Le guerre americane

Ho visto che la vostra (o posso dire nostra?) newsletter con l'accenno al massacro di Gaza e alla guerra che, durando da decenni, ha "raggiunto una sua infernale simmetria" ha suscitato un putiferio fra i sinistri. Chi si è indignato per il tono distaccato con cui ne parlate, chi vi ha dato degli indifferentisti nel senso di propugnare ovunque la sola rivoluzione proletaria, chi ha teorizzato che sbagliate tutto perché Israele è uno stato coloniale e quindi quella dei Palestinesi è una rivoluzione borghese classica che i comunisti dovrebbero appoggiare. Uno stalinista ha persino scritto un violento attacco a n+1, una specie di lettera aperta, facendola circolare sulla Rete. Avete insomma messo il dito nella piaga di una irrisolta questione, quella dei rapporti fra le popolazioni dominate dai paesi imperialisti, fra queste e gli stessi paesi dominanti e infine fra i movimenti nazionali e la rivoluzione comunista. Avete provocato le ire di chi si attiene alla vulgata terzinternazionalista sulla "questione nazionale". Bisognerebbe prima di tutto mettere in chiaro la sanità mentale o la buona fede di chi parla di questi argomenti, ma non so se fate bene a distinguere fra discorso razionale e impatto emotivo.

L'attacco a Gaza, ad esempio, con il suo corollario di sperimentazione di nuove armi studiate apposta contro una popolazione impossibilitata a difendersi non può essere rubricato semplicemente come un episodio di guerra. Il massacro di civili in Afghanistan e in Iraq idem. E se i preamboli sono significativi, fra poco esploderà il Pakistan. In ogni caso il potere di suscitare odio e far sterminare fra loro le popolazioni ha un qualcosa che esula da ogni dottrina di guerra fino ai nostri tempi escogitata, compreso il divide et impera dei romani, che pure non scherzavano in quanto a ferocia. D'accordo, questa è la nuova dottrina, ma è anche il limite insuperabile di violenza scatenata su popolazioni inermi. Immaginate una situazione "irachena" in Pakistan, non un deserto con 25 milioni di abitanti, ma un paese che ne ha 170 milioni, con altissima densità.

Vi considero depositari di un agire politico coerente, l’unico possibile nella orrenda realtà in cui versiamo, quindi spero in una vostra assoluzione preventiva per quanto vado a dire. L'imperialismo americano suscita in molti, per sua natura, una tale avversione, un tale odio profondo, che diviene comprensibile, se non condivisibile, anche lo sbandamento viscerale che fa andare fuori di testa sia molta gente di sinistra che i combattenti stessi, afghani o palestinesi o iracheni che siano. Io stesso devo confessare che auspico la disfatta americana, il maggior danno possibile alle truppe USA, la loro catastrofe più terribile come nemesi per ciò che l'America ha fatto al mondo in questi sessant'anni e anche prima.

Ho esaurito ogni freno morale di fronte al trattamento riservato a millenarie e spesso splendide civiltà in nome dell'estrema difesa di un sistema produttivo ormai anti-storico, neppure più in grado di esportare, seppure con sistemi coloniali, lo sviluppo rivoluzionario delle forze produttive in aree arretrate. Se il vecchio imperialismo era rapina, ho l'impressione che bisognerà inventare parole nuove per quello odierno. Certo, gli attuali combattenti non stanno difendendo la Comune di Baghdad o di Kabul o di Gaza, ma una patria borghese o addirittura condizioni tribali, venate da una religiosità arcaica. Ma si difendono con sprezzo della propria vita di fronte a un invasore la cui civiltà è ai loro occhi fondata su Al Capone, sul dio denaro e su Hollywood. Non me la sento di definire "suicida" l'attuale impari combattimento degli oppressi. E anche di fronte all'effettivo suicidio dei cosiddetti kamikaze non credo che vi siano soltanto spiegazioni etniche. Vi sono milioni di persone che non hanno nulla da perdere, concretamente, materialmente, con un odio tale che non sarà possibile annientarle tutte. E, se proprio vogliamo fare i calcoli all'occidentale, ne muoiono meno combattendo in qualsiasi modo che aspettando le bombe dei vili terroristi telecomandati seduti al sicuro nelle carlinghe degli aerei o nelle torrette dei carri armati.

 

Un giorno raccoglieremo tutto ciò che abbiamo scritto sulla Palestina in un libro sperando di dare un contributo alla chiarezza in mezzo alla gran confusione che si è fatta sulla questione. Innanzitutto, come dici, occorre sgombrare il campo dalla follia e dalla mala fede. Di quest'ultima non ci occupiamo perché non è ancora il tempo delle legnate, mentre la prima richiede qualche commento. Vediamone intanto un esempio:

"Leggo con orrore la nota di n+1 su Gaza come 'guerra simmetrica'. Una vera porcheria tipo socialimperialismo! Ci vuole uno stomaco di struzzo per digerire certa spazzatura. Francamente non posso capire come dei sedicenti eredi della Sinistra Comunista abbiano potuto cadere a questo livello. Non vi si può neanche consigliare di rileggere i testi, siete ormai incapaci di comprenderli, avete perso la passione del comunismo".

Chi scrive è uno dei "nostri" ex, figuriamoci gli altri. Come vedi, non ci sono argomentazioni, solo sentenze, come nelle religioni. Naturalmente i testi rivendicati sono gli stessi che rivendichiamo noi, ma diversa è la lettura. Ora, tanto per non stare a far dibattiti, i sacri testi dicono questo:

"Sono i campi di forza dei grandi potenziali imperiali che determinano tali mutamenti, non contrasti sociali e politici locali, e ciò perché quei potenziali derivano da tutto il complesso delle forze produttive e sociali nel mondo, dall'interesse della classe capitalistica e dalle violente reazioni che le contraddizioni economiche sollevano contro di lei… È in queste frange di incontro dei popoli, in queste zone bilingui, che l'internazionalismo proletario deve fare le sue prove rifiutando le bandiere di tutte le patrie per quella unica e rossa della rivoluzione sociale" (Il proletariato e Trieste, 1950).

Questi concetti, da quando non ci sono più le colonie, valgono per qualsiasi luogo del mondo. Ma ecco il trucco dei movimentisti: per far valere la "questione nazionale" anche quando la storia l'ha estinta, si inventano una funzione neocoloniale degli stati imperialisti e dei loro lacché come Israele. Insomma, nebbia fitta. Rimane la difficoltà di capire che cosa stia succedendo nelle suddette "frange di incontro dei popoli", avendo presente che il problema non si risolve con il sentimentalismo bensì con un minimo di raziocinio. Poi ognuno può coltivare l'odio che vuole, a volte necessario per ben combattere, ma bisogna anche tener conto che il combattimento serve a vincere la guerra. L'osservazione corretta è dunque: ci sono dei guerriglieri che attaccano gli imperialisti incuranti della propria vita e muoiono meno attaccando che subendo le bombe, prendendo malattie o digiunando. Riescono così a combattere guerre che durano decenni, appunto stabilendo una "infernale simmetria" nonostante la palese asimmetria dei mezzi.

La questione della "simmetria" è stata di dominio universale dopo l'11 Settembre, quando fu scatenata la cosiddetta "Guerra al terrorismo". Brzezinski disse che la proposizione era una stupidaggine, perché si fa guerra a qualcuno e non a un metodo di combattimento. Corollario giornalistico fu la "Guerra asimmetrica", cui gli esperti militari non fessificati contrapposero la giusta dottrina secondo cui la guerra fra un fortissimo paese imperialista e sparsi gruppi di fondamentalisti islamici doveva appunto trovare una sua simmetria nel terrorismo. Se diciamo che l'abbattimento delle due torri è un atto di guerra, dobbiamo anche riprendere von Clausewitz là dove dice che se la guerra c'è, è perché ha trovato una sua simmetria. Nel caso dello scontro fra Israele e i Palestinesi, appunto "infernale" da 60 anni, come abbiamo scritto. Non possiamo pretendere che dei militanti distratti sappiano leggere i testi della Sinistra, ma potrebbero almeno leggere quelli dei militari, nobili come von Clausewitz o borghesi come ad esempio Fabio Mini, il generale ex comandante in Bosnia che scrive su Limes e che è diventato uno specialista della guerra asimmetrica descrivendone la simmetria. Ecco un esempio:

"Con i nuovi eserciti e le nuove armi i danni collaterali dovrebbero tendere a zero e con i nuovi avversari, arcaici e disperati, non ci sono strutture militari e produttive da distruggere per piegare la volontà di resistenza. Ci sono solo case, chiese, moschee e persone, donne, bambini. Tutte cose facili da colpire. In Cecenia, Afghanistan, Libano e, oggi, a Gaza la strategia deliberata di colpire i civili per far mancare il sostegno della popolazione agli insorti, ribelli e cosiddetti terroristi è un'altra regressione. Riporta alla guerra controrivoluzionaria e alle nefandezze delle occupazioni coloniali, che invece hanno fatto sempre vincere i ribelli".

Ci sono sempre stati dei ribelli che vincono contro nemici mille volte più potenti di loro. Quindi non solo riescono a realizzare una simmetria, ma addirittura la rovesciano in una asimmetria a loro favorevole. E' strano tutto ciò? Von Clausewitz invece del termine "simmetria" adoperò "polarità", ma con lo stesso significato. Si prefiggeva di scrivere un capitolo apposito sull'argomento, segno che gli dava estrema importanza, ma morì prima di finire la sua opera. Con un buon uso della dialettica affermò che si ha polarità fra due forze analoghe che si vogliono distruggere reciprocamente, ma che fra forze differenti si può avere polarità a causa delle loro particolari relazioni. Fra Israele e i Palestinesi non c'è forza analoga ma polarità che dura da sessant'anni a causa della loro particolare relazione.

Anche Sun Zu alterna in continuazione elementi che conducono a una simmetria o a una asimmetria. Ma anche per lui quando la guerra c'è essa è simmetrica. In caso di asimmetria reale il più potente non ha bisogno di fare la guerra, terrorizza l'avversario con la sua potenza. Anzi, per Sun Zu la vera arte militare è asimmetria pura, cioè ottenere la vittoria senza combattere. Cosa che agli israeliani da decenni non riesce troppo bene.

Una delle forme di asimmetria potrebbe essere quella del deterrente: io ho l'atomica e tu non l'hai, quindi non c'è guerra. Un'altra forma potrebbe essere quella dell'aggressione sfacciata: gli USA sbarcano nella minuscola isola di Grenada, la guerra dura pochissimo. Ma i Palestinesi che combattono da sempre hanno già imposto la loro simmetria: vinceranno, a meno di non essere sterminati tutti. E quando uno dei belligeranti vince e l'altro perde provocando la fine della guerra, vuol dire che si è rotta una simmetria e verificata un'asimmetria.

Comunque ciò che fa spavento è la banalizzazione del concetto di simmetria. A comunisti che dovrebbero sapere cos'è l'invarianza in Marx, non dovrebbe essere concesso immaginare che simmetria significhi oggi la stessa cosa che al tempo del pitecantropo il quale, guardandosi le mani, forse si accorgeva che erano "simmetriche". In scienza, oggi, le leggi si definiscono come simmetria rispetto agli eventi. Ovvero: la variazione degli eventi non fa cambiare la configurazione del sistema in esame. Un razzo qassam attira un carro armato merkava; un bombardamento o un muro producono un kamikaze; e così via, verso una mostruosa stabilizzazione del sistema, una sua invarianza rispetto ai molteplici eventi, comprese le innumerevoli risoluzioni dell'ONU e la sponsorizzazione di Hamas da parte della CIA e del Mossad. Questa è simmetria, e ci prendano pure per matti che hanno perso la passione del comunismo, se la loro algebra è quella del ragioniere. Vergogna mille volte: questi resistenziali da strapazzo non meriterebbero neppure un commento.

Troviamo tuttavia assolutamente significativo che ci siano arrivate due contestazioni, una stalinista e l'altra internazionalista di maniera, sostanzialmente analoghe. Ti scandalizzerai, ma noi affermiamo che le psico-motivazioni sono le stesse. Tanto per fare un altro esempio ecco la formuletta nel titolo di un libro: L'impossibile simmetria: Palestina e Israele dentro la guerra preventiva. È pubblicato da una delle organizzazioni più luogocomuniste che ci siano.

Le guerre, quelle visibili e quelle travestite da "rapporti sociali", vanno viste sempre in un'ottica realistica, meno ideologica possibile. Ogni combattimento, da quello sindacale a quello più propriamente politico (ogni lotta di classe è lotta politica), è intrapreso per ottenere un risultato. Nel corso dell'azione vale un principio militare che nessuno ha mai potuto scalfire, da Sun Zu a von Clausewitz, da Spartaco agli operai della UPS: la conservazione delle proprie forze e soprattutto la coerenza tra azione, perdite e importanza dell'obiettivo da raggiungere.

È facile prendere in castagna i rivoluzionari-Bella-ciao. Lo stato-nazione iracheno, organizzato secondo un modello fra il satrapico e il tardo-prussiano più che modernamente fascista, aveva combattuto contro i "sovversivi" democratici interni, sterminando prima di tutto i membri del vecchio Partito Comunista. Libertà democratica zero, oppositori in galera o fatti sparire. Logica vorrebbe che i rivoluzionari suddetti si comportassero come i loro antenati, armando una resistenza contro il satrapo-fascismo e per la democrazia. Avrebbero dovuto, come il fronte antifascista del 1943, essere "embedded", incorporati nell'esercito americano. Invece stabilirono che la resistenza la faceva l'esercito oppressore contro quello liberatore. "Baghdad come Stalingrado!" dicevano persino gli antistalinisti mentre i carri armati avanzavano verso la capitale. Da questo punto di vista i Curdi sono stati più coerenti rispetto al cliché resistenziale. Facevano la resistenza contro il fascista prima, si sono alleati con il liberatore dopo. Ma i Curdi, un tempo reputati "valorosi resistenti" dai cari sinistri, non sono piaciuti nella loro veste autentica. E adesso da una parte possono crepare, dimenticati da tutti, sotto le bombe turche; dall'altra essere al governo, odiati come traditori, a discutere sul petrolio di Kirkuk. Nessuna "resistenza" partigianesca è mai stata rivoluzionaria, nessuna guerra "popolare" sarà più rivoluzionaria dopo la fine, ovunque, del ciclo di emancipazione borghese.

Il caso dell'Iraq ci aiuta a chiarire l'impostazione anti-resistenziale dell'analisi comunista. Una fredda osservazione dei rapporti di classe e militari in quel paese (sappiamo che proprio questa freddezza è l'aspetto più difficile da digerire di fronte a eventi che ci riempiono di rabbia) ci mostra che per i soldati iracheni l'unica soluzione era il disfattismo contro la testa del proprio esercito, cosa che in parte è sicuramente avvenuta. Ma se i soldati hanno salvato la pelle, per la borghesia è stato un disastro. L'esercito era, con il partito Baath, la struttura portante della società irachena. Per evitare il collasso dell'intero tessuto sociale esercito e borghesia avrebbero dovuto avere il loro 8 settembre e passare con l'invasore. A sua volta l'invasore, criticato persino da alti esponenti del suo stesso esercito, avrebbe dovuto seguire le consuete leggi di guerra, e invece ha spazzato via la suddetta struttura portante sostituendola con quisling iracheni fatti arrivare dall'estero sotto comando americano. In pratica si è trovato in difficoltà proprio perché non è riuscito a organizzare una resistenza antifascista contro la satrapia di Saddam Hussein.

Nell'Iraq occupato, per i comunisti non si trattava tanto di "auspicare" la saldatura del proletariato internazionale con quello iracheno come avrebbe fatto un'Internazionale (e che invece, proclamata da forze prossime allo zero sarebbe stata solo una frase buttata lì), quanto di felicitarsi che non fosse successo un macello nelle proporzioni che furono tipiche della Seconda Guerra Mondiale, con i suoi milioni di morti sacrificati al Capitale. Per noi la riorganizzazione del proletariato iracheno è stata più importante del terrorismo suicida, antiamericano ma soprattutto interconfessionale e tribale. E infatti in tutta la guerra d'Iraq, la documentazione più interessante, addirittura internazionalista, l'hanno prodotta i "liberi" sindacati… organizzati dagli invasori al posto di quelli governativi-zubatovisti.

L'indifferentista è colui che dice: tanto sono tutti imperialisti o comunque borghesi, a me interessa solo la rivoluzione proletaria. Questa ovviamente è una sciocchezza, anche se c'è chi la fa propria. In Palestina, in Iraq, in Afghanistan e altrove vi sono uomini che per un motivo o per l'altro, sotto bandiere che magari non piacciono, combattono specificamente contro il paese imperialista più forte di tutti. A parte il moto viscerale in ognuno di noi contro la tracotanza imperialistica, è sempre vero quel che la nostra corrente disse dei contadini quando rappresentavano un problema e davano luogo a una delle famigerate "questioni": masse di uomini che sembrano venire dal passato potrebbero rappresentare, in certi frangenti storici, uno dei proiettili che la rivoluzione lancia contro lo statu quo esistente. In un'epoca in cui non è più pensabile che i comunisti combattano a fianco di altre classi con alleanze storicamente ammissibili, il nostro modo di essere anti-indifferentisti non può essere di tipo operativo al di fuori di una prospettiva proletaria: in Italia nel '24 e in Spagna nel '36 non aderimmo ai fronti democratici antifascisti. Ovviamente nel caso di un cambiamento radicale della situazione valgono ancora le tesi dell'Internazionale del 1920: i comunisti organizzano le eventuali rivolte delle masse di oppressi, purché sia chiaro a quale fine (è prevista anche la lotta contro i movimenti panislamici e confessionali in genere). Ma oggi un'Internazionale comunista non c'è, e sarebbe a dir poco velleitario lanciare parole d'ordine come se ci fosse.

La sconfitta degli USA in quanto più efficace strumento del Capitale, è ovviamente auspicabile nella prospettiva rivoluzionaria. Ma per ottenere questo immane risultato occorrerebbero forze, armi e condizioni adeguate, a partire da un indebolimento dall'interno di quel sistema di controllo planetario che ha la sua centrale a Washington. E qui i proletari americani, con tutti i loro difetti, possono fare molto di più che non gli iracheni, i palestinesi, gli afghani, i pachistani che si gettano coraggiosamente nel combattimento alimentando loro malgrado la guerra infinita.

Rivista n. 25