Energia e materie prime

"Ogni rendita fondiaria è plusvalore, prodotto di pluslavoro. Nella sua forma non sviluppata, quella della rendita in natura, essa è ancora direttamente plusprodotto. Di qui l'errore di credere che la rendita capitalistica si spieghi semplicemente rifacendosi alle condizioni generali di esistenza del plusvalore in quanto tale, cioè che i produttori immediati debbano elargire del pluslavoro. È questa la condizione soggettiva. Ma quella oggettiva è che possano elargire pluslavoro. Che cioè le condizioni naturali siano tali che una parte del tempo di lavoro disponibile sia sufficiente per la riproduzione e autoconservazione dei produttori. La fertilità della natura costituisce un limite. Lo sviluppo della forza produttiva sociale ne costituisce l'altro" (Marx, Il Capitale, Libro III, cap. XXXVII).

I prodotti della terra come fattori di accumulazione

Vedremo che la complessa vicenda dell'energia, delle materie prime e del cibo è quasi esclusivamente legata, oggi, alla possibilità di fornire alla rendita quote crescenti di valore; alla possibilità, cioè, di produrre nuovo valore a sufficienza per allontanare nel tempo quel secondo limite che nella nostra citazione d'apertura è rappresentato dalla forza produttiva sociale.

Per affrontare la teoria marxiana della rendita occorre prima di tutto scomporre la complessità sociale in elementi semplici tralasciando gli aspetti spuri. Nello schema teorico avremo quindi sempre un proprietario fondiario, un capitalista, un operaio, anche se vi possono essere diverse ibridazioni fra questi tre protagonisti. Ad esempio un contadino proprietario che investisse capitale proprio e lavorasse con moglie e figli la terra per sé e per loro, riunirebbe le tre figure in una sola.

Dai nostri testi classici ricaviamo l'assunto che la rivoluzione capitalista è, alle sue origini, una rivoluzione "agraria": il capitale, separando storicamente il lavoratore dalla terra e dai mezzi di produzione, trasformandolo in salariato di altri settori o sulla terra stessa come bracciante, sviluppa la forza produttiva sociale e rende possibile l'erogazione generalizzata di quella plusvalenza sul salario che è il profitto capitalistico. Ovunque vi sia vendita di forza-lavoro sul mercato, vi è anche tale plusvalenza. La rendita non incide sul rapporto fra venditore e compratore di forza-lavoro, almeno non direttamente, e non è tanto un di più sul profitto capitalistico, un surplus della natura, quanto una sottrazione al profitto dovuta ai caratteri della proprietà borghese.

In ultima analisi, la rendita non è altro che una parte del valore totale prodotto nella società, parte che viene devoluta al proprietario del fondo. Naturalmente di primo acchito sembra che anche l'operaio paghi un tributo alla rendita, ad esempio quando una parte del suo valore-salario finisce in benzina versata nel serbatoio dell'automobile. Ma siccome detto valore passa nelle tasche del capitalista petroliere e di lì a quelle del proprietario dei pozzi, il bilancio totale si riduce, dalla trinità profitto-salario-rendita, al binomio profitto-salario. Considerando l'intera società, astraendo dai variabili profitti individuali, scriviamo: plusvalore e salario, ossia p e v. Il rapporto fra questi due elementi dell'economia politica capitalistica è il saggio di sfruttamento p/v. Ogni tensione sui prezzi dei prodotti della terra in un mondo che sta consumando velocemente cibo coltivato su aree che hanno un limite naturale e materie prime non rinnovabili, quindi sempre meno reperibili, si traduce automaticamente in un aumento inesorabile del saggio di sfruttamento. E dato che il saggio di sfruttamento è legato alla produttività del lavoro, sarebbe impossibile devolvere una parte del valore alla rendita se non aumentasse continuamente la forza produttiva sociale.

Se questa non aumentasse, non potrebbe aumentare la quota di plusvalore che è necessario devolvere alla rendita, non sarebbe possibile accedere a nuova terra al prezzo stabilito dal proprietario; e non sarebbe possibile migliorare continuamente la resa del terreno coltivato (o sfruttato dall'industria estrattiva) anticipando capitale per nuove specie di sementi, concimi più efficaci, macchine più potenti e razionali, forza-lavoro aggiuntiva. Una volta resi possibili i miglioramenti, il ciclo di lavorazione agrario o minerario ne risulta potenziato. L'azione diretta dell'uomo sulla natura dà luogo a una produzione che solo in parte è dovuta all'apporto di nuovo valore in forma di capitale. Per un'altra parte è dovuta alla terra stessa, all'humus fertile e ai depositi minerari custoditi nelle sue profondità. Perciò l'accumulazione "agraria" risulta rafforzata rispetto alle sfere produttive in cui vige la sola unione tra capitale e lavoro:

"Risultato generale: incorporandosi i due creatori originari della ricchezza, cioè forza lavoro e terra, il capitale acquista una forza di espansione che gli permette di estendere gli elementi della propria accumulazione al di là dei limiti apparentemente segnati dalla sua grandezza, i limiti cioè segnati dal valore e dalla massa dei mezzi di produzione già prodotti, nei quali esso esiste" (Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXII.4).

In effetti, annota Marx, sottraendo l'intero valore d'uso che è incorporato nella merce grazie al lavoro umano, rimane sempre un originario valore d'uso che proviene dalle varie materie prime utilizzate, le quali sono messe a disposizione dalla natura senza che l'uomo abbia partecipato col suo lavoro a formarle e depositarle nella terra. Ed egli non può far altro che procedere come la natura stessa, trasformando a diversi livelli materia che in natura esiste già. Perciò è "padrone" della materia in questione solo chi la trasforma e utilizza, impiegando capitale e lavoro. Chi invece è "padrone" del terreno può solo far valere un diritto di proprietà, concedere o meno l'accesso, ma anche questo diritto vale unicamente in relazione allo sviluppo della forza produttiva sociale.

Il sisma "petrolifero" del 1975

All'inizio degli anni '70 del secolo scorso, sul finire del formidabile ciclo di ri-accumulazione reso possibile dalla ri-costruzione postbellica, incominciava a profilarsi una crisi epocale. Le transazioni internazionali avvenivano quasi esclusivamente tramite la valuta dei vincitori, cioè in dollari. Poiché la quantità di moneta circolante è legata alla quantità di valore prodotto ex novo in rapporto alla velocità di circolazione, e dato che la frenesia commerciale e finanziaria produceva sul mercato estero un numero di transazioni sproporzionato rispetto alla produzione di nuovo valore, si verificava l'inedito fenomeno della "creazione" di xenovaluta, cioè una crescita abnorme di dollari senza madrepatria, o meglio, che la madrepatria non poteva più convertire in oro, altra valuta o merci. Di conseguenza gli Stati Uniti, che nel frattempo erano entrati in recessione, decidevano unilateralmente di denunciare gli accordi di Bretton Woods sulla parità fissa dollaro-oro con la quale si confrontavano tutte le altre valute, e di svalutare drasticamente il dollaro (8,9%) per stimolare le proprie esportazioni in modo da poter assorbire una parte dei dollari circolanti senza conseguenze inflazionistiche. Nello stesso tempo elevavano una barriera tariffaria protezionistica (10%) sulle importazioni.

In un sistema di parità fissa ogni variazione di cambi e convertibilità avrebbe dovuto essere concordata, di conseguenza l'unilateralità delle decisioni era percepita come evento gravissimo ed estremo. I mercati internazionali rispondevano quindi alla crisi americana con cupo pessimismo, in quanto c'erano tutti gli elementi per parlare di una vera e propria bancarotta americana. La situazione non era ancora risolta alla vigilia della guerra arabo-israeliana (6-24 ottobre 1973), tanto che massicci attacchi speculativi sulle valute costringevano il dollaro a una ulteriore svalutazione (10%) nonostante la ripetuta chiusura dei cambi. A quell'epoca vigeva la legge cui abbiamo già fatto cenno: "padroni" del petrolio, come delle altre materie prime, erano i paesi che trasformavano la materia, mentre i "padroni" della terra su cui sorgevano pozzi e miniere intascavano una rendita proporzionata alla loro possibilità di far valere la condizione di monopolio, e, soprattutto, proporzionata al livello di maturazione della forza produttiva sociale. Tra l'altro il carbone era stato in gran parte sostituito con il petrolio, e molti altri materiali (metalli, legno, tessuti) con la plastica derivata dal petrolio.

La svalutazione del dollaro aveva anche comportato un aumento del prezzo delle materie prime, visto che i paesi produttori continuavano a fissarlo in dollari. Per cui è inesatto affermare che fu la guerra a provocare il salto epocale dei prezzi, primo fra tutti quello del petrolio, come se fosse una vendetta araba contro il nemico sionista e i suoi sostenitori occidentali. In realtà l'intera questione delle materie prime, e in particolar modo delle fonti di energia, a partire dal 1970-71 stava diventando il fulcro dell'attività economico-finanziaria dei maggiori paesi imperialisti e della formazione degli schieramenti internazionali per gli anni futuri. L'umanità stava entrando in un periodo cruciale della storia del capitalismo, come vent'anni prima il nostro movimento aveva previsto elaborando un modello di crescita esposto in una lunga serie di articoli (vedi il n. 24 di questa rivista), nei quali, dalla "mineralizzazione del mondo", si ricavavano auspici favorevoli per la rivoluzione. La previsione si era dimostrata esatta rispetto alla galoppante mineralizzazione della specie umana, mentre sembrava clamorosamente sbagliata per quanto riguardava l'avvento di un periodo di guerra e rivoluzione. La curva ascendente della massa minerale prodotta aveva effettivamente incrociato la curva discendente della biomassa del pianeta, e anzi ciò era successo con grande anticipo rispetto alle previsioni, mentre la risposta sociale al fenomeno si era limitata a un decennio di lotte e scontri che avevano come retroterra ideologico i temi della vecchia rivoluzione 1917-1926, poi degenerati. Non si era verificato né l'avvento di una guerra generale né l'avvio di un moderno processo rivoluzionario "cosciente", cioè sotto il segno del "rovesciamento della prassi" guidato dal partito.

Dato che i fenomeni sociali hanno un alto grado di imprevedibilità nonostante rispondano a leggi semplici, la mancata risposta di classe non aveva affatto dimostrato l'inconsistenza teorica del modello. Il processo materiale provava una volta di più come non vi sia mai una relazione meccanica fra il fatto economico e quello sociale; e il modello ribadiva che la forma capitalistica aveva una storia e che la sua evoluzione nel tempo era irreversibile, che il suo traguardo era ineluttabile. La maturazione del sistema verso il dominio anonimo del capitale finanziario era il culmine del percorso anti-specie del capitalismo, il limite la cui incognita era solo il tempo. Da questo punto di vista l'enorme potenziale esplosivo che la questione delle materie prime poneva sul tappeto era collegato a una serie di detonatori che sprofondavano nel sottosuolo economico della società capitalistica ormai estesa a livello mondiale.

Alla fine degli anni '60, cioè al culmine dell'era del carbone e dell'acciaio, la tensione in tutto il mondo capitalistico trovava nel petrolio un punto di attrazione su cui scaricarsi. Gli Stati Uniti estraevano sul proprio territorio l'80% del petrolio che consumavano, ma lo facevano a un costo medio di ben 3,50 dollari al barile, mentre il restante 20% lo acquistavano all'estero a 2,17 dollari. Tanto per fare un paragone, l'Europa e il Giappone acquistavano all'estero la quasi totalità del petrolio ad un costo di 2 dollari al barile. Ciò aveva una sola spiegazione: gli americani, pur pagando caro il proprio petrolio, trattenevano all'interno del paese l'80% della rendita, mentre europei e giapponesi la pagavano per intero ad altri paesi. Questa situazione non poteva durare. Nel 1970 si consumava nel mondo energia per 5.005 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (tep), con la previsione di giungere a 8.827 milioni di tep nel 1980. Con il 6% della popolazione mondiale, gli USA consumavano, nello stesso anno, il 35% dell'energia disponibile (1.603 milioni di tep) con la previsione di giungere a 2.400 nel 1980. Ma già nel 1972 da soli importavano tanto petrolio quanto il governo aveva calcolato che se ne sarebbe dovuto importare nel 1980, mentre le campagne di ricerca diventavano frenetiche, essendo ormai chiaro che i nuovi ritrovamenti dell'Alaska e del Mare del Nord, nel lungo periodo, non potevano che essere considerati poco più di una boccata di os­sigeno.

Con questi dati a disposizione ed estendendo le proiezioni a fine secolo, incominciava a serpeggiare il pessimismo. Si prevedeva ad esempio il prosciugamento dei pozzi esistenti entro nove anni e l'esaurimento delle riserve mondiali in trent'anni, con l'esclusione del carbone. Altri studi prevedevano che nel 1980 l'URSS avrebbe avuto bisogno della totali­tà del petrolio estratto dal proprio sottosuolo, lasciando all'asciutto i paesi satelliti; mentre la Cina, sempre al 1980, non avrebbe potuto far fronte al proprio fabbisogno con le sole risorse interne, pur possedendo ricchissimi giacimenti di carbone. Un po' di ottimismo scaturiva, dai dati americani, per le ottime prospettive di sbocco che si aprivano alle tecnologie di ricerca delle grandi multinazionali dell'energia: negli Stati Uniti, a partire dal 1955, le com­pagnie avevano già speso 68 miliardi di dollari nella ricerca e, per mantenere un sufficiente tasso di riserve, sarebbe stato necessario spenderne subito, al 1970, altri 50. Era chiaro che dal punto di vista capitalistico la situazione sarebbe diventata insostenibile se non si fosse trovata una via d'uscita, e questa poteva essere rappresentata proprio dall'aumento del prezzo del petrolio: molti giacimenti non ancora sfruttati, idrocarburi diversi dal petrolio e nuove tecnologie molto costose stavano diventando convenienti.

Corsa alla ripartizione del plusvalore… altrui

Compagnia Profitti netti 1968 Profitti netti 1973 Δ % 1968-73
Exxon 1.277 2.443 91,3
Texaco 820 1.292 57,6
Mobil 431 849 97,0
Socal 452 844 86,7
Gulf 626 800 27,8
Shell 935 1.780 87,7
B. P. 310 803 155,0
Totali 4.851 8.811 86,1

Nel 1971, durante la trattativa con l'OPEC a Teheran, molti si chiesero perché mai le compagnie si dimostrassero così accondiscendenti ad un aumento di prezzo. A quella data esse avevano già visto sali­re il proprio indebitamento complessivo a lungo termine da un tas­so dell'8% al 17%, mentre il tasso di autofinanziamento era calato dal 100% all'80%. Il Dipartimento di Stato USA si mostrò incoraggiante, e un primo aumento dei prezzi fu riversato dalle compagnie sul mercato mondiale ricavandone utili gi­ganteschi. Seguirono altri aumenti nel febbraio del 1972 e nel gennaio del 1974. I profitti realizzati dalle compagnie durante il primo trimestre del 1974 (da 4 a 4,5 dollari al barile) furono nove volte più alti della media di 0,55 dollari al barile ritenuta "ragione­vole" fra il 1958 e il 1972.

La tabella mostra con chiarezza come, prima della fase acuta della crisi nel 1974, fosse ben precisa l'ascesa dei profitti, peraltro necessaria per affrontare gli investimenti richiesti dalla ricerca di nuovi giacimenti. Tant'è vero che su Mondo Economico si poteva leggere, nel settembre 1973, un mese prima dello scoppio della guerra:

"La chiave di volta del grande gioco è tutta nel prezzo degli idrocarburi. Per sviluppa­re in modo adeguato la produzione interna, americana, siberiana e del Mar della Cina, occorre che i prezzi aumentino. Questo fatto mette d'accordo tutti: russi, americani, cinesi e soprattutto le gran­di compagnie... Si profila dunque lo spettro di una nuova Santa Alleanza, le cui spese sarebbero pagate dal resto del mondo: europei, giapponesi, e soprattutto paesi sottosviluppati".

La stretta connessione tra le esigenze materiali del capitale e quella che sarà in seguito la "sorprendente" convergenza diploma­tica tra USA da una parte, e Iran e Arabia Saudita (produttori) dall'altra, è evidente. Come del resto fu evidente l'atmosfera idilliaca che, nel 1973, si instaurò tra gli USA e i due maggiori paesi "socia­listi". Il viaggio che Breznev compì negli USA in giugno, e duran­te il quale vennero firmati 9 accordi, seguì di poco la firma di un contratto di 8 miliardi di dollari tra il governo russo e la Occidental Petroleum Company, definito "l'affare più rilevante mai stipu­lato fra sovietici e americani"; mentre il viaggio dì Kissinger a Pechino si concluse con l'apertura di "uffici di collegamento" bilaterali "con programmi concreti di espansione dei commerci e de­gli scambi scientifici".

Mentre la fame di pane della Russia, dell'Asia e dell'Africa aveva contribuito a de­finire il prezzo del grano americano sul mercato mondiale, la fame di materie prime del mondo industrializzato risvegliò il senso giuridico del diritto alla proprietà del suolo su cui si ergevano i pozzi o sprofondavano le miniere, e quindi del diritto alla regolazio­ne dell'accesso sul territorio altrui. La rendita diventò arbitra del capitali­smo nella sua fase imperialista, e terminò per sempre il ciclo coloniale durante il quale i paesi imperialisti avevano rapinato impunemente il mondo. S'imponeva adesso una diversa impostazione dei flussi di valore: da una parte occorreva intensificare lo sfruttamento del proletariato per procurarsi il sovrapprofitto da passare alla rendita, dall'altra occorreva rastrellare quest'ultima e farla ritornare come capitale nelle banche occidentali, anzi, anglosassoni, già rappresentanti del capitale storicamente accumulato. In ogni caso era terminato il ciclo economico della ricostruzione ed era incominciato quello del capitale senile in disperata ricerca di valorizzazione.

L'obiettivo dei capitali nazionali non era più tanto quello di produrre plusvalore, cosa resa sempre più difficile dalla legge dei rendimenti decrescenti del sistema, bensì quello di accaparrarsi il plusvalore prodotto da altri. Nel 1973 i sette paesi più industrializzati del mondo aderenti all'OCSE chiusero la bilancia commerciale con un saldo positivo di 7 miliardi di dollari. Nel 1974 chiusero in negativo per 26 miliardi. Grazie ai ricavi provenienti da tutto il mondo, i paesi produttori di petrolio chiusero con un attivo di 77 miliardi. Oggi, con un consumo mondiale, solo di petrolio, a 86 milioni di barili al giorno per un centinaio di dollari al barile (3.139 miliardi di dollari all'anno), la legge della rendita permette un drenaggio spietato di capitali a discapito dell'industria e a favore della finanziarizzazione del mondo. Vedremo che anche questo passaggio di valore è una legge immanente del capitale. Dare la colpa alle banche, ai loro manager e ai loro giochetti finanziari come l'impacchettamento dei mutui subprime non è esercizio scientifico. Per quanto il mondo bancario susciti repulsione, non è l'autore della massa finanziaria vagante per il pianeta, come vedremo.

Miseria crescente

Abbiamo visto come, quando si indaga sulle questioni inerenti all'enorme massa di prodotti che deriva­no dallo sfruttamento della terra, che si scambia­no sia tra loro sia con i prodotti dell'industria, si debba evitare in special modo l'usuale interpretazione soggettiva di mille fatti accidentali, astraendo dalle situazioni spurie. Allo stesso modo possiamo astrarre dalla quantità eterogenea dei prodotti e prendere il principale di essi entro una data sfera di produzione, in agricoltura ad esempio il grano. Comunque, come dice Marx, "invece dell'agricoltura possiamo prendere in esame le miniere dato che le leggi non cambiano". Rimanendo nel regno minerale, vi è ragione precisa se ci occupiamo principalmente del petrolio: nel 1860 il carbone forniva il 96% di tutta l'energia consumata nel mondo, mentre nel 1970 la situazione era alquanto cambiata, essendo il carbone passato al 33,5%, l'energia idrica e nucleare al 2,5%, gli idrocarburi al 64%. Perciò la preponderante presenza del petrolio nella letteratura sui problemi energetici ha un senso anche dal nostro punto di vista. La "questione petrolife­ra" non è nata dopo l'ottobre del 1973, è implicita nel corso storico del capitalismo, un modo di produzione straordinariamente energivoro e senza speranza di giungere a un equilibrio con sé stesso e con la natura. La sua so­pravvivenza costa anche per questo, all'umanità in gene­rale e al proletariato in particolare, un immenso sperpero di ener­gie vitali che potrebbero essere ben altrimenti utilizzate.

È diffusa la convinzione che se tutte le ricchezze oggi prodot­te fossero distribuite equamente la fame e la miseria sarebbero debellate. Ma è una stupidaggine. È vero che il calcolo statistico ci forniva per il 1975 un PIL pro ca­pite a livello mondiale di circa 1.000 dollari, ma l'escur­sione andava dal massimo di 6.600 dollari per 200 milioni di americani al minimo di 100 dolla­ri per quasi 600 milioni di indiani (divario max/min = 66 volte). Oggi siamo a un PIL pro capite di 11.800 dollari e l'escursione va dai 53.000 per 4,7 milioni di norvegesi ai 300 per 75 milioni di congolesi (177 volte). Come si vede si è elevata proporzionalmente la media del reddito ma si sono allontanati di gran lunga gli estremi: il capitalismo non funziona con i "se", funziona secondo la legge della miseria relativa crescente e questa legge lo seppellirà. Sapere che il contenuto calorico dei mangimi per animali che forniscono carne ai paesi più ricchi sarebbe sufficiente a sollevare dall'inedia i 2 miliar­di di individui che popolano i paesi arretrati, non risolve nulla. Sapere che le spese per armamenti nei prossimi 25 anni sarebbero sufficienti, se investite in programmi di sviluppo, a portare quei due miliardi a un livello di vita europeo, in sé non ha significato. Sapere che il potenziale cibo oggi trasformato in biocarburante potrebbe evitare la fame cronica di centinaia di milioni di persone non incide minimamente sul fatto che la rendita detta la legge economica e i morti per fame no.

Ciò vale anche per l'annosa discussione sulle energie alternative e sulle fonti cosiddette rinnovabili. La produzione di ogni prodotto della terra, agricolo o minerario, cresce solo in quanto cresce il bisogno del prodotto stesso in seno alla società. Il bisogno di tali prodotti aumenta unicamente in base a tre fattori: il perfezionamento dei metodi di produzione, l'innalzamento dei bi­sogni sociali e l'aumento della popola­zione. I tre fattori sono strettamente collegati, ed è questo in definitiva che ci interessa. Ora, il petrolio (o il rame, o il ferro o il grano) è una merce e come tale viene prodotta per altri, viene prodotta per essere scambiata con merci che altri producono. La quantità di valore oggettivato nelle due specie di merci che si scambiano, è uguale secondo la legge del valore. L'aumento dei prezzi del petrolio si traduce, nella produzione industriale, in un aumento del prezzo di costo, cioè di quella parte di capitale costante rappresentato dal consumo d'energia. Se ciò si generalizza, come in effetti avviene, deve aumentare il prezzo di produzione. La rendita ha effetti inflattivi.

Nel modello mondiale che stiamo esaminando, coloro che detengono il monopolio dell'energia-petrolio, e coloro che detengono il monopolio della struttura pro­duttiva del mondo capitalistico, non fanno che inseguire le oscillazioni temporanee dei prezzi, forma fenomenica del valore. Cambia il segno monetario, non cambia il fatto che le merci si scambiano come equivalenti. Ma i paesi cosiddetti emergenti, che hanno bi­sogno sia di petrolio che di merci industriali, non possono rivalersi con l'aumento dei prezzi di una produzione che non hanno; e quindi devono procurasi valuta estera esasperando lo sfruttamento della terra agricola e della forza lavoro locale. Ottengono così una maggior quantità di prodotti equivalenti da esportare per procurarsi sia prodotti industriali che petrolio; ma sono spesso ridotti alla monocoltura, alle piantagioni di prodotti per l'industria, cotone, caffè, cacao, olio di palma o di arachide, canna da zucchero, ecc. Per questi paesi l'unica possibilità di scampo sarebbe la cartellizzazione delle loro risorse; ma, a parte le tendenze verificatesi relativamente ad alcuni metalli, l'entrare nel circolo dei grandi rentier significherebbe cozzare contro limiti oggettivi insormontabili.

La rendita come attrattore inesorabile di capitale

Il circolo chiuso del petrolio, produttori-consumatori, che taglia definitivamente fuori dal gioco ogni illusione di sviluppo del cosiddetto Terzo mondo, non è stato sempre tale, cioè non da sempre i pae­si produttori hanno potuto "trattare" su un piano di parità con i colossi del consumo energetico. Alcune condizioni si sono dovute verificare. E neanche tanto "ecce­zionali", come dicono i borghesi, bensì strettamente legate alle leggi secondo le quali funzio­nano i meccanismi capitalistici. Abbiamo visto che i famosi au­menti di prezzo del petrolio e delle materie prime non sono altro che rendita fondiaria. Essa va al proprietario del fondo, in questo caso uno stato nazionale, anzi, più sta­ti nazionali coalizzati.

In un primo tempo viene estratta una grande quantità di "petrolio facile", come venne definito dopo il 1974. È ovvio che prima viene estratto quello più accessibile e di migliore qualità, ma la facilità di estrazione è anche dovuta alla divisione internazionale del lavoro e al­la posizione dell'imperialismo economico delle grandi compagnie nei confronti dei paesi produttori. I quali intascano una rendita minima, che è loro impo­sta da rapporti di forza sfavorevoli, non tanto per via delle portaerei quanto per il fatto che in un primo tempo a decidere è chi acquista e consuma, più che chi custodisce. Quantità e prezzo sono tali da soddisfare totalmente le esigenze delle aree consumatrici. Finché un tale equilibrio si mantiene, il bisogno sociale, cioè il valore d'uso medio sociale delle varie sfere della produzione, è determinato dalla quantità complessiva di tempo di lavoro che l'insieme della società può erogare. Il valore d'uso del petrolio nelle società sviluppate è il solo li­mite alla quantità di lavoro che è necessario erogare da parte del­la società per garantirsi tale materia prima. Fino alla "crisi energetica", il petrolio nel suo insieme era considerato sufficiente a rifornire l'industria ed era estratto nella quantità necessaria, anzi, vi era una tendenziale eccedenza. L'energia "facile" permetteva perciò di calmierare il prezzo delle merci col solo fatto di renderne possibile una maggiore produzione, il prezzo basso permetteva a sua volta una maggiore diffusione del mercato, e così via. Tutto ciò ovviamente non poteva durare: alla lunga una situazione del genere, pur in regola con la legge del valore, sarebbe entrata in contraddizione esplosiva con la legge della rendita.

In un secondo tempo, nella misura in cui la società industriale imposta la produzione su di un facile accesso all'energia, la limitatezza del suolo pone un freno all'aumento indiscriminato dell'estrazione di greggio. Sale il valore d'uso e, siccome "il valore d'uso della merce è il presupposto del suo valore di scambio", si affaccia la potenzialità dell'aumento del prezzo. Le questioni po­litiche generate dai rapporti interimperialistici sono un prodotto di tali potenzialità, non un fattore. Persino una guerra come quella del 1973 non può essere considerata come la causa diretta della crisi petrolifera ma una semplice goccia che ha fatto traboccare il vaso. E del resto, come abbiamo visto, la tensione sulla rendita stava montando nel campo di tutte le materie prime, non solo in quello del petrolio. Che il maturare dei rapporti capitalistici provochi una tensione sulla rendita non è una scoperta di Marx. Già Adam Smith, nell'Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni annota l'aumento storico della quantità di valore devoluto alla rendita:

"Qualsiasi progresso nelle condizioni della società tende, diret­tamente o indirettamente, a elevare la rendita reale della terra, a incrementare la ricchezza reale del proprietario terriero, il suo potere d'acquisto del lavoro o del prodotto del lavoro di altre persone... il prodotto della terra, dopo l'aumento del prezzo reale, non richiede per essere raccolto più lavoro di prima. Una quota minore dello stesso prodotto sarà quindi sufficiente a reintegrare il capitale che impiega quel lavoro, aumentato del pro­fitto ordinario. Al proprietario, di conseguenza, deve toccare una quota maggiore di prodotto".

Marx preciserà che nella teoria della rendita i protagonisti sono tre e vanno distinti: il capitalista, l'operaio e il proprietario fondiario. Quest'ultimo non concorre a produrre il plusvalore che intasca. La possibilità da parte sua di appropriarsi di una frazione crescente di valore è data dall'insieme delle condizioni in cui i prodotti della terra diventano valori, cioè merci; e questo può succedere soltanto se matura l'insieme delle condizioni che rendono possibile un aumento della produzione di merci. In epoca di capitalismo maturo la rendita è possibile solo se si producono merci, e solo se si producono in quantità crescente. La figura 1 può dare un'idea dei processi storici che riguardano la rendita per il periodo che precede l'attuale fase ultra-senile.

Prezzi assoluti in dollariFigura 1. Prezzi assoluti in dollari.

L'indice storico comprende tutte le principali materie prime, di origine vegetale e minerale. I prezzi non sono depurati dall'inflazione in quanto essi stessi contribuiscono a provocare inflazione, vale a dire che li consideriamo come reali prezzi di riferimento ai quali il resto delle sfere della produzione e della distribuzione si sono adeguate. Come si può osservare, durante il primo secolo di ascesa capitalistica i prezzi sono variati poco. Sebbene i trionfi della rivoluzione industriale nella belle époque fossero contraddistinti da un "quantitativismo produttivo" mai più eguagliato in termini di incrementi annuali della produzione industriale, la terra riusciva agevolmente a fornire tutto ciò che serviva. Si noti come i picchi dovuti all'incremento produttivo durante le due guerre mondiali non siano neppure lontanamente paragonabili all'esplosione, che continua tuttora anche se con andamento non più esponenziale, iniziata intorno al 197o.

Non esiste un "prezzo politico" del petrolio

Nello sviluppo capitalistico una parte sempre maggiore del plusvalore va alla rendita fondiaria in quanto conseguenza sempre più marcata dell'aumento della forza produttiva sociale. A causa di tale sviluppo si espande il mercato internazionale, e di conseguenza si espande lo scambio dei prodotti della terra. Ma, mentre non vi è limite teorico all'aumento della produzione industriale, l'aumento della coltivazione o dell'estrazione di prodotti agricoli e minerari cozza contro il limite fisico della disponibilità di terra. Il soddisfacimento dell'accresciuta domanda di terra è quindi una condizione imprescindibile per la produzione di tutte le merci di tutte le industrie.

Come si vede, l'aumento del prezzo delle materie prime è dovuto, più che allo squilibrio fra la domanda e l'offerta (cosa che ovviamente in un secondo tempo si verifica), al gigantesco sviluppo della forza produttiva sociale. È tale sviluppo che accresce quel valore d'uso in quanto  presupposto del valore di scambio. È l'accresciuto valore d'uso che sul mercato oppone alle materie prime una sempre maggiore quantità di merci. Gli economisti borghesi si lamentavano del fatto che gli aumenti di prezzo del petro­lio erano avvenuti non per le leggi del mercato ma per decisione politica: la "vendetta araba" avrebbe comportato la necessità artificiale di una maggiore produzione di merci per pagarlo. Era un ragionamento completamente rovesciato che non arrivava a individuare le cause, scambiandole per effetti. È chiaro come per costoro non possa mai essere altrimenti: fermandosi alla questione dei prezzi e trattando il petrolio come prodotto a sé, staccato dal sistema generale della produzione di merci che si scambiano al loro valore, essi dicono: producevamo una certa quantità di merci per pagare una certa quantità di petrolio; ora che il petrolio incide per il 20% in più sulle nostre importazioni, dovremo produrre, allo stesso costo il 20% in più di merci per l'esportazione affinché la bilancia com­merciale vada ancora in pareggio. Non è così: il prezzo del petrolio era cresciuto dopo l'aumento della produzione di merci.

Tuttavia, per ristabilire le condizioni precedenti, a quel punto l'industria aveva effettivamente bisogno di un aumento ulteriore della produzione. Guarda caso, questo significava unicamente aumentare il saggio di sfruttamento; ma fermiamoci a considerazioni più generali. È noto che per Marx nessun produttore considerato isolatamente, attivo nella sfera industriale o agricola, produce valore e quindi merci. Solo in una specifica struttura sociale il suo prodotto si trasforma in merce. II petrolio in sé non è una merce. Lo è solo sul mercato, solo nella misura in cui altre merci rappresentano un equivalente nei suoi confronti. La necessità dello scambio per la realizzazione del valore e per il godimento dei valori d'uso, dipende dall'allargamento della di­visione sociale del lavoro, dalla separazione dei diversi lavori produttivi. È questa condizione che permette o determina la trasformazione dei rispettivi prodotti in merci, ovvero in equivalenti reciproci sulla base di un valore di scambio. Ciò vale tanto più per il petrolio, il cui consumo cresce più che proporzionalmente rispetto alla possibilità di estrarne a prezzi costanti. È quindi del tutto naturale che i pro­duttori OPEC, al crescere della domanda dei paesi sviluppati, oppongano una crescente domanda di prodotti industriali o dell'equivalente monetario. Il guaio è che al loro diritto si oppone l'eguale diritto dei consumatori di petrolio: è la produzione industriale che lo consuma e lo paga: se essa non ci fosse il petrolio rimarrebbe sotto terra, in proprietà simbolica di emiri, oligarchi o petrolieri texani.

A complicare le cose intervenivano anche altri fattori. All'epoca dell'esplosione dei prezzi delle materie prime, quasi tutti i paesi produttori dipendevano totalmente dal mercato estero per l'insieme di ciò che serviva al loro sviluppo interno. Inoltre, per quanto riguardava specificamente il petrolio, il mercato mondiale era, com'è, monopolio di pochissime compagnie multinazionali. In pratica la dipendenza dei paesi produttori dai maggiori paesi imperialisti si tra­duceva temporaneamente nell'impos­sibilità di intascare una rendita fondiaria proporzionata alla voracità di energia e materie prime da parte del sistema industriale. L'arretratezza dei paesi produttori (a parte gli Stati Uniti) non permetteva uno scambio in merci, e lo scambio in denaro equivalente era fortemente condizionato dai rapporti di forza. La "rapina" e lo "scambio ineguale" non c'entrano: ciò che si confrontava, e si confronta, non era la potenza di fuoco delle portaerei bensì lo sviluppo sociale che permetteva il loro schieramento.

Per quanto riguarda specificamente il petrolio, un dato è molto significativo: una parte era estratta direttamente, "in concessione", dalle grandi multinazionali; ma una parte era già allora estratta dai governi dei paesi produttori tramite le loro compagnie statali. Tuttavia anche tale quota era commercializzata dalle grandi compagnie, che dominavano non solo il mercato ma anche il nolo delle petroliere, gli oleodotti, la raffinazione, la distribuzione. La cartellizzazione dei paesi OPEC contro la cartellizzazione delle famigerate Sette Sorelle regine del petrolio all'inizio poté ben poco in termini di "diritto alla rendita". Solo con il pretesto della guerra del 1973, e soprattutto con la necessità che aumentasse il prezzo per rendere possibili nuove prospezioni e sfruttamento di nuovi pozzi, i paesi produttori riuscirono a drenare più valore dai paesi consumatori. E naturalmente alla condizione di far rifluire i petroldollari verso le banche anglosassoni. Da qualsiasi punto si osservi la storia dei rapporti produttori-consumatori di materie prime, risulta evidente che sul loro sfondo vi è ben poco disegno po­litico, mentre ben marcata è la conseguenza dello sviluppo delle forze produttive nei grandi paesi consumatori.

Non sempre l'aumento dei prezzi è legato all'effettivo valore di scambio. A volte il valore d'uso determina oscillazioni amplissime come nel caso proverbiale dell'acqua nel deserto. Per quanto riguarda le materie prime, il loro crescente valore d'uso aveva permesso l'accaparramento di una quota via via maggiore del valore di scambio da parte della rendita, accaparramento che aveva prodotto a sua volta un tentativo di rincorsa dei prezzi da parte dell'industria. Nel campo delle relazioni fra merci industriali e petrolio questa rincorsa fu particolarmente evidente. L'aumento dei prezzi delle merci provocato dall'aumento del prezzo del petrolio, aveva innescato una reazione a catena, per cui vi fu alla fine una richiesta da parte dell'OPEC di indicizzare il prezzo del barile al tasso di inflazione mondiale (Accordi di Algeri, gennaio 1975). Ovviamente in tutto quel periodo e fino alla soglia degli anni '80 vi fu chi, come Edward Luttwak, teorizzò il diritto occidentale di muovere guerra ai barbari che si permettevano di soffocare l'economia dei paesi civili. In realtà si trattava di blande minacce, dato che, sgombrato eventualmente il campo dai perfidi emiri, altri al loro posto avrebbero sfruttato le stesse possibilità da rentier, stati contro stati o multinazionali contro multinazionali. Di fatto, come abbiamo visto citando Marx, è provato che una quota sempre più grande di plusvalore viene drenata dalla rendita.

Non importa se nella realtà questo avvenga in modo graduale o con accadimenti improvvisi dovuti alla rottura del cumulo di fattori storici ed economici. La previsione era esatta e le conseguenze le stiamo vivendo: nella produzione capitalistica basata sull'azienda, la frazione di plusvalore devoluta alla rendita, cioè a qualsiasi situazione di monopolio che permetta il drenaggio di plusvalore altrui, si è venuta effettivamente allargando col procedere dell'accumulazione. Ormai da tempo la produttività di fabbrica paga all'improduttività so­ciale lo scotto delle contraddizioni intrinseche del modo di pro­duzione borghese, e la "crisi" attuale lo dimostra. Tornando al ciclo di approvvigionamento delle materie prime, è chiaro che il peso dei maggiori paesi imperialisti giuoca un ruolo fondamentale nella forzata limitazione della quota di plusvalore che passa alla rendita. Senza il controllo di questi paesi essa sarebbe certo più alta, come lo è nel caso dei monopoli finanziari controllati dall'Occidente. Le stesse compagnie petrolifere hanno sempre oscillato fra prezzi bassi all'estrazione e prezzi alti alla distribuzione (o prezzi alti all'estrazione che permettano di sfruttare giacimenti meno "fertili"). Solo che la con­traddizione non è risolta una volta per tutte. Gli effetti non vengono che spostati nel tempo. La fame di energia e di materie prime in genere farà esplodere di nuovo la rendita con tutte le conseguenze moltiplicate rispetto agli anni '70 del secolo scorso. Questo succederà sia a causa della profondità degli effetti economici e sociali, sia a causa della subitaneità con la quale essi si verificheranno. Il capitalista alla lunga non potrebbe pagare l'intera rendita al proprie­tario fondiario se questi avesse il potere totale di concedere o meno lo sfruttamento del proprio terreno. E se il recupero di capitale tramite la finanza diventasse impraticabile. Non a caso stiamo assistendo alla generalizzazione della guerra nei nodi strategici della rete energetica.

Buon terreno, rendita differenziale

Comunque si spostino i termini del problema, il capitalista in ultima analisi non può sottrarsi al pagamento di una quota del profit­to alla rendita fondiaria, a meno che, contro tutti i suoi compari di classe, non diventi rentier egli stesso. Se poi godesse di una fonte privilegiata di energia o di qualche vantaggio equivalente, potrebbe intascare non solo plusvalore altrui, ma anche rendita altrui. L'esempio di Marx è stranoto: se tutti i capitalisti producono utiliz­zando come fonte d'energia il vapore (ottenuto bruciando il carbo­ne) mentre uno di loro gode dell'accesso ad una fonte d'energia naturale gratuita, per esempio una cascata, il prezzo di produzione regolatore è quello generale ottenuto col carbone. Quindi il capitalista che usufruisce della cascata venderà le sue merci ad un prezzo che sarà così suddiviso: capitale costante + capitale variabi­le + profitto generale medio; in cui il capitale costante sarà diminuito della diffe­renza tra l'utilizzo della materia prima carbone e quello della forza naturale sprigionata dalla cascata. Il capitalista potrà quindi o vendere le merci ad un prezzo inferiore rispetto al prezzo di produzione generale (dumping), o venderle allo stesso prezzo intascando un extraprofitto. Ma la cascata non è generata dal capitale anticipato. Quindi, se non è di proprietà del capi­talista, il profitto extra andrà a chi ne concede l'accesso, cioè al proprietario del suolo in cui scorre l'acqua (Marx, Il Capitale, Libro terzo, cap. XXXVIII).

Il capitalista avrebbe la forte tentazione di prendersi la cascata, così intascherebbe anche la rendita (colonialismo); oppure potrebbe diventare anche banchiere e prendersi ugualmente la rendita, in questo caso depositata nei suoi forzieri dal rentier stesso. Quest'ultima soluzione si è rivelata vincente e il colonialismo, almeno nelle vecchie forme, è morto. Se fosse possibile diffondere universalmente l'utilizzazione di energia tramite cascate, prima o poi tutti i capitalisti vi si adeguerebbero e il prezzo di produzione regolatore del mercato diver­rebbe quello ottenuto in tal modo. Ma questo è chiaramente impossi­bile, le cascate sono l'eccezione, non la regola. Un sovrapprofitto sarà ottenuto da quel capitalista che, poniamo il caso, introducesse migliorie tecniche nell'utilizzo della forza del vapore – ad esempio il pistone a dop­pio effetto, come in effetti accadde – ma il suo sovrapprofitto non sarebbe che tempora­neo in quanto generato esclusivamente da un migliore utilizzo del capitale e delle risorse tecniche, circostanza riproducibile senza distinzione da tutti i capitalisti.

Ora, tra il miglior petrolio e quello peggiore, non vi è la differenza che esiste tra il car­bone e la cascata, ma alcune circostanze concorrono ad abbassare il co­sto di produzione del primo rispetto al secondo: 1) i rapporti imperialistici hanno permesso per anni quella che nella concezione popolare dell'imperialismo viene considerata ancora oggi una vera e propria  rapina (non solo per quanto riguarda il petrolio); 2) la crescita esponenziale del consumo di materie prime, specie di petrolio, fa sì che le zone di più antico sfruttamento dei giacimenti presentino una difficoltà sempre maggiore all'estrazione; 3) il petrolio del Medio Oriente è più puro (basso contenuto di zolfo ecc.) di quello di altre regioni petrolifere e quindi consente un risparmio sui costi di raffinazione e trasformazione; 4) negli Stati Uniti l'antica lottizzazione dei terreni petro­liferi e la proprietà privata autoctona permettono alla rendita di accaparrarsi una maggiore percentua­le del profitto; 5) il petrolio arabo è vicino al grande centro di consumo europeo.

Queste condizioni, aggiunte alla situazione politico-militare e al­la straordinaria crescita della domanda, hanno creato le basi affin­ché fosse possibile per i paesi del Medio Oriente appropriarsi della rendita fondiaria. L'Occidente capitalistico sviluppato, per nulla sconvolto dalla situazione nonostante l'appello ai proletari affinché digerissero la cosiddetta austerity, riprendeva ciò che aveva dato e anzi, nella sua frazione anglosassone, prendeva di più, drenando plusvalore anche dai paesi concorrenti; così come del resto questi a loro volta, con le loro merci, ne drenavano dai paesi in via di sviluppo senza petrolio e senza materie prime.

Alla luce della teoria della rendita, o agraria, possiamo non solo analizzare ciò che finora è accaduto, ma prevedere i futuri svi­luppi di tutto il problema dell'approvvigionamento delle materie pri­me, che per il capitalismo internazionale sarà fonte di grattacapi al cui confronto quelli odierni sembreranno bazzecole. Intanto annotiamo che il capitalista ha tentato disperatamente di utilizzare l'opposizione che nel suo stesso seno s'è generata contro l'eccessiva dissipazione energetica. Ha tentato cioè di generalizzare la "cascata" non appena il rincaro del petrolio ha permesso di sviluppare le tecnologie adatte a produrre energia a partire dalle fonti rinnovabili. Ha per esempio incominciato a utilizzare materia organica (che per la maggior parte è cibo) per produrre carburanti. Ha espanso anche su terre arabili migliaia di impianti fotovoltaici. Ha modificato profondamente l'ambiente con le torri dei campi eolici cercando di migliorare tutti i sistemi che possono trasformare l'energia del Sole in elettricità. Anche la cascata è un risultato dell'energia solare, la quale fa evaporare acqua marina, la quale ricade in forma di pioggia o neve, dalle quali si formano torrenti e fiumi, ecc., ma per adesso il rendimento non è paragonabile. Una sistemazione "pacifica" di questo tentativo disperato di accaparrarsi energia, materia, lavoro e quindi capitale non è mai stata possibile. Basti pensare all'importanza che la questione ricoprì negli anni che precedettero la Seconda Guerra Mondia­le e che portò la Germania (1934), l'Italia (1936) e il Giap­pone (1939) al varo di leggi e piani speciali per l'approvvigiona­mento di combustibili e materie prime. Ma il futuro è assai più nero, e la guerra endemica che con cinico sarcasmo è stata qualificata come "fredda" non potrà che diventare molto più calda di quanto non lo sia già.

La ballata del sovrapprofitto

Per proseguire nella nostra indagine sulle premesse teoriche della situazione attuale, converrà ritornare a ciò che dicevamo all'inizio di questo articolo a proposito dell'astrazione operata da Marx sulle componenti di classe. Riducendo gli accadimenti a rapporti essenziali, per esempio occupandoci di un'unica materia prima, il petrolio, risulterà semplificata la comprensione dei vari passaggi e si escluderanno le interpretazioni soggettive introdotte dall'economia politica. Avremo dunque un modello astratto in cui agiscono un capitalista, un operaio e un emiro. Essi soli si contenderanno il valore complessivo prodotto, ognuno pretendendo a buon "diritto" la propria parte, rispettivamente sotto forma di profitto, salario e rendita.

Il capitalista produce merci sfruttando l'operaio e pagando la sua forza-lavoro al giusto prezzo di mercato. Prezzo che, come abbiamo visto, è comprensivo della rendita che il capitalista anticipa all'operaio per quando quest'ultimo andrà a far benzina al distributore dell'emiro. Le merci vengono vendute e il capitalista intasca il prezzo di produzione, cioè il prezzo medio stabilito dal mercato mondiale in situazione di concorrenza. Nella sua contabilità, il capitalista deve immediatamente suddividere il ricavato in profitto per sé, salario per l'operaio, rendita per l'emiro e interesse per… sé stesso in veste di banchiere. Il prezzo di produzione delle merci è dato da una media storica mondiale, quindi le varie componenti devono agire entro questo limite per spostare l'ampiezza del loro campo:

Prezzo di produzione
Profitto Salario Rendita Interesse

Escludendo l'inflazione del prezzo, che fa cambiare il segno di valore ma non il valore, si capisce subito che, entro i due limiti estremi fissi, lo spostamento dei tre confini interni mobili può essere esclusivamente il risultato di una lotta. Ma se rendita e interesse sono dati, cioè sono influenzati da determinazioni esterne al rapporto fra i protagonisti (resa del terreno, rapporti di forza nel far valere la proprietà, situazione mondiale del credito), la quota di profitto del capitalista che sarà devoluta all'emiro e al banchiere dipenderà esclusivamente dalla quantità di merci prodotte e dal loro effettivo valore, cioè dalla produttività dell'operaio.

Tra il 1970 e il 1980 il prezzo del petrolio aumentò da 2 dollari al barile a 32 dollari, sedici volte tanto, mentre nell'anno successivo alla guerra del 1973 era "appena" triplicato. Il capitalista dunque avrebbe dovuto in dieci anni aumentare di sedici volte la quota del profitto che andava all'emiro, cosa evidentemente impossibile tramite il solo aumento della produttività, cioè dello sfruttamento. Vennero in suo aiuto prima l'inflazione (che egli stesso contribuì ad alimentare cercando di recuperare sul prezzo) e poi la sua schizofrenica metà, cioè il banchiere. Quest'ultimo, incassato il surplus che l'emiro ora gli versava, poteva mettere a disposizione una gran quantità di capitale, facendosi pagare un interesse. Dieci anni di crisi oltretutto avevano obbligato gli stati a fornire liquidità ai "mercati" e il banchiere aveva fatto da tramite, ovviamente ricevendo denaro a basso interesse per piazzarlo a condizioni da strozzino. Ma il capitalista, mostrandosi completamente intossicato dalla propria ideologia e incapace di teoria economica, capitolò di fronte alla rendita, vestendo i panni del nemico, cioè diventando egli stesso rentier: da una parte utilizzando il monopolio dell'estrazione e della distribuzione attraverso le sue multinazionali petrolifere, dall'altra acquistando massicciamente titoli di stato e altri strumenti finanziari. Il guaio è che essendo le merci prodotte con l'impiego di materie prime e di energia, se da una parte l'aumento della produzione e dello sfruttamento alleviava il tributo da versare all'emiro, dall'altra incominciava a ingigantirsi l'universo del capitale da credito e da speculazione; il quale galoppava verso lo stadio di quello che Marx aveva chiamato capitale fittizio, mentre il capitalista-banchiere gongolava, apprestandosi a dissanguare ulteriormente il capitalista-industriale con l'interesse. Era inevitabile che una intossicazione provocata dall'overdose planetaria di produzione di merci non potesse trovare un antidoto nell'ulteriore aumento della produzione richiesto per pagare rendita e interesse cresciuti. Tra l'altro, e non è affatto una fattore di contraddizione secondario, l'aumento della produttività provoca l'aumento della composizione organica del capitale (aumento del capitale costante rispetto a quello variabile). Nel lungo periodo, infine, ogni aumento della scala produttiva comporta una diminuzione del valore di ogni singola merce e quindi anche da questo punto di vista abbiamo un serpente che si morde la coda: bisogna aumentare la produzione più che proporzionalmente rispetto all'aumentare della rendita. Ogni rimedio si rivela peggiore del male.

Al capitalista, ammesso che possa riaversi dalla schizofrenia prodotta dall'essere diventato un ibrido industrial-finanziario-rentier, farebbe molto comodo liberarsi soprattutto dell'emiro, perché in veste di banchiere se la cava in famiglia, basta stabilire chi comanda. Purtroppo per lui, però, nel suo mondo non esiste la soluzione al problema della rendita, nemmeno se tutta la terra del mondo fosse nazionalizzata. La proprietà statale, infatti, sposta solo il problema dall'individuo alla collettività, in questo caso lo stato borghese. La borghesia di stato non è meno avida di quella privata. La storia ha abbondantemente dimostrato che la forma sociale non cambia, che essa sia composta di capitalisti senza capitale (appaltatori di beni o servizi dello stato), o che sia composta da capitale senza capitalisti (ad esempio, in passato, l'URSS). Naturalmente, finché lo stato esiste, ci sarebbe una bella differenza nel caso in cui esso fosse nelle mani del proletariato e del suo organo politico.

Liberarsi del petrolio non è possibile in questa società, quindi l'emiro detta legge. Il dato di fatto è che dopo tanti anni dalla prima grande crisi energetica, e altrettanti passati a discutere il problema, l'energia utilizzata nel mondo dipende ancora per l'80% dai combustibili fossili e solo per il restante 20% dalla legna da ardere, dall'uranio, dalle cadute d'acqua e dalle cosiddette energie alternative (sole, vento, geotermia, ecc.). Anzi, per essere precisi, il mondo dipende sempre di più dai combustibili fossili. L'incapacità del capitalismo di risolvere questo problema è evidente. Il nostro capitalista però non si dà per vinto: assodato che l'unica fonte di energia veramente alternativa ai combustibili fossili, alle cadute d'acqua e all'uranio c'è, ed è quella che ci arriva dal Sole, propone allo stato di incentivare la costruzione di campi eolici, fotovoltaici o a specchi ustori. Ancora una volta si comporta come il rentier che dovrebbe invece combattere: drena dalla società, tramite lo stato, capitali per stimolare la propria industria asfittica. Copre migliaia di ettari con nuovi impianti e non sposta di una virgola il problema energetico, dato che il loro "rendimento" è pesantemente condizionato più dagli incentivi in denaro (anticipato) che non dal ritorno in energia (dilazionato in decenni). In realtà nel bilancio energetico bisogna tener conto anche dell'energia spesa nel ciclo completo di realizzazione degli impianti, e questi per adesso sono a basso rendimento, restituiscono l'energia necessaria per costruirli in tempi troppo lunghi per il capitale. Ora, la maggior parte delle ricerche attuali sulle fonti rinnovabili concorda sul fatto che alcune realizzazioni, come i campi eolici o fotovoltaici, hanno un ritorno in termini energetici di 10 a 1 (producono nel loro ciclo di vita 10 volte l'energia che è stata dissipata per costruirli). Tolto il fattore tempo, sembra un dato soddisfacente, in grado di offrire almeno in parte uno sbocco alla fame di energia del capitalismo. Ma non è così: l'energia solare è estremamente dispersa e per captarla non occorre solo tempo, bisogna anche attrezzare spazi enormi, mentre i combustibili fossili o nucleari permettono di concentrare in aree ridotte la produzione di una grande quantità di energia.

Una società che potesse prescindere dal tempo, dallo spazio e dal denaro (progetti a lunghissimo termine senza l'assillo della legge del valore) saprebbe come utilizzare, ad esempio, un impianto fotovoltaico che restituisca il 10% dell'energia captata e, in vent'anni, il 1.000% di quella necessaria alla sua fabbricazione. Il rendimento economico può non corrispondere al rendimento energetico. Fonti alternative che faticano a captare e restituire l'energia dispersa che ci arriva dal sole possono essere tecnicamente valide, ma economicamente assai poco appetibili in ambiente capitalistico. Ad esempio, se il prezzo del petrolio salisse ancora, diventerebbe economicamente razionale estrarre energia dagli immensi giacimenti di sabbie bituminose del Canada anche se si sa benissimo che il bilancio energetico è penoso rispetto a quello di un impianto fotovoltaico. Una notevole quota del combustibile ricavato dovrebbe infatti essere utilizzato per scavare migliaia di tonnellate di materiali, per pompare e scaldare l'enorme quantità d'acqua necessaria alla loro lavorazione, per trasportare e accumulare i residui, ecc. Ma il combustibile ricavato sarebbe disponibile subito in quanto concentrato di energia, ed è questo che al capitale interessa, un po' come succede con il saggio di profitto: man mano che il capitalismo matura, il "rendimento" del capitale decresce, ma ciò non ferma affatto i capitalisti, che aumentano la massa del profitto per compensare la caduta del saggio, passando ad esempio dal 10% su 1.000 al 5% su 3.000 di capitale anticipato.

Paradossalmente (da un punto di vista razionale, non dal punto di vista della logica capitalistica), le energie da fonti rinnovabili non potranno essere utilizzate su larga scala prima che la disponibilità dei combustibili fossili non si dimostri così problematica da incidere sul saggio generale del profitto molto più gravemente di quanto non succeda oggi. Non si può neanche immaginare di risolvere un tale problema se persiste una società basata sui tassi d'incremento della produzione e quindi del capitale. Questo è uno dei casi in cui il sopravvivere del modo di produzione capitalistico frena lo svilup­po, non solo sociale, ma anche scientifico e tecnico dell'umanità. Ne consegue che, se la sete d'energia è tale che bisogna comunque ricercare fonti alternative al petrolio, l'unico modo per potervi accedere è quello di attendere che il petrolio raggiunga un prezzo tale da rendere "competitive" le altre fonti. Altre vie non sono date, e naturalmente prescindiamo da quel che significherebbe riempire la terra di impianti per una potenza installata pari a quella fornita dagli impianti attuali. Ma il collasso avverrà certamente molto prima.

Corsa alla rendita differenziale

Abbiamo visto che il capitalista non va ad applicare le sue tecnologie e i suoi capitali al giacimento peggiore posseduto dal suo avversario emiro se non ha la garanzia di intascare almeno un saggio di profitto medio. Non gliene importa niente se alcuni suoi compari borghesi operano già al di sotto del saggio di profitto medio e a causa della mancanza di petrolio a minor prezzo debbono chiudere la fabbrica. Perciò anche i giacimenti potenzialmente ricchissimi ma difficili da sfruttare non saranno "coltivati" finché il petrolio da essi ricavato non avrà un prezzo tale da garantire profitto nel passaggio al terreno peggiore. Questa è la società dell'acqua alla gola: bruciata un'immensa quantità di energia si trova sempre alla svolta obbligata dell'ultimo istante.

Ad ogni modo, alla fine degli anni '60, l'emiro aveva il petrolio migliore. Per di più abbondante e vicino all'Europa, grande consumatrice e, a differenza degli Stati Uniti, completamente priva di giacimenti. Il capitalista in veste di petroliere, rappresentante di tutta la sua classe ma cinicamente egoista nei suoi confronti, intascava già una rendita da monopolio, forte dei privilegi ereditati dall'epoca coloniale. Proprio per questo l'emiro, sfruttando i cambiamenti epocali provocati dalla fine del ciclo coloniale e del periodo della ricostruzione postbellica, poté volgere a suo favore la situazione. Fino al 1947 le società del cartello petrolifero avevano fissato i prezzi in base alla produzione di quella che fino a quel momento era ancora la maggiore area produttrice del mondo: il Texas e il Golfo del Messico. Là il prezzo di costo era già altissimo, a causa della rendita da passare ai proprietari americani, e soprattutto perché i vecchi giacimenti erano ormai esausti e i nuovi erano sempre più difficili da sfruttare. A quell'epoca, quindi, giusta la teoria della rendita, il prezzo del petrolio era stabilito dal terreno "peggiore". Al petrolio estratto in qualsiasi altra parte del mondo veniva applicato un prezzo di produzione fittizio sulla base di quello texano, più una quota convenzionale riferita a un "nolo" per il trasporto dal nuovo giacimento agli Stati Uniti. Il prezzo di costo nei giacimenti appena scoperti era però decisamente inferiore, e quindi il sovrapprofitto decisamente superiore rispetto a quello realizzato nell'area del Golfo.

Dopo il 1947 il "nolo" fu abolito, ma il calcolo arbitrario del prezzo di produzione in confronto al reale prezzo di costo, oltre a far crescere i profitti provocò un vero e proprio saccheggio del petrolio non americano. Saccheggio che, abbinato alla ricostruzione postbellica, permise una boccata d'ossigeno all'accumulazione capitalistica: primo, con la diffusione delle materie prime a prezzi nonostante tutto bassi; secondo, con un'immensa ripartizione mondiale del valore a favore del capitale anglosassone, attrattore del flusso proveniente sia dalla rendita che dal sovrapprofitto rapinato ai paesi senza materie prime e perciò costretti a produrre un sovrappiù per procurarsele. Dal 1960 il Venezuela e i paesi del Medio Oriente rivendicarono una sistemazione giuridica del possesso del petrolio con la creazione dell'OPEC (Organisation of the Petroleum Exporting Countries). Il Messico, con le sue riserve prosciugate, uscì dalla scena come produttore importante e una serie di cause preparò la "crisi petroli­fera".

Nel 1969 la Siria, paese quasi senza petrolio, rivendicò un aumento dei diritti di pedaggio per la Trans-Arabic Pipe Line (TAPLine), che rimase chiusa per 110 giorni (50.000 barili al giorno in meno sui porti del Mediterraneo), e il greggio aumentò di 20 cents al barile. Nello stesso periodo la Libia, che possedeva giacimenti di greggio particolarmente pregiato, ne diventò il maggior esportatore mondiale. Le società petrolifere a quel tempo pagavano un'imposta di estrazione sulla base di un prezzo che esse stesse stabilivano. Siccome l'attività frenetica di pompaggio minacciava le riserve, la Libia raddoppiò l'imposta, ma la chiusura del Canale di Suez (per otto anni, dalla guerra arabo-israeliana del 1967 al 1975) aveva reso ugualmente molto vantaggiosa l'estrazione intensiva. Nel settembre del 1969 Gheddafi prese il potere e diede inizio a una politica di appropriazione della ren­dita. Nel marzo del 1970 il governo libico chiese alle compagnie di limitare la produzione. Due mesi dopo, in Siria, un bulldozer danneggiò la TAPLine e l'occa­sione fu sfruttata per bloccare nuovamente il flusso del greggio e chiedere un aumento del pedaggio. A settembre la Libia impose un ulteriore aumento dell'imposta alle compagnie petrolifere. Queste, ad un aumento dell'8% risposero aumentando del 15% il prezzo del barile. La chiusura del Canale di Suez costrinse le petroliere a circumnavigare l'Africa partendo dal Golfo Persico e i cantieri ne vararono di stazza crescente. Da gennaio a dicembre del 1970 i noli aumentarono del 600% e il consumo europeo scese temporaneamente di 100.000 barili al giorno. Tuttavia la produzione non si poteva fermare: tra il 1970 e il 1972 l'aumento medio della domanda, che dal 1947 era stato dell'8% annuo, balzò al 13% annuo. Tra il 1969 e il 1972 la corsa alle superpetroliere provocò una tensione sulla domanda di acciaio e perciò di carbone per produrlo. La costruzione di superpetroliere nei vecchi cantieri europei era lenta e costosa, così la produzione si spostò in Oriente. La Corea divenne uno dei maggiori produttori mondiali di naviglio e la Polonia, un tempo leader nel settore, incominciò ad entrare in crisi proprio a causa della chiusura di cantieri.

Il petrolio arabo, nonostante l'entità della rendita differenziale, rimase conveniente e risultò accelerata la sostituzione del carbone. Tutte le previsioni elaborate negli anni '60 si dimostrarono sbagliate: il tasso di crescita dei consumi energetici invece di moderarsi aumentò, e saltarono i programmi economici governativi che su quelle previsioni erano basati. Fu in questo periodo che venne commissionato, sviluppato e pubblicato il modello ultra-pessimistico del MIT, intitolato I limiti dello sviluppo, sull'andamento a medio e lungo termine del capitalismo. Basato sulla "dinamica dei sistemi" e affidato a simulazioni realizzate con il computer, dimostrava che i dati oggettivi erano una cosa, e tutt'altra cosa la tendenza degli economisti a leggere il futuro con l'oroscopo.

La dittatura del terreno peggiore

Nell'ottobre del 1973 non successe nulla di straordinario rispetto a una tendenza che era in corso indipendentemente dalla guerra. L'emiro poté affermare non solo che il petrolio era di sua proprietà, "diritto" che a quell'epoca nessuno metteva più in discussione, ma poté far valere il suo pieno "diritto" alla rendita, cioè il diritto di attingere capitale direttamente dalle tasche di tutti i cittadini del mondo e dalle riserve degli stati. Questo invece era un diritto che tutti gli contestavano, al limite con minacce di guerra. Ma le con­dizioni internazionali gli erano favorevoli: c'era stato un aumento quantitativo della forza produttiva sociale e quindi della domanda di beni; era aumentata l'energia sociale richiesta per nuove scoperte di combustibili fossili; era scoppiata un guerra mediorientale che forniva una copertura politica perfetta (anche perché i maggiori paesi imperialistici avevano mostrato una limitata volontà e possibilità d'intervento militare). La rendita era dunque passata quasi per intero al suo naturale pretendente. Abbiamo visto che il prezzo di costo sul terreno peggio­re diventa, con profitto e rendita, il prezzo di produzione. Ma se, con una modesta aggiunta di capitale, i terreni migliori hanno la possibilità di produrre ancora più di quanto già non producano, diventano essi, in ultima analisi, i terreni regolatori, perché decidono fino a che punto il terreno peggiore può essere coltivato in relazione alla domanda di prodotti della terra.  Sono quei terreni, quindi, che decidono fino a che punto il terreno peggiore possa ancora essere il regolatore del prezzo di mercato oppure se debba essere abbandonato. Come era successo effettivamente ad alcuni vecchi giacimenti americani negli anni precedenti. Ora invece la produzione del terreno migliore veniva addirittura diminuita in concomitanza con l'aumento della domanda. Mentre si applicava un "prezzo politico" dovuto alla guerra, ecco che diventava conveniente ricercare nuovi terreni da dissodare o addirittura aprire vecchi giacimenti che un tempo erano stati considerati esauriti. Da allora questi nuovi giacimenti, finché il mondo avrà estremamente bisogno di energia, potranno tranquillamente essere peggiori del peggiore conosciuto ma saranno ormai per sempre i nuovi regolatori del mercato, dall'Alaska alla Siberia, dal Mare del Nord alle profondità oceaniche del Golfo del Messico fino al fondale del Mare Artico, al Polo Nord. Con il petrolio oscillante intorno ai 100 dollari al barile (mentre scriviamo; comunque ha già visto un picco di 147) si fanno già progetti di prospezione per quando sparirà la calotta artica e si vanno a piantare bandierine per segnare il territorio.

Il 5 ottobre del 1972 Arabia Sau­dita, Kuwait ed Emirati avevano siglato a New York, con le grandi compagnie petrolifere, l'accordo sulla "partecipazione" ai "diritti" di prospezione e sfruttamento. Cieche in teoria economica ma non stupide in affari, le Sette Sorelle avevano rinunciato di buon grado alla ripartizione della rendita accordandosi caso per caso con i capi tribali del deserto, puntando sul meccanismo capitalistico generale: avevano il monopolio delle tecnologie, della distribuzione e della raffinazione, per cui l'aumento dei prezzi poteva essere trasformato agevolmente in una fonte insperata di finanziamento proprio nel momento in cui ce n'era più bisogno nella prospettiva di nuove scoperte, trivellazioni e sfruttamenti. Indifferenti rispetto al prezzo di produzione che scaricavano sugli acquirenti, nazioni o singoli consumatori finali che fossero, potevano manipolare a piacimento l'aumentato flusso di denaro. Facendo da mediatrici fra i paesi produttori, i paesi acquirenti e le popolazioni, intascavano un enorme dividendo sociale. Con i capitali da rendita, svincolati in parte dalla loro origine, esse riuscirono a finanziare l'esplorazione di nuovi giacimenti, la produzione, il trasporto, la raffinazione e anche la pene­trazione in altri settori energetici, pur osservando con cura di mantenere salde le radici sulle riserve esistenti, cioè sul con­trollo dell'intero ciclo che produce il flusso di denaro.

Tale flusso assunse dimensioni planetarie e incominciò a svolgere le funzioni di una banca virtuale: esso finì per raccogliere capitale presso molti paesi consumatori e concentrarlo presso pochi paesi produttori, i quali a loro volta utilizzarono i proventi per rimpinguare le casse degli apparati finanziari di pochissimi paesi rentier. Nel giro complessivo di capitali, si mobili­tarono le risorse finanziarie accumulate dai paesi esportatori per finanziare la crescita dei paesi importatori ai quali vennero concessi crediti… con il denaro da essi stessi versato in cambio di petrolio! Un gigantesco effetto leva per cui i paesi non petroliferi avrebbero in teoria migliorato la loro bilancia dei pagamenti recuperando i capitali che avevano versato ai paesi produttori. Secondo alcuni economisti questo miracoloso meccanismo circolare avrebbe potuto funzionare per lungo tempo e consentire la diminuzione della massa dei capitali fluttuanti, minacciosamente sospesa sul sistema monetario internazionale fin da quando gli Stati Uniti avevano dichiarato unilateralmente la fine degli accordi di Bretton Woods, rendendo il dollaro inconvertibile in oro.

Ma negli anni seguenti successe esattamente il contrario: il miracolo di fare capitale da capitale senza passare dalla produzione di beni e servizi non è mai riuscito a nessuno. L'unico modo per far funzionare il magico giuoco dei petroldollari sarebbe stato quello di stimolare effettivamente la produzione di manufatti e l'erogazione di servizi attraverso un ritorno completo dei sovrapprofitti devoluti alla rendita verso le metropoli industriali dell'Occidente; ritorno che avrebbe avuto l'effetto di un risparmio planetario forzoso, con relativo investimento e quindi relativo effetto moltiplicatore sull'economia di produzione. Il fatto è che il mondo era già in crisi di sovrapproduzione, e il descritto flusso di capitali era già un effetto che non poteva essere tramutato in fattore di sviluppo ulteriore. L'enorme massa di capitali fluì solo in parte verso la produzione, e per il resto confluì nella sfera del capitale fittizio in cerca di valorizzazione tramite sé stesso. La guerra del Kippur aveva peggiorato la situazione: il prezzo del petrolio era aumentato troppo e troppo in fretta per consentire un assorbimento della mole finanziaria da parte del capitale produttivo, e una autoriduzione del pompaggio aveva infine permesso ai terreni  più "difficili" di diventare regolatori del mercato.

Grazie a nuovi mezzi tecnici, il nostro capitalista, costretto a mollare il sovrapprofitto sotto forma di rendita all'emiro, se ne riappropria tramite il suo braccio rappresentato dalle sette sorelle aggiungendo un altro campo da coltivare, quello delle prospezioni difficili, delle rocce e sabbie bituminose, delle cosiddette fonti alternative, delle reti di oleodotti e gasdotti. Si affina e vende a caro prezzo tecnologia sofisticata, di cui ha il controllo totale, cioè il monopolio. Il pianeta si sta dimostrando davvero troppo piccolo per contenere una pletora di monopolisti in confronto a pochi produttori di valore. All'emiro proprietario del fondo è lasciata la rendita differen­ziale, mentre il capitalista industrial-finanziario diventa arbitro della rendita assoluta tramite il controllo totalitario delle tecnologie per il "campo peggiore", che riassume in sé tutto il ventaglio di situazioni ad alto anticipo di capitale, dal petrolio in capo al mondo a tutte le nuove fonti. Quando, tra non molto, il petrolio "facile" (e oggi possiamo chiamare così anche quello che un tempo era "difficile") sarà in esaurimento, tecnologie e nuove fonti saranno padrone del mondo (beh, se nel frattempo non scoppia una rivoluzione) e ritorneranno protagoniste della rendita differenziale. J. K. Jamieson, presidente della Exxon Corporation, affermava nel 1974:

"Noi prevedia­mo che, nel migliore dei casi, l'industria petrolifera statuniten­se potrà mantenere la produzione ai livelli attuali ancora per qualche anno. Ma per far ciò dovrà andare a cercare e produrre petrolio in zone geografiche sempre più impervie: la piattaforma conti­nentale, l'estremo nord della Terra. Ci vorrà, ben altro che le sco­perte in Alaska e le attuali operazioni offshore. E in­tanto, naturalmente, la domanda continuerà a crescere. (...) Siamo con ogni probabilità alla soglia di un prolungato periodo di scarsità energetica nonostante che sottoterra di energia ve ne sia ancora tantissima. Basti pensare al potenziale del carbone, degli scisti, delle sabbie bituminose, che è enorme e che verrà senza dubbio sfruttato. Ma non è possibile farlo subito e costa carissimo. Il numero di impianti produttivi nuovi, costosissimi, che è necessario costruire è talmente grande che non si può vederli realizza­ti dall'oggi al domani. (...) Però, se non altro, la convenienza eco­nomica a lungo termine di queste soluzioni alternative non è più in dubbio. Quanto al renderle commercialmente realistiche ci hanno pensa­to i prezzi del petrolio importato con la loro rapidissima ascesa. Quel che appariva antieconomico quando il petrolio marginale costa­va due o tre dollari al barile acquista tutto un altro aspetto quando un barile di greggio arriva a costare anche venti dollari".

Inesorabile caduta del saggio di profitto

Gli Stati Uniti erano particolarmente sensibili al problema della riconversione perché producevano e consumavano di gran lunga più di chiunque altro e possedevano riserve relativamente modeste. Calcolavano che, se non avessero pensato già da allora a diversificare le fonti d'energia, in circa 8-9 anni avrebbero esau­rito le loro riserve, tenendo conto non solo della crescita dei consumi ma anche delle ipotizzate nuove scoperte al ritmo di quegli anni. Le previsioni si rivelarono esatte relativamente alla capacità e possibilità di approvvigionarsi all'estero, offshore o in Alaska, senza esaurire le proprie tradizionali riserve strategiche, ma furono completamente sbagliate riguardo alla convenienza di sfruttare, a prezzi maggiorati, i loro giganteschi depositi di scisti e sabbie bituminose. Il ricorso a fonti alternative si dimostrò più ostico del previsto. Esaurito il numero di bacini adatti per la produzione di energia idroelettrica, limitata la costruzione di centrali nucleari, non rimase che ritornare al vecchio carbone, che ancora oggi fornisce uno spaventoso 40% dell'energia dissipata nel mondo ma anche un tremendo bilancio in termini di vite umane, stroncate dal lavoro in miniere sempre più profonde e insicure o semplicemente dallo smog.

Che l'enorme aumento del prezzo del petrolio non sia dovuto a mera speculazione ma a cause inerenti al modo di funzionare del capitalismo (semmai la speculazione è una conseguenza secondaria), lo vediamo in un grafico che riporta soltanto le medie annuali dei prezzi e non i picchi speculativi. Se i prezzi mostrati dalla figura 2 non sono riusciti a innescare l'entrata in scena di nuovi terreni "coltivabili" si può immaginare quale dovrebbe essere la soglia. Nonostante gli stratosferici aumenti, il petrolio dunque non costava e non costa ancora abbastanza da permettere il passaggio allo sfruttamento di fonti energetiche veramente alternative. Tolte alcune trivellazioni sperimentali, il "campo peggiore", ma sempre in grado di fornire rendita assoluta, rimane più o meno quello che era trent'anni fa, durante la normalizzazione seguita alla grande crisi del 1975.

prezzo petrolio 1945-2010Figura 2. Prezzo del petrolio in dollari, depurato dai picchi speculativi.

Dal punto di vista teorico non esiste alcun limite all'aumento di tecnologia e scienza, cioè di capitale costante, nella produzione industriale. Né vi è un limite teorico alla produzione di merci. Ma per quanto riguarda i prodotti della terra, il limite c'è ed è insormontabile. Tralasciando il ciclo agricolo, che normalmente è di un anno, nel caso delle materie prime il limite fu il prezzo, che non poté crescere più di tanto per non soffocare l'economia mondiale. Perciò nuovi metodi e nuove fonti non furono utilizzabili perché tale prezzo non offrì la possibilità di realizzare in quei settori il prezzo di costo più il pro­fitto medio generale. Nel campo del petrolio il capitalista non trovò un nuovo emiro in America, trovò solo l'avido banchiere.

Lo sfruttamento di rocce e sabbie bituminose, le isole supertecnologiche di trivellazione ed estrazione, l'estendersi dello sfruttamento dell'energia nucleare e delle fonti alternative possono essere inseriti nei progetti futuri del capitalismo, ma essi produrranno un'esigenza di produttività crescente per pagarne i costi, quindi il ricorso a un aumento del capi­tale costante, quindi un allargamento della scala della produzione. La massa assoluta del profitto aumenterà, ma ne dimi­nuirà ulteriormente il saggio, costringendo ancora di più il capitale ad autonomizzarsi nella sfera finanziaria e a fare acrobazie per tentare una valorizzazione comunque.

Al momento dello scambio, la merce energia richiederà una quota sempre più alta di merci equivalenti prodotte dal proletariato dei paesi sviluppati. E, ammesso che esse trovino una sistemazione sul mercato, in qualche parte del mondo sarà accumulata una quantità sempre maggiore di merce-equivalente-generale, cioè moneta, perché in ultima analisi le merci si scambiano di preferenza dove esiste già un mercato svi­luppato e quindi una finanza sviluppata. Già da un pezzo i capitali accumulati sotto la voce "rendita" non possono tornare nella produzione nella loro totalità. Non si può aumentare la produzione all'infinito se il mercato non si sviluppa conseguentemente. E sappiamo che questo non succede e non succederà. Il capitale che rappresenta la rendita fondiaria ritornerà di nuovo in Occidente, ma ancora sotto forma di rendita, cioè in attività finanziarie e immobiliari. Nel 1975, su 63 miliardi di dollari di rendita petrolifera, 6 miliardi furono  reinvestiti all'interno dei paesi produttori, 51 (di cui 34 investiti in attività finanziarie) ripresero la via dell'Occidente e soltanto 6 furono indirizza­ti verso gli istituti di cooperazione internazionale. Sappiamo che oggi questo fenomeno s'è elevato all'ennesima potenza, e sarà sempre peggio.

Estrarre il petrolio costava nel 1974 10 centesimi di dollaro al barile. Nel costo erano compresi il capitale anticipato e consu­mato nella produzione, la forza lavoro, l'interesse e la rendita. Aggiungendo il trasporto e il profitto, le compagnie vendevano il greggio a 10-12 dollari al barile (prezzo OPEC, sul mercato a pronti vi furono dei picchi fino a 30 dollari). Se riusciamo a vedere attra­verso e oltre il segno monetario, abbiamo la misura di che cosa si­gnifichi la differenza tra i 10 cents e i 12 dollari, quanto cioè abbia incominciato a incidere la quota di plusvalore che, prodotta dalla classe operaia mondiale, andò a fornire la liquidità ai mercati internazionali (interesse) e ad acquisire proprie­tà (rendita). Il fenomeno aveva già allora radici lontane. Prima della Guerra del Kippur, in Europa un barile di greggio scoperto, estratto, trasportato, raffinato e distribuito sotto forma di prodot­ti ai consumatori, costava a questi ultimi (incluso quindi un tasso di profitto medio) da sei a sette volte di più rispetto al prezzo di costo del barile originario. Questo significa che, nella catena della lavorazione, dalla ricerca del pozzo alla benzina o ai polimeri, la somma dei sovrapprofitti delle aziende chimiche, farmaceutiche, petrolifere, tessili, ecc. era di gran lunga superiore al risultato di calcoli analoghi applicati ad altri rami dell'industria. Subito dopo la guerra del Kippur l'OCSE aveva calcolato che i paesi aderenti avrebbero dovuto investire, nel decennio dal 1974 al 1984, 1.100 miliardi di dollari (in dollari 1972) per rinnovare gli impianti, per la conversione delle fonti, per il trasporto e per la distribuzione dei prodotti petroliferi (escluso il set­tore petrolchimico). Altri 1.800 miliardi di dollari sarebbero serviti per realizza­re economie rispetto all'enorme dissipazione ereditata dal periodo del petrolio facile. Cifre enormi per l'epoca.

Nel 1971 il costo di una trivellazione offshore era ormai a 29.000 dol­lari al giorno, e una piattaforma semisommersa costava 13 milioni di dollari. Nel 1975 l'aumento del prezzo aveva già consentito di affrontare altissimi margini di rischio: nonostante fossero accertate riserve sicure per soli 18 miliardi di barili, appena sufficienti per sostenere l'investimento, furono messe in funzione 40 piattaforme offshore nel Mare del Nord, e altre 50 furono messe in cantiere sull'ipotesi di altri 42 miliardi di barili. Giusta la teoria della rendita, quel petrolio (Brent), la cui estrazione attualmente costa 11 dollari al barile più di quella del greggio mediorientale (Arabian light), è diventato dal 1976 il riferimento per quasi tutti gli altri tipi di greggio.

Oggi i prezzi sono lievitati e nuovi pozzi sono più difficili da reperire che non allora. La Deepwater Horizon, piattaforma petrolifera diventata tristemente famosa per il recente disastro nel Golfo del Messico a 80 miglia nautiche dalle coste della Louisiana, era costata 560 milioni di dollari e la British Petroleum l'affittava dal più grande costruttore del mondo, la Transocean svizzera, per mezzo milione di dollari al giorno. Siccome pompava 9.000 barili al giorno e, a 100 dollari al barile, 5.000  servivano per pagare l'affitto, ne restavano al petroliere 4.000, mentre il costruttore aveva ammortizzato il capitale anticipato in circa tre anni. Dopo tre anni, dunque, al lordo delle spese di gestione e del profitto medio dovuto al costruttore, la piattaforma procurava 900.000 dollari al giorno di rendita assoluta. Ma la piattaforma era mobile, attrezzata per le trivellazioni, tanto che aveva stabilito un record di profondità altrove, trivellando un pozzo a oltre 10 chilometri di profondità. Oltre alla rendita aveva dunque la possibilità di ottenere un profitto in cambio di un servizio. Il controllo della rendita assoluta rende possibile un drenaggio di valore che altri settori non possono neppure sperare. E questo misto di sovrapprofitto e rendita ricade tutto sul capitale costante del capitalista puramente industriale, soffocandone inesorabilmente il saggio di profitto. La tensione sul petrolio e in genere sulle materie prime non fa che penalizzare il mondo della produzione che è già asfittico per conto suo. Ne risultano irrigidite e aggravate le complesse interdipendenze del sistema economico mondiale.

Sottomissione dell'industria alla finanza

I vari paesi saranno sempre più costretti ad un controllo reciproco e a veder aumentare la reciproca diffidenza. Saranno nello stesso tempo sempre più costretti a intervenire per salvataggi a favore di paesi concorrenti cui un tempo avrebbero dichiarato al minimo una guerra commerciale e finanziaria. E lo faranno emettendo moneta, cioè aggravando quella finanziarizzazione del mondo che già confonde gli economisti. I quali, incapaci di darsi una ragione teorica, sanno solo appellarsi alla buona volontà dei governanti. Il motto mors tua vita mea è sempre valido, ma se la barca affonda per uno, affonda per tutti. Come sempre, i paesi industrializzati importatori di petrolio dovranno au­mentare i prezzi dei loro prodotti all'esportazione nella misura in cui le importazioni di idrocarburi incideranno sulle loro bilance dei pagamenti. I paesi non industrializzati, ma esportatori di mate­rie prime e importatori sia di idrocarburi che di manufatti, non potranno far altro che aumentare i prezzi delle loro esportazioni, cioè assecondare la tendenza generale. I paesi in via di sviluppo importatori di petrolio e manufatti, ma senza una produzione per l'esportazione, non potranno far altro che tirare ulteriormen­te la cinghia.

Già un paio di anni dopo la guerra del Kippur lo spostamento di petroldollari dal capitalista all'emiro, e dall'emiro nuovamente al capitalista (versione banchiere), aveva scombussolato gli equilibri delle riserve monetarie mondiali. E questo senza contare la vendita di tutte le altre materie prime, anch'esse in grado di provocare enorme circolazione  di liquidità. I ricavati del­la vendita del greggio rappresentavano circa la metà delle riserve in valuta, oro, cambiali FMI, cioè delle risorse totali del mondo industrializzato; risorse che ammontavano nel 1975 a 224 miliardi di dollari complessivamente. Ma, mentre nel 1970 le riserve OPEC rappresentavano il 5% del totale, nel 1975 erano già al 25%. Paesi insignificanti dal punto di vista industriale e finanziario si trovavano all'improvviso con un quarto delle riserve monetarie mondiali, affiancandosi a quelli che storicamente avevano avuto le maggiori riserve: l'Arabia Saudita con riserve pari a 21 miliardi di dollari veniva subito dopo la Germania, grande esportatrice di manufatti (31 miliardi) e prima degli Stati Uniti (16 miliardi).

L'Arabia era il paese che esportava più petrolio ma, essendo prevalentemente desertico, aveva minori possibilità di sviluppo interno, per cui il ricavato delle esportazioni era forzatamente mantenuto a lungo nella forma di capitale monetario. Il "surplus" petrolifero (debito dei consumatori) si accumulò per diversi anni, finché tra gli investimenti all'interno, le importazioni OPEC e il pur parziale affrancamento energetico dei paesi consumatori, non si ristabilì un precario equilibrio. Ma di che tipo di equilibrio si trattasse nessun economista lo poteva prevedere senza una critica radicale del capitalismo. All'epoca si calcolò che il disastro provocato dal gigantesco drenaggio di valore sarebbe stato assorbito in 5 anni. Il complesso delle operazioni di riciclag­gio dei petroldollari nelle banche occidentali avrebbe richiesto tutto quel tempo, senza che i maggiori paesi industrializzati potessero beneficiare appieno del capitale riversato nei loro forzieri. Il capitalista aveva pagato la rendita all'emiro e adesso doveva pagargli pure gli interessi sul capitale che un tempo era suo.

Il paradosso si trasformava in un forte indebitamento dei paesi industrializzati. Secondo la Banca Mondiale esso avrebbe raggiunto i 650 miliardi nel 1980. Che, in confronto alle cifre cui siamo adesso abituati sembrano quasi inezie, ma si trattava pur sempre di una cifra equivalente al PIL di un importante paese europeo. Il servi­zio di questo debito sarebbe costato  all'incirca il suo 10%, cioè 65 miliardi di dollari. Qualcuno, nel 1975, si divertì a calcolare il debito dell'Inghilterra al 1980: risultò equivalente alla somma dei debiti a lungo e breve ter­mine accumulati dal medioevo a quel momento. Non conoscendo l'ammontare dello spaventoso debito storico, non possiamo fare paragoni, ma di fatto l'Inghilterra, come gli altri paesi, incominciò ad accumulare debito a ritmo sostenuto. I pozzi petroliferi del Mare del Nord, diventati pienamente attivi a partire dal 1976, non riuscirono ad alleviarlo.

La fine di ogni riferimento all'oro sancita definitivamente dagli accordi di Kingston (1976), tolse alla massa finanziaria ogni aggancio alla realtà, tanto più che in Europa tale massa era già composta in massima parte da eurodollari, cioè moneta virtuale garantita solo dalla potenza americana, che però non ne permetteva la convertibilità. A Kingston, sotto l'ombrello della leadership economica e finanziaria americana, si erano riuniti i rappresentanti dei vari paesi aderenti al Fondo Monetario Internazionale. Ai quali non restò che formalizzare ciò che già era successo, cioè il passaggio dai cambi fissi alla fluttuazione delle valute e alla demonetizzazione dell'oro, divenuto così una materia prima dal prezzo fluttuante come le altre. Veniva in tal modo sancita ufficialmente la morte degli accordi di Bretton Woods, che avevano retto il mondo per quasi trent'anni. Il mondo si trovò dunque senza salvagente in un mare in tempesta. Ma non c'era altra via, dato che il capitale in difficoltà di accumulazione non sopportava più di essere imbrigliato in regole fisse. Il guaio è che, senza regole, scorazzavano nelle banche dei paesi che contavano 200 miliardi di xeno dollari e 250 miliardi di petroldollari in continua crescita, e non si scorgeva all'orizzonte una fermata per l'infernale circolo vizioso: il capitalista comprava petrolio, l'emiro depositava in banca, il banchiere prestava al capitalista e questi gli pagava l'interesse. Tutto avrebbe potuto funzionare solo se l'operaio avesse continuato a produrre abbastanza plusvalore da accontentare tutti coloro che lo stavano scuoiando.

Troppa ricchezza, morte per fame

Il circolo è vizioso perché auto replicante. E ad ogni giro il sistema non torna al punto di partenza ma sale di un gradino nella scala delle sue contraddizioni, ipotecando il futuro. Allo stesso modo, le crisi non sono mai "cicliche" nel vero senso della parola, esse hanno una freccia nel tempo. Non tornerà mai più una crisi contro la quale sia efficace la terapia keynesiana. Fin dal tempo dei primi banchieri "lombardi", il capitale tende a migrare dove c'è altro capitale, e questa è la dannazione di ogni rivoluzionario, dato che il mostro così facendo rende sempre più potenti i centri in cui si accumula. E naturalmente rende deboli le periferie del mondo nelle quali passa, s'ingrassa e se ne va lasciando solo venefici scarti. L'esistenza di un mercato internazionale ha stimolato storicamente la produzione, ma ad un certo punto la questione si è altrettanto storicamente rovesciata: l'altissima pro­duzione cerca ora disperatamente di piazzarsi su un mercato che si rivela – nonostante l'estensione mondiale – sempre più limitato. Il pianeta, di questi limiti ne ha accumulati fin troppi per contenere l'esuberanza produttiva del capitalismo, che è ormai troppo vecchio per rimettere in pista le performanti caratteristiche delle sue origini manifatturiere. Così il processo di invecchiamento entro spazi di manovra troppo angusti si riflette sulla circolazione del capitale fittizio, quello che si accumula negli storici punti di attrazione, soprattutto in America e Inghilterra, senza più ricevere abbastanza ossigeno dalla produzione, ormai diventata per sempre sovrapproduzione. Scrive Lenin nell'Imperialismo:

"Man mano che le banche si sviluppano e si concentra­no in poche istituzioni, si trasformano da modeste mediatrici in potenti monopoliste, che dispongono di quasi tutto il capitale liquido di tutti i capitalisti e piccoli industriali, e così pure del­la massima parte dei mezzi di produzione e delle sorgenti di mate­rie prime di un dato paese e di tutta una serie di paesi".

Lo schema dei passaggi dalla produzione mercantile alla produzione capitalistica sviluppata contiene in sé quel ra­mo collaterale che è il mondo del credito, con cui il capitale un tempo si rivitalizzava raccogliendo le sue piccole parti sparse nella società per concentrarle in potenti mezzi d'investimento tramite le banche. Oggi l'evoluzione di quello stesso sistema vede trionfare il miracolo di un valore che sorge apparentemente dal denaro. Quando non è più il mercato a stimolare la produzione, ma è la produzione ad essere co­stretta ad inventarsi un mercato, ecco che la caratteristica principale del sistema diventa l'esportazione non più di merci, come sotto il dominio della libera concorrenza, bensì di capitali, sotto il dominio dei monopoli. La banca è il tramite di questo salto di qualità. Essa è lo strumento che permette l'operazione illusoria di creare valore dal nulla. Ma una volta di più la con­traddizione esasperata del modo di produzione capitalistico mostra la sua potente negazione dialettica: il capitale, divenuto la copia di sé stesso nel credito, enfiato a dismisura dal suo stesso modo di esistere, dopo la Borsa si mangia anche la Banca. Le borse ormai sono sostituite dalla rete di transazioni informatiche e le banche non hanno più la loro funzione di raccolta di piccoli capitali da risparmio che, sommati, diventano grandi capitali da investimento. Si sono autonomizzate come il capitale e rappresentano un corpo separato della società.

I superesperti delle maggiori banche, i maghi di Ginevra, di Londra e di Wall Street, i capi delle banche centrali, uomini che hanno in pugno il mondo, che possono cancellare un governo con un trasferimento di bit da un computer all'altro, non sono stati in grado di capire i movimenti del loro dio capitale, anonimo, potente, in­controllabile. Anche nel 1975 non ebbero la possibilità di capire ciò che stava succedendo. Se avessero avuto una scienza del capitale, avrebbero previsto in modo condiviso (cioè tutti insieme, non uno o due per caso come a volte succede) la crisi della rendita e le conseguenze sulla raccolta di capitale finanziario. E invece corsero tutti ad incettare i petroldollari, producendo teorie solo sulle tecniche di razzia. Parlarono di "riciclaggio", termine che oggi evoca altro, ma che fu alquanto appropriato. Passata la bufera, previdero di impiegare le rendite nello sviluppo industri­ale disegnando quadri idilliaci di prosperità. Dalle loro tavole rotonde promisero benessere agli affamati, ma poi, a conti fatti, dalle loro costose valigette 24 ore rivestite di pelle proletaria non uscirono che pi­ani d'acquisto di immobili agli Champs-Elisées o a Miami Beach. Del resto era esattamente ciò che stavano facendo i principi arabi a New York e a Londra, proprio con la stessa "scienza" economica.

I loro piani previdero prestiti a basso interesse e a lungo termi­ne ai paesi poveri, ma il capitale scelse autonomamente dove valorizzarsi. E quindi o in quei paesi non vi arrivò neppure, o si impegnò nell'unico ramo redditizio esistente in molti di essi: l'estrazione e l'esportazione di materie prime. Se queste sono l'unica fonte di ricchezza dei paesi in (eterna) via di sviluppo, detti paesi hanno la possibilità di sopravvivere solo se le vendono, perciò in ultima analisi, solo se i paesi ricchi si sviluppano ulteriormente e hanno bisogno di comprarle. Il capitale non può trovare altra via che quella verso i paesi più ricchi. Secondo calcoli della Banca Mondiale, nel 1975 una ridu­zione del tasso di crescita dei soli paesi OCSE dell'1% avrebbe avuto gli stessi effetti di un dimezzamento del volume corrente di assistenza finanziaria pubblica allo sviluppo dei paesi affamati. Quindi, se i calcoli sono esatti, la recessione mondiale 1974-75 ricacciò verso la fame due miliardi e mezzo di uomini già al limite della sussistenza. Infatti non solo non vi fu un aumento del tasso di crescita, ma vi fu addirittura una diminuzione per la maggior parte dei paesi, con relativa tendenza a politiche commerciali più restrittive nei confronti delle importazioni dai paesi poveri. Sempre secondo la Banca Mondiale, già nel 1973 gli "aiuti pubblici per lo sviluppo" erano scesi dallo 0,34 allo 0,30% rispetto al PIL dei paesi OCSE, mentre il potere d'acquisto dei paesi destinatari era diminuito in termini reali del 6%. Nel 1974-75 le cose si aggravarono pesantemente e i fondi d'emergenza ONU furono quasi azzerati, mentre le oil facility organizzate dal Fondo Monetario Internazionale crebbero a 30 miliardi di dollari, di cui 24 utilizzati per finanziare i disavanzi petrolife­ri dei paesi industrializzati e 6 per i paesi poveri in difficoltà. Come dice il proverbio, piove sempre sul bagnato.

Tutte le banche, gli istituti finanziari, gli accordi tra produttori e consumatori, nati per indirizzare i capitali OPEC verso lo sviluppo dei "paesi emergenti" (sviluppo del mercato estero), o fallirono o furono costretti a cambiare la direzione dei capita­li. Nel frattempo, comprando una gran quantità di consiglieri economici in Occidente, i paesi arabi incominciarono a mettersi finanziariamente in proprio. Entro pochi anni eressero un sistema bancario integrato sotto stretto controllo del cartello petrolifero arabo. In primo luogo, ben prima che si parlasse di Islamic banking, fondarono una quantità di banche per promuovere investimenti all'interno del paese d'appartenenza; al 1975, 84 banche arabe erano di primaria importanza e circa 60 di queste erano concentrate negli emirati dove non esisteva legislazione bancaria. Siccome il capitale non può soffrire chi gli soffia sul collo e controlla i suoi movimenti, alle banche furono affiancati degli specifici Istituti finanziari con lo scopo di ottimizzare gli investimenti in loco, questa volta nell'ambito di una programmazione economica degli stati, anche in collegamento con il mondo del credito europeo. Infine furono realizzati, in Libia e in Kuwait, dei Fondi di sviluppo con il compito di indirizzare una parte dei capitali verso paesi arabi e africani senza petrolio. In Algeria la stessa funzione fu svolta dalle banche.

Nel settembre del 1974 fu costituita la Arab Investment Company da parte di Arabia Saudita, Kuwait, Sudan, Egitto, Qatar, Abu Dhabi e Bahrein. Questa holding interaraba aveva lo scopo manifesto di acquisire società occidentali dei più disparati settori, dall'industria chimica di base ai grandi lavori pubblici, dal turismo all'assicurazione. L'obiettivo era quello di appropriarsi delle più moderne tecnologie industriali e dell'esperienza nei servizi, utili allo sviluppo economico degli stati aderenti. Ma per almeno un decennio, nessuno degli organismi citati poté realizzare, se non in minima parte, gli ambiziosi progetti di investimento, né per accelerare l'industrializzazione dei paesi in questione, né per aiutare i paesi senza petrolio. La maggior parte dei capitali confluì nei due paesi dove il capitale internazionale aveva affondato le sue storiche radici: Gran Bretagna e Stati Uniti.

Paradosso bancario: soffocare di depositi

Anche le grandi banche americane, colossi finanziari come la storia non ha mai conosciuto, furono spiazzate dall'afflusso eccessivo di ca­pitale finanziario. Il capitale domina anonimo e impercepibile, ridotto all'astrazione di un flusso magnetico nelle memorie degli elaboratori, ma tremendo e concreto come un potenziale cataclisma. Per rendere più flessibili le banche, cioè per liberarsi dai controlli che lo frenavano, il capitale ordinò ai suoi servitori l'inizio della stagione di deregulation. Milton Friedman fu scelto come sacerdote della nuova religione. Il dogma fu: l'inflazione è solo e sempre un prodotto monetario, lasciate fare al mercato. Dopo il secondo shock petrolifero (1978-79), al culmine dell'ascesa dei prezzi del petrolio, il "prodotto monetario" s'impose: l'inflazione si accompagnò alla stagnazione economica e il termine stagflazione uscì dagli studi accademici per diventare popolare. Tra il 1979 e il 1981 due personaggi, Ronald Reagan e Margaret Thatcher, non proprio conosciuti per essere protagonisti della scienza economica, furono scelti dal capitale stesso per comunicare al mondo che sarebbe stato de-regolato. In quanto esponenti, non a caso, dei due paesi anglosassoni calamita di euro e petroldollari, essi obbedirono ed eseguirono. Al culmine del processo, nel 1987, ci fu la prima grande catastrofe da cancellazione di capitale fittizio dopo il 1929. Ne fu annientato per un valore pari a sei o settemila miliardi di dollari, cinque volte il prodotto annuo di un paese come l'Italia. Se non si ha scienza della formazione del valore è ovvio che tutto sembri un fenomeno monetario.

Le banche che avevano controllato il mondo erano ora controllate dal loro capitale. Che cos'era avvenuto? L'immissione nel ciclo di valorizzazione del capitale da rendita era talmente smisurata da essere smaltita con difficoltà dal normale ciclo produzione-distribuzione. E i prezzi delle materie prime non accennavano a diminuire perché il sistema stava mostrando di sopportare la crisi meglio del previsto. Infatti, all'inizio del 1973, passata la crisi monetaria del 1970-71 e prima della Guerra del Kippur, la produzione dei paesi industrializzati era già aumentata dell'8% su base annua, coronando il mini-boom iniziato nel 1972. Ai primi cenni di riflusso della produzione, il mondo industrializzato aveva risposto nel modo classico: ristrutturando. Ciò aveva significato aumento degli investimenti, quindi aumento delle importazioni per il settore primario. Fattore ancora più importante, l'aumento aveva interessato tutti i paesi nello stesso momento. Perciò i prezzi delle ma­terie prime mondiali, che non avevano mai subito oscillazioni supe­riori al +/- 3% da 25 anni, ebbero un balzo, nel primo trimestre del 1973, del +15%. Verso la metà dell'anno erano aumentati del 23% e alla fine dell'anno, dopo la guerra, erano già al +50%. La curva ascendente fu solo minimamente perturbata dagli scontri in Medio Oriente.

Ma sommando la situazione economica e la guerra, dopo dieci anni di inutili trattative, proteste, agitazioni presso la United Nations Conference on Trade and Development, i paesi produttori di materie prime si videro offrire dal mercato, su un piatto d'argento, le opportunità loro precedentemente negate dai padroni del mondo. L'UNCTAD era stata fondata nel 1964 dall'ONU come consesso internazionale in cui i paesi del Terzo Mondo avrebbero potuto far valere le loro ragioni, in termini di sviluppo e crescita, contro i danni provocati dal periodo coloniale e si sarebbe dovuta occupare di investimenti (aiuti), tecnologie, commercio, logistica e finanza. Compiti, questi, che gli organismi esistenti fondati all'uopo (il GATT, oggi WTO, il FMI e la Banca Mondiale) avevano sistematicamente eluso: invece di sovrintendere allo sviluppo generale e non solo a quello dei paesi più ricchi, vessavano i paesi emergenti obbligandoli a tirare la cinghia per pagare debiti sempre più insostenibili (il che provocava frequenti rivolte). L'obiettivo primario dell'UNCTAD era stato ad ogni modo disatteso e le leggi di mercato stavano rimediando.

Si gridò naturalmente alla speculazione. Nel 1972 il commercio mondiale globale fu di circa 400 miliardi di dollari. Le importazioni di derrate alimentari, minerali, carburanti e materie prime in genere ammontarono a circa 150 miliardi di dollari. Alla metà del 1974 il medesi­mo quantitativo di materie prime venne importato al prezzo di cir­ca 320 miliardi di dollari. La componente speculativa non fu certo trascurabile, come non lo è mai stata da quando esiste il capitalismo, ma non fu la causa del cambiamento. Comunque sia, la speculazione ha sempre a che fare con ogni ragionamento sulla rendita perché grandeggia ovunque vi sia una situazione di monopolio che procuri capitale senza che si passi attraverso lavoro umano.

Quando gli Stati Uniti svalutarono il dollaro rendendolo inconvertibile, l'affossamento del sistema uscito da Bretton Woods provocò una situazione paradossale: l'impossibilità da parte delle banche di gesti­re un capitale e di investirlo in quanto sproporzionato rispetto al loro proprio capitale. I proventi in dollari svalutati avevano alimentato un flusso di capitali soprattutto verso le banche americane e inglesi, in minore misura verso quelle di altri paesi europei e asiatici, amplificando il fenomeno delle xenovalute. Questo eccesso di dollari ormai slegati dalla madrepatria americana era ed è il terreno ideale per la speculazione, che adopera – e nello stesso tempo provoca – vaste oscillazioni. All'apice delle fluttuazioni, nell'estate del 1974, si verificarono alcuni crolli clamorosi di banche europee ed americane. La Herstatt tedesca fallì perché rimase "scoperta" in seguito ad operazioni sui cambi condotte con depositi che erano superiori ai mezzi propri. La UBS (Unione banche svizzere), colosso della finanza internazionale, rischiò di fare la stessa fine. L'effetto domino colpì altre banche fra le quali la Banca Privata Italiana, la Franklin National Bank e la US National of S. Diego, americane. Negli anni successivi il sistema bancario internazionale fu scosso da continui colpi di scena, tanto che i maggiori paesi decisero di prendere provvedimenti. Ma la situazione delle banche era così disastrosa che si rischiava di far esplodere una crisi bancaria e si preferì preparare il terreno alla deregulation. I provvedimenti furono applicati per gradi come una specie di assicurazione (coefficiente di solvibilità) contro quello che venne poi definito Herstatt risk, cioè un "rischio di controparte": nelle transazioni internazionali, la banca che paga per prima corre il rischio di ricevere in ritardo il pagamento o di non riceverlo affatto in caso di bancarotta dell'altra banca. In questo caso si innesca una reazione a catena difficile da gestire. Nel caos bancario, naturalmente, furono possibili operazioni di ogni genere, come dimostrano i casi nostrani di Banca Privata (con la controllata americana Franklin), Ambrosiano, IOR, con corollario hollywoodiano di omicidi a raffica, mafie e delinquenza comune. Gli Accordi di Basilea di qualche anno dopo ebbero lo specifico scopo di limitare l'attivismo delle banche con le spettacolari eccedenze rispetto ai capitali da detenere obbligatoriamente a scopo precauzionale.

In pratica, ad esempio negli Stati Uniti, la Federal Reserve dovette intervenire di volta in volta per imporre a grandi istituti, come successe con la First National City Bank, di mantenere un determinato rapporto tra i mez­zi propri e il totale degli impieghi. In seguito all'enorme espansione dei depositi, e quindi delle operazioni attive, il capitale proprio delle banche era diventato assolutamente inadeguato. Fissarne l'importo per legge non aveva senso di fronte alle migliaia di banche di ogni dimensione e specializzazione (solo negli Stati Uniti ce n'erano 14.250), né si poteva obbligare migliaia di banche a rastrellare sul mercato o in Borsa tanto denaro da ricapitalizzarle tutte. Vi fu qualche esperto che previde la necessità da parte delle banche di rifiutare i petroldollari se l'andamento fosse continuato, dato che sarebbe comunque venuto a mancare il prestabilito tasso di deposito precauzionale e il capitale raccolto sarebbe rimasto inutilizzato per legge.

Ma il denaro non si poteva tenere fermo. Quindi l'attività bancaria si svolse comunque, anche se all'insegna del rischio crescente e spesso dell'illegalità manifesta. Nel 1974 le perdite sui prestiti bancari ammontarono, negli USA, a 2 miliardi di dollari. Nel 1975 salirono a tre miliardi. Quando negli anni successivi assommarono a 8-9 miliardi di dollari, il Controller of the currency iscrisse nella lista di controllo la First National e la Chase Manhattan, due banche che da sole controllavano il 10% i tutti i depositi delle 14.250 banche americane (90 miliardi su 900 nel 1974). La legge prescriveva un deposito precauzionale pari all'8% delle attività totali, ma il solo Kuwait aveva depositi nella First National per 2 miliardi di dollari. Secondo il presidente della Federal Reserve di allora, il crollo della Franklin era avvenuto perché in tre giorni i correntisti, dopo la reazione a catena scatenata dalla Herstatt, avevano ritirato 800 milioni di dollari; dollari che non c'erano e che non era stato possibile far giungere da altre banche. La Banca Privata e la Franklin erano entrambe controllate da Michele Sindona, il quale chiese una mano, rifiutata, al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, banca il cui maggiore azionista era lo IOR vaticano. Il crack della Franklin fu giudicato il peggior scandalo nella storia bancaria americana. Il lettore che volesse approfondire sulle nefandezze del capitale provi a fare una semplice ricerca su Internet utilizzando come parole chiave i nomi di queste tre banche, dei loro responsabili e dei cadaveri seminati per strada. Dopo, cadaveri a parte, fu sempre peggio, e la finanziarizzazione del mondo procedette a ritmo serrato, tanto che le cifre da noi utilizzate fin qui sono ridicole in confronto a quelle che entreranno in ballo nei collassi successivi del 1987, 1997, 2000 e 2008.

È giunto il tempo...

Nella società di oggi siamo alla completa verifica sperimentale rispetto alle considerazioni che facevano Marx, Engels e Lenin sul capitale finanziario. Anche le elaborazioni integrative pubblicate dalla nostra corrente, basate sull'osservazione di un capitalismo ormai non più vitale, considerato come "un cadavere che ancora cammina", hanno avuto la loro chiarissima verifica. Nell'Imperialismo Lenin notava come la maturazione del capitalismo fino alla fase imperialistica, caratterizzata dalla concentrazione e dalla centralizzazione del capitale, modificasse radicalmente il rapporto fra industria e banche. La raccolta enorme di capitali in uno solo, quello bancario, eliminava la funzione dei capitalisti singoli, al posto dei quali sorgeva un capitalista collettivo. Per quanto all'apparenza la banca svolgesse un servizio tecnico, ausiliario, a favore dei suoi clienti, che tra l'altro la pagavano per questo, in realtà contribuiva all'ingigantirsi del sistema del credito, il quale, come il capitale rispetto al capitalista, si andava autonomizzando rispetto alla sua "clientela". Il capitalismo giungeva così a separare il possessore di capitale dall'investimento dello stesso capitale nell'industria o nei servizi. Nell'epoca imperialistica è il capitale finanziario a prevalere su ogni altra forma di capitale.

Fino a Lenin, dunque, il capitale finanziario è separato dal possessore di capitale singolo, ma rimane capitale per l'investimento nell'industria o nei servizi. La sua autonomizzazione non è ancora totale. È prevalente su ogni altra forma, ma si valorizza ancora tramite la produzione di valori d'uso e di scambio, cioè di merci. È già il prodotto della massima socializzazione del lavoro, ma partecipa ancora all'utilizzo di questo lavoro. Oggi il capitale finanziario è più che altro capitale fittizio. Ricordiamo la definizione di Marx: chiunque possa beneficiare di una rendita di 1.000 dollari all'anno, per qualsiasi ragione che non sia il possesso di un bene materiale, terra, immobile o altro, senza partecipare direttamente al ciclo produttivo, mentre è in vigore un tasso medio di interesse del 10%, è come se possedesse un capitale di 10.000 dollari. La sua rendita è vendibile sul mercato intorno a quella cifra. È chiaro che egli la potrà realizzare solo se l'eventuale compratore a sua volta se la sarà procurata nella società in qualche modo, quel che importa è che il sistema nel suo insieme renda possibile l'operazione. Quando recentemente Facebook si è presentata a Wall Street gettando sul tavolo un fatturato di 4,7 miliardi garantiti concretamente dalla Goldman Sachs con un investimento di 450 milioni, il mercato l'ha valutata 100 miliardi di dollari senza fiatare, senza chiedersi quanto valesse davvero l'immateriale bit del social network.

"La teoria quantitativa della questione agraria e della rendita è quindi la completa ed esauriente teoria di ogni monopolio e di ogni sovrapprofitto da monopolio, per ogni fenomeno che stabilisca i prezzi correnti al di sopra del valore sociale. E ciò avviene quando lo Stato monopolizza le sigarette, come quando un potente trust o sindacato monopolizza, poniamo, i pozzi di petrolio di tutta una regione del globo, come quando si forma un pool internazionale capitalistico del carbone o dell'acciaio o, come sarà domani, dell'uranio" (PCInt., Vulcano della produzione o palude del mercato? Cap. I.35).

Vale anche per i nuovissimi monopolizzatori del bit. Il capitalismo nella sua storia incomincia a ridurre, con l'aumento della produttività, la quota di lavoro sociale contenuta in una unità di prodotto che esce dalle fabbriche. Teoricamente ciò significa che l'intera società potrebbe giungere a consumare la stessa quantità di prodotti erogando un minor numero di ore di lavoro, quindi accorciando la giornata lavorativa. Ciò in regime capitalistico non succede, in primo luogo perché il capitalista preferisce tenere alto il saggio di profitto sfruttando l'operaio per il maggior tempo possibile e licenziare gli operai in esubero; in secondo luogo perché cresce storicamente, come abbiamo visto, il sovrapprofitto da devolvere alla rendita a causa del monopolio sulla terra che influenza la produzione agricola e mineraria. Ma nella misura in cui la forza produttiva sociale aumenta, la produzione materiale vera e propria diminuisce in confronto alla produzione immateriale. La quale offre l'accesso a quelle che già Marx chiamava "merci continue", come le ferrovie, il gas, l'elettricità, il telegrafo, ecc. che oggi sono assolutamente predominanti nelle forme più sofisticate, in mano a holding gigantesche. Queste ultime sono il frutto finale dell'inesorabile meccanismo che ha portato dall'accumulazione alla concentrazione e poi alla centralizzazione. Le holding monopolistiche impongono tutta una serie di rendite che richiedono sovrapprofitto e quindi impongono l'ulteriore sfruttamento dell'operaio. Nello stesso momento anche il prezzo di accesso alle merci, discrete o continue che siano, è sempre più sfasato rispetto al loro reale valore sociale.

Questa prevalenza del capitale centralizzato e quindi monopolistico era già diventata schiacciante nel periodo che abbiamo fin qui analizzato. Le 500 società ame­ricane (su decine e decine di migliaia) che secondo Fortune controllavano l'80% del fatturato globale USA erano così carenti di profitto e affamate di capitali da credito da essere quasi un tutt'uno con le banche che le controllavano. Ma abbiamo visto che le banche, pur disponendo di depositi sufficienti, non potevano effettuare opera­zioni di prestito oltre il limite stabilito dai capitali propri. Siccome bisogna che in qualche modo il capitale sia sé stesso, cioè si valorizzi, mentre il flusso della rendita non poteva che aumentare, l'unico sbocco era nella concentrazione. Le grandi banche diventarono ancora più grandi e potenti. Da 14.250 che erano nella metà degli anni '70 del secolo scorso, si erano ridotte a 9.900 dopo la crisi del 2000, a 8.500 nel 2007 prima della crisi "dei mutui subprime" e sono attualmente 7.600. Quasi dimezzate di numero in quarant'anni ma con un giro di capitali immensamente moltiplicato: nel 1974 le 14.250 banche avevano in deposito 900 miliardi di dollari, oggi le 7.600 ne hanno dieci volte tanto, venti volte se facciamo la media per banca. Dato che il coefficiente d'inflazione 1974-2009 è anch'esso circa 10, ne consegue che la media reale dei depositi per ogni banca sopravvissuta è aumentato di dieci volte, e siccome la produzione industriale è aumentata di sole due volte, c'è da chiedersi da dove arrivi tutta quella massa monetaria. Parte della risposta sta nella crescita dei servizi, l'altra parte, preponderante, sta nella crescita della rendita, o meglio, delle rendite.

Siamo giunti a quella che Marx, nell'ultima pagina del Capitale, chiama crisi dei rapporti di distribuzione. Il lavoro vivo è l'unica fonte di valore, il quale ogni anno va ad aggiungersi al valore accumulato nei cicli passati, al lavoro morto. Questo valore, in processo o accumulato che sia, si ripartisce tra il capitalista, il possessore della forza-lavoro e il proprietario del fondo. Marx chiama rapporto di distribuzione il rapporto in cui stanno queste parti, che vengono percepite come "reddito" dalle tre classi. Ma la classe dei rentier non partecipa alla produzione del valore, lasciando il campo al rapporto fra capitalisti e operai, fra plusvalore e salario. Ora, attenzione, la classe inutile, quella dei rentier, al culmine dello sviluppo della forza produttiva sociale, domina la società. Ne ha il "diritto", in quanto la proprietà è intangibile nel capitalismo, ma si comporta come un freno all'ulteriore sviluppo, è una classe tossica per il capitalismo stesso. A questo punto, commenta Marx,

"Nella misura in cui il processo di lavoro non è che un semplice processo intercorrente fra uomo e natura, i suoi elementi semplici restano comuni a tutte le forme della sua evoluzione sociale. Ma ogni forma storica determinata di questo processo ne sviluppa ulteriormente le basi materiali e le forme sociali. Raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata viene lasciata cadere e cede il posto ad una forma superiore. Che sia giunto il momento di una simile crisi lo si vede non appena il contrasto e l'opposizione fra i rapporti di distribuzione, quindi anche tra la forma storica determinata dei rapporti di produzione ad essi corrispondenti, da una parte, e le forze produttive, la capacità di produzione e lo sviluppo dei loro fattori dall'altra, guadagnano in ampiezza e profondità. Subentra allora un conflitto tra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale (Il Capitale, Libro III, cap. LI).

Rivista n. 31