La prima grande rivoluzione (3)
Il passaggio dalle società comunistiche originarie alle società di classe come immagine speculare della transizione futura
Prima della religione e dello Stato
C'erano circa 80 "divinità" in Egitto, ma un individuo poteva anche decidere di stabilire un contatto con l'Universo attraverso un gatto, e non solo perché questo gli acchiappava i topi, come affermano i materialisti volgari, ma perché si stabiliva con esso un doppio filo d'informazione finalizzato a un risultato. Non era solo una questione pratica era un aspetto della vita. Presso i Sumeri il pantheon era ancora più complesso, e gli archeologi hanno catalogato più di 500 "divinità". In una società più evoluta di quella egizia verso la forma classista, la "religione" assomigliava di più a quelle successive classiche:
"Rifletteva in meglio la società degli uomini e persino la sua evoluzione politica. Sembra che gli dei [sumerici] siano stati immaginati per spiegare il gioco della natura e il mondo che sfugge alla comprensione degli uomini… Avevano un corpo che dovevano nutrire, vestire, proteggere; andavano e venivano, discutevano, ridevano e piangevano, si amavano e bisticciavano; formavano famiglie con padri, madri, figli… L'evoluzione politica del paese si rispecchiò in rimaneggiamenti del pantheon" (Bottéro, Mesopotamia).
Ma l'Egitto rimase praticamente uguale a sé stesso per millenni, dai tempi del primo faraone alla sua dissoluzione nell'impero romano (nel II secolo d.C. fu costruito l'ultimo monumento "egizio"). Sappiamo che la religione è il riflesso dell'uomo sul cielo, ma la "religione" egizia era ancora talmente legata alle forme sociali pre-civiltà che questo riflesso era vissuto come immedesimazione totale, come se veramente la società dovesse adeguarsi alla perfezione del cielo, anzi, come se non ci fosse dualismo fra uomini e dei. È difficile definire "divinità" i componenti della triade Nut, Shut e Geb, essi sono un tutto indivisibile (vedi figura 10) e tra l'altro è invertito il ruolo cielo-terra rispetto ad altre cosmogonie antiche: qui la terra è maschile, e maschile il tramite fra i due elementi (Shu è loro padre), mentre la simbologia sessuale femminile "piove" sulla terra per mezzo suo. Simili triadi compaiono nelle religioni di molti popoli (ad esempio i Sumeri) fino ad essere sincretizzate dal cristianesimo.
Perché le virgolette su "religione" e "divinità"? Perché gli dei espressi dalle società che hanno preceduto quelle classiste e proprietarie non assomigliano a niente di ciò che conosciamo oggi in materia di religione. Prima di tutto il pantheon egizio non era canonizzato, cioè non aveva una costituzione fissa, e la raffigurazione delle divinità variava a seconda dei periodi, dei territori e delle situazioni. In secondo luogo non erano delle realtà celesti indipendenti che decretavano ciò che gli uomini dovessero fare, ma erano un tramite cui gli uomini si rivolgevano per risolvere dei problemi. Il netjer egizio, che noi traduciamo con "dio", ha a che fare soltanto con l'uomo che deve risolvere qualcosa. In quel frangente, che può essere anche una lunga parte della vita, tutti gli altri dei sono esclusi. Negli "insegnamenti" che vari saggi o amministratori hanno lasciato su papiri, l'uomo che in un determinato momento agisce in contraddizione con l'armonia prestabilita entra in conflitto con un determinato netjer non perché il dio in questione abbia un elenco di prescrizioni e castighi, ma perché è meglio essere razionali che fare pasticci (Frankfort).
Come la buona amministrazione (lo "Stato") deve essere al servizio dell'uomo e non viceversa, così la "divinità" non prescrive, è solo lì per ricordare che da qualche parte, fra il cielo Nut e la terra Geb, c'è una legge non scritta (mentre lo fu in Mesopotamia da Hammurabi in poi) che stabilisce il comportamento migliore, non importa se per la semina o per il rapporto con il nomarca o addirittura con il faraone (teoricamente qualsiasi egizio poteva rivolgersi direttamente al sovrano per dirimere questioni, e il visir era obbligato ad accogliere chiunque lo richiedesse). Noi viviamo in un mondo rovesciato rispetto a quello pre-classista. Da noi lo Stato domina sul cittadino tramite leggi, imponendo obblighi e comminando punizioni a chi sgarra; la religione idem: impone al fedele i suoi comandamenti, ridisegna la coscienza, minaccia sofferenze eterne se questi pecca o promette beatitudine se sta buono. Stato e religione sono veramente complementari.
Anche il non-stato e la non-religione sono complementari: in una società omeostatica dove tutto funziona secondo la Tradizione, tutto si svolge secondo automatismi naturali e non c'è bisogno di leggi; l'autorità sociale deve intervenire solo se s'inceppa qualche particolare; e allora la questione è risolta ad arbitrio, cioè volta per volta, col buon senso, perché le leggi non servono e quindi non ci sono. È quello che, nella versione degenerata sopravvissuta, molti chiamano "dispotismo asiatico", e non è certo esente da errori; ma ogni paragone con la civiltà capitalistica è insensato. L'intera società produce solo quel che serve, e siccome in Egitto oltre alla sabbia c'è abbondanza solo di cibo e di pietra, quando servono oro, legname o lapislazzuli, si organizza una spedizione per procurarseli nel deserto o presso altri popoli, ai quali si fa un dono talmente grande da non poter essere rifiutato (lungo tutta la loro esistenza gli Egizi saranno refrattari al concetto di valore, persino quando i Greci e i romani porteranno il denaro).
Lo stesso meccanismo autoregolatore è espresso nella religione, o meglio, prima che si formi la religione come complemento statale, nella credenza nel divino: il cielo e la terra, che una volta giacevano accoppiati l'uno sull'altra, sono stati separati dalle divinità originarie e ora sono tenuti al loro posto dall'aria (Shut) per sempre. Le divinità variabili — corpi animali con teste umane o corpi umani con teste animali — rappresentano il ciclo della natura in un mondo che non ha ancora acquisito il concetto del tempo a senso unico, e stanno per i fatti loro, manifestandosi solo in funzione del bisogno, da parte degli uomini, di interagire con essi. Una stabilità che dura per 3.400 anni e in tutto questo tempo è stata turbata da un solo episodio di chiara ribellione sociale: quello del 1350 a.C. contro il faraone Amenofis IV che aveva tentato di stravolgere la tradizione introducendo una specie di monoteismo basato sul culto del Sole (Aton).
Nella lingua egizia non solo non esiste una parola che equivalga al concetto di Stato, ma l'uomo egizio non poteva neppure concepire ciò che per noi è invece "normale" (Frankfort). La maggior parte degli egittologi adopera il termine senza farsi eccessivi problemi. In fondo ci troviamo di fronte a una stratificazione sociale, a un apparato amministrativo ed esecutivo, a una burocrazia, a funzioni pubbliche di alcuni edifici e strutture, a un esercito, anche se non permanente, persino a una polizia, se vogliamo chiamare così chi, pur senza avere una funzione e una residenza specifica, è chiamato a bastonare chi devia dalle regole. Ma non c'è chi scriva quelle regole, perché ci sono solo degli "insegnamenti". Dove non c'è ancora il concetto sbirresco del "diritto", non c'è neppure quello di "giustizia", perché non può essere giusta o sbagliata la forza che fa cadere un sasso (Pintore). Quindi a prima vista c'è un apparato statale in cui sembrano riconoscibili i tre poteri tipici: legislativo, esecutivo e giudiziario (un corpo di prescrizioni scritte di volta in volta, un apparato preposto a far rispettare la tradizione a bastonate, un faraone garante di Maat, cioè dell'ordine e della giustizia). In realtà il presunto Stato egizio è la negazione di ciò che noi intendiamo con questo termine. Persino il faraone, che è una divinità fra altre (e non un uomo autoproclamatosi divino come succederà in Mesopotamia, in Grecia e a Roma) non ha alcuna possibilità di adoperare l'autorità suprema per legiferare, far eseguire o giudicare. Egli è "servo di Maat" ed esegue ciò che prescrive la Tradizione. Pierre Clastres, nel suo libro La società contro lo Stato, sostiene che i personaggi rappresentanti le originarie forme di comando in realtà non avevano alcun potere di coercizione, ma simboleggiavano semplicemente la volontà collettiva della quale si facevano esecutori.
Nella cosmologia egizia il primo segno della Creazione fu l'emergere di una collina dall'oceano primordiale. Ra, il primo dio-faraone, venne da quella collina dopo aver stabilito il dominio di Maat in luogo di quello del Caos. Tale era rimasto il compito perenne dei faraoni. Infatti il celebre Tutankhamon, proclamandosi artefice della restaurazione dopo l'eresia monoteistica di Amenofis IV, dice di sé stesso:
"Sua maestà rimosse il Caos dalle terre d'Egitto e l'Ordine (o verità o armonia, ecc.) fu nuovamente stabilito. Egli fece del Caos un abominio del mondo come nel tempo della Creazione".
Il termine Maat è ovviamente intraducibile come del resto il suo contrario, quindi dobbiamo usare dei sostituti. Ma tutti i faraoni nel lasciare un ricordo ai posteri fanno riferimento a Maat: "Rendere il paese fiorente come nei tempi primordiali, attuando i disegni di Maat" (Amenofis III). Oppure: "Il cielo è soddisfatto e la terra si rallegra quando apprendono che il faraone ha innalzato Maat al posto della falsità" (o caos, ecc., Pepi II).
Come vedremo meglio in seguito, si può parlare di Stato solo quando esistono le condizioni per una rottura profonda dell'unità sociale ed è ben definita la separazione dell'uomo dai fattori della propria riproduzione in quanto produzione. In Egitto, come in altre società antiche, questa rottura non c'era e la stratificazione di funzioni non rappresentava per nulla l'isolamento dell'individuo nei confronti della società. Come si sa, Marx dichiara guerra allo Stato a partire dall'assolutizzazione che ne fa Hegel, e certo non avrebbe potuto pronunciare una requisitoria come quella che segue contro la particolare forma egizia dell'autorità centrale:
"Lo Stato e l'ordinamento della società, dal punto di vista politico, non sono due cose differenti. Lo Stato è l'ordinamento della società… Tutti gli Stati ricercano la causa in deficienze accidentali intenzionali dell'amministrazione, e perciò in misure amministrative i rimedi dei loro mali. Perché? Appunto perché l'amministrazione è l'attività organizzatrice dello Stato. Lo Stato non può eliminare la contraddizione tra lo scopo determinato e la buona volontà dell'amministrazione da un lato e i suoi mezzi come pure le sue possibilità dall'altro, senza eliminare sé stesso, poiché esso poggia su tale contraddizione. Esso poggia sulla contraddizione tra vita privata e pubblica, sulla contraddizione tra gli interessi generali e gli interessi particolari. L'amministrazione deve perciò limitarsi ad una attività formale e negativa, poiché proprio là dove ha inizio la vita civile e il suo lavoro, là termina il suo potere. Anzi, di fronte alle conseguenze che scaturiscono dalla natura asociale di questa vita civile, di questa proprietà privata, di questo commercio, di questa industria, di questa reciproca rapina delle differenti sfere civili, di fronte a queste conseguenze, l'impotenza è la legge di natura dell'amministrazione. Infatti, questa lacerazione, questa infamia, questa schiavitù della società civile è il fondamento naturale su cui poggia lo stato moderno, così come la società civile della schiavitù era il fondamento su cui poggiava lo Stato antico. L'esistenza dello Stato e l'esistenza della schiavitù sono inseparabili… Se lo Stato moderno volesse eliminare l'impotenza della sua amministrazione, sarebbe costretto a eliminare l'odierna vita privata. Se esso volesse eliminare la vita privata, dovrebbe eliminare se stesso, poiché esso esiste soltanto nell'antitesi con quella".
La citazione è lunga e ce ne scusiamo, ma ci voleva. Nota bene: la schiavitù della società civile nello Stato moderno corrisponde alla società civile della schiavitù nello Stato antico. La borghesia scrive "libertà" sulle proprie bandiere, ma porta alla perfezione lo Stato che è la negazione della vita organica dell'uomo. Il non-Stato espresso dalle antiche società, con tutta la loro potenza vitale organizzata, ci mostra come sia possibile una riappropriazione positiva dell'antica organicità, amplificata per milioni di volte dalla conoscenza e dalla forza produttiva sociale nel frattempo sviluppata.
I primi centri di potere non-Stato
Ci preme riaffermare, prima di proseguire, che la nostra bussola è la ricerca condotta da Marx sulle "forme che precedono la produzione capitalistica" cioè sulla separazione/liberazione progressiva dell'uomo rispetto agli elementi della produzione. La grafica "frattale" dei nostri schemi serve a mostrare il carattere permanente della rivoluzione umana. Essa è punteggiata da fratture rivoluzionarie, le quali possono essere inserite in un grande processo unitario nonostante l'evidente presenza di anacronismi e sviluppi differenziati. Come annota Marx, citato da Engels, gli storici loro contemporanei tendevano a paragonare il basiléus miceneo o il capo degli Aztechi a una figura della gerarchia monarchica europea, mentre Morgan aveva dimostrato che si poteva scandire la storia non con il computo cristiano del tempo ma con le fasi di sviluppo sociale delle varie popolazioni nelle rispettive aree geografiche. È in questo sconvolgimento della storiografia accademica che avviene l'incontro fra l'intuizione di Marx nei Grundrisse (1857-58) e la successiva evidenza archeologica, antropologica, etnografica, ecc. Da notare che ancora oggi si usano due datazioni distinte per classificare le forme sociali e le loro industrie: una, relativa, inerente al grado di sviluppo (paleolitico, neolitico, calcolitico, ecc., con le classificazioni intermedie che si affinano fino a prendere il nome dalla località); l'altra, assoluta, inerente al calendario con il suo tempo orientato.
Per Morgan gli Aztechi erano allo stadio intermedio della barbarie, ma ad un livello superiore rispetto agli indiani Pueblos insediati nel Nuovo Messico, ed entrambi erano paragonabili ad altre popolazioni che si trovavano allo stesso stadio magari due o tremila anni prima. Siccome i nostri schemi frattali non sono propriamente diagrammi cartesiani ma indicatori di fase, ecco che possono raffigurare la scansione di fase tra popolazioni o paesi indipendentemente dal tempo. Così non sorprende che si possano inserire nello stesso insieme, alla Morgan-Engels, i Micenei del secondo millennio a.C., gli Aztechi, i Pueblo, gli Incas del 1.500 d.C., gli Egiziani del 3.000 a.C. e così via. Questi schemi e insiemi si inseriscono nel movimento storico permanente che vede necessaria la rottura delle forme precedenti affinché altre, che spingono dall'interno per essere liberate, le sostituiscano. Continuando la nostra serie frattale proviamo ad espandere il tratto a3 dello schema di figura 5, che abbiamo chiamato un po' sbrigativamente "metallurgia" in quanto comprende la fine del neolitico (o calcolitico, comparsa della lavorazione del rame insieme a quella della pietra) e l'età del bronzo.
Le didascalie della figura 11 ci portano telegraficamente alla conclusione che la storia dell’uomo è storia dell'evolversi della produzione e riproduzione sociale finché dura il comunismo primitivo, e diventa storia della lotta di classe quando, alla fine di questo lunghissimo tratto, si affermano la divisione sociale del lavoro, gli strati sociali immutabili, la produzione di valore e infine il profitto e il Capitale. In questo corso storico nasce l'esigenza dell'organizzazione e della centralizzazione per conservare i rapporti comunistici anche quando la società è florida e può permettersi un surplus, il quale a sua volta permette la specializzazione tecnica, la contabilità e la scrittura. In un primo tempo l'identificazione delle funzioni, della conoscenza e dell'autorità per rendere operativa una società complessa tramite persone addette a compiti specifici (capi o sacerdoti o entrambi, eletti o nominati) è funzionale alla suddetta conservazione; e solo in un secondo tempo si forma una separazione fra chi ha l'autorità e il potere di esercitarla su altri. È in quel momento che emergono la società di classe e la religione ufficiale, entrambe canonizzate, con i loro funzionari e sacerdoti che governano sulle persone.
Non è dunque lo Stato a generare le classi e nemmeno il contrario. Si tratta di un processo contraddittorio innescato in primo luogo dalla separazione dell'uomo dai suoi elementi della produzione; la quale separazione a sua volta genera la decadenza della famiglia allargata che diventa nucleare e monogamica, la comparsa della proprietà privata che estingue quella comune e quella in concessione, la classe dei proprietari, e infine lo sfruttamento dell'uomo da parte di altri uomini per profitto. In certi casi eclatanti, se non si bada troppo alle definizioni, sembra esistere lo Stato anche in società antichissime e ancora caratterizzate da rapporti comunistici. I libri di storia e di archeologia presentano come "impero" il regno universalistico di Sargon I di Akkad che nel III millennio a.C. si estendeva dal Golfo Persico al Mediterraneo; mille anni dopo, in Egitto, Tuthmosi III appare come il sovrano di un impero al quale sono assoggettate nazioni non egizie, dalla Nubia alla Palestina; la stessa potenza è espressa con il successivo "impero" di Ramses II, il costruttore quantitativo, l'invincibile capo militare che ama farsi ritrarre nelle statue con la corona azzurra di guerra anziché con la doppia corona di unificazione e di pace. In questi "imperi" l'attività centrale e sociale è al suo massimo; la burocrazia, il clero e l'esercito sono di una potenza documentata in modo incontestabile. Eppure non ci troviamo di fronte a imperi né a forme statali nel senso odierno della parola.
Adoperando una citazione che Lenin riprende da Engels abbiamo un doppio riscontro:
"Lo Stato dunque — dice Engels, arrivando alle conclusioni della sua analisi storica — non è affatto una potenza imposta alla società dall'esterno e nemmeno 'la realtà dell'idea etica', 'l'immagine e la realtà della ragione', come afferma Hegel. Esso è piuttosto un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo; è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili ed è impotente a eliminarli. Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto, non distruggano sé stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell' 'ordine'; e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato" (Lenin, Stato e rivoluzione).
Gli "imperi" di Sargon I, di Tuthmosis III o di Ramses II non erano il prodotto di un simile stadio di sviluppo. Non c'erano le classi e quindi neppure le loro contraddizioni. Quegli insiemi che ad alcuni sembrano classi non avevano "interessi economici in conflitto", e non c'era una potenza che avesse interesse di fingersi al di sopra della società perché tutto era società allo stesso modo, anche se non ci vuole molto a intuire che il contadino faticava più dello scriba e il cavatore di pietra più dell'architetto. Il sistema funzionava automaticamente proprio per questo, e i territori inglobati nei cosiddetti imperi godevano dell'interscambio, mantenevano le loro strutture e non erano occupati militarmente (popoli così antichi non immaginavano neppure che un'occupazione militare fosse possibile, l'alternativa era semmai la distruzione totale, l'uccisione di tutti i maschi adulti e la deportazione delle donne e dei bambini). Neppure in Mesopotamia gli imperi erano veri e propri Stati intesi come prodotto degli interessi inconciliabili fra le classi, anche se erano spesso il risultato di continue guerre e devastazioni reciproche. Il citato Sargon I di Akkad, fu ritenuto fondatore del "primo impero universale" (nel 2350 a.C. circa), in base a una leggenda postuma che egli stesso contribuì a creare e a diffondere quando "sottomise" i Sumeri ma in realtà i regni mesopotamici non erano altro che reti di relazioni fra città che facevano capo di volta in volta a una di esse. Proprio l'auto-definizione universalistica di Sargon lo dimostra: era la prima volta che una nazione a base etnica (nel caso specifico semitica) inglobava altre nazioni. Il modello si ripeterà in seguito producendo situazioni diversissime, nessuna delle quali però sarà riconducibile, fino alla comparsa della forma sociale schiavistica antico-classica, al concetto di Stato espresso nella citazione di Lenin-Engels appena riprodotta.
Per una fisica della storia
Ora, come abbiamo visto, la transizione delle diverse comunità umane dai primi accampamenti temporanei dei cacciatori raccoglitori al villaggio e alla comparsa dello Stato passa necessariamente dalla formazione della città propriamente detta. Il passaggio è obbligato. Persino i centri degli imperi turchi e mongoli delle steppe d'Asia, nati da movimenti di popolazioni nomadi che si spostavano al seguito di mobilissimi eserciti, ad un certo grado di sviluppo hanno dovuto concretizzarsi in ricche e fiorenti capitali metropolitane. Tale necessità si spiega con dati sociali, economici, politici, ma soprattutto fisici: ogni sistema complesso tende al caos e produce come reazione qualche rimedio per riconquistare ordine. Raggiunto uno stato di instabilità che le comunità non possono più tollerare, la crisi viene superata soltanto aumentando il livello di complessità, ma con un ordine di tipo nuovo. Per questo l'archeologia ci mostra il sorgere delle proto-città con pianta urbanistica spontanea su cui s'innesta una crescita "entropica" che negli strati superiori viene abbandonata, per cui troviamo spesso nuove città di fondazione. Oppure vediamo i grandi "imperi" che hanno già passato quello stadio, costruire ex novo città di fondazione sia per espandersi sul proprio territorio che per colonizzarne di nuovi (i Sumeri "esportarono" per primi il modello urbano di Uruk; più tardi e nella nostra area, divenne tipico il caso dei Greci, degli Etruschi e poi dei Romani).
Il suddetto passaggio obbligato pretende una spiegazione. Per il momento l'unico esempio conosciuto di urbanizzazione propriamente detta in contesto neolitico, quello appena citato di Uruk dei Sumeri ha molte e a volte contrastanti interpretazioni. Certo, gli esempi "unici" non possono essere inseriti in serie d'invarianza e quindi sono scientificamente muti. Comunque, al di là di questo caso, la proto-urbanizzazione è antichissima (risalendo almeno all'VIII millennio a.C.) ed è diffusa in aree vastissime come fosse un modello, appunto, determinato. Ma determinato da che cosa? Che cosa spinse le popolazioni neolitiche a urbanizzarsi? Che cosa spinse, già in epoca storica, popoli nomadi come gli Unni, i Turchi, i Mongoli a fondare ricche capitali urbane se la loro forza risiedeva proprio nell'essere nomadi mobilissimi che potevano attaccare le città altrui senza essere attaccati?
Il nostro Prospetto introduttivo alla questione agraria del 1953, si concludeva con l' affermazione che l'uomo dovrà tornare ad un naturale equilibrio termodinamico con il Sole. Nella ricerca delle origini materiali di agricoltura e allevamento, anche molti archeologi, storici e antropologi borghesi hanno ormai adottato criteri sistemistici o termodinamici, basandosi sulla dissipazione dell'energia. Ogni manifestazione della biosfera non è altro che uno scambio energetico. A differenza dello scambio che avviene nelle società di classe, esso è gratuito, ha origine esclusivamente dalla quantità di energia che ci arriva dal Sole. La caccia, la raccolta e il nomadismo, che comportano lo spostamento di intere tribù-nazione, sono attività altamente dissipative in relazione alla quantità di energia in gioco, anche se alterano relativamente poco il rapporto uomo-ambiente.
Non si confonda il rendimento energetico, cioè l'efficienza, con l'efficacia. Le società paleolitiche affrontavano in modo molto efficace la vita quotidiana ed erano "ricche", nel senso che avevano in abbondanza ciò che potevano volere e l'ottenevano con poco lavoro. Ma il loro rendimento era basso. Anche il capitalismo, ci si permetta un confronto indebito, è assai efficace sia nella produzione che nel mantenere sé stesso in vita nonostante mortali contraddizioni, ma è una mostruosità di inefficienza, una società dissipativa come mai ne sono esistite da quando esiste l'uomo. Quella che Gordon Childe ha chiamato giustamente "rivoluzione neolitica", dal punto di vista fisico non è altro che l'unificazione, per la prima e al momento unica volta nella storia, dell'efficacia con l'efficienza. Durò millenni, fino a che non fu necessario bruciare foreste per cuocere mattoni o fondere metalli, cioè fino a che, di nuovo, efficacia ed efficienza furono separate. La nostra ricerca — lo ribadiamo — ha come scopo la comprensione della dinamica che porterà a quella che sarà la seconda volta.
Nella misura in cui l'attività umana si fa intelligente, cioè rovescia la prassi esistente in natura (e comunque anche l'intelligenza è natura), è inevitabile che, in migliaia di anni, si giunga a forme meno dissipative che tendono a trovare un loro equilibrio, cioè ad omeostatizzarsi. È immediatamente chiaro a tutti che correre dietro a una mandria di bufali, isolarne uno, ucciderlo, scuoiarlo, spolparlo e mangiarne cinque quintali su dieci lasciando il resto alle iene comporta più "lavoro", in unità di energia, che non coltivare l'elemento vegetale che sta alla base della crescita del bufalo e crescere invece dieci quintali di uomini (e comunque il bufalo può essere addomesticato e fornire carne in modo assai più efficiente). Teniamo conto che i milioni di anni da australopitechi ci hanno fatti evolvere come vegetariani e che quindi abbiamo bisogno di pochissime proteine animali, cosa che l'uomo neolitico ha re-imparato velocemente, semmai esagerando dal lato opposto con la dieta a base di amidi e quindi rovinandosi lo stomaco e i denti (nel citato sito neolitico di Mehrgarh sono stati trovati scheletri con segni di cure dentali al trapano!). Sulla nostra rivista abbiamo dimostrato che una società avanzata, con intelligenza di sé stessa e del suo contesto, potrebbe eliminare del tutto l'allevamento e, se proprio fosse necessario, integrare la propria dieta con animali selvatici (n. 5 del 2001).
Il neolitico è stata una "rivoluzione energetica" che ha permesso di spostare l'energia globale dalla dissipazione animalesca a quella controllata e armonizzata. Le società neolitiche "redistributive" e quelle posteriori che conservarono profondi caratteri comunistici pur frammischiati a forme più evolute, furono le società più vitali, non solo in senso sociale come dice Marx, ma soprattutto in senso fisico. Esse utilizzavano il massimo dell'energia disponibile e riducevano al minimo l'entropia dei loro sistemi, cioè la dissipazione. La società capitalistica precipita invece l'umanità nel più folle spreco energetico mai avvenuto nella storia della biosfera, giungendo addirittura a bruciare in un flash della scala temporale l'energia accumulata nel corso di centinaia e centinaia di milioni di anni.
Alla luce di quanto appena detto, vediamo che l'energia "risparmiata" nel bilancio termodinamico permette alle popolazioni che vivono nella forma comunistica originaria uno sviluppo sconosciuto in precedenza. Esse sono in un certo senso "costrette", a causa dell'aumento della forza produttiva sociale scatenato dall'agricoltura e anche dalla crescita demografica che ne consegue, a estendere su vasti territori quell'amministrazione centrale che rimarrà tipica, con le necessarie trasformazioni, anche per successive forme sociali. Già Engels disponeva di materiale sufficiente per osservare come le amministrazioni centrali sorgano per semplici motivi di razionalità organizzativa, ma spesso si configurino in seguito come controllo, accettato e condiviso, da parte di una o poche tribù che fungono da nocciolo per la lega o federazione di molte altre tribù. Controllo che impone uno sviluppo della contabilità amministrativa e quindi la nascita di una burocrazia, fino alle soglie dell'età classica greca e romana. Tutto ciò non ha ancora nulla a che vedere con lo Stato, anche in contesto proto-urbano o addirittura metropolitano, così come non possono essere accostate le invarianze di altro tipo: ad esempio lo Stato assolutistico feudale e lo Stato democratico borghese, benché abbiano pressappoco le stesse categorie "filosofiche" interne, spostate però materialmente nel tempo, ovvero trans-formate. Così come l'antico basiléus greco è sempre un "re-capo dell'esercito", pur non essendo paragonabile a un Federico di Prussia; e la massima socializzazione della produzione è presente tanto nella forma borghese quanto in quella comunista, pur essendo l'una agli antipodi dell'altra.
Il pre-Stato come ottimizzazione dell'energia sociale
L'organizzazione della vita comunitaria nei primi insediamenti attorno a magazzini collettivi per la conservazione e la "gestione" dei prodotti, si articola poco per volta intorno ai caratteri della società da cui scaturisce. È quindi inevitabile che in un primo tempo rifletta la forma organica della comunità. In ordine di tempo/sviluppo prima viene il consumo immediato, poi il magazzino domestico, poi il magazzino comune a più famiglie o tribù, e infine il magazzino come elemento fisso attorno al quale si svolgono le vicende transeunti delle unità sociali piccole o grandi. Il sistema di amministrazione, contraddistinto da sigilli e cretule che abbiamo descritto, è straordinariamente costante fin dal VII millennio a.C. e si conserva ancora quando la scrittura è molto sviluppata (in un certo senso lo si usa ancora adesso quando si applicano piombini, ceralacche, sigilli giudiziari, ecc.). La ragione di tale persistenza storica è che:
"Questo sistema di base, proprio per l'estrema facilità d'impiego e la superba chiarezza concettuale, ha offerto nel tempo uno strumento perfettamente adattabile a diverse società in continua evoluzione, entrando a far parte di sistemi amministrativi complessi cui hanno fornito sia una strumentazione esaustiva in mancanza di scrittura, sia la base per una più analitica e ricca registrazione di dati all'interno di società passate all'uso della scrittura… Le cretule [sempre trovate] nel luogo dove avviene la distribuzione, determinano lo sviluppo di complesse soluzioni architettoniche e urbanistiche. Nascono sistemi planimetrici, distributivi e architettonici strettamente aderenti alle necessità gestionali degli organismi amministrativi che tendono alla centralizzazione sia delle funzioni, sia delle strutture fisiche nelle quali queste funzioni vengono esercitate" (Fiandra, La nascita dell'amministrazione).
Questo passo si inserisce perfettamente nel nostro procedere alla ricerca dei caratteri della grande transizione. La società realizza lo strumento che le è utile per risolvere un problema contingente e questo strumento, affermandosi, finisce per determinare addirittura la forma sociale e il sistema di comunicazione dei segni e delle informazioni, come nel caso della ricordata amigdala di Leroi-Gourhan!
La discussione sulla genesi dello Stato, cioè se siano state le classi a generarlo o se al contrario le classi dominanti si siano appropriate di uno strumento esistente, è del tutto oziosa ed è influenzata dalla terminologia corrente, la quale deriva dall'ideologia dominante. Se chiamiamo "Stato" qualsiasi manifestazione di amministrazione — e quindi di autorità — centrale allora dobbiamo far risalire lo Stato al neolitico; se utilizziamo il termine nel senso delle vere società di classe con proprietà privata ecc. allora dobbiamo aspettare la Grecia classica e Roma. Engels, nell’Antidühring, afferma che ad un certo momento della storia la società si divide in classi e
"Con le differenze nella distribuzione, appaiono le differenze di classe. La società si divide in classi privilegiate e diseredate, sfruttatrici e sfruttate, dominanti e dominate e lo Stato, al quale raggruppamenti naturali di comunità dello stesso ceppo erano giunti in un primo tempo solo al fine di tutelare i loro interessi comuni, e per proteggersi dall’esterno, da ora in poi assume, nella stessa misura, il fine di mantenere con la forza le condizioni di vita e di dominio della classe dominante contro la classe dominata" (sottolineatura nel testo).
Dunque lo Stato sarebbe sorto prima delle classi, non come strumento di dominio, ma come entità cui una società che rimaneva comunistica aveva demandato la tutela degli interessi comuni e la difesa militare. D'altra parte, nell'Origine della famiglia, lo stesso Engels, dopo aver tratteggiato il processo della divisione in classi, scrive:
"Mancava ancora solo una cosa: un'istituzione che non solo assicurasse le ricchezze degli individui recentemente acquistate contro le tradizioni comunistiche dell'ordinamento gentilizio, che non solo consacrasse la proprietà privata così poco stimata in passato, e dichiarasse questa consacrazione lo scopo più elevato di ogni comunità umana, ma che imprimesse anche il marchio del generale riconoscimento sociale alle nuove forme di acquisto di proprietà… Mancava un'istituzione che rendesse eterni non solo la nascente divisione della società in classi, ma anche il diritto della classe dominante allo sfruttamento della classe non abbiente e il dominio di quella classe su questa. E questa istituzione venne. Fu inventato lo Stato".
In tal caso lo Stato sarebbe sorto dopo le classi. Sbaglierebbe chi volesse cogliere in contraddizione Engels, sempre cristallino nonostante l'inevitabile tributo al positivismo scientifico di fine '800 (o proprio grazie a questo?). Gli esempi stessi di Engels dimostrano che la questione è prettamente terminologica. Se utilizziamo sempre i medesimi termini per forme sociali diverse, non possiamo far altro che dedurre il loro significato dal contesto, secondo il suo metodo. Proponiamo perciò di utilizzare "Stato" solo nell'accezione prettamente marxiana e leniniana: strumento di dominazione della classe dominante in presenza di proprietà privata e di sfruttamento in termini di valore. Altrimenti converrà utilizzare vocaboli differenti o parafrasi magari dedotte dalla terminologia originaria, se c'è. Niente potrà suffragare questa esigenza meglio di un'analisi della genesi dello Stato dal punto di vista di una "fisica sociale".
Una società che aumenta il grado di informazione su sé stessa e sull'ambiente con cui si rapporta e nello stesso tempo non dissipa troppa energia è per definizione anti-entropica. Il segreto della grande energia vitale e produttiva, che oggi ci strabilia con i suoi risultati monumentali, è tutto qui. Un centro di produzione, amministrazione e distribuzione ben organizzato attorno a cui gravita una popolazione crescente che non scambia merci né al suo interno né con i suoi vicini, ma solo prodotti, ha tutti i numeri per evolversi e nello stesso tempo conservarsi una volta raggiunto lo stadio ottimale rispetto alla situazione geostorica. È curioso il fatto che i primi approcci fisici (termodinamici) alle società antiche e al loro modo di produzione provengano dalle conoscenze acquisite nel campo della modernissima produzione. Anche in questo caso abbiamo un riscontro con la nostra teoria: la conoscenza del modello superiore ci dà più informazione sul modello inferiore di quanta potremmo ricavarne solo da quest'ultimo.
Emergenza di strutture sempre più ordinate
Le società organiche antiche mettevano in pratica in modo naturale ciò che oggi è il risultato di ricerca scientifica: uno degli approcci alla produzione just in time e alla qualità totale è appunto quello termodinamico. Ogni sistema comprendente l'uomo con il suo mezzo di produzione, un ingresso di energia e materiali, e un'uscita di prodotti trasformati, è un insieme di elementi in interazione dinamica con l'ambiente, con il quale scambia energia e informazione. Se l'insieme è ordinato, o meglio, se è capace di auto-ordinarsi, allora il suo bilancio energetico è positivo; se non lo sa fare, tale bilancio tende al nulla, cioè all'incapacità di modificare il livello energetico esistente. Naturalmente per ottenere più energia di quella che entra nel sistema occorre prenderla da qualche parte, e qui entra in gioco l'ambiente. Questo modello rappresenta benissimo anche la situazione descritta in altro modo da Marx: basta cambiare le parole e ci si accorgerà che siamo di fronte al ciclo … Denaro → Produzione → Merce → più Denaro … e che diventa determinante il valore. Se tutto è mediato dal valore allora diventa assolutamente necessario non giungere alla situazione di bilancio nullo; ma se eliminiamo il valore, un bilancio alla pari è proprio quello che fu realizzato dalle società comunistiche originarie o da società successive ben organizzate e civili ma omeostatizzate per millenni. È quello che realizzerà la società futura utilizzando al meglio le conoscenze e potenzialità nel frattempo acquisite (e nel passaggio DPMD spariranno D e M che lasceranno al loro posto P e P1, produzione e prodotto).
I sistemi complessi posseggono la notevole proprietà di avere un interscambio con l'ambiente di cui fanno parte, di accumulare informazione e di assumere capacità di auto-organizzazione. In un certo senso il loro massimo potenziale è quello di auto-programmarsi in funzione di uno scopo. Per migliaia di anni lo scopo fu la riproduzione di comunità umane che in questo sistema interagivano e rendevano possibile l'operatività del sistema stesso alla scala sempre più ampia. Il mancato passaggio di valore fra i suoi membri ricorda la stessa dinamica che caratterizza il sistema della fabbrica moderna, la quale al suo interno forma una rete di interazioni organiche.
Nell'attuale divisione sociale del lavoro noi tendiamo a vedere solo la gran produzione di merci e il loro scambio con quantità di denaro, ed è esattamente ciò che succede, ma dentro alla fabbrica ciò non avviene affatto. Il singolo operaio non produce merci ma prodotti, tramite atti funzionali; solo il complesso della fabbrica, dei suoi operai, del mercato e del denaro può produrre merci. I rapporti comunistici passano nella storia imperterriti, dalle origini al futuro rendendo ridicoli i predicatori sulla "morte del comunismo" (cfr. Operaio parziale e piano di produzione sul n. 1, di questa rivista, settembre 2000).
La forza produttiva sociale in continua ascesa, rappresentata dalla fabbrica integrata moderna, trova nel Capitale il suo limite, un vincolo insopportabile, e lo farà saltare, così come sono saltati gli antichi rapporti comunistici perché le forze produttive del tempo spingevano verso altre forme. La società nuova erediterà una forma-stato, beninteso dopo aver fatto piazza pulita di quella borghese. Non sarà uno "Stato comunista", orrendo ossimoro utilizzato dagli orrendi epigoni di Marx (il comunismo è a-statale), e neppure "proletario", dato che il proletariato tenderà a eliminare sé stesso come classe insieme a tutte le altre classi. Ciò è importante perché ogni aggettivo accostato alla parola Stato minaccia di farla assomigliare troppo a quella utilizzata nell'accezione odierna, mentre lo Stato dovrà semplicemente sparire in quanto tale. Non c'era, come annota Engels, e non ci sarà.
La storia della sua genesi è la storia della sua morte, ed è per questo che ci interessa moltissimo. Ogni fenomeno fisico legato all'evoluzione di sistemi complessi, come abbiamo visto nel citato articolo Struttura frattale delle rivoluzioni, è caratterizzato da perturbazioni che trovano nel sistema stesso una loro neutralizzazione, anzi, addirittura la provocano, come la lotta sindacale all'interno del sistema capitalistico. Ma proprio la stabilità è l'ambiente adatto alla polarizzazione di forze che si sincronizzano provocando perturbazioni non più neutralizzabili. Il sistema diventa instabile e va verso una biforcazione catastrofica, alcune fluttuazioni si impongono sul contesto e l'intero sistema è catapultato verso un nuovo stato stabile.
Un sistema isolato come quello egizio ha molte possibilità di stabilizzarsi a lungo; un sistema aperto come quello mesopotamico ha molte possibilità di subire perturbazioni interne e soprattutto esterne. Di qui, forse, l'inconsistenza dell'armamentario bellico del primo e l'apparentemente esagerata propensione guerresca del secondo.
Gli idealisti criticano ovviamente l'idea che possa esistere una "fisica sociale", ma se è vero che il comportamento dei sistemi sociali non è prevedibile con esattezza matematica (e comunque nemmeno quello dei sistemi fisici) è anche vero che a grandi linee non c'è una dicotomia fra il mondo sociale e quello della natura: quindi le leggi soggiacenti sono le stesse, basta individuarle e capire che ovunque vi siano strutture vi è anche il modo per trattarle. Ad esempio, in una grande piazza dove si muovano disordinatamente migliaia di persone non tarderanno ad emergere strutture che danno ordine al fluire della folla. Ciò non dipende dalla volontà dei singoli ma dall'interazione, pur disordinata, tra gli stessi. Per evitare scontri, ognuno tenderà a mettersi nella stessa direzione di altri finché nasceranno spontaneamente delle correnti all'interno della massa. Ogni atomo umano rafforzerà l'altro invece di neutralizzarlo e le correnti acquisteranno energia senza che ciò corrisponda minimamente alle intenzioni dei singoli e nemmeno della loro media (l'esempio è riassunto da L'atomo sociale di Buchanan).
La formazione di strutture sociali dipende dall'interazione disordinata degli uomini, anche se questi credono di essere guidati dagli dei, da altri uomini o dalla propria intelligenza. Oltre al "risparmio energetico" che ha portato alla rivoluzione neolitica (e che la stessa ha portato alle estreme conseguenze fino a trasformare il risparmio energetico in surplus materiale), le interazioni fra i gruppi umani hanno prodotto "correnti" ordinate nella massa, aggregazioni, nuove strutture emergenti. Di fronte a ciò, il sistema tribale o gentilizio è diventato obsoleto, un involucro che non corrispondeva più al suo contenuto, esattamente come spiega Lenin a proposito del capitalismo. Come oggi la massima socializzazione globale della produzione rompe i vecchi schemi del capitalismo nazionale e personale, così il perfezionamento del comunismo originario in comunità vaste e centralizzate ad un certo punto non ha più avuto nulla a che fare con le vecchie forme e ne ha imposte di nuove. Le quali sono esplose ovunque con rapidità e analogie sorprendenti, trovando una stabilità al nuovo livello per millenni.
L'economia del dono come fattore del mercato
L'uomo s'è scambiato materie prime e prodotti del proprio lavoro fin dalla più remota preistoria. Selce, ossidiana, coloranti, pietre da ornamento, e in seguito metalli, vasi dipinti, tessuti sono fluiti ininterrottamente lungo le vie dei primi "commerci", arrivando a volte a migliaia di chilometri di distanza dal luogo di rinvenimento o produzione. Molto presto lo scambio ha interessato non solo il reciproco surplus ma anche una produzione apposita. Per millenni lo scambio è stato possibile senza la mediazione del denaro, solo in base alla reciproca soddisfazione.
Lo scambio si verifica inizialmente nei punti di contatto fra le varie comunità, dapprima in modo occasionale, poi regolare. Sviluppandosi sempre più, produce una specializzazione che si fa permanente, dalla quale nascono disuguaglianze che condurranno alcune famiglie a differenziarsi dalle altre attraverso un accumulo di beni che mina gli antichi rapporti, primo fra tutti quello della comunità della terra. Tale processo, pur convivendo ancora per molto tempo con la natura comunistica della società, rappresenta uno dei presupposti per la sua dissoluzione, dato che il mercante deve viaggiare e con ciò stesso è costretto a spezzare il proprio rapporto con la terra. Subito la comunità reagisce al rischio di corruzione dell'antico equilibrio e, quando non riesce a dissipare il surplus in grande stile, cioè in opere pubbliche come templi, piramidi o palazzi, lo fa con riti di distruzione o di "regalo" di cui gli antropologi hanno studiato anche reminiscenze recenti. Ad ogni modo il solo commercio non riesce ancora a minare seriamente i rapporti comunistici anche se accelera la tendenza allo Stato.
Il regalo come dimostrazione di un surplus non accumulabile è presente sia all'interno delle società antiche, sia soprattutto nelle relazioni fra società diverse. Intorno al terzo-secondo millennio a.C. nel Medio Oriente era normale la regalia cerimoniale (non sempre con l'obbligo di reciprocità), ma in alcuni casi rappresentava l'unica forma di "commercio estero". Il matrimonio fra sovrani e figlie di sovrani con relativi doni era sia un residuo dell'antichissimo interscambio genetico fra tribù, sia un consolidamento dell'interscambio materiale. In questo caso al primo posto veniva la donna, poi l'oro, l'argento e via a scalare con altri beni. Da notare che gli archeologi, con l'affinamento degli strumenti di ricerca e con le nuove scoperte, stanno riconsiderando il ruolo della donna in quelle società precipitosamente definite come "patriarcali", dai loro omologhi dell'800, i quali avevano letto in modo errato non solo pietre, papiri e tavolette ma persino la Bibbia. Gli unici sovrani che accettavano figlie di altri sovrani senza offrire a loro volta le proprie figlie erano gli Egizi, data la natura divina del faraone. Questa differenza fa riflettere. Gli Egizi erano ancora fortemente legati alla tradizione comunistica ancestrale quando i Mesopotamici già la stavano abbandonando. Significativa l'asimmetria registrata nella lunga lettera di un sovrano babilonese ad Amenofi III, del II millennio a.C., uno dei più importanti faraoni della storia egizia:
"Non mi hai concesso una delle tue figlie in sposa scrivendomi che presso di voi non si usa. Perché parli così? Tu sei un sovrano, puoi fare quello che vuoi. Mandami una donna bella, come se fosse tua figlia. Chi potrà mai dire 'costei non è la figlia del sovrano'? Tu mi hai scritto per un matrimonio che ci leghi maggiormente l'uno all'altro. Fratello mio, allora perché non mi hai mandato una donna? Non ti negherò le mie figlie. Quanto all'oro, mandamene quanto ne hai, in quantità, ora, subito, in modo che io possa terminare i lavori intrapresi" (Alba della civiltà, vol. II, cap. "La circolazione dei beni").
Da una parte vi è il matrimonio, che potrebbe essere letto sbrigativamente allo stesso modo di quelli fra sovrani dell'aristocrazia feudale, il cui pragmatismo è sottolineato dal fatto che principessa o donna di corte, quello che importa è l'oro. Dall'altra vi è il legame di sangue fra gentes che, nel caso del faraone, si complica per via della sua essenza divina, che determina un'asimmetria presente anche nel modo di sottoscrivere i patti politici o di scambio. Gli antichissimi sovrani impegnavano la società cui appartenevano, quelli di epoca più tarda impegnavano sé stessi, come dimostra la formula ricorrente degli Ittiti, temibili forgiatori di armi di ferro in un'epoca in cui dominava ancora il bronzo: tu hai sottoscritto i patti con mio padre (o io col tuo), ma adesso la situazione è cambiata. Insomma, l'Egitto isolato dai deserti e dal mare rimane "indietro", mentre i popoli mesopotamici, coinvolti fin dalla preistoria in scambi, evolvono verso forme di potere e di autorità centrale diverse (ciò non toglie che ancora nel II millennio a.C. il tempio di Hattusas, la capitale degli Ittiti, sia al centro di estesissimi magazzini comuni come nelle proto-città neolitiche).
Nonostante il formarsi di un vero e proprio sistema internazionale di scambi e di traffici con relativi magazzini e contabilità, perdura la mancanza di una concezione del valore e perciò del denaro. Di conseguenza sopravvive a lungo la pratica del dono. Qualunque sia il motivo addotto (matrimonio, accordi fra nazioni, trattati di pace preventivi o post guerra), troviamo il dono ovunque nella letteratura e nei documenti amministrativi delle antiche civiltà che stanno a fondamento di quella occidentale. Un re di Babilonia scrive al faraone:
"Fra sovrani c'è fratellanza, amicizia, alleanza e amichevoli relazioni quando c'è abbondanza di pietre preziose, abbondanza d'argento e abbondanza d'oro" (ibid.).
Ma "l'ideologia del dono", come la chiamano gli archeologi e gli storici, ha dei limiti, e non può entrare in contraddizione con l'algebra elementare delle relazioni (gli amici dei miei amici sono miei amici, gli amici dei miei nemici o i nemici dei miei amici sono miei nemici, i nemici dei miei nemici sono miei amici). Indicativo a questo proposito quanto scrive il sovrano degli Ittiti a quello dei Babilonesi, al quale è legato da un patto di amicizia; dopo aver fatto notare che dispone di un nutrito numero di carri e di soldati, il primo deplora le relazioni e lo scambio di doni che il secondo intrattiene con il faraone d'Egitto:
"Quando tu, fratello mio, sei diventato sovrano, hai mandato un messaggero al sovrano d'Egitto. Il sovrano d'Egitto ha ricevuto i tuoi doni e tu hai ricevuto i suoi doni. Ora tu sei un uomo: se tu mandi un messaggero con doni al sovrano d'Egitto, posso io impedirtelo?" (ibid.)
La cosiddetta ideologia del dono non è altro che l'estendersi di una prassi consolidata, nata da antichi rapporti fra gruppi sociali limitati e riflessa in rapporti generali di livello superiore. Dura a morire, essa si stabilizza secondo un criterio che affianca le normali relazioni mercantili per molti secoli. Tra eguali, sovrani o persone qualsiasi, si risolve in una sorta di soddisfazione reciproca, mentre in caso di posizione asimmetrica, la più frequente nel corso della maturazione delle differenze sociali, si trova di fronte alla necessità di conservarsi per motivi diplomatici o rituali anche quando sia ormai manifestamente sorpassata dallo scambio. Il rito del dono quindi si istituzionalizza, per cui il sovrano, o comunque il personaggio di rango elevato, pretende l'omaggio formale da parte dei "sottoposti" (spesso scambiato per "tassa" dagli archeologi meno attenti alle sfumature), mentre gli stessi "sottoposti" pretendono che sia soddisfatta l'antica consuetudine della reciprocità, cioè pretendono di beneficiare della "generosità del signore". La reciprocità è evidente anche in testi che in apparenza sono una semplice richiesta di tributi, come questo di un faraone del II millennio a.C.:
"Manda una figlia al sovrano tuo signore e manda inoltre in dono 20 servitori belli e robusti, argento, carri e cavalli di razza. Allora egli ti dirà che è bello ciò che hai fatto. Sappi che il sovrano sta bene come il Sole nel cielo. I suoi soldati e carri stanno molto bene" (ibid.)
Sembra che il sovrano d'Egitto chieda soltanto e non dia nulla in cambio, anzi, che minacci con soldati e carri, ma si sa che nella prassi di quel periodo il faraone dava in cambio più di quanto non ricevesse. A parte il fatto che la figlia di un sovrano straniero, cioè una "principessa", non andava semplicemente ad ingrossare la consistenza dell'harem, il destinatario di un messaggio come quello appena riportato aveva già ottenuto il suo dono, cioè era stato riconosciuto come "signore" di una qualche regione federata con l'Egitto. Ciò permetteva a lui e al popolo che rappresentava, di beneficiare della ricchezza comune, cioè dell'immenso surplus che l'Egitto produceva. Il destino di queste autorità locali era del resto segnato: non potevano che cadere sotto l'influenza delle grandi nazioni. O si era partecipi dei loro grandi stock di beni, o si rischiava di essere semplicemente razziati.
Gli scambi come impulso verso lo Stato
Lo schema mercantile vero e proprio fatica ad imporsi, e praticamente non sopprime del tutto lo schema redistributivo comunistico originario fino ad epoca storica classica, quando ormai le antiche civiltà proto-storiche non sono altro che il ricordo di sé stesse. Perciò convivono per lungo tempo sia lo schema redistributivo antico, sia quello dell'economia del dono, sia quello puro e semplice del mercato. Anche in questo caso dobbiamo fare attenzione ai termini: "mercato" nell'accezione antica pre-classica non è mai interscambio di merci tramite valore, anche se esiste già un equivalente astratto di confronto fra le quantità/qualità dei beni. Forse non è del tutto leggendario l'aneddoto storico che vede i Fenici, commercianti per definizione, portare di porto in porto navi cariche di beni, depositarne il contenuto sulla banchina (o addirittura sulla spiaggia) e attendere che la popolazione locale innalzi il suo "mucchio" fino a che le condizioni reciproche dello scambio non siano soddisfatte. Se questo aneddoto ha fondamento reale per la struttura degli scambi intorno al 1.000 a,C., a maggior ragione dobbiamo usare cautela quando si parla di "mercati" per situazioni di scambio di mille o duemila anni prima.
Si sapeva di vere e proprie città mercantili cresciute in epoca storica nei grandi incroci delle carovaniere di mercanti, come Samarcanda, che ospitò Alessandro Magno, Petra dei Nabatei, Palmira dei Seleucidi o Hatra dei Parti, ma si tratta di siti urbani che raggiunsero il massimo splendore nei secoli intorno all'inizio della nostra era. Si sapeva che le grandi metropoli mesopotamiche erano anche punti di passaggio e di mercato nei millenni precedenti: si conosceva la Ugarit (Siria), di lingua fenicia, grande centro di scambi fra Oriente e Occidente conteso fra Egizi e Ittiti, ma non si supponeva che i commerci potessero addirittura produrre un "impero". Grande fu quindi la sorpresa degli archeologi quando scavando nel sito di Ebla, una città proto-siriana quasi sconosciuta, trovarono in un solo giorno più tavolette amministrative e diplomatiche di quante ne fossero state trovate in un secolo nell'intera Mesopotamia. Ed erano quasi tutti testi del III millennio a.C. sul commercio e sull'allocazione dei beni prodotti o importati.
Il caso di Ebla è interessante e lo prenderemo come esempio di struttura antica, ancora impregnata di rapporti comunitari se non comunistici, ma lanciata dallo scambio sulla strada dello Stato. Un ibrido perfetto per rappresentare un paradigma, anche perché vi sono analogie con la successiva civiltà micenea che affronteremo più avanti. Prima però occorre osservare come avvenissero gli scambi in una società senza denaro, per mezzo del ricordato equivalente astratto. Non i piccoli scambi fra individui o famiglie, che soddisfacevano l'utilità d'uso (in pratica baratto), ma i grandi scambi fra mercanti o fra nazioni. L'artigiano e il laboratorio del palazzo, o anche privato, sapevano quanto tempo era loro occorso per produrre un bene e lo rapportavano, poniamo, a una quantità virtuale di argento. Sul mercato poteva capitare quindi che si scambiassero balle di lana con lingotti di rame facendo riferimento a un certo peso in argento e infine compensando l'eventuale differenza con anfore di olio. Ciò avveniva senza che nessuno maneggiasse davvero l'argento (fra l'altro non ce ne sarebbe stato abbastanza). Detto per inciso, in tutta la Mesopotamia, persino in epoche nelle quali la società aveva ormai superato lo stadio comunitario per diventare "palatina", il "commercio estero" perpetuava le antiche funzioni redistributive: come quando ad esempio veniva fornito cibo ad una parte della popolazione in sostituzione di un "interesse" dovuto a organismi centrali, o quando una parte dei beni scambiati veniva utilizzata per "pagare" gli addetti agli scambi e ai magazzini, o quando ancora ai nodi delle carovaniere si formavano città mercantili che attiravano popolazione migrante altrimenti improduttiva che andava nutrita, vestita e messa sotto a un tetto.
Esisteva un minimo di standard internazionale per le transazioni più comuni. Ad esempio un lingotto di rame a forma di pelle di pecora con — poniamo — dieci tacche "valeva" dieci pelli, e questo, grosso modo, in tutto il bacino del Mediterraneo e in Mesopotamia. In genere l'autorità centrale delle varie nazioni aveva il "monopolio" degli scambi con altre nazioni, scambi che avvenivano tramite mercanti appositamente incaricati o tramite emissari del tempio. Siccome lo scambio secondo un embrione di valore ma senza denaro era assai macchinoso, come abbiamo visto, autorità centrali e templi avevano i loro mercanti dislocati nelle varie città, così che lo scambio dei beni veniva registrato con scritture contabili e ogni anno venivano solo regolate le differenze (tavolette con registrazioni in una sorta di anticipazione della partita doppia sono state trovate a Ur in un livello del III millennio a.C., recanti la frase: "conto bilanciato del mercante tal dei tali").
Di Ebla non si sapeva l'ubicazione e c'erano persino dei dubbi sulla sua reale esistenza. Era nominata in alcuni testi mesopotamici ed egizi, ma senza particolari che ne permettessero l'identificazione. Era conosciuta più che altro perché fu conquistata da Sargon di Akkad e distrutta da Naramsin, suo nipote, e quindi citata in testi celebrativi. Siccome gli scavi sistematici sono relativamente recenti (la prima prospezione è del 1964, l'archivio-biblioteca fu trovato undici anni dopo) abbiamo una gran mole di materiale, tratto da ricerche condotte con metodo scientifico moderno, le quali ci permettono di superare almeno in parte le troppe lacune dell'archeologia ottocentesca che tanto hanno influito sul prevalere di alcune credenze riguardo alle società antiche. Abbiamo anche la fortuna di assistere ad una diatriba, ancora in corso, tra gli archeologi (la missione è italiana) che hanno partecipato agli scavi, per cui il cozzo di tesi in contrasto ci permette di distillare dei risultati in sintonia con i presupposti della nostra ricerca.
Le origini di Ebla (risalenti a prima del 3000 a.C.) sono ancora sconosciute, ma dai dati disponibili sembra che la città sia una filiazione della civiltà sumerica, conseguente all'urbanizzazione di Uruk, sviluppatasi molto più a Sud e molto più anticamente e quindi città-madre. Ciò è importante, perché alcuni archeologi ricavano dai dati recenti di Ebla, confrontati a quelli tratti dai vecchi scavi di Uruk, notevoli correzioni su quest'ultima civiltà. Come si vede, siamo al solito punto: la conoscenza sul fenomeno più recente e complesso ci permette di conoscere meglio il livello precedente da cui esso deriva. Da questa nuova conoscenza deriviamo ulteriore conoscenza anche sul fenomeno più recente. E questa volta la conoscenza complessiva è ben supportata dal più vasto archivio-biblioteca mai scoperto, circa 20.000 documenti, soprattutto contabili ma anche di contenuto mitologico e letterario, cataloghi, enciclopedie, vocabolari bilingui, ecc.