Ancora su crisi e transizioni
Quando nel giugno del 2008 scrivemmo che quella in atto non era una crisi congiunturale ma un'oscillazione entro la crisi storica del capitalismo, ricevemmo alcune lettere di critica. Il tono variava dal collaborativo al sarcastico, con ricorso ai classici. Tutte le missive scivolavano su un equivoco: si pensava (si voleva pensare) che noi sostenessimo l'irreversibilità di "questa" crisi, iniziata con il collasso del mercato immobiliare legato ai mutui subprime, quando invece noi la stavamo trattando come semplice epifenomeno di una dinamica epocale. È vero che prendevamo le mosse dal fatto contingente, era però anche chiarissimo che il nostro riferimento principale non era la crisi "dei mutui" bensì la crisi cronica dovuta alla senilità dell'attuale forma economico-sociale. Sappiamo bene che, come si rileva appunto dai classici e come c'insegna la nostra corrente, non esiste crisi ciclica insuperabile e soprattutto "non esiste curva discendente del capitalismo". L'avvicendarsi delle forme sociali non si può rappresentare con una curva di tipo sinusoidale, cioè a variazioni continue, ma con uno schema di fasi ad andamento catastrofico, fasi in cui l'accumulo continuo degli eventi provoca una soluzione discontinua, come quando si tira la corda con forza crescente in modo graduale, finché questa non si spezza in modo improvviso. Sei mesi dopo, nel dicembre del 2008, pubblicammo un numero quasi monografico della rivista su di un modello non contingente di crisi, riprendendo sia una nostra pubblicazione del 1984 che, soprattutto, una serie di elaborati che la nostra corrente sviluppò a partire dal 1957. Oggi constatiamo che anche qualche esponente della borghesia incomincia a non essere più troppo convinto che i cicli economici possano essere eterni e si adegua all'evidenza: il capitalismo è una società altamente dissipativa, e non si può dissipare all'infinito in un mondo finito. Intanto la crisi dentro alla crisi non è affatto al suo epilogo, il sistema dopo tre anni non ha ancora recuperato le posizioni di partenza.
In questo numero pubblichiamo un terzo articolo della serie sulle transizioni rivoluzionarie. Nel primo (n. 26) ci siamo occupati della "struttura frattale delle rivoluzioni", cioè delle invarianze all'interno del grande schema storico tracciabile dal comunismo primitivo a quello sviluppato attraverso le società con proprietà, classi e Stato. Nel secondo (n. 27) abbiamo analizzato la prima, grande transizione, quella dal comunismo primitivo alle società proto-urbane, nelle quali s'incominciano ad avvertire i sintomi di statualizzazione pur nella tenace persistenza di caratteri comunistici. Qui affrontiamo il tema, assai dibattuto in passato, del cosiddetto modo di produzione asiatico. Lo affrontiamo, sulla base soprattutto dei Grundrisse di Marx e delle evidenze archeologiche e storiche, in coerenza con i due saggi precedenti, e quindi fuori dagli schemi del dibattito storico entro e fra le correnti marxiste. Pur evocando di sfuggita gli argomenti che furono alla base di tale dibattito, consideriamo quest'ultimo troppo inquinato da scontri ideologici per essere utile. Nel nostro caso, quindi, non si è solo trattato di un "ritorno a Marx", cosa comunque indispensabile, ma di un approccio completamente diverso rispetto a quello ricordato e il cui perno non è tanto la definizione, la tassonomia delle forme sociali, quanto la ricerca delle cause della cosiddetta asiatizzazione e della sua stabilità a volte millenaria. E questo al di fuori delle affinità geografiche e soprattutto di una cronologia lineare, data la disparità dei periodi storici in cui si sviluppa un medesimo fenomeno (ad esempio gli antichi Maya in America e gli imperi cinesi in Asia, gli Egizi in Africa e gli Ellenici dalla Grecia all'India).