non può che partire dall'analisi di Marx sullo Stato:
"Lo Stato poggia sulla contraddizione tra vita privata e pubblica, sulla contraddizione tra gli interessi generali e gli interessi particolari. L’amministrazione deve perciò limitarsi ad una attività formale e negativa, poiché proprio là dove ha inizio la vita civile e il suo lavoro, là termina il suo potere. Anzi, di fronte alle conseguenze che scaturiscono dalla natura asociale di questa vita civile, di questa proprietà privata, di questo commercio, di questa industria, di questa reciproca rapina delle differenti sfere civili, l’impotenza è la legge di natura dell’amministrazione. Infatti, questa lacerazione, questa infamia, questa schiavitù della società civile è il fondamento naturale su cui poggia lo stato moderno. Se esso volesse eliminare l’impotenza della sua amministrazione, sarebbe costretto a eliminare l’odierna vita privata. Se esso volesse eliminare la vita privata, dovrebbe eliminare sé stesso, poiché esso esiste soltanto nell’antitesi con quella (Marx: Glosse marginali di critica all’articolo "Il re di Prussia e la riforma sociale, firmato: un prussiano").
Noi sosteniamo da sempre che il capitalismo nasce "statale", cioè non privato, con i liberi comuni, con le repubbliche marinare e con le signorie italiane. Il liberismo non esiste neppure nell'opera principale di colui che è considerato (a torto) il padre delle teorie sul libero mercato, Adam Smith. Perciò il corso del capitalismo, specie dopo la fascistizzazione irreversibile della società, va verso un bisogno crescente di Stato. Non contro la proprietà privata ma per salvaguardarla contro i suoi stessi eccessi. Non per mitigare gli effetti del Capitale ma per esaltarli. Quindi, non per una riedizione dello Stato napoleonico nel XXI secolo ma per integrare il controllo fascista con l'ideologia dell'ultima rivoluzione – liberté, égalité, fraternité – nella forma americana. Dopo, c'è solo lo Stato mondiale. Le sue strutture sarebbero già pronte. La successione a questo punto sarebbe ininfluente. Cina o altro paese, sarebbero costretti ad adottarle. Masse immense di uomini sarebbero sottoposte allo stesso controllo centrale. Un potenziale inimmaginabile. Un ultra-imperialismo, diceva Lenin, non è astrattamente impossibile, ma che esso possa realizzarsi è un altro discorso: le contraddizioni sarebbero tali da farlo saltare per strada. Per la semplice ragione, aggiungiamo noi parafrasando Marx, che sarebbe già il superamento del capitalismo nell'ambito del capitalismo stesso.
Letture consigliate
- George Soros, "Ecco dove ci portano i fondamentalisti del mercato", intervista a Marco Panara, La Repubblica 24 gennaio 2008.
- Partito Comunista Int., Tesi del dopoguerra: Il ciclo storico dell'economia capitalistica e Il ciclo storico del dominio politico della borghesia, in Prometeo n. 5 del 1947. Il corso storico del movimento di classe del proletariato, Prometeo n. 6 del 1947.
- Frederic Lane, Storia di Venezia, Einaudi 1978.
- Charles Wilson, La Repubblica olandese, Il Saggiatore 1968.
- George Macaulay Trevelyan, Storia d'Inghilterra, Garzanti 1965.
- Allan Nevins e Henry Steele Commager, Storia degli Stati Uniti, Einaudi 1960.
- Douglas Dowd, Storia del capitalismo americano dal 1776, Mazzotta, 1976.
- Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli 2008.