Interessate carenze di teoria
Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale Winston Churchill, allora giovane Lord dell'Ammiragliato britannico, riuscì a convincere il suo governo che sarebbe stato vantaggioso per la flotta di Sua Maestà rinunciare al comodo carbone del Galles e convertire le navi a vapore in navi a costoso petrolio di importazione. Si trattò di una mossa geo-strategica formidabile, con la quale la Gran Bretagna rafforzava il suo predominio sul mare raddoppiando la velocità di rifornimento e dislocazione della flotta, anticipando di molti anni la fine dell'epoca del carbone e obbligando sé stessa a spostare il baricentro dell'impero coloniale verso il Medio Oriente, dove incominciavano a sorgere "campi petroliferi". L'emergente Germania fu battuta prima nei rapporti interimperialistici che sul campo di battaglia.
Ovviamente il giovane Lord fu semplicemente l'esecutore di una tendenza in atto, e citiamo l'episodio solo per affermare che di simili svolte da allora non ve ne sono più state né più ve ne saranno. Gli Stati Uniti subentrarono alla Gran Bretagna come paese imperialista dominante senza dover ricorrere a un diverso tipo di combustibile (ne avevano in abbondanza, allora, a casa loro), e l'ingresso della propulsione nucleare nelle flotte dopo la Seconda Guerra Mondiale non produsse effetti geo-politici che già non si fossero verificati col semplice cambio di testimone fra paesi imperialisti. Tuttavia il controllo del Medio Oriente rimase il fulcro fondamentale di ogni politica imperialistica, tanto che gli Stati Uniti, appena finita la guerra nel 1945, saldarono la loro strategia alle tribù saudite elevando il loro monarca a custode della sicurezza energetica futura. Il carbone rimase strategico solo in combinazione col ciclo dell'acciaio e, più tardi, come sostituto del petrolio e del gas nelle centrali termoelettriche.
Da sessant'anni la situazione è stagnante. Geo-politiche di grande respiro non sono più possibili anche se, naturalmente, i rapporti interimperialistici producono una grande attività, anche bellica, intorno ai giacimenti di petrolio, che siano in corso di sfruttamento, appena scoperti o ipotizzati, e intorno ai cosiddetti corridoi che rappresentano le arterie del sistema. Del resto saremmo di fronte a un'incongruenza grave se alla patologica senilità del capitalismo corrispondesse una giovanile vitalità delle sue espressioni geo-politiche. Semmai, certa virulenza fanatica (guerra infinita per la democrazia ecc.) che accompagna la "normale" oppressione imperialistica del mondo è un segno tangibile di acqua alla gola.
In realtà il capitale malato è ormai in camera di rianimazione con flebo di petrolio, maschera a metano, stampelle di acciaio e pillole di metalli, uranio, terre rare, ecc. La tendenza romantica, più dietrologica che geo-politica, ad immaginare una grande attività consapevole di burattinai che tirano i fili cui sono legate le sorti del mondo, è infantile. Nessuno può negare che grossi papaveri del passato come i Rothschild, i Morgan, i Rockefeller, i Churchill e i Roosevelt siano stati protagonisti dell'ascesa imperialistica, ma la nostra teoria del battilocchio (vedi in bibliografia) era già valida allora, come del resto ai tempi di Giulio Cesare. Sgombrare il terreno dal culto carlyliano degli eroi o dei demoni, oggi è utile per mostrare che il petroliere o il suo braccio operativo al Congresso o alla Presidenza degli Stati Uniti sono solo marionette. Con il ruolo di macellai ignoranti e pasticcioni che rispondono a stimoli vegetativi, automatici.
Un corollario delle diffuse teorie del burattinaio, è rappresentato da quelle della speculazione. Di fronte ai grafici della produzione in caduta libera e dei prezzi che volano, presentati negli articoli che seguono, ci sono "autorevoli ricercatori" pronti a giurare sulle tresche degli speculatori che rovinano l'economia e sul fatto che i diagrammi di "picco" sono una bufala interessata. È ovvio che la speculazione è attiva, ma non può far altro che innestarsi su processi in corso, magari assecondarli, di sicuro non li crea. Il prezzo internazionale delle materie prime e delle fonti energetiche fossili, pur molto volatile, ha un andamento inesorabile nel tempo: spogliati i grafici dalle variazioni contingenti, la speculazione non compare, e i prezzi salgono storicamente lo stesso. Negli ultimi quattro anni, per due volte il prezzo del petrolio ha toccato dei vertici considerati in grado di uccidere l'economia già comatosa. Nel 2008 s'è visto un picco a 147 dollari al barile del Brent (rendita assoluta nel Mare del Nord) "perché c'era la crisi". Nel 2011 s'è visto un picco a 127 dollari "perché c'era un indizio di ripresa" in America, ma la guerra in Libia aveva interrotto le forniture. Oggi molti operatori si aspettano un altro picco, sia perché ormai dovrebbe arrivare la ripresa vera con l'aumento della domanda, sia perché c'è aria di guerra con l'Iran da parte di Israele.
A nostro avviso ci si deve chiedere semmai perché petrolio e materie prime non rincarino più di quanto non stiano già facendo, dato che, come il lettore vedrà negli articoli, la rendita fondiaria, di fronte al petrolio e ai minerali sempre più difficili da trovare ed estrarre, reclama la sua parte, che è basata sul prezzo stabilito dalle attività estrattive sul terreno peggiore. La risposta è duplice: da una parte non c'è più plusvalore a sufficienza da devolvere ai proprietari dei pozzi e delle miniere; dall'altra la stagnazione dell'economia colpisce la domanda di energia e di materie prime. A ciò si aggiunge qualche incrinatura nel cartello del petrolio: l'Arabia Saudita, ad esempio, per sostenere i suoi programmi di sviluppo in crisi, sta estraendo più petrolio di quanto abbia stabilito in sede OPEC. Ciò obbliga il Venezuela, che ha petrolio di qualità inferiore, a fare lo stesso pur di vendere, trascinando la Russia che di problemi non ne ha certo meno di altri.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, questa abbondanza calmieratrice non dà motivo di compiacimento. Il meccanismo della rendita è perverso: non appena ci fosse una ripresa dell'economia, e quindi della richiesta di energia e materie prime, entro poco tempo (o anche in anticipo sul mercato dei futures) tornerebbe a dettar legge il petrolio catramoso del Venezuela; o quello buono, ma difficile da estrarre e quindi costoso, del Mare del Nord. D'altra parte i modelli di previsione mostrano già che, se spirassero venti di guerra in Iran o in Siria, il petrolio salirebbe a 200 dollari al barile. Il che sarebbe di per sé ulteriore motivo di guerra. Il mondo non si può fermare a causa del petrolio: dopo l'Iraq e la Libia potrebbe dunque cadere l'Iran. Il difetto dei dietrologi o degli "speculazionisti" è che scambiano le cause con gli effetti: credono veramente che sia stato il petroliere Bush con la sua banda a scatenare la guerra in Iraq; non pensano che l'economia americana è un po' più potente di un pugno di ideologi falliti e che, anzi, proprio dei burattini irresponsabili sono lo strumento migliore per eseguire gli ordini del capitale.
Passato per sempre il periodo eroico delle cannoniere inglesi a petrolio invece che a carbone, i modelli imperialistici si ripetono senza troppa fantasia. Proprio come al tempo della penetrazione americana in Medio Oriente con gli accordi fra Eisenhower e i reali sauditi, oggi "Cina e India stanno cercando di corrompere e intimidire i governi in America Latina, Canada, Russia e Africa, cioè di imboccare a modo loro la strada per assicurarsi il 'capitale' petrolio" (The Economist). È giusto: chi ha materie prime è come se avesse un'ipoteca-capitale sulla produzione di chi non ne ha, e quindi chi ha soprattutto capitale umano per la produzione deve correre ai ripari. È lotta per la ripartizione del prodotto del lavoro sotto forma di valore. Ma questa semplice constatazione non rientra nel bagaglio di chi vede la storia del mondo solo come somma dei rapporti fra persone e istituzioni, oltre tutto dividendole in colpevoli e innocenti.
I dietrologi da questo punto di vista sono particolarmente ostinati mostrando una spaventosa mancanza di retroterra teorico. William Engdahl, dell'istituto Global Research, in un articolo intitolato Behind Oil Price Rise: Peak Oil or Wall Street Speculation? sostiene ad esempio che l'aumento del prezzo del petrolio è solo una diabolica macchinazione speculativa delle grandi banche americane, prima fra tutte la Goldman Sachs, già accusata di infiltrazione in diversi governi e istituzioni del mondo per piegarli al suo volere. La prima fase della macchinazione consisterebbe nel creare tensione psicologica nei mercati, nel caso specifico odierno far credere che stia per scoppiare la guerra fra Israele e Iran, guerra che secondo l'autore in realtà non ci sarà mai. La seconda fase consisterebbe nello sfruttare la situazione attivando risorse bancarie sul mercato dei derivati, specie i futures sul petrolio. La gigantesca e ricorrente speculazione sarebbe la causa dell'aumento storico dei prezzi petroliferi. Il tutto è sostenuto con un grafico che mostra un'unica oscillazione molto ampia, quella fra il 2008 e il 2009, avulsa dal contesto storico. E comunque, anche durante il periodo mostrato, il petrolio passò da una trentina di dollari al barile a quasi 150 per poi ritornare più o meno al punto di partenza e risalire. Un periodo di poco più ampio avrebbe mostrato la grande oscillazione all'interno di un trend in salita; e una depurazione della curva dalle oscillazioni contingenti avrebbe mostrato un trend storico parziale che si inseriva perfettamente in una generale curva storica a crescita esponenziale coprente un periodo di almeno un secolo e mezzo. La speculazione c'entra solo nelle piccole perturbazioni contingenti. Invece i dietrologi affermano:
"Alcuni sostengono che il prezzo stia aumentando inesorabilmente a causa del superamento del cosiddetto Peak Oil, il punto [massimo] di una curva gaussiana immaginaria. [Ma] l'oro nero oggi è sempre più caro a causa della pressione delle speculazioni sui mercati attuate con gli hedge fund o da grandi istituti bancari come Citigroup, JP Morgan Chase e, più di tutti, Goldman Sachs" (W. Engdahl, articolo citato).
Gli istituti "ottimistici", specie americani, negano sia il picco che gli effetti speculativi a lunga scadenza. Bloomberg ha da poco pubblicato uno studio in cui si afferma che il petrolio non scarseggia affatto, essendovi riserve accertate per 2.000 miliardi di barili, sufficienti per 70 anni ai consumi attuali; senza contare le riserve di petrolio "difficile" non estraibile con le attuali tecnologie, e di quelle di petroli "non convenzionali", cioè pesanti, sabbie e rocce bituminose, carbone distillabile, ecc. L'ottimismo però sembra essere ormai relegato ad ambienti interessati. L'istituto tedesco EWG (Energy Watch Group) calcola che il picco sia già superato. Il periodico Nature ha pubblicato a gennaio un articolo i cui gli autori (J. Murray e D. King) sostengono, come EWG, che la fase discendente sia irreversibile. Nonostante l'allarme, però, la conclusione dell'articolo di Nature è un altro esempio di arrampicata sui vetri per mancanza totale di retroterra teorico: dopo aver tratteggiato uno scenario apocalittico in cui risulta che l'economia è bloccata per sempre, gli autori si lanciano in proposte veramente rivoluzionarie: tassare i prodotti petroliferi, riprendere la costruzione di centrali nucleari, abbassare i limiti di velocità, incoraggiare il trasporto pubblico, detassare le energie rinnovabili.