Fukushima in cifre
Gli inaspettati nove gradi di magnitudine non giustificano niente, tantomeno in Giappone. Sulle catastrofi "naturali" c'è un vasto lavoro della nostra corrente, raccolto nel nostro Quaderno Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale e non ci dilungheremo. Del resto i media ci stanno mostrando i giapponesi pazienti e disciplinati come se i 30.000 morti fossero dovuti a mera fatalità. Tutti constateranno presto, come dopo il disastro di Kobe, che i danni per 150 miliardi di dollari non affosseranno l'economia né tantomeno la risolleveranno con le commesse per la ricostruzione, dato che rappresentano solo un'infima percentuale dell'ancora gigantesco PIL giapponese.
Però questa volta è saltata una centrale nucleare e la situazione si complica. L'argomento non è nuovo ma richiede un minimo di decontaminazione rispetto alle balle sparate sia dai partigiani del nucleare sia da quelli delle cosiddette fonti alternative. Gli incidenti alle centrali nucleari si contano a decine, ma quelli gravissimi sono stati "solo" tre: Three Mile Island (USA), Chernobyl (Ucraina) e Fukushima. Su 443 centrali nel mondo, la maggior parte funzionanti da decenni, l'incidenza numerica dei disastri per anno risulta abbastanza bassa e i fautori del nucleare fanno presente che solo nelle miniere di carbone cinesi muoiono 2 o 3.000 operai all'anno. Il guaio è che per il nucleare non si tratta di incidenti qualsiasi, la soglia di pericolosità non la conosce nessuno e Fukushima, pur tenendo conto del criminale (anche per gli standard capitalistici) comportamento dell'azienda responsabile, sta a provarlo. Su sei reattori, ne sono saltati quattro, compreso uno che sembrava non a rischio in quanto usato solo come magazzino scorie. Probabilità che succedesse: vicino allo zero… secondo i calcoli correnti, come vedremo.
Le centrali, ovviamente, sono distribuite fra i paesi seguendo grosso modo la concentrazione del capitale: 104 negli Stati Uniti, 55 in Giappone, 58 in Francia e così via, fino ad arrivare alla Cina con 13 funzionanti, 27 in costruzione, 50 in progetto e 110 previste come obbiettivo. Il Giappone ha un consumo pro capite di energia proveniente da ogni fonte pari a 3,64 Tep (tonnellate equivalenti di petrolio). Basta moltiplicare il dato per 130 milioni di abitanti per avere chiara la nozione della sua fame di energia. E siccome di sua ne ha solo di idroelettrica (poca), ecco che, nonostante le 55 centrali nucleari, si trova nella scomoda posizione di secondo importatore mondiale di petrolio dopo gli USA; primo importatore del mondo di gas; primo importatore mondiale di carbone; terzo importatore mondiale di uranio dopo gli USA e la Francia.
La prima centrale fu costruita nel 1969 e ad oggi il Giappone ha una potenza installata di 48 Gigawatt (altri 14 Gw sono in programma). Il terremoto ha danneggiato la metà delle centrali costruite nel primo decennio e nessuna centrale costruita in seguito. Ovunque avesse colpito il terremoto, le centrali di vecchia tecnologia, pur rinnovate, non avrebbero resistito. Ciò significa almeno due cose fondamentali: 1) che gli standard di allora, creduti sicuri o gabellati per tali non lo erano affatto; 2) che l'allungamento della vita dei reattori, il cui unico scopo è la redditività economica, è stato ottenuto senza tenere minimamente conto dei nuovi standard di sicurezza con i quali sono state costruite le ultime centrali.
L'incidente di Fukushima si è verificato per condizioni estreme, ma si è verificato. Ciò significa che: 1) non esistono centrali sicure al 100%; 2) che si può solo abbassare, a costi crescenti, il livello di probabilità degli incidenti (questo vale per qualsiasi impianto industriale o macchina; 3) che l'aumento del numero delle centrali invalida la diminuzione della probabilità di incidenti; 4) come nei due disastri precedenti (ma anche quelli legati al petrolio come la piattaforma BP o alla chimica come Seveso o Bhopal) c'è stato un lucroso e illegale risparmio di capitale costante; 4) non è possibile fermare la corsa al nucleare finché il capitalismo è in piedi. Il vagheggiato capitalismo a basso consumo energetico non esiste: questo sistema consumerà sempre il massimo di energia consentito dalla rendita, cioè dalla quantità di valore che è possibile stornare dal profitto, una contraddizione immane che può, da sola, provocare la micidiale concorrenza fra stati fino alla guerra.
Il ciclo energetico è molto lungo. Esso è determinato dall'assetto geografico, economico e sociale di interi continenti e determina a sua volta i rapporti interni ed esterni dei vari paesi. Le conseguenze di assetti politici al riguardo possono avere effetti per un secolo, come nel caso dei piani idroelettrici di inizio '900 in Italia, completati durante il fascismo, che hanno ancora un impatto attuale. Per questi suoi caratteri il ciclo ha una fortissima inerzia e non è sensibile ad eventi repentini che ne modificano localmente le condizioni. Three Mile Island, Chernobyl e Fukushima non hanno cambiato di una virgola l'andamento del nucleare, i disastri sono meno potenti dei miliardi di dollari per progetti con esiti a diversi decenni. È inutile predicare che l'eolico, il fotovoltaico o il solare "sono meglio"; non è quello il criterio che fa decidere quale strada imboccare. L'unica risposta possibile è: vi piace il capitalismo? Ve lo tenete com'è, esso non è riformabile.
Come il profitto agisce a monte, fin dalla progettazione, ubicazione, costruzione e gestione delle centrali, così agisce a valle, con effetti ancor più devastanti. Non si contano le scoperte di traffici criminali di scorie radioattive. È sciocco pensare che esse possano sottostare a leggi economiche differenti rispetto a quelle che regolano, in campo internazionale, i rifiuti della produzione industriale e quelli domestici. La produzione di energia nucleare non è un problema nazionale ma planetario: paesi la possono adottare e altri no, ma nel computo globale dei Gigawatt il modo di produzione capitalistico non si fermerà di fronte a niente pur di disporre del massimo di energia, a costo non solo di sacrificare il cibo e la salute dell'uomo, cosa che sta già facendo da tempo, ma di compromettere la riproduzione della specie.