La rivoluzione del carciofo

Si scopron le tombe, si levano i morti. Un esercito di zombie s'aggira per l'Italia: gli eredi della massoneria, i bigotti anticlericali savoiardi, gli anti-unitari polentoni, quelli borbonizzanti, i fanatici cattolici e i mangiapreti positivisti. La ricorrenza del 150° dell'Unità imporrebbe un minimo di unità. Macché. Il più eclatante segno di sintonia sul 17 marzo, proclamazione del regno d'Italia, è stato il ponte lungo, l'unico evento che ha visto una partecipazione di massa.

Per il resto, non siamo neppure al livello dell'ideologia. I leghisti che "lottano" per non festeggiare l'anniversario o che bruciano l'effigie di Garibaldi ragionano con i visceri, esattamente come i loro omologhi del Sud, che rispolverano bandiere borboniche inneggiando ai briganti-martiri (a dire il vero, con un pizzico di retaggio intellettuale da Magna Grecia, come diceva De Mita).

Eppure quella italiana è stata una rivoluzione. Né dal basso, né dall'alto, con i protagonisti sballottati come la pallina di un flipper tra i respingenti e le trappole delle grandi potenze, ma una vera rivoluzione. Tralasciando quella francese, un po' particolare con il suo retroterra dei philosophes e dell'Encyclopédie, con la sua dinamica tra i sanculotti, i Marat e i Robespierre, con la stabilizzazione europea intorno al codice napoleonico, tutte le altre rivoluzioni borghesi sono avvenute malgrado l'esitazione, la codardia, la divisione e la confusione della classe che alla fine in un modo o nell'altro è riuscita a prendere il potere. Dagli Stati Uniti alla Germania, dalla Russia alla Cina, la borghesia s'è sempre dimostrata una classe inconseguente e vigliacca che trovava una sua unità solo nello sfruttamento e nella repressione delle classi subalterne.

Unificare un territorio come l'Italia, ridotto a "mera espressione geografica" come diceva Metternich, conteso tra potenze che avrebbero potuto schiacciare come una pulce quel covo di mercenari storici che era il Piemonte, non era impresa semplice. La borghesia in generale era di qualità scadente, comunque in ogni regione vi furono forze borghesi disposte a combattere, appoggiate da una piccola borghesia intellettuale confusionaria ma non sempre pasticciona e vile. Una rivoluzione difficile, dunque, che vide tappe alla Vittorio Amedeo e il suo celebre paragone col carciofo, ortaggio di cui si mangia una foglia per volta.

La nostra corrente non è stata tenera con gli esponenti borghesi e con quelli delle mezze classi italiane, ma soprattutto con quella parte dello schieramento risorgimentale che fin da subito trasse profitto dall'unificazione dedicandosi ai traffici, alla corruzione, al carrierismo, al trasformismo, allo sfruttamento del proletariato e dei contadini senza terra. Compresa la borghesia latifondista del Sud, sissignori, che non tardò un momento a schierarsi col nuovo assetto nazionale, dimostrando che in Italia non esisteva più da un pezzo il preteso feudalesimo meridionale, se mai era esistito. E naturalmente assorbendo immediatamente tutti i vizi e neppure una delle virtù degli invasori piemontesi.

Il paradosso sta proprio in questo: gli attuali revisionisti storici che snobbano l'anniversario, unionisti o secessionisti che siano, sono i migliori eredi della classe borghese e delle mezze classi che hanno fatto l'Italia, vecchie di mille anni, quindi già putrefatte un secolo e mezzo addietro, dedite a sporchi intrallazzi mentre i Cattaneo e i Pisacane armavano la rivoluzione di teoria e di slancio.

Rivista n. 29