1919-1926: rivoluzione e controrivoluzione in Europa

"Ricostruzione dottrinale significa riportare chiarezza negli scopi della rivoluzione di classe, smarrita totalmente con il prevalere della formula che antepone il moto e il successo contingente al fine massimo. Poiché fu dimostrato dal fatto che la mancanza di tale chiarezza tramutò l'atteso successo in disastro, ricostruirla vuol dire ridare all'avanguardia della classe, ossia al partito che risorga dallo stritolamento, proprio quella volontà cosciente di azione pratica che non può aversi nell'ambito della persona e meno ancora del grande ed illustre capo".

Riunione di Forlì, Programma comunista n. 1 del 1953

Necessità di una "storia della Sinistra Comunista" [1]

Affrontiamo finalmente un argomento a cui eravamo richiamati da tanto tempo cioè quello della Storia della Sinistra.[2] È un lavoro che si ricollega alla serie di articoli che abbiamo pubblicato nel Programma Comunista a proposito dell'Estremismo di Lenin spiegandone il vero sfondo storico e teorico e facendone un commento abbastanza ampio e diffuso.[3] Poi nella riunione di Bologna [4] abbiamo dato un primo sguardo ai problemi che dobbiamo trattare nella prosecuzione di questo nostro lavoro. Io vi avvisai allora del fatto che non avrei voluto fare io l'esposizione su questo periodo, perché siccome disgraziatamente c'è il malvezzo di identificare con dei nomi di persona le storie dei gruppi, delle tendenze e delle correnti che hanno agito storicamente, sarei stato costretto a fare molto spesso il mio nome; e la cosa mi scocciava in quanto certe cose o non le avrei dovute dire o avrei dovuto dirle parlando troppo di me stesso. Questo l'avrei proprio voluto evitare, perché noi stiamo facendo uno sforzo notevole per rendere il nostro movimento impersonale, sia in generale che in ogni caso specifico. Cercando di spersonalizzare quanto più è possibile il nostro piccolo partito vogliamo rendere il suo lavoro sempre più collettivo, ma siccome si trattava di un punto inevitabile, come vedremo, abbiamo dovuto affrontarlo coraggiosamente. Vedremo in futuro come risolvere il problema, ma in questo caso proverò naturalmente a non parlare di me stesso in terza persone come facevano Giulio Cesare o Napoleone. Del resto non potrò nemmeno parlarne come dell'ultimo fesso: primo, perché non si capirebbe come mai costui compaia così spesso nei documenti di allora e, secondo, perché svaluterei tutta la fatica che faccio per trasmettervi questi risultati. Quindi è una cosa molto imbarazzante e vedremo come fare nella pubblicazione di cui abbiamo cominciato a tessere la traccia.[5]

Il nostro lavoro per la pubblicazione è duplice. Dopo la riunione di Bologna abbiamo cominciato a dare resoconto di quello che là fu detto, in due puntate, che sono finora apparse sulla stampa. Una prima l'hanno letta tutti perché è stata pubblicata nel numero 3, l'altra nel numero 4 [6] e credo che non l'abbia letta ancora nessuno sebbene questa volta il giornale sia uscito in anticipo. Non credo siate riusciti a riceverlo prima della partenza dalle vostre sedi, quindi ricorderò magari le cose più importanti. Nella prima puntata ho cercato di spiegare come è organizzato quel testo che noi vorremmo pubblicare nella forma che poi vedremo (credo che in questo caso la forma ciclostilata non convenga, è una cosa che potremmo discutere a parte nel corso di questa riunione dal punto di vista pratico).

Il lavoro si compone di una raccolta di documenti la quale non è ancora completa e tuttavia è già abbastanza ponderosa. Bisognerà scrivere qualche cosa che faccia da tessuto connettivo a tutti questi testi storici, che li unisca insieme. Abbiamo cominciato a farne qualche capitolo con una breve premessa. Naturalmente quando noi parliamo della Sinistra nella Internazionale Comunista questa nostra storia potrebbe partire da quando è sorta l'internazionale comunista nel 1919, ma è impossibile parlare del sorgere della Terza Internazionale senza parlare del crollo della Seconda, e quindi della Prima Guerra Mondiale, per cui bisognerebbe risalire al 1914. Per spiegare come avvennero le clamorose crisi dei "partiti proletari" all'approssimarsi della guerra bisogna dare una idea delle tendenze e delle correnti che esistevano nel movimento socialista anche prima. Quindi, sia pure a grandi linee, bisogna risalire alle origini prime di tutto quanto il movimento proletario. E siccome in tutto questo corso noi rivendicheremo una nostra fedeltà a una teoria che è sempre quella marxista, dobbiamo ritornare all'origine della teoria marxista. Bisogna pure richiamarsi ad altri testi più o meno antichi dei nostri classici, allo scopo di dimostrare che noi non rappresentiamo una scuola sorta in un momento storico contingente o, peggio ancora, in seguito all'evolversi dell'oggi, ma rappresentiamo un filone continuo, come sempre abbiamo sostenuto, filone che ci riconduce a quelle origini. Quindi una sorta di introduzione storica ci vuole. Abbiamo incominciato a fare questa introduzione.

Naturalmente noi in questa Storia, come abbiamo precisato con un primo avvertimento iniziale, non intendiamo parlare specificamente né dell'Italia, né del partito italiano, né di una "sinistra italiana". Da quando si formò in Frazione, infatti, la Sinistra Comunista fu la corrente più attiva in Europa per quanto riguarda l'azione nel seno della Internazionale Comunista, fino a quando fu impossibile evitarne la rovina. Quindi non ci soffermeremo specificamente sull'Italia ma parleremo di problemi che furono mondiali, in coerenza con l'indirizzo mondiale della Terza Internazionale. Delle critiche che noi facemmo negli anni dal 1920 in poi e dei fatti storici che hanno dimostrato quali fossero i risultati dei provvedimenti che allora si discutevano, dobbiamo fare un accenno internazionale. Siamo partiti da un quadro della situazione europea. In queste prime cartelle già scritte abbiamo preso a prestito testi fondamentali. Ci siamo serviti ad esempio della Storia della socialdemocrazia tedesca di Mehring, il quale, per scrivere la sua storia, parte da un quadro della situazione in Germania intorno al 1860. Anche noi abbiamo cercato di illustrare un quadro dell'Italia intorno al 1860 e, a grande velocità, siamo arrivati subito intorno al 1870-71, epoca in cui si incominciano a manifestare le importantissime quistioni di indirizzo dalle quali prende il via la lotta contro l'opportunismo all'interno del movimento socialista.[7] In tutta questa nostra linea noi, a differenza di altri, non siamo da considerare degli avversari diretti del metodo sostenuto da Lenin nei vari congressi internazionali e nell'Estremismo, perché a nostra volta sapevamo in partenza che il movimento marxista proletario comunista vero e proprio, puro, ortodosso, aveva avversari da tutti e due i lati, per quanto questa espressione di combinazioni sia sempre piuttosto convenzionale. Cioè da un lato aveva i riformisti e i revisionisti, dall'altro lato aveva i libertari, i sindacalisti, gli anarcoidi, che rappresentavano un altro indirizzo assimilabile all'opportunismo. Quindi noi siamo oggi su di un percorso sul quale possiamo dimostrare di esserci stati sempre, a partire dal nucleo che ci dette origine nel seno dell'antico Partito Socialista Italiano, ben prima di avere avuto contatto con Lenin, di avere letto e applicato i suoi libri, di avere lavorato con i compagni bolscevichi nei congressi. Su quel percorso ci siamo da ben prima della guerra del 1914. Eravamo su questo indirizzo almeno dal tempo della guerra di Libia e lottammo in seguito contro questi due "pericoli", che nei congressi internazionali sono stati malamente chiamati pericoli di "destra" e di "sinistra". Ora è ovvio che dal punto di vista rivoluzionario destra o sinistra non significano perfettamente niente. Caso mai sono tutti pericoli egualmente di destra, errori che conducono ai successi della controrivoluzione e non della rivoluzione. Insomma, questa duplice serie di errori è sempre stata da noi combattuta.

L'astensionismo, nostro e di Lenin

Invece, la maniera in cui si racconta la storia fa leva sulla favoletta secondo la quale noi, ultimi esponenti della corrente internazionalista, molto forte nel PSI e soverchiante nel poi costituito Partito Comunista d'Italia per molti anni, saremmo gli espliciti rappresentanti di quello che Lenin definì opportunismo di sinistra, al quale Lenin finché visse si vide costretto ad assestare dei colpi altrettanto forti quanto quelli che assestava all'opportunismo di destra. La nostra messa a punto sulla storia della Sinistra Comunista servirà anche a eliminare il fondamentale errore insito in questa favola propagandistica e a dimostrare l'ortodossia della nostra corrente, cioè la nostra coerenza con il percorso sul quale stava anche Lenin. Ecco perché bisogna partire in primo luogo dal fatto che l'origine storica della nostra corrente ha le stesse basi di quella bolscevica, le stesse del Partito Comunista Russo. E anzi, forse possiamo rivendicare origini ancora più chiare. Perché diciamo ancora più chiare? [Perché noi fummo determinati da una situazione capitalistica più matura. Ai bolscevichi va riconosciuto il merito di aver saputo mantenere all'inizio una grande coerenza malgrado le difficilissime condizioni della Russia arretrata]. [8] La grande forza, lo dicemmo allora e lo ripetiamo oggi ad ogni passo, il grande merito, l'enorme risultato che seppe ottenere il partito bolscevico, cioè la corrente comunista in Russia, fu di basarsi integralmente sulla teoria, di mantenere la linea di principio della rivoluzione proletaria così com'era stata stabilita dalla nostra dottrina, fin dall'inizio, proprio là dove le condizioni sembravano più difficili, sfavorevoli, dove era ancora necessario sostituirsi alla borghesia nel completare una rivoluzione borghese, dato che la borghesia russa era inconseguente. E su questo slancio dare un'impronta completamente proletaria alla rivoluzione, applicare il modello pieno della rivoluzione comunista, quello che noi riteniamo un "universale" generale e articolato per tutti i paesi e per tutti i tempi. Da questo punto di vista noi avevamo rispetto ad essi un vantaggio materiale, ecco perché rivendicare origini "più chiare" rispetto ai bolscevichi non è un auto-complimento. L'ultra-matura situazione italiana aveva semplicemente facilitato a noi il porsi sul terreno dell'intransigenza rivoluzionaria, perché eravamo nati e vissuti in un paese dai rapporti capitalistici antichi, la cui democrazia risaliva all'epoca dei Comuni, quale che fosse lo sviluppo industriale quantitativo suggerito dalle statistiche eccetera. Un paese che era giunto politicamente alla grande svolta rivoluzionaria borghese nel 1861, ma aveva maturato prima degli altri rapporti di classe integrali, quindi prima e più completamente della Germania, tanto per mantenere il parallelo con il citato Franz Mehring.

La Germania, come dice Marx e come il Mehring e noi stessi ricordiamo, aveva sviluppato al massimo l'idealismo filosofico, il quale veniva a scontrarsi inevitabilmente con le realizzazioni rivoluzionarie della Francia e dell'Inghilterra, per cui diventava ugualmente inevitabile la critica alla filosofia, a questo punto non solo tedesca ma tutta quanta. [9] Questa critica teoretica, unita alla critica dei fatti in Francia e Inghilterra, paesi che si trovavano ormai completamente al di là della rivoluzione anti-feudale e dell'apparizione dell'epoca borghese capitalistica, aveva permesso di  realizzare la teoria perfetta del movimento proletario. Anche la corrente bolscevica fu il risultato dell'incontro di fattori internazionali per lo più fuori dalla Russia, quindi in presenza di condizioni mature. È su questo terreno che riteniamo di essere stati inseriti dalla dinamica storica, e su quello stesso percorso noi eravamo fin dagli anni a cavallo tra l'800 e il '900, fino a quelli precedenti la guerra, quando si formò la corrente organizzata. Ciò vale per Lenin e i bolscevichi, quando nei primi anni del '900 si distaccarono dai revisionisti e dai socialisti rivoluzionari, quando combatterono nel seno della vecchia Internazionale socialdemocratica l'orientamento bernsteiniano tendente a deformare la sana posizione marxista. Noi eravamo in posizione perfettamente equivalente, ma per noi la cosa era più facile.

Era più evidente da noi il quadro sociale e storico con cui avevamo a che fare, l'intreccio dei problemi politici, il modello tri-classista nel senso di Marx, dato che la borghesia industriale, la borghesia fondiaria e il proletariato erano classi completamente sviluppate. Da noi le altre classi o non-classi erano del tutto secondarie, mentre invece il modello russo era grandemente più complicato e rimase tale anche dopo la rivoluzione, la quale ebbe a che fare con un'economia che attraversava tutta la scala storica delle società di classe, dai rapporti patriarcali arcaici a quelli feudali, dall'autocrazia di tipo asiatico al nascente capitalismo con i suoi primi nuclei assai combattivi della classe proletaria industriale, e così via.

Nel trattare la parte finale dell'Estremismo, malattia infantile del comunismo ho dovuto esaminare una prima divergenza fra la Sinistra Comunista "italiana", l'Internazionale e Lenin stesso, cioè la famosa quistione della formazione in Italia della Frazione Comunista Astensionista che proponeva, in occasione della prima grande tornata elettorale del dopo guerra, alla vigilia dei fatti del 1919 e del '20, la tesi della non partecipazione alle elezioni parlamentari. Questa tesi essa la sostenne sin dal Congresso di Bologna, in modo già perfettamente maturo, organizzato alla scala nazionale, sia pure senza un grande successo numerico per quanto riguarda i voti congressuali. La quistione del nostro astensionismo non è stata mai capita, e devo dire che lo stesso Lenin non la capì, per quanto l'avessimo largamente approfondita allora e negli anni successivi. Noi abbiamo dimostrato a luce meridiana che questa nostra "trovata" (per così dire, trovata non era affatto) di assumere un atteggiamento di boicottaggio delle elezioni parlamentari, non derivava affatto da una quistione di principio, da una nostra simpatia con l'astensionismo di tipo anarchico. Anche i consigli russi avevano già sperimentato in determinate situazioni l'astensionismo, e Lenin scrive più volte a proposito delle divergenze con le quistioni di principio avanzate dagli anarchici, aveva discusso con loro, aveva messo i puntini sulle "i" chiarendo bene le divergenze. E noi a nostra volta, nel nostro piccolo, avemmo un larga produzione di scontri con gli anarchici, sulla stessa linea di Lenin.

Se mi permettete un piccolo accenno personale, a quel tempo in tutto il Partito Socialista Italiano il socialista più detestato dagli anarchici ero io, perché con loro, sin da prima della guerra, sin dalle prime lotte nella federazione giovanile socialista contro gli anarco-sindacalisti, ho sempre condotto battaglie teoriche per dimostrare l'abisso esistente fra il marxismo e l'anarchismo. Non nel solito senso convenzionale per cui gli anarchici erano i più estremisti, quelli che volevano fare più impulsivamente la rivoluzione mentre i socialisti volevano andare più adagio, ma nel senso che eravamo noi invece coloro che rispetto ai compiti posti dalla storia seguivano la via più diretta ed estrema verso la rivoluzione, mentre gli anarchici non erano che una deformazione di posizioni conservatrici e piccolo-borghesi. [10]

[Questa nostra posizione fu interpretata assai male e non ci siamo mai potuti liberare di quello che in fondo era un pregiudizio, pur avendo parecchie volte chiarito la quistione. Per esempio nel discorso al III Congresso dell'IC, cui arriveremo subito, Lenin elogia gli astensionisti perché avrebbero rinunciato all'astensionismo e quindi ad ogni legame con l'anarchismo. Ma Lenin sapeva benissimo chi eravamo e che cosa volevamo (probabilmente, tra l'altro, le traduzioni di cui disponiamo non sono controllate dallo stesso Lenin, come spesso succedeva, ma sono traduzioni di traduzioni). Quando Lenin si scaglia contro Serrati è per dirgli che a Livorno ha fatto male a non unirsi ai comunisti. Non l'avrebbe potuto dire se ci avesse considerati degli anarcoidi. Adesso vi farò la storiella. Se volete, naturalmente, vi faccio tutta la cronologia, ma la cosa diventerebbe lunga e seccante e quindi se vi dico ogni tanto dei fatterelli vi interessate di più. Vado quindi a nominare qualche volta quel fesso di Bordiga. Egli se la piglia con il buon Lazzari che dice ai bolscevichi: "Noi abbiamo avuto a Livorno 98.000 voti, voi comunisti ne avete avuti 58.000, avete fatto male da Mosca ad ordinare ai comunisti di andarsene". Allora erano in tanti a riconoscersi perfettamente nelle posizioni della Sinistra, anche quelli che poi avrebbero tradito allineandosi con la degenerazione di Mosca, anche molti di quelli che rimasero con Serrati e Lazzari. Allora Lenin dice: "Anche se questi rimasti nel PSI non fossero stati dei veri comunisti, anche se fossero stati soltanto dei surrogati di Bordiga (e così non era, perché Bordiga dopo il II Congresso ha dichiarato con perfetta lealtà di rinunciare ad ogni anarchismo e anti-parlamentarismo), voi avreste dovuto uscire e convincere i vostri compagni ad andare con i comunisti!". Naturalmente non è che la separazione l'avesse ordinata Mosca. Io me ne sarei andato lo stesso, tirandomi dietro tutti quegli altri, anche se Mosca non avesse voluto].

Lotta all'interno del partito russo

[Ora io non posso dire quali furono le esatte parole di Lenin. I discorsi che si fecero li ricordo molto bene, ma al III Congresso del '21 non c'ero, dato che ero impegnato qui con il lavoro di partito. Ci andarono degli altri e adesso vi mostrerò che razza di guaio fecero una volta arrivati laggiù. C'erano Terracini, Gennari e altri. Fecero arrabbiare Lenin perché dissero le cose in una maniera talmente sciocca e contorta che si meritarono una di quelle saponate… e state certi che le sapeva fare lui più di me. Se io fossi stato là avrei ribadito in modo molto chiaro le ragioni del nostro astensionismo e il fatto che non era per noi una quistione di principio ma un semplice problema di funzionalità, dato che il partito rivoluzionario, in un'epoca rivoluzionaria, non deve farsi incastrare nella putrefatta dinamica della politica borghese. Lenin sapeva che io dico sempre la verità e questo avrebbe semplificato le cose. Non per una quistione di "lealtà", ma perché la nostra rinuncia all'astensionismo (l'anarchismo non c'entra) non comportava alcuna rinuncia ai principii rivoluzionari. Nell'Internazionale non solo Lenin sapeva questa storia della verità di Bordiga. Anche Bucharin, Trotskij, Zinoviev, Kamenev, lo riconoscevano che io non andavo per vie traverse]. [11]

L'altro giorno, ad esempio, abbiamo fatto una risata pigliando un testo borghese che espone dei fatti sulla scorta di alcuni documenti dell'Internazionale Comunista. In esso si parla del VI Congresso del 1928 al quale partecipò Togliatti che aveva già preso il Partito nelle mani. Io ero al confino nell'isola e naturalmente non ero presente. [12] Allora Togliatti avrebbe dichiarato… dico avrebbe dichiarato perché non era un protocollo, era il resoconto di un giornalista che aveva intervistato Togliatti e quindi basato completamente sulle sue parole. Dice dunque Togliatti: "Qui non si capisce più niente…". Si era nel '28, cioè all'indomani delle prime violente lotte tra Stalin e Bucharin da una parte e Zinoviev e Kamenev e Trotskij dall'altra. E si era alla vigilia dell'azione più feroce contro l'opposizione russa. In quel momento i nostri amici centristi italiani (scusate l'esposizione disordinata), Gramsci e Togliatti non avevano ancora gettato a mare Trotskij, dubitavano ancora, pensavano che in fondo lui e Zinoviev potessero avere ragione, esitavano, non avevano ancora optato completamente per Stalin. È in questa situazione che Togliatti, appena arrivato a Mosca dice: "Qui non si capisce niente, qui c'è il buio completo. È veramente una situazione disgustosissima. I russi hanno questo congresso sullo stomaco, non sanno come togliersi il fardello. Nessuno sa quale sia la verità dietro alle accuse reciproche, nessuno sa quale possa essere la via d'uscita". Non sapevano che pesci pigliare. "È un vero peccato che questa volta Bordiga non ci sia, perché se ci fosse direbbe la verità come al solito". Vedete, avrei giocato una parte storica importantissima, da vero battilocchio.

Togliatti sapeva benissimo che la nostra corrente avrebbe optato per la posizione contraria a quella enunciata da Stalin; ma essa non era ormai più rappresentata nel partito e quindi non poteva esprimere come aveva sempre fatto una posizione nuda e cruda, accusando senz'altro Stalin di aver passato il Rubicone sulla strada che conduce la Russia alla rovina. Sapeva, Togliatti, che la Sinistra avrebbe proclamato la sua solidarietà con Zinoviev e Trotskij, come del resto avevo fatto io l'ultima volta che ero stato all'Esecutivo Allargato nel '26. Non sono fatterelli da memorialista. Farei schifo a me stesso se diventassi un venditore di memorie. Ma come vi ho raccontato qui parecchie volte, en passant, nell'intermezzo fra altri argomenti, fui il primo a dire che Zinoviev e Trotskij sostenevano la stessa tesi anche se ciò non era immediatamente visibile, dato che nel '24 fu proprio Zinoviev a liquidare Trotskij e a imbastire contro di lui una campagna ferocissima. Nel '26 Zinoviev passò all'opposizione. Quel Zinoviev era malgrado tutto un vero rivoluzionario, un vero marxista, e nel '26 si rese finalmente conto che Trotskij aveva ragione e passò dalla maggioranza all'opposizione. Tanto é vero che al VII Esecutivo Allargato, per dicembre quando io già non c'ero più, non furono in grado di parlare. [13]

Nell'Esecutivo Allargato di febbraio, avevo contro lo schieramento Stalin e Bucharin, da una parte, Zinoviev Trotskij e Kamenev dall'altra.[14] Sapete benissimo come andò a finire: anche Bucharin si allontanò da Stalin. Ma io fui il primo a sapere che Trotskij e Zinoviev sarebbero andati insieme. Forse perché mi avevano fatto questa confidenza? No, perché non lo sapevano nemmeno loro due. Lo sapevo io che conoscevo a fondo gli uni e gli altri. Siccome ero conosciuto per quello che diceva sempre la verità e a cui si poteva raccontare tutto (sapevano che non lo andavo certamente a raccontare agli sbirri), ricevevo una serie di informazioni da una parte e dall'altra, cosa che mi permetteva di fare un quadro preciso e distaccato della situazione e di anticipare scenari che ebbero luogo solamente alcuni mesi dopo. "Ah!" mi dicevano, "cosa volete sapere sulle cose del Partito Bolscevico, noi siamo vecchi bolscevichi e vi diciamo che è impossibile che Trotskij e Zinoviev si stringano la mano". "Ma no", rispondevo io, "non è affatto impossibile, perché qui non sono in gioco fatti personali, essi sostengono la stessa quistione teorica, hanno intravisto nello stalinismo la stessa soluzione storica". E alla fine di essa sono stati vittime, dato che per vie diverse sono stati assassinati tutti e due per la stessa causa.

Ora, per ritornare un poco a bomba, per concludere sulla quistione astensionista, io ho ricordato che cosa è stata questa grande accusa fatta a noi dai centristi, per la quale saremmo dei puri teorici, dei dogmatici, dei talmudici che hanno letto certi libri e giurano su di essi come su di un vangelo scritto da Marx. Salvo poi sostenere, naturalmente, che noi non sappiamo nemmeno leggerlo bene questo vangelo. Invece è chiaro che loro interpretano testi e dottrine pretendendo poi di servirsene come di un vangelo. Ecco perché questa quistione prima di tornare di attualità per via del quarantesimo anniversario della formazione del PCd'I a Livorno e di tutto il chiasso che hanno fatto i nostri avversari al proposito, era già di attualità allora. Non per la quistione in sé, quella dell'astensionismo, ma per le discussioni interne di natura internazionale che a Mosca già imperversavano sulle differenze, con relative accuse reciproche di revisionismo, capitolazioni più esplicite di quelle sentite alla famosa conferenza degli 81 alla fine del '60. [15] Avevano ricominciato a discutere tra loro, cinesi, russi, jugoslavi, albanesi, ecc. accusandosi reciprocamente di revisionismo, riportandosi gli uni e gli altri ai testi originali, insomma, giurando sui vangeli anche loro. Solo che loro rivendicavano il sacrosanto diritto di farlo, mentre avevano accusato noi, come ci accusano oggi, di essere evangelisti dogmatici, compulsatori di catechismi.

La rivoluzione è un fatto squisitamente politico

Ci tengo a esporre la vera storia della "quistione astensionista" perché non si può far risalire tutto alla semplice costituzione della Frazione Comunista Astensionista all'interno del PSI nel 1919. Quale era la situazione nel 1919? Il proletariato italiano aveva sostenuto una guerra durissima ed era profondamente imbevuto di odio verso la propria borghesia. Un vero odio di classe. Il partito poteva concentrare su di sé una favorevole disposizione delle enormi masse proletarie italiane, perché aveva tenuto una posizione contro la guerra abbastanza soddisfacente, nonostante la formula di compromesso "né aderire né sabotare" voluta dai destri. Quindi il partito disponeva di un potenziale enorme, a condizione che avesse mandato via dal suo seno coloro che avevano vacillato, cioè i riformisti e l'estrema destra, quelli che avevano dato prova di tendenze social-patriottiche. Per questo motivo il nostro gruppo pose pubblicamente la quistione del parlamentarismo immediatamente dopo la fine della guerra nel 1918. A dire il vero lo scontro con il gruppo parlamentare c'era sempre stato, ad esempio nelle riunioni clandestine durante la guerra, le quali erano in continuità con quelle pubbliche svoltesi anche prima che la guerra scoppiasse. Nel maggio del 1915 si svolse ad esempio una riunione, a Bologna, per decidere se si doveva dichiarare lo sciopero generale in caso di guerra. Ci fu ovviamente discussione e il maggior esponente della posizione contro lo sciopero generale fu Turati, mentre noi sostenemmo la tesi opposta. Ma in generale ci fu molta mistificazione. D'Aragona e gli altri dirigenti della confederazione sindacale del lavoro sostenevano che lo sciopero sarebbe fallito. Intervenni dicendo che mentivano spudoratamente. "La vostra paura", dissi, "non è che lo sciopero fallisca, ma che riesca. Voi non lo volete perché non potete sopportarne le conseguenze, perché voi sapete benissimo quali saranno!". Turati riconobbe che le nostre posizioni erano chiare e nette e che solo così si poteva ragionare. Infatti tagliò corto e sostenne che lo sciopero non si doveva fare, perché in caso di riuscita sarebbe stato criminale colpire alle spalle un esercito in guerra. Turati era un borghese conseguente, un avversario naturale, mentre i D'Aragona e simili non erano altro che dei traditori infiltrati nei nostri ranghi, sempre pronti a castrare il potenziale di lotta del proletariato, a sostenere che è impossibile uscire dagli schemi consueti. Non è per evitare di spingere i proletari allo sbaraglio temendo la sconfitta: è per mantenere gli schemi consueti, sindacali, parlamentari.

Questa era la situazione, e quindi lo sciopero generale non fu proclamato. Rispettando la tradizione, furono invece convocati la direzione del partito, i rappresentanti socialisti nella Confederazione del Lavoro e naturalmente il gruppo parlamentare. A dispetto di ciò che si dirà poi, noi sostenemmo una tesi prettamente bolscevico-leninista: "Che cosa ci stanno a fare qui il gruppo parlamentare e i socialisti della direzione del sindacato? È il Partito che deve decidere. Questo è un momento critico, siamo alla vigilia della partenza dei treni per il fronte, non è certo il momento per convocare un congresso e mettersi a votare come si fa in parlamento. È la direzione del partito, assistita da alcuni esponenti della sua periferia organizzata, che deve prendere decisioni di portata rivoluzionaria. I compagni che lavorano nel parlamento, che lavorano nel sindacato, devono ricevere ordini ed eseguirli, non devono venire qui a votare e a confrontare opinioni, non ne hanno nessun diritto. L'atteggiamento da tenere nel momento in cui scoppia una guerra micidiale per il proletariato, è un problema squisitamente politico. La Confederazione del Lavoro si esprimerà sullo sciopero per miglioramenti salariali, il gruppo parlamentare voterà quando quei fessi dei borghesi porteranno le loro leggi al parlamento. Qui siamo fuori dalla lotta [per gli interessi immediati], ve ne dovete proprio andare!".

[Ho fatto solo un esempio, anche se è il più eclatante. Questa situazione si trascinò fino al 1920. Spostando i problemi dal terreno di scontro al terreno elettorale, che fosse quest'ultimo interno al partito o a livello parlamentare, questi porci opportunisti ci sopraffacevano sempre. Anche nel 1920, al momento dell'occupazione delle fabbriche, la Confederazione non proclamò lo sciopero generale accampando il solito motivo sul rischio della non riuscita. Gli opportunisti in parlamento e nel sindacato minacciarono le dimissioni nel caso la direzione del partito avesse fatto valere le ragioni politiche di uno scontro che coinvolgeva migliaia e migliaia di proletari. Non si volle passare all'azione profonda "perché mancavano le condizioni", ma tali condizioni erano state compromesse proprio dagli opportunisti! Il problema di privilegiare i contesti del melmoso confronto fra istituzioni rispetto allo scontro politico fra classi (che fra l'altro nel 1919-20 era in atto anche con risvolti spontanei), venne fuori al III Congresso dell'Internazionale Comunista. Il ricatto dei soliti riformisti e bonzi sindacali traditori aveva prodotto infine una specifica politica dell'Internazionale rivoluzionaria!]

Bisogna che sia chiaro: noi avevamo sostenuto che occorreva scindere il partito e che sarebbe stato possibile un attacco rivoluzionario subito dopo la guerra, e l'avevamo sostenuto proprio mentre la guerra era in corso. Questi due punti erano incompatibili con il putridume parlamentare. Anzi, tutto ciò era molto "leninista". La nostra era una tesi squisitamente storica, completamente realistica, legata a "un'analisi attenta delle situazioni" come dicono coloro che ci criticano. Noi non stavamo a discutere sulla filosofia della violenza o della non-violenza, se bisognava sparare o se, ricevendo il ceffone, bisognava tendere l'altra guancia. Non era l'ora della chiacchiera fra signori in doppiopetto. Era il momento della massima tensione fra le classi, di un enorme accumulo di violenza dovuto alla guerra. O il proletariato si gettava contro la borghesia, o la borghesia si sarebbe gettata sul proletariato. In quel momento noi andavamo alla piazza a mani nude, ma per menar le mani, non per fare ragionamenti. Questa situazione non sarebbe durata. Appena finita la guerra, gli antesignani del fascismo, gli interventisti alla Mussolini, non facevano altro che strillare sull'Italia dominata dai rossi. Raccoglievano "gloriosi combattenti", li facevano sfilare con le loro medaglie al valore, con i nastrini delle campagne, con le loro mutilazioni. Si arrivava allo scontro, gli operai fischiavano, sputacchiavano, menavano le mani contro coloro che volevano rappresentare la "gloria" dell'immane macello.

La virulenza del parlamentarismo occidentale

Era inevitabile che si venisse a formare una controffensiva, un movimento simmetrico al nostro per contenderci quella piazza che tenevamo saldamente in pugno nonostante la guerra. Come aveva dimostrato lo sciopero di Torino nel 1917, che aveva fatto saltare tutti i vincoli polizieschi e militari con il loro apparentemente ferreo controllo sul proletariato, ponendo quest'ultimo come elemento che lotta da pari a pari contro il suo storico antagonista. E infatti storica era l'alternativa in ballo, un'alternativa di carattere puramente materiale che richiedeva azioni e strumenti prettamente pratici, estranei a qualsiasi "contrattazione" o "discussione". Era evidente che si poneva una scelta davanti al partito: o partecipare alle elezioni o prendere il potere prima che la borghesia armasse seriamente i suoi difensori. Mentre il movimento proletario socialista teneva la piazza e rintuzzava gli attacchi, il partito sceglieva le elezioni. Si trattava di approfittare della rabbia e dell'indignazione del proletariato per prendere un grandissimo numero di voti e perciò di rappresentanti socialisti al parlamento. Se prima della guerra i socialisti avevano una cinquantina di deputati, ora la situazione sociale avrebbe permesso di triplicarne il numero, cosa che nel 1919 effettivamente avvenne esaltando gli elezionisti. Ma l'obiettivo che costoro avevano in mente non si discostava per nulla da quello che aveva in mente la borghesia. Per la quale era assolutamente necessario guadagnare tempo, lasciare sfogare questa enorme ondata di violenza di classe lasciandola entrare nel parlamento.

Intanto nelle piazze si organizzava la controffensiva fascista. Quando ho parlato al Congresso di Bologna (e qui ci sono le fotografie del rarissimo volume che ha fatto Saletta) [16] i fascisti già stavano nelle piazze. Naturalmente fino a quel momento le avevano sempre prese, ma le avrebbero presto date. Io dicevo: "Dal momento che la stessa borghesia ci invita alla piazza perché dobbiamo andare nel suo parlamento? Raccogliamo questa sfida e diamo battaglia". Ma per ottenere che il proletariato facesse fronte nelle strade e si desse una organizzazione militare armata bisognava evitare di deviarlo verso la competizione parlamentare con tutto quello che ne deriva. Questa era la nostra prospettiva, l'anarchismo non c'entra, ha una visione completamente diversa. Sull'antiparlamentarismo eravamo tutti d'accordo, io, Lenin, Bucharin, ci sono lì le nostre tesi, i nostri discorsi. La citazione che ho letto prima dev'essere falsa,[17] non sono io che al II Congresso ho rinunciato all'antiparlamentarismo, non vi ha rinunciato nessuno. Antiparlamentaristi eravamo tutti quanti, si trattava solo di discutere se per distruggere questo merdoso istituto che è il parlamento bisogna attaccare dall'esterno o dall'interno. E, senza escludere che vi possano essere situazioni in cui si poteva attaccare dall'interno, noi sostenemmo che nella situazione del primo dopo guerra l'elezionismo poteva rendere impossibile l'alternativa rivoluzionaria, dato che con esso si arrivava alla castrazione di un movimento rivoluzionario, non di là da venire ma in atto!

Quindi cosa sarebbe questa storia che noi avremmo rinunziato all'anti-parlamentarismo? Tutti i comunisti che erano sulla linea del I Congresso dell'Internazionale erano antiparlamentaristi. Tutti coloro che sono per la dittatura del proletariato sono automaticamente antiparlamentaristi. Il sistema dei soviet e del partito come organo della classe sostituisce quello parlamentare, proprio come afferma Lenin. Comunque la ricostruzione di come andarono veramente le cose nel 1919 l'ho già fatta nella parte finale della serie sull'Estremismo. In diverse altre occasioni sono entrato nel merito della storia della Sinistra e ho ricordato, seppur sommariamente, come si erano svolte alcune vicende controverse. Bisognerebbe diffondersi un po' di più su quello che avvenne effettivamente durante la guerra, periodo molto utile per capire la natura della nostra corrente. La posizione doppia, ambigua, del Partito Socialista Italiano durante la guerra fu da noi combattuta dall'inizio alla fine. Non solo: questa lotta contro l'ambiguità e la mistificazione si è prolungata fino al 1920 ed è stata da noi condotta in varie occasioni, riunioni clandestine e pubbliche, assemblee e congressi, incontri organizzativi e comizi della frazione rivoluzionaria. Si sono prodotti schieramenti e in molte occasioni abbiamo avuto la maggioranza numerica, ed eravamo in maggioranza anche quando l'altra tendenza è stata messa alla direzione del nuovo Partito Comunista. Bisognerà scrivere questa storia partendo da molto indietro, almeno dai congressi del PSI del 1900-1908 fino al punto in cui la frazione rivoluzionaria intransigente rovescia il rapporto numerico nel partito contro la frazione riformista. Bisognerà risalire agli anni delle lotte entro la Prima Internazionale, al dissenso caratteristico dei marxisti nella lotta contro l'immediatismo piccolo-borghese, la nostra lotta contro il bakuninismo e l'anarco-sindacalismo. Sì, perché se Lenin in Russia poteva polemizzare con 100 populisti e anarchici, noi lo dovevamo fare con 100 anarchici, 300 sindacalisti e una moltitudine di altre correnti che in Russia non c'erano.

Nella nostra giovinezza di corrente ci siamo fatti le ossa con questa lotta. La tesi errata e pericolosa era la stessa che si dovette combattere a Mosca nel 1919, nel 1920 e nel 1921, cioè che la rivoluzione potesse svilupparsi e vincere senza il partito, sulla base della lotta sindacale o stimolando folle raccogliticce senza alcuna struttura e senza programma. Tuttavia qui la lotta contro la vecchia società e le sue idee era più virulenta. I compagni russi non potevano nemmeno immaginare, perché non l'avevano provato, che cosa fosse qui il parlamentarismo. L'Europa occidentale, al di là delle correnti particolari, tra il 1900 e la Prima Guerra mondiale era come divisa in due grandi blocchi: riformisti di ogni risma che con diversa fraseologia sostenevano il  placido evolvere dell'economia e della società verso il socialismo con relativo idilliaco tramonto del capitalismo, e rivoluzionari intransigenti a vario titolo, compresi i marxisti conseguenti, cioè noi e pochi altri. Noi abbiamo sempre lottato senza riserve contro il primo blocco, contro chi credeva, alla vigilia del grande massacro mondiale, che guerre fratricide non ce ne sarebbero più state, e fremevano d'indignazione al sentir parlare di lotta rivoluzionaria armata, di dittatura del proletariato. Questa tendenza dominava per esempio in Germania, contrastata soltanto dall'ala sinistra del partito socialdemocratico tedesco, la quale raccoglieva la stima e l'apprezzamento di Lenin e dei russi. Naturalmente abbiamo anche lottato contro il secondo blocco, anarchico e sindacalista, pur avendolo al fianco nelle lotte immediate. In Francia ed in Italia, contrariamente a quanto succedeva in Germania, i riformisti non erano un gran problema fuori dai congressi e dal parlamento, mentre gli anarchici e i sindacalisti lo erano (nel PSI abbiamo avuto a che fare anche con i massimalisti, ma questi si organizzarono in corrente solo nel 1919). Erano un problema proprio nel senso che commettevano errori "infantili" come diceva Lenin. Generosi proletari, disgustati dalle porcherie dei parlamentari e dei capi sindacali, rifiutavano d'istinto elezioni, parlamento e partito. Noi non eravamo assimilabili non solo a forze organizzate, ma neppure a questo pur comprensibile strato proletario. La nostra posizione era chiara: la rivoluzione è un fatto politico, l'organo della rivoluzione è il partito, il proletariato diventa classe cosciente, nel corso  della rivoluzione, solo attraverso il proprio organo partito. Nessun'altra forma di organizzazione si può sostituire a quella del partito.

E siamo rimasti caparbiamente sulla linea classica, tanto che anche nel recente lavoro presentato dai compagni francesi,[18] appare fin dalla prime pagine, la linea classica del Manifesto: primo passo, organizzazione del proletariato in partito politico; secondo passo, organizzazione del proletariato in classe dominante. Queste frasi, scritte nel 1848, significano quello che per noi, nel 1919 ormai con chiarezza definitiva, significava partito politico e dittatura del proletariato attraverso il partito. Innumerevoli gustose citazioni di Marx che ho tratto dal materiale raccolto dai compagni francesi, provano la validità della nostra conclusione. Dove Marx dice: "Il proletariato o è rivoluzionario o non è niente", noi aggiungiamo, sulla scorta di altri scritti: "O ha il partito o non è niente". Il proletariato esiste solo quando esiste il suo partito, il proletariato diventa classe quando si organizza in partito, ed è solo attraverso questo partito di classe che può prendere il potere. È ovvio che i proletari siano disgustati dai partiti esistenti. Ma il loro partito dev'essere un organismo che anticipa la società futura. Non può essere un partito fra i tanti, teso a contrastarli nella lotta politica sul loro terreno. È il vero organismo nuovo di cui la rivoluzione ha bisogno per fare il salto in un'altra epoca. E in un certo senso, una volta preso il potere, esso si estinguerà come si estinguerà lo stato. A meno che non si trasformi in un organismo per la tutela della specie.[19] La chiarezza di questa posizione è stata indiscutibile, quindi ogni nostro amoreggiamento con questo mal detto opportunismo di sinistra non ha nulla a che fare con la quistione dell'astensionismo del 1919. Eppoi, come abbiamo visto, opportunismo di destra o sinistra tutto opportunismo è, e quindi tanto vale non attribuirgli un lato.

Dicevo dunque che bisogna scrivere questa storia. Per farlo, per innestare bene un fatto sull'altro occorre avere una visione più ampia possibile. La rivoluzione è un fatto politico o no? La rivoluzione è un "andare verso la società nuova", non si "fa", si dirige. Qui rientra il fatto politico. Ci dobbiamo dunque collegare alla polemica del 1870-71 tra Marx e Bakunin. Dobbiamo ritornare alla Comune di Parigi. In essa Lenin giustamente riconobbe, insieme a Marx, la prima esemplificazione della dittatura del proletariato e il fatto che la rivoluzione è un fatto di partito. Quando si scatena la violenza di classe occorre un elemento polarizzatore, quindi la rivoluzione è un fatto di governo (altro modo per esprimere direzione, volontà). In una rivoluzione si scatena la violenza ribelle, ma essa, non appena è soddisfatta nel rovesciare i vecchi rapporti, deve a sua volta reprimere la violenza ribelle di coloro che vogliono ritornare alla vecchia società. Riconoscerete che è troppo e nello stesso tempo troppo poco volere la rivoluzione. Essa è il frutto di determinazioni materiali per lo più indipendenti dalla volontà degli uomini, ma c'è il momento storico in cui occorre volere anche gli strumenti per portarla a buon fine, realizzarne gli scopi.

La cosa più difficile è liberarsi della vecchia società

[L'immagine della rivoluzione che avanza dirompente, facendo volare schegge dappertutto, è di Lenin ed è esatta. L'avanzata deve poter far sorgere la propria intelligenza e questa si chiama programma, strumenti, organizzazione, tecniche. L'abbattimento dello stato di classe avviene facendo sorgere lo stato di un'altra classe. Gli anarchici inorridiscono perché credono che fra i due passaggi non ci sia differenza, come se il dominio della borghesia sul proletariato avesse la stessa valenza del dominio del proletariato sulla borghesia. Ma la storia non conosce simili simmetrie, la nostra specie è in divenire, ogni stadio raggiunto è diverso, superiore all'altro. Allo stadio sintetizzato dalla formula "dittatura del proletariato" c'è lo stato e quindi c'è apparato di controllo, cioè esercito e polizia, strumenti per il "lavoro sporco". Solo gli idealisti non sanno o fingono di non sapere che ogni nuova società s'è imposta con gli strumenti forniti da quella vecchia. Gli anarchici ricordano a questo punto Kronstadt e lo stalinismo. Avrebbero ragione solo se riflettessero sulle forze in gioco nel primo caso (schegge fuori controllo nel mezzo di uno scontro gigantesco tra modi di produzione) e sulla natura prettamente capitalistica dello stalinismo nel secondo caso. Ho appena detto che ero conosciuto come uno che diceva sempre la verità senza piegarsi alle convenienze del momento. Se a vantaggio della rivoluzione fosse stato conveniente dire delle bugie, le avrei dette. In fondo tra eserciti in guerra la disinformazione è un'arma. Il problema non è se ci sarà uno stato transitorio nel passaggio fra modi di produzione: il problema è come maneggiare tale pericoloso strumento. Il "fine ultimo", come dicono bene gli scartafacci raccolti da Oscar e Roger,[20] è una bella cosa, ma bisogna sapere come arrivarci. Anche gli anarchici sono d'accordo con noi sul fine ultimo, sulla società comunistica, senza violenza dell'uomo sull'uomo, senza classi e senza proprietà. Lo dice anche Lenin a Terracini. Ma una cosa è perdersi per strada, un'altra è avere una mappa e una bussola].

La difficoltà di ogni transizione rivoluzionaria consiste non tanto nel far funzionare la società nuova, e per quella comunista esistono già oggi i prodromi, ma liberarsi di quella vecchia. È quello attuale il mostro che sarà tremendo levarci dai piedi. Questo sarà il vero guaio di chi riceverà il mondo attuale in eredità dalle vecchie classi. Volendo potremmo citare molti significativi passi di Lenin, che a sua volta li ha ricavati da Marx. In parte li abbiamo utilizzati per demolire il concetto stalinista di "costruzione del socialismo". Il terrore dice Marx, è servito alla borghesia per distruggere la società feudale e così faremo noi. Non abbiamo niente da costruire. È fin troppo facile "costruire" quello che c'è già: lo stato naturale dell'essere umano è il comunismo; la società proprietaria, divisa in classi è un retaggio recente. Lo stesso capitalismo ultrasviluppato presenta tratti comunistici, basta liberarli, permettergli il più ampio sviluppo. Ma pensate un po', nella fase di transizione in Russia, uno che fosse venuto fuori a dire: "io sono il nipote dello zar e voglio ripristinare il vecchio regime". Che si fa, si discute? No, si spara. Del resto in tutte le transizioni alcuni rappresentanti delle vecchie classi sconfitte e alcuni farabutti sono stati uccisi, il lavoro sporco in questo senso è inevitabile. Solo la borghesia finge di inorridire alla prospettiva, "dimenticando" che nella sua rivoluzione, la ghigliottina al suo servizio lavorava a ritmo industriale. Per non parlare ovviamente delle guerre, civili e non. No, al momento non c'è proprio niente da costruire, solo distruggere o, naturalmente, limitare, come l'iperproduzione consumistica. Poi l'umanità si metterà sulla linea della sua organizzazione naturale, che in potenza e in atto già esiste, e che esiste non come un sogno, ma come realtà dimostrabile scientificamente, la sola verità scientificamente dimostrabile di tutta la conoscenza attuale. [21]

È in questo senso che abbiamo affrontato quell'altro lavoro impostato su di una proposizione critica nei confronti della filosofia e della scienza borghese, per tentare di inquadrare i risultati odierni in una nostra teoria della conoscenza.[22] Là abbiamo sostenuto, sulla base delle antiche tradizioni filosofiche e delle moderne discipline scientifiche, che l'essere umano raggiungerà una conoscenza soddisfacente prima con la rivoluzione sociale che gli insegna come fa a conoscere, per quali vie e per quali scopi conosce, e solo in seguito maturerà l'approfondimento qualitativo in tutti i rami dello scibile, fisica, matematica, cosmologia, biologia, ecc.

Dalle condizioni di ammissione a Livorno

Ritorniamo alla storia del 1919, ritorno che, saltando da argomento ad argomento, sembra un po' difficile. Eravamo arrivati al punto in cui si devono affrontare tutte le quistioni inerenti alle discussioni sorte nel 1920 al II Congresso dell'Internazionale Comunista. Sull'astensionismo allora Lenin mi dice: "Voi della frazione astensionista avete torto, quindi dovete andare al parlamento". Noi rispondiamo: "Va bene, se l'Internazionale vuole così, noi in parlamento ci andremo". Lenin però aggiunge: "Voi avete ragione a dare battaglia sul fatto che bisogna cacciare tutta quella gente riformista dal Partito Socialista Italiano. Tornate in Italia e cacciateli, noi votiamo adesso le condizioni per cui il Partito Socialista Italiano (che aveva aderito alla III internazionale e al progetto di Mosca nel '19), non potrà continuare ad aderire se non avviene questa scissione, se non adatta i suoi programmi alla dottrina marxista e alle tesi dell'Internazionale". Tutti sanno che l'inasprimento delle condizioni di ammissione fu una richiesta che feci personalmente nella commissione. Non so se sarà mai possibile servirsi dei verbali delle commissioni del Congresso di Mosca del 1920, come si può fare con tutti i verbali dei congressi, ma fui io a far notare a Lenin che se non si inasprivano queste condizioni, non si sarebbe potuto procedere all'epurazione, alla separazione dei comunisti da tutti coloro che comunisti non erano e che gravitavano intorno a Mosca solo per il prestigio conquistato con la presa del potere. Così Lenin aggiunse la ventunesima condizione: "Tutti i partiti dovranno modificare i loro programmi, i membri del congresso che voteranno per il vecchio ordine contro il nuovo verranno automaticamente espulsi dal partito". [23]

Dopo di che ritornai in Italia e si rifece questa lotta in base a ciò che aveva deciso l'Internazionale. All'interno del partito incominciò tutta la storia  che si protrasse fino al 1921, si disse cioè che Lenin aveva dato un ordine e che noi eravamo gente che si era fatta comprare da Mosca, che si era prostrata umilmente ai piedi dei bolscevichi. E pensare che eravamo stati noi in un certo senso a dare delle dritte a Mosca, dove avevamo discusso da pari a pari con i bolscevichi su tutti gli argomenti sui quali trovavamo cose da contraddire. Per esempio proprio sugli argomenti che venivamo a proporre al partito non per "rovinarlo" ma per salvarlo da sé stesso. Naturalmente nel '20 non c'era più nulla da salvare, c'era solo da organizzare bene la scissione, che ebbe luogo al Congresso di Livorno il 21 gennaio del 1921. Forse il resoconto stenografico di quel congresso con tutti gli interventi è ormai introvabile [24] ma noi avemmo all'incirca 58.000 voti, gli unitari 98.000. I riformisti ne ebbero 14.000, tra l'altro nascondendosi dietro le spalle del vecchio Lazzari. Noi ce ne andammo fuori dal teatro Goldoni in cui si teneva il congresso. Prima di me aveva parlato il compagno Roberto, [25] un buon compagno, ma come tutti gli italiani era un sentimentale, gli pareva una cosa molto cattiva dare quel colpo e tagliare il partito in due pezzi. Egli sarà uno dei rappresentanti del partito, quelli che mandammo a Mosca nell'agosto del 1921 al III Congresso dell'Internazionale, il primo che si sarebbe svolto dopo la nostra uscita. C'erano anche Gennari, grande oratore, Terracini e Grieco, l'unico astensionista, il fedelissimo per il quale ebbi il torto di mettere la mano destra e anche la sinistra sul fuoco. Le mani sono ancora qua ma Grieco fu protagonista del solito voltafaccia politico. Fu Roberto a fare l'ultimo intervento di congedo, rapido e urgente, ma prima mi disse: "Senti, avvalora l'idea che noi per ubbidire all'Internazionale dobbiamo uscire". Naturalmente, essendo rimasti in minoranza dovevamo uscire noi dal congresso e andare a costituire il nuovo partito altrove per cui non c'era nessuna logica nella sua richiesta, ma mentre faceva il suo discorso Roberto cavò di tasca il fazzoletto e si asciugò le lacrime. Ora vi debbo fare divertire un poco. All'epoca portavo il cappello. Ero giovanissimo, nel '21 avevo poco più di trent'anni, non ne avevo certo bisogno ma si usava. Calzai brutalmente questo cappello sulla testa e con una borsa in mano, o una valigia non ricordo, dissi: "Tutti i delegati che hanno votato l'ordine del giorno della frazione comunista, escono dal congresso, e vanno al teatro San Marco a costituire il Partito Comunista d'Italia, sezione italiana della Terza Internazionale". Si formò una specie di corteo, che incrociò Serrati il quale divenne livido. Io stavo pilotando tutti verso il San Marco quando il buon Repossi ci venne incontro per confermare che la sala era pronta. Man mano che i delegati defluivano dal teatro Goldoni saliva dalla sala, dai palchi, dai corridoi, dalla platea un urlo terribile. All'arrivo di [nome incomprensibile, forse Serrati] qualcuno dei nostri gridò: "Arriva il Papa!". Perciò gli altri lanciarono lazzi e sberleffi all'indirizzo dell'Internazionale. Liberarono persino una simbolica colomba che si mise a roteare sotto la volta del teatro tra gli urli ai quali i nostri rispondevano con fischi assordanti.

Roberto aveva parlato a favore dell'unità comunque fra socialisti e comunisti, unità che non bisognava infrangere perché era come infrangere l'unità del proletariato. Questa è un'accusa che ritornò spesso negli anni successivi e anche in tempi recenti.  Si disse che con quella scissione, con quella rottura dell'unità socialista avevamo facilitato l'avvento del fascismo nel 1922. Ho cercato mille volte di spiegare quale ragionamento bisogna porre alla base di ogni studio sul fascismo e sulla sconfitta del proletariato. Questi dati di fatto non possono essere capiti con ragionamenti preconcetti o peggio ancora rimanendo fedeli allo schema mentale della democrazia ferita, forme artificiali dovute al sopravvento dell'ideologia sulla storia materiale. Livorno fu un prodotto della situazione materiale, compreso il fascismo e le condizioni proletarie, non il contrario. Questo lo toccavano con mano tutti i proletari italiani in tutte le città e nelle campagne.

Mentre venivamo via era avvenuto un inferno (erano intervenuti moltissimi altri che non sto ad elencarvi) specialmente quando Serrati aveva fatto parlare quello che doveva essere il suo teorico cioè Adelchi Baratono, un lavativo dalla forza di centomila cavalli. I nostri giovani si erano messi in testa di non farlo parlare proprio, ma quello riuscì a dire che, sentita la relazione di Bordiga, non c'era da rammaricasi che ce ne andassimo, dato che il mio era un comunismo ascetico cerebrale. Serrati era venuto a litigare con me nella platea. Insomma, quando feci la dichiarazione per continuare nell'altro teatro, i nostri avversari lanciarono contro di noi un urlo disperato cercando di non farmi finire di leggere (saranno state dieci righe) quasi credessero che, se non si fosse sentita la dichiarazione, essa non sarebbe stata valida, la scissione non sarebbe avvenuta. Quando uscimmo e trovammo il povero Repossi che veniva affannato a dire che tutto era pronto e che potevamo andare al San Marco, la scena era surreale. Una frase lanciata da me a gran voce era subito coperta da un urlo proveniente dal Goldoni. Allora lanciavo un'altra frase un tono più sopra, salendo di mezza ottava e qualcun altro cercava di coprirmi con un urlo più selvaggio e belluino ancora: "Porco! Vigliacco! Servitore di Mosca! Scherano di Lenin!", frasi di questo genere. E io: "Noi ce ne andiamo!", urlando ancora di più. I nostri avversari si erano inferociti anche perché avevo detto che la votazione era stata falsificata, il che era vero solo fino a un certo punto, e comunque è chiaro: tutte le votazioni che si rispettano non stupiscono mai, sono preordinate. Di fatto i congressisti ritennero questa un'offesa alla loro indiscutibile onestà, anche se avevo riconosciuto la nostra evidente inferiorità numerica. [26]

Teoria, tattica, principii e fini

Questa fu la parte pittoresca di Livorno. Passando al lato serio, che cosa avvenne dopo Livorno si sa. L'Internazionale non era composta solo da comunisti integri come noi e i bolscevichi. Tutti cominciarono a pigliarsela con Zinoviev, ed anche con Lenin dicendo: "Avete dato troppa corda agli italiani. Sono terribili comunisti sfegatati. Laggiù quel Bordiga mena le mani". Volevano fare quel che gli pareva nonostante i 21 punti. Noi naturalmente dopo essere tornati da Mosca nel '20 avevamo fatto un accordo con quella parte dei massimalisti che erano stati contro di noi al Congresso di Bologna. Ci vedemmo con Serrati, io Gennari e Gramsci. Stabilimmo che noi saremmo anche andati alle elezioni, che avremmo ritirato quella che era creduta "la pregiudiziale astensionista" purché loro votassero con noi l'espulsione di Turati e dei destri riformisti (e questa è una prova che l'astensionismo non era una quistione di principio). Era un tentativo disperato di salvare il partito da questa peste che lo inquinava e che lo avvelenava, da questo puzzo che lo infettava nelle più intime latebre. Insomma, facemmo il possibile. Come si vede, dimostrammo di essere anche capaci di fare compromessi. Lo dico perché un'altra grande accusa che ci rivolgono gli sfruttatori dell'Estremismo di Lenin, è che questi era capace di fare compromessi, che i comunisti fanno compromessi. Che cosa Lenin intendesse e permettesse credo di averlo dimostrato a sufficienza. Egli chiamava "compromessi" fatti incidentali, transitori, in situazioni locali, che non riguardavano il fondamento dei principi e della teoria. Normalità quotidiana.

Perciò, a dispetto dei nostri critici, noi arrivammo a dire: "D'accordo, andiamo pure al parlamento, purché si sappia bene che cosa si fa e perché lo si fa". Beh, nessuno è riuscito a fregarmi su questo punto, io in parlamento non ci sono mai andato. Quando voglio darmi un po' di arie, vantarmi di qualche cosa, dico che ho fatto quello che non riesce a nessun italiano: non fare, potendo, il deputato. Dunque offrimmo di partecipare alle elezioni, e quando esse ci furono, noi facemmo i galoppini elettorali, per quelli che furono candidati. E dopo il congresso di Mosca del '20, che ordinò al partito comunista di diventare un partito parlamentare, noi accettammo questa imposizione e quindi ci riunimmo all'altro gruppo socialista. Gli stessi centristi hanno pubblicato dei testi in cui Gramsci e Togliatti ammettevano la nostra disciplina all'Internazionale fino a ben dopo Livorno 1921.

A proposito di Togliatti. Oggi passa per uno dei fondatori del Partito Comunista d'Italia. Io non me lo ricordo. Non contava niente, se c'era era in qualità di giornalista. Gramsci c'era ma non parlò, disse che non aveva voce a sufficienza per farsi sentire in un teatro. [27] […][28] Io mi ero incontrato con Serrati, ero andato proprio a mangiare a casa sua, perché sono stato sempre amico dei miei avversari politici, e Serrati mi aveva detto: "Voi sarete in minoranza". E gli avevo risposto: "Ma io sto lavorando per essere in minoranza, perché l'Avanti io non lo voglio. Noi a Imola stiamo organizzando il partito, non stiamo organizzando una frazione". A parte il fatto che lui il quotidiano se lo lasciò fregare, poveretto. Mentre stava in carcere, abilmente Nenni lo fregò.

Noi dopo il giugno del 1920 e fino a gennaio del '21 avevamo installato il quartier generale della frazione comunista ad Imola. Avevamo organizzato bene tutte le nostre sezioni, avevamo già fatto tutte le nostre mosse. Quei 58.000 che votarono per noi a Livorno, li avevamo organizzati gruppo per gruppo. Parecchie federazioni passarono a noi, così parecchi giornali, intere organizzazioni di base, alcuni comuni. Insomma, avevamo tessuto la nostra rete. Dissi dunque a Serrati: "Lo so benissimo che tu avrai la maggioranza a Livorno, ma io non sto lavorando per organizzare una frazione, io sto organizzando senz'altro il nuovo partito". E così è stato, noi ci siamo avviati per la nostra strada, loro hanno continuato su quella di prima.

Il 1921 è lo stesso anno del Terzo Congresso dell'Internazionale Comunista. Le reazioni furono diverse, come sapete. Nella stesura del materiale per il nostro giornale, quello appena uscito che leggerete, [29] ho affrontato la visione generale, internazionale storica. Arrivato a questo punto, però, s'è imposta la quistione della tattica. Quindi mi sono collegato a un brano di Lenin che, come ora vedremo, è una confutazione all'intervento di Terracini. In quel brano Lenin dice: "Una cosa è la tattica, altra cosa è la teoria, altro è il fine, altro ancora sono i principii". È un brano teoricamente esatto, perfetto, e io ho cercato di utilizzarlo per spiegare che cos'è la tattica, cos'è la teoria, che cosa sono i fini, che cosa sono i principii, che cos'è il programma. Si tratta di una unità, ma fatta di "momenti" diversi, che caratterizzano il modo di funzionare del partito. Ora, invece di stare a spiegare ciò che è già scritto sul giornale, ché sarebbe una cosa di tipo scolastico, dottorale e scocciante, sarà utile vedere in che contesto Lenin disse questa frase a proposito della tattica. Abbiamo già visto, a questo proposito, il problema ignobile e disgustoso della tattica parlamentare, nel senso di andare o no in parlamento. Abbiamo visto che non è una quistione di principio perché trovavamo corretto che i vecchi partiti europei fossero andati al parlamento in certe epoche; che i bolscevichi alcune volte ci fossero andati, altre volte no; che andassero nei parlamenti reazionari. Era in quello democratico, in questa epoca, che noi non volevamo andare. Quando Lenin insistette nel dirmi che sarei stato molto adatto a dar battaglia in un parlamento e che dovevano fare di me un lottatore parlamentare, io risposi che non avrei avuto nessun problema ad andare nel parlamento reazionario di una società proto-capitalistica, ma che lui non si rendeva conto di quale costruzione stercoraria fosse un parlamento democratico pienamente borghese. Potrei anche andare, ma a che servirebbe? Dal primo giorno sputo in faccia a tutti e me ne vengo via. Ma tutti quelli che ci vanno si fanno prendere dall'ingranaggio e per il 99% diventano dei rinnegati opportunisti. Questa esperienza i russi non la potevano possedere, per quanto avessero vissuto all'estero e di opportunisti ne avessero veduti anche loro. Davvero, la quistione della tattica parlamentare, per noi è presto risolta. Ma al congresso del '21 le concezioni che si contrapponevano veramente riguardavano la presa del potere, la guerra civile e l'atteggiamento di fronte alla violenza rivoluzionaria. È noto che i massimalisti difesero fino all'ultimo, "con lealtà", Turati e i destri riformisti, rendendo inevitabile la nostra separazione. Perché? Perché in fondo erano tutti gradualisti.

Ci ritirammo in ordine, combattendo

Abbiamo visto quale posizione assunse la Sinistra prima e durante la guerra, quando si pretendeva di discutere il da farsi convocando la direzione del partito, il gruppo parlamentare e quello sindacale. È sbagliato. È il partito che prende le redini in mano quando si affaccia la guerra fra le classi, è il partito che dà l'ordine di attacco, lo dà al proletariato, lo dà ai propri membri, lo dà a un proprio inquadramento militare. Noi avevamo un inquadramento militare ed illegale, anche se incominciammo a organizzarlo troppo tardi, cioè subito dopo Livorno. Ne era responsabile il buon Fortichiari, dell'Esecutivo. Si occupò di questo settore passando subito ad armare e organizzare militarmente gruppi di militanti e di proletari vicini a noi. Certo che il nostro armamento consisteva in poche migliaia di rivoltelle e di moschetti in tutta l'Italia, mentre quello dei fascisti, che si erano inquadrati illegalmente e militarmente prima di noi e godevano dell'appoggio militare e poliziesco, era più completo. Le rivoluzioni esplodono quando alla classe dominante non resta altro che l'opzione militare. La guerra di classe la dichiarano loro. Quando capiscono che non possono fare altro cercano di prevenirci. Hanno tutto l'interesse a sfruttare i vantaggi dell'attacco preventivo e in questo hanno l'appoggio della macchina statale. Il giorno in cui si potrà raccontare la nostra lotta attraverso la documentazione, i rapporti da noi inviati a Mosca nel '21 e '22, si vedrà che fummo costretti alla ritirata, ma la conducemmo in ordine, combattendo, senza compromessi con la reazione borghese. Questo i nostri avversari di ieri e di oggi non lo possono rivendicare, invece di combattere fecero le peggiori porcherie, dall'Aventino al patto di pacificazione con i fascisti. [30]

Questi sintomi di coerenza e di  sbandata hanno a che fare con quistioni generali riguardanti il processo rivoluzionario. E ad esse mi vorrei collegare per fare qualche commento alla cantonata che pigliarono i nostri compagni al Terzo Congresso del '21. Essi si presentarono all'assemblea con questo schema: a) nel primo congresso abbiamo svergognato quelli della seconda internazionale, i riformisti, i traditori, i patrioti, i venduti alla borghesia, i ministri e li abbiamo disonorati innanzi a tutto il proletariato, li abbiamo cacciati fuori; b) nel secondo congresso abbiamo meglio realizzata la costituzione dei nostri partiti comunisti. Abbiamo inquadrato un partito comunista in Germania, in Italia, in Francia, ecc. Il partito russo c'è, quindi la fase di costituzione dei partiti è passata; c) i processi nei vari paesi non sono stati evidentemente uguali, ma adesso abbiamo il partito, non c'è nient'altro da aspettare, non c'è nessun intervallo storico, abbiamo costituito il vero partito e quindi avanti! Dobbiamo passare all'offensiva. Una vera e propria teoria dell'offensiva. Come dire che siccome siamo certi di avere un solido partito è d'obbligo scatenare la rivoluzione.

Terracini, che non aveva sentito nel '19, come tutti gli altri elezionisti, l'alternativa tra elezioni e rivoluzione, tra elezioni e l'assalto rivoluzionario, adesso era per l'assalto rivoluzionario solo perché c'era il partito. Tale assalto era forse possibile nella prima metà del 1919. Io non sono un volontarista, ma non escludo questa ipotesi. Io sono il meno volontarista di tutti. È vero che tra i nostri della Sinistra ce ne sono stati, non solo volontaristi ma addirittura bellicisti, cultori della soluzione militare, non lo posso negare. Tra i generosi proletari e compagni ce ne sono stati alcuni che avevano istintivamente l'impazienza di menare colpi, di accelerare l'assalto finale. Io non ero tra questi, sono più che altro un ragionatore, non credo che con uno slancio di volontà si possa forzare una situazione. La leggenda dice che fu Lenin a credere che io, da buon estremista, lo credessi. Ma non l'ho mai pensato. In un discorso che ho tenuto proprio davanti a Lenin al congresso del '20 (l'abbiamo anche pubblicato), [31] dissi che, siccome l'ondata rivoluzionaria già ripiegava in Europa, non solo in Italia, bisognava più severamente cacciare i traditori perché, quando la rivoluzione avanza, è facile a tutti dire: io sono per la rivoluzione. Infatti all'inizio tutti erano per la Terza Internazionale, sentivano parlare di dittatura del proletariato, ma agivano sempre in modo da rendere impossibile l'esito rivoluzionario. Per questo non credevo affatto che, dopo avvenuto il Congresso di Livorno, il nuovo partito potesse assestarsi in pochi mesi e diventasse abbastanza robusto per dare l'assalto e quello che succedeva, succedeva. Si dava battaglia, quello sì, ma era una battaglia di retroguardia, come si dice in gergo militare quando si combatte solo per preservare le proprie forze in modo da essere più forti per l'attacco decisivo. Ad esempio fu una battaglia di retroguardia quella per l'Alleanza del lavoro che si svolse nell'agosto del 1922 in piena discussione con Mosca sul fronte unico, di cui parleremo quando la nostra cronaca arriverà a quell'argomento, certamente non questa sera.

Mentre noi si conduceva questa battaglia difensiva di indietreggiamento gli opportunisti erano ancora troppo potenti, e quindi si fece perdere del tempo al partito per raccogliere alcuni elementi arretrati. Fu in un contesto del genere che nel 1921 inviammo a Mosca Terracini, Gennari, Roberto e gli altri con l'impegno di dire: è inutile più discutere con Lazzari e con Serrati, essi si sono pentiti di non aver rotto con i riformisti, ma non bisogna più ammetterli. I Russi su questo si illudevano. Ritenevano che invitandoli a Mosca, facendogli un'urlata in testa con un discorso di Zinoviev, uno di Trotskij, uno di Lenin (il quale levava veramente la pelle), e uno di qualche altro, quelli diventavano dei buoni rivoluzionari e ritornavano in Italia diversi da come erano partiti. Noi eravamo tutti d'accordo sul fatto che questo non si doveva fare, che i russi si sbagliavano. Quindi il comitato centrale del nuovo partito, il suo esecutivo di cui era presidente Grieco, aveva dato mandato a questa delegazione di dire che il partito ormai era costituito e che altre manovre per pigliare ulteriori pezzi del partito socialista noi non ne facevamo più. Se c'erano dei singoli iscritti del Partito Socialista che volevano venire con noi, si dovevano dimettere da quella organizzazione e venire individualmente nella nostra. Non solo, ma questo passaggio sarebbe stato controllato dalla sezione locale ed eventualmente da un suo comitato apposito. Ma altre manovre su combinazioni di gruppi non ne volevamo fare. Non aveva nessuna importanza che noi non avessimo ottenuto la maggioranza al congresso, essere 58.000 contro 98.000. Questa poteva essere una tesi sul consolidamento del partito e secondo me sarebbe stata perfettamente sostenibile.

Ma Terracini e compagni la interpretarono in modo molto diverso. E così molti altri compagni dell'Internazionale Comunista, perché la nostra delegazione si riunì con quella del Partito Comunista Unificato Tedesco e con quella austriaca, due formazioni dell'ala sinistra, e presentarono degli emendamenti contro la risoluzione russa e di Lenin sostenendoli con una relazione unificata che fu esposta da Terracini. Data la situazione dei partiti ormai consolidati (e non era vero), bisognava superare l'immobilismo e sposare la "teoria dell'offensiva" di cui si discuteva in Germania. Una simile fesseria, per quanto riguarda me e molti altri compagni, non l'ho mai sognata né detta, né mai il Comitato Centrale aveva votato delle tesi in questo senso, né lontanamente dicono questo le nostre tesi di Roma del marzo del '22, che pure sono successive rispetto al III Congresso. Non so se nel mio caotico modo di procedere riesco a farvi seguire una successione di tempi. [32] Dovrei fare un quadro con gli anni e con i mesi, perché quelli erano tempi incandescenti, ogni mese che scorreva era saturo di nuovi avvenimenti, non come questi ultimi decenni passati nella melma. Livorno non aveva risolto il problema della coerenza rivoluzionaria come avremmo voluto o l'aveva risolto male e in ritardo. Forse avremmo potuto, come ho detto, nel 1919 o addirittura nella primavera del 1918, quando le nostre energie erano al massimo e la prospettiva rivoluzionaria era completamente aperta. Tre anni in quell'epoca ne valevano trenta di oggi. Nel 1921 parlare di offensiva, per di più chiamata col nome altisonante di teoria, era un nonsenso. La partita era giocata, non potevamo certo passare all'attacco militare. Il solo fatto di liberarci dai riformisti e dai massimalisti tentennanti era stato un massacro politico. Non si era formata una corrente rivoluzionaria fra i militari disfattisti, che pur c'erano, anzi, gli ex combattenti li avevamo contro. Una organizzazione militare embrionale l'avevamo, ma il suo sviluppo avrebbe richiesto altro tempo. La situazione si stava facendo critica giorno dopo giorno. I fascisti intanto si erano poderosamente organizzati. Lo stato borghese aveva smesso di recitare la sua commedia e il gioco combinato veniva alla luce del sole. Nitti, che era un borghese intelligente disse al re a proposito dei deputati socialisti: "Ma ne venissero anche trecento invece di centocinquanta, a noi che importa, apriamo le porte lasciamo fare le elezioni". Come Giolitti nel momento dell'occupazione delle fabbriche: "Lasciate entrare gli operai nelle fabbriche, quando avranno fame se ne andranno, purché non vengano qui al ministero dell'interno a mandare via me, purché non vengano alle prefetture e alle questure". E non fece sparare neanche una fucilata. Guadagnando questo tempo, Giolitti e Nitti permisero alle squadre fasciste di organizzarsi, di prendere la loro rivincita.

Non so se sono più micidiali gli errori politici o quelli militari (militari nel nostro senso). Era evidente che non potevamo sferrare alcuna offensiva. Avevamo solo la possibilità di condurre una difensiva efficace. E anche su questo terreno non fummo d'accordo con l'Internazionale e i suoi sostenitori. Il fronte unico e il governo operaio, di cui si discusse negli anni seguenti, per l'IC non erano degli espedienti per far ripartire la storia e per sferrare l'offensiva sotto altre forme, bensì per resistere all'offensiva capitalista. Dalla teoria dell'offensiva nostra alla teoria dell'offensiva dell'avversario, un'altra espressione che in verità io non ho mai preso molto sul serio. Cosa vuol dire "offensiva capitalistica"? Non stiamo parlando di un fenomeno a intermittenza, una volta c'è, l'altra non c'è. L'offensiva capitalistica contro il proletariato esiste da prima che io nascessi e da prima che nascesse il movimento operaio. È il modo di essere del capitalismo. La sola presenza di questi schifosi che amministrano un'economia e la società in modo mercantile è un'offensiva e noi siamo continuamente obbligati a rintuzzare questa oppressione. Che razza di offensiva dovevano lanciare i borghesi più di quella quotidiana per conservare il capitalismo? La lotta di classe è un fatto permanente di offensiva. C'è un momento nella storia in cui l'offensiva si capovolge, ma questo momento ha bisogno, come condizione essenziale, che esista il partito veramente comunista. L'inverso non è vero. Non si può dire: abbiamo il partito e quindi lanciamo l'offensiva. Il partito è condizione necessaria ma non sufficiente. Fu facile a Lenin dimostrarlo. In teoria siamo tutti e sempre per l'offensiva, per l'insurrezione armata, la violenza rivoluzionaria, la dittatura del proletariato, il terrore. È ovvio che la rottura rivoluzionaria epocale avverrà di certo secondo diversi gradi di realizzazione della scaletta appena descritta. Ma che significa abbracciare una teoria che inverte il processo storico secondo il quale maturano le condizioni, si forma e si sviluppa il partito, il quale dirige il movimento rivoluzionario fino alla presa del potere e oltre? [33] Aveva ragione Lenin a dire che era carenza di dottrina e di dialettica e rivolgere tutte quelle male parole a Terracini. Non so perché le tre delegazioni scelsero proprio Terracini per relazionare. Tra l'altro egli proveniva dall'Ordine Nuovo e non dalla Frazione Comunista astensionista e questo potrebbe spiegare la difficoltà nel maneggio delle quistioni di partito. Non posso trovare le esatte parole con cui Lenin gli rispose perché non siamo riusciti a trovare un protocollo completo del III Congresso, neanche alla Feltrinelli c'era.

La strigliata di Lenin

Dunque, Terracini andò a enunciare la teoria in questa forma: "Noi comunisti italiani abbiamo cacciato via tutti gli opportunisti, bisogna che tutti i partiti lo facciano". Lenin ribatte: "Siamo passati da quella fase. Ma che, è uno sport cacciare gli opportunisti? Desiderate che gli opportunisti ci siano per poterli cacciare"? Ancora Terracini: "Adesso che abbiamo fatto pulizia ammettiamo una sola tattica: l'azione violenta, diretta e frontale". Lenin si impadronì di questi tre aggettivi e gli fece una di quelle strigliate. Ci fossi stato, non avrei posto la quistione in un modo così balordo. Voleva dire provocare Lenin, farlo scattare in difesa di Radek, di Zinoviev, di lui stesso e di tutta la delegazione Russa. Disse: "Se il Congresso non converrà una energica controffensiva contro simili errori e simili sciocchezze di sinistra, tutto il movimento sarà condannato alla rovina. Questa è la mia profonda convinzione. Ma noi siamo marxisti organizzati e disciplinati, noi non possiamo accontentarci di discorsi contro determinati compagni. Queste frasi di sinistra a noi russi ci hanno seccato fino alla nausea. Siamo uomini che hanno il senso dell'organizzazione, nell'elaborazione dei nostri piani dobbiamo procedere in modo organizzato e sforzarci di trovare la linea giusta. Certo non è un segreto per nessuno che le nostre tesi sono un compromesso. Perché non dovrebbe essere così tra comunisti che sono già al loro III Congresso e hanno elaborato tesi fondamentali precise? I compromessi in determinate condizioni sono necessari. Le nostre tesi, proposte alla delegazione russa sono state studiate e preparate nel modo più scrupoloso, sono il risultato di lunghe riflessioni e riunioni con varie delegazioni, esse hanno per scopo di stabilire la linea fondamentale dell'Internazionale Comunista. Sono necessarie, soprattutto ora che abbiamo già condannato formalmente i veri centristi e non solo, ma li abbiamo già espulsi dal partito. Questi sono i fatti, io debbo prendere la difesa di queste tesi, e quando Terracini viene a dirci che dobbiamo continuare la lotta contro i centristi e raccontarci come ci si appresta a condurre questa lotta, io rispondo che se questi emendamenti debbono esprimere un certo indirizzo, una lotta implacabile contro questo indirizzo – cioè quello di Terracini – è necessaria, perché diversamente non c'è comunismo e non c'è Internazionale Comunista. Mi meraviglio che il KAPD non abbia apposto la firma a questi emendamenti ". Il KAPD era in quel momento ammesso all'IC come partito simpatizzante e rappresentava un'ala estrema del partito tedesco, era anti-parlamentare e contro l'azione nei sindacati. Per questa ragione non abbiamo mai potuto solidarizzare.

 […] Che cosa sostiene Terracini e cosa dicono questi emendamenti? Essi cominciano così: "Nella prima pagina, prima colonna, riga 19, si deve cancellare 'la maggioranza' ". Ecco che appare la famigerata parola maggioranza. La frase era questa: "Il III Congresso dell'Internazionale Comunista inizia la revisione delle quistioni tattiche in un momento nel quale la situazione obiettiva in parecchi paesi si è inasprita in senso rivoluzionario e si sono organizzati parecchi partiti comunisti di massa, nessuno dei quali però, ha preso nelle sue mani l'effettiva direzione della maggioranza della classe operaia nella sua lotta veramente rivoluzionaria". Allora Lenin sembra prendersela con questa tesi, a cui contrappone un'altra tesi: "Noi abbiamo sempre detto che, secondo le situazioni, il partito deve avere una certa influenza sulla classe operaia e sulle masse lavoratrici, che sarebbe un'espressione ancora meno stretta di classe operaia, e io parlo di classe operaia nel senso europeo, cioè di proletariato industriale". [34]

Possono verificarsi dei casi in cui non c'è questa maggioranza e l'azione è possibile; possono verificarsi altri casi in cui la maggioranza c'è e l'azione è impossibile. Non è una quistione di conta di teste. Se andiamo nell'Europa occidentale a parlare di maggioranza evochiamo il parlamentarismo, ricadiamo nella stupida idea che si possano contare le teste degli uomini per decidere le quistioni. Evidentemente non è attraverso la pesatura dei cervelli delle parti in causa che si prendono le decisioni. Noi siamo sempre stati contrari all'uso di questo termine. Si può benissimo esprimere la realtà attraverso un linguaggio più appropriato, ad esempio "possibilità di direzione sulla parte decisiva del proletariato".

Un'altra fra le proposte di emendamento fece arrabbiare Lenin in modo particolare: "Invece delle parole 'le tesi fondamentali' mettere 'i fini' ". Egli dice qualcosa del genere: "Che c'entrano i fini con le tesi. Le tesi fondamentali e i fini sono due cose diverse, sui fini anche gli anarchici saranno d'accordo con noi, perché sono anch'essi per la distruzione dello sfruttamento e delle differenze di classe. La lotta insurrezionale finale è un nostro mezzo tattico, fa parte dei nostri principi in questo senso, le nostre posizioni di principio non sono mai metafisica assiomatica, sono sempre posizioni condizionali, cioè se il proletariato riuscirà a conquistare il potere, vi riuscirà soltanto con un'azione armata insurrezionale, ma non è che noi mettiamo un bavaglio alla storia e diciamo, il tale giorno, la tale ora, oppure quando noi vorremo o quando noi ci sentiremo particolarmente bellicosi, il proletariato farà l'insurrezione e prenderà il potere".

Questa è l'enunciazione volontaristica e non marxista della tesi rivoluzionaria. L'enunciazione marxista e materialista è un'altra: la rottura rivoluzionaria è un condizionamento del fatto storico che avviene ad un determinato momento dello scontro fra modi di produzione, quando si profila il passaggio del potere dalla borghesia al proletariato. Si può manifestare con un'azione insurrezionale del proletariato contro la borghesia, e tale azione può essere vittoriosa, può essere sconfitta, può essere tentata diverse volte". Il fine non è questo. Il fine nostro non è una società umana dove ogni tanto si fa un'insurrezione, sarebbe la più cretina delle società. Il nostro fine, cioè quello a cui vogliamo ricondurre la società, è la riconquista dell'essere umano, secondo il vecchio linguaggio filosofico di Marx. È un'umanità in cui non si combatte più classe contro classe, perché non esistendo più la schifezza del capitale, del mercantilismo, dell'ambiente monetario, non c'è più la lotta e l'odio tra gli uomini. L'insurrezione per noi non è un fine, è un mezzo. Io posso esporre una tesi: su quale sia ad esempio il momento migliore per dirigere un'insurrezione in un certo contesto storico, in Germania, in Italia o altrove. Non posso "sostituire" a questa tesi i fini. Che significa? La richiesta presentata da Terracini è una palese fesseria. Abbiamo visto che i nostri fini concordano con quelli degli anarchici. Essi sono d'accordo sull'insurrezione e sulla eliminazione della proprietà privata in una società senza classi. Ma sui principii siamo in disaccordo: per loro lo stato, il potere politico di classe deve sparire il giorno dopo l'insurrezione. Non parliamo del partito come incarnazione di questo potere, dell'autorità. Sono differenze che portano a scontri dolorosissimi come quello di Kronstadt.

La nostra corrente fu mal rappresentata al III Congresso, e purtroppo ciò che Lenin disse contro di noi era giusto. L'intervento di Terracini, che parlava a nome di tre fra i più importanti partiti dell'Internazionale, gli sembrò una levata di scudi contro i russi, e quindi reagì violentemente. Per questo, quando la delegazione ritornò da Mosca… [ma lasciamo andare], adesso vorrei occuparmi di due quistioni che ci interessano da vicino, cioè quella della tattica dell'Internazionale e quella della teoria dell'offensiva. Parte della discussione sulla tattica rientrò nella cosiddetta quistione italiana, come fu chiamata, perché fu un italiano a parlare per le tre delegazioni; e poi, ma questo ci interessa meno, perché Lazzari a nome del Partito Socialista insistette per l'ammissione all'Internazionale dicendo che loro avevano capito la necessità di espellere i riformisti, che avrebbero sistemato le cose, ecc. Insomma, i socialisti stavano di nuovo tentando di violare le 21 condizioni, compreso il fatto che volevano mantenere nel nome l'aggettivo "socialista" invece di "comunista", per cui Lenin prese la parola anche su questo. Dopo il Congresso noi rimanemmo tutti d'accordo sul fatto che dovevamo affrontare questo problema della tattica. Ci fu un incontro fra il luglio e l'agosto del 1921 in cui decidemmo di convocare, per il marzo del 1922, il secondo congresso del partito. È bene ricordare che Terracini fu con me relatore sulle Tesi di Roma, appunto sulla tattica. E a proposito della teoria dell'offensiva, è bene notare che la convocazione di un congresso sulla tattica per l'anno dopo dimostrava di per sé che non eravamo all'offensiva e che non avevamo proprio alcuna teoria offensivista. Saremmo stati spazzati via. Potevamo solo cercare di conservare le posizioni che avevamo, salvare il partito e le poche Camere del Lavoro che resistevano ma stavano cadendo una dopo l'altra sotto gli attacchi dei fascisti. Facevamo azioni di commando, di guerriglia, come i famosi "agguati comunisti", mentre socialisti, repubblicani, democratici, massoni urlavano contro i fascisti ma non facevano altro che amplificare i loro successi militari, fargli réclame. Noi sapevamo benissimo che la lotta era impari, che non poteva durare. Aspettavamo al varco i fascisti che ci attaccavano, ma appena ne ammazzavamo qualcuno, dopo aver fermato i camion che li trasportavano, arrivavano i carabinieri, a volte i soldati e arrestavano comunisti in massa, nelle loro case, per rappresaglia.

Controrivoluzione in Germania

Comunque cercammo sempre sui nostri giornali di mettere in evidenza le legnate che assestavamo noi ai fascisti e non quelle che i fascisti assestavano a noi, perché tutta quella propaganda sulla ferocia e sulla invincibilità dei fascisti, quel piagnucolare sulle libertà e sulle le garanzie costituzionali violate furono uno degli elementi che condussero i fascisti al successo. Come si vede, di teoria dell'offensiva non potevamo parlare. La vedevamo come Lenin, un po' come con la quistione del parlamentarismo: dal punto di vista della teoria noi e i bolscevichi eravamo tutti dichiaramente anti-parlamentaristi, mentre dal punto di vista tattico bisogna vedere a che cosa serve. Lenin sosteneva che nel parlamento ci dovessimo andare ma intanto  lui a Mosca non ci era andato, non gliene fregava niente, e aveva chiamato le guardie rosse per disperdere l'embrione di parlamento russo. Così è sulla quistione dell'offensiva. Tutti i comunisti sono per il principio dell'offensiva rivoluzionaria, ci vorrebbe. Ci sono dei momenti che non bisogna lasciar passare, nei quali l'attacco è decisivo, come in tutte le rivoluzioni, come in tutte le guerre. La guerra di classe, in quanto guerra, è come tutte le altre. La valutazione tattica in caso di guerra fra le classi non deriva dalla situazione contingente ma da quella geostorica e dalla preparazione degli eserciti contrapposti. Nel marzo 1921 in Germania si era tentata l'azione, il partito era più numeroso, più armato del nostro. [35] [I compagni tedeschi, fedeli alla teoria dell'offensiva, avevano detto: "Basta, smettiamo di aspettare, come abbiamo fatto fino ad adesso, d'ora in poi prenderemo l'iniziativa e scateneremo la rivoluzione". Sembra l'avesse detto Frölich, almeno secondo Radek, che era quello incaricato dall'IC di seguire gli eventi tedeschi. Sono pressappoco le parole di Terracini, ecco perché la "quistione italiana" e quella tedesca si intrecciano. Come l'Internazionale faticava a capire la situazione italiana, così era per la situazione tedesca. Il centro comunista mondiale invece di influenzare i partiti che agivano su base nazionale, se ne faceva influenzare, almeno dalle frazioni socialdemocratiche. Le ragioni che avevano fatto crollare la II Internazionale erano ancora tutte in campo. La dittatura del proletariato era la cartina di tornasole per svelare il secondinternazionalista che al momento giurava sull'Internazionale Comunista. Scrivemmo su Rassegna Comunista, nel 1921, che ogni struttura, come in un meccanismo, risponde a leggi funzionali che non ammettono violazioni. Se noi dimostriamo che è impossibile conquistare gradualmente il potere e trasformare lo stato borghese a vantaggio dei proletari e del comunismo, dobbiamo avere il coraggio di affermare che è anche impossibile trasformare la struttura dei partiti socialdemocratici, le loro finalità parlamentaristiche e sindacal-corporative, in una struttura compatibile con il partito rivoluzionario di classe, organo predisposto alla conquista violenta del potere].

[La separazione avvenuta a Livorno fu l'epilogo di un materiale sviluppo storico. Le sue determinazioni furono più potenti non solo di tutti i Lazzari, Serrati e Mussolini del mondo, ma anche della stessa Internazionale Comunista e degli uomini responsabili del suo organo dirigente, che si comportarono al riguardo in modo tragicamente contraddittorio. Se Livorno ebbe per battesimo le suddette determinazioni, le Condizioni di Mosca ebbero per cresima, che vuol dire "confermazione", l'esempio selezionatore di Livorno. L'uno e l'altro episodio della rivoluzione non dettero vita a una "legislazione" scritta da una qualche oligarchia, ma a una normativa scaturita da tutta l'azione proletaria mondiale, in un secolo. Non ci fu nulla di "artificioso" nella separazione dei comunisti dai riformisti e dai massimalisti loro difensori, semmai fu artificioso frenarla].

[Poiché le polemiche suscitate in seno al Comintern dall'azione di marzo in Germania si intrecciarono a quelle suscitate dalla scissione di Livorno, furono necessari da parte del PCd'I ulteriori chiarimenti. Prima di tutto politici, ma anche perché alcuni rappresentanti del partito tedesco avevano trescato con Serrati per poi sostenere di fronte a Mosca che il PSI e il PCd'I avevano pari legittimità di essere rappresentati nell'IC. A Mosca questi stimoli contraddittori esterni provenienti un po' dappertutto, provocarono un cortocircuito facendo convergere sullo stesso punto esigenze per nulla omogenee. Da una parte, si diceva, la necessità di seguire i giovani partiti per aiutarli a superare lo schema elitario che li concepiva come fattori dotati di forza propria a prescindere dalle condizioni oggettive e, in particolare, dal grado di influenza sulle grandi masse (problema effettivamente presente, specie in Germania); dall'altra, la preoccupazione che i partiti nati con scissioni turbolente da quelli della II Internazionale non si chiudessero settariamente in sé stessi, ecc. ecc. Un tale cortocircuito aveva prodotto nella struttura dirigente dell'IC una concezione deformata dell'avanzata rivoluzionaria. Poco per volta, ma sempre più chiaramente, questa struttura diede crescente importanza ai fattori puramente quantitativi, nel senso delle realizzazioni, dei successi entro la società così com'è. Non per niente Levi, che venne a Livorno per trescare con Serrati tentando di farlo anche con me, scrisse all'Internazionale una lettera elogiativa nei confronti del PSI tutta fatta di numeri, sapendo che i destinatari erano assai sensibili a questa musica. Perciò si valutarono i partiti secondo criteri poco realistici, sulla base di dati che cambiavano in pochi mesi, sacrificando i criteri di affidabilità legati alla continuità programmatica e organizzativa, di aderenza ai principi, di rigore, di capacità organizzativa fisica degli operai e non solo di prestigio presso gli elettori].

L'insurrezione del '21 in Germania pose la grande questione generale sul metodo, sul momento adatto, sulle condizioni storiche generali, tutti elementi che fanno saltare ogni valutazione puramente quantitativa delle forze in campo. Lotte isolate, locali, di varia intensità, se ne svolgono di continuo. Spesso il proletariato insorge spontaneamente, senza organizzazione, senza inquadramento, senza partito. Non sempre trova la forza per darsi una struttura nel corso della lotta. E senza direzione il più delle volte viene represso, i capi più in vista sterminati. In Germania il potenziale era enorme e gli errori di dottrina e di tattica furono conseguenti, data la confusione che avvenne a tre livelli: quello della spontaneità proletaria, quello dei capi dei partiti tedeschi, quello dell'Internazionale. Anche la storia del proletariato italiano è segnata di lotte, di eccidi, di incendi di municipi e questure. Formazioni proletarie sono riuscite a volte ad avere la meglio in azioni militari locali. Ma mai s'era vista in Europa e nel mondo un potenziale di 200.000 proletari armati in rivolta come in Germania. Nella relazione che seguirà, vedremo in dettaglio lo svolgersi di questa incredibile vicenda, per adesso occupiamoci delle conseguenze.

Da una parte abbiamo le avvisaglie della teoria dell'offensiva, errata a causa dei suoi fondamenti irrazionali. Dall'altra abbiamo dei capi politici che abbandonano gli operai, pur fortissimi, al loro destino. L'Internazionale sovrasta tutti ondeggiando rispetto agli eventi, perciò senza riuscire ad assumere un ruolo di direzione. Il risultato fu una sconfitta bruciante, che ebbe enormi conseguenze sul corso degli eventi. Dissero agli operai tedeschi e a quei pochi dei loro capi che si gettarono nella battaglia: "Voi non siete dei rivoluzionari, voi siete dei putchisti, ritenete che il partito non possa essere un partito di massa che raccolga la maggioranza del proletariato, ritenete che debba essere un nucleo di cospiratori armati, siete ritornati a quel sistema di sette che Marx combatteva fin quando lasciò sciogliere le antiche leghe a favore dell'Internazionale e stabilì che l'organizzazione proletaria non è segreta ma pubblica. Noi" e sarebbero quelli dell'Internazionale "noi non facciamo come i rivoluzionari borghesi che hanno preparato le loro rivoluzioni nazionali e le emancipazioni liberali abbondando in sette segrete, società cospiratrici e colpi di mano".

Il Manifesto dice che i comunisti non nascondono i loro scopi. Tutti sanno che sulla via della rivoluzione il nostro metodo contempla il passo insurrezionale. Ma ci sono dei varchi nella storia in cui ciò diventa prassi attiva, e altri, molto più duraturi nel tempo, in cui ciò non è possibile. Per quanto sembri banale, è il contesto stesso della rivoluzione, il cammino verso una società antitetica a questa, che descrive il programma. Ed esso ha mire alte, cui corrispondono percorsi, cioè tattiche, alte. Uno scontro fra modi di produzione richiede ben altro che colpi di stato. Neppure quello di Mussolini nel '22 lo fu. Lui la chiamava rivoluzione, ma a parte il clima di commedia, nulla è passato dalle mani di una classe a quelle dell'altra. E non fu neppure un colpo di stato, non fu coinvolto l'esercito, i carabinieri stettero a guardare, nel senso che la loro preoccupazione era il potenziale proletario, non la corsa in vagone letto. Il potere non passò nemmeno dalla bestia di un colore alla bestia di un altro, neri o bianchi che fossero di fuori, sempre borghesi erano di dentro. E anche a proposito della nostra analisi sulla natura del fascismo, naturalmente, ci attaccarono allora e ci attaccano adesso. Nel fare la nostra lunga storia, quando scriveremo finalmente qualcosa di reale e documentato su questa tanto diffamata corrente che è la Sinistra Comunista "italiana", noi dovremo allineare tutte le critiche che ci sono state rivolte e in un certo senso scarnificarle, portarle all'osso, per capire meglio il loro significato storico. Che è uno: c'è antitesi mortale fra chi difende le categorie della società attuale e chi propugna quelle della società futura. Io non ho toccato che di passaggio tutti gli "ismi" che ci hanno affibbiato: dogmatismo, talmudismo, idealismo, ascetismo (cerebrale, naturalmente), bergsonismo, militarismo, e nientemeno che putchismo.

Il generoso proletariato tedesco fu sviato dal proprio cammino insurrezionale non dalla mancanza del partito ma dall'esistenza di troppi partiti che facevano troppa confusione. Alcuni di questi furono tacciati dagli altri di elitarismo. Si disse che non concepivano il formarsi nelle profonde pieghe della società di organismi e partiti necessariamente differenziati e specifici, che richiedevano separazioni da una parte e fronti compositi dall'altra. Noi abbiamo sempre respinto l'abbinamento calunnioso fra elitarismo e rigore teoretico, conseguente coerenza tattica e rifiuto delle teorie quantitativistiche del partito. Il quale è una funzione dei rapporti reali fra le classi nell'ambito dello sviluppo economico-sociale e non il prodotto di "decisioni" di eroi carlyliani. Sappiamo che il proletariato non potrà dare l'assalto a questa società se non avrà sviluppato il suo organo-partito. Ma non diteci che sarà un partito qualunque, come quelli funzionali alla lotta politica entro questa società. Chiamatela élite, se volete, ma il partito della società futura è un ente reale che rappresenta un qualcosa di più rispetto a una organizzazione di uomini.

Quando è possibile il sorgere e lo svilupparsi del partito che da ente storico trascende a organizzazione formale? E quanto esteso dev'essere con le sue radici nella classe? Diecimila, centomila, un milione di militanti? Sbaglia chi cerca una risposta aritmetica a queste domande. La risposta è nel lavoro preparato dai compagni francesi che ho citato prima. E poi: ammesso e non concesso che ci fosse nel variegato ambiente marxista una dottrina interpretativa elitaria della storia, non sarebbe forse meno cretina del volgare democratismo liberale?

Una teoria volontaristica dell'offensiva è una sciocchezza, ma quando condizioni materiali portano decine di migliaia di proletari a scendere in lotta armati come in Germania è criminale accusarli di putchismo, accusare i loro capi di avere una concezione elitaria della rivoluzione, per di più ventilando come alternativa ipotesi frontiste con i rappresentanti delle altre classi infiltrati nel nostro movimento. Sullo sfondo delle sconfitte proletarie c'è sempre l'opzione democratica, maggioritaria, frontista. Chi concepisce la storia moderna come fatta di giochi parlamentari, da quelli nazionali locali a quelli internazionali come la Società delle Nazioni ecc., sposa una dottrina altrettanto stupida di quella dell'eroe, del condottiero che illumina di sé folle maggioritarie, con la potenza del suo esempio, con l'eloquenza dei suoi discorsi, con la sua lungimirante immaginazione. E ciò vale in negativo così come vale in positivo. L'anti-eroe farabutto e criminale è l'immagine speculare dell'eroe positivo, l'angelo ribelle schiaffato nell'inferno.

La vittoria rivoluzionaria è un fatto qualitativo

Le rivoluzioni non possono che essere anticipate da minoranze. Il germe mutante della nuova società che incomincia a mettere radici in quella vecchia non può che far parte di un insieme temporaneamente isolato, persino non compreso. Quella volta che delegazioni del movimento operaio inglese e tedesco andarono da Marx ed Engels a porre sul tappeto le loro condizioni e le loro organizzazioni per fondare l'Internazionale, offrendo loro la direzione del nuovo organismo, essi rifiutarono. Uno scrive all'altro e dice: "Io e te, per rappresentare il movimento storico non abbiamo bisogno di altra delega che quella di noi stessi". [36] Il passo è famoso, e questi signori sono allontanati. Erano dei lavativi, non si poteva avere a che fare con loro. È l'enunciazione di un metodo: il partito storico non è un ente quantitativo, può trovare la sua espressione materiale in pochi o tanti uomini, non importa. L'elemento quantitativo, formale, quello che ci fa parlare di "movimenti di massa", è una conseguenza. Ma occorrono quelle condizioni che noi abbiamo definito, prendendo a prestito il linguaggio della fisica, "polarizzazione sociale", come nei campi elettrici, nei solidi cristallini, nella ionizzazione di un gas. Il numero degli elettroni e degli atomi interessati non ha importanza per scatenare l'evento, ma è necessario che esso si produca per espandersi quantitativamente. La conquista della cosiddetta maggioranza viene dunque dopo il verificarsi delle condizioni iniziali di teoria, azione e ambiente. Possiamo sperimentare tutte le tattiche che vogliamo, purché nella nostra consegna rivoluzionaria non ci siano parole che possano suonare in contrasto, dispregio o anche semplice dimenticanza dei nostri principii. Perciò non volevamo che si ponesse la quistione della maggioranza come condizione. La "conquista della maggioranza" potrà anche verificarsi, ma non è un ponte per cui si debba passare obbligatoriamente prima che la rivoluzione abbia ionizzato le molecole sociali. Abbiamo fatto mille volte l'esempio russo: all'ultima riunione del Comitato Centrale del partito prima dell'insurrezione il gruppo dirigente si squaglia proprio mentre la polarizzazone sociale giunge al culmine. Lenin deve trattare tutti da traditori e riesce a far digerire il concetto: se passa questa ora tutto è perduto. Proclama l'azione da solo? No. In quel momento l'azione è proclamata da questo misterioso campo di forze, dall'irresistibile fisica della rivoluzione che sceglie in Lenin il proprio strumento. È il cervello sociale in moto. Ecco, vedete, a volte sembra che c'inventiamo dei termini, che distilliamo dalle nostre meningi nuove formule, mentre invece sono già anticipate in Marx ed è ottimo che voi compagni francesi le abbiate riportate alla luce, scovandole nel palinsesto della rivoluzione, dov'erano già scritte da più di un secolo.

Oggi siamo in pochi, siamo in tanti? Che importanza può avere se riusciamo a stare sulla linea che unisce le centinaia di milioni di uomini che hanno lottato con le centinaia di milioni che lotteranno? Quello è il vero problema, l'arco storico che congiunge le rivoluzioni dal comunismo originario a quello sviluppato. Per questo Marx dice: "Sono pronto a strafottermene delle apparenze, badiamo alla sostanza". Naturalmente il nostro lavoro non ha lo scopo di illuminare noi stessi ma si inserisce nella più vasta lotta che vede i proletari scontrarsi con l'avversario. Così la nostra critica a quest'ultimo, qualunque sembianza assuma, pseudocomunista, liberale o fascista, non ha lo scopo di conquistare posti in vetrina. Adesso, da vecchio, ho meno possibilità di fare carriera politica di quando ero giovane e lo rifiutavo, perciò vorrei semplicemente contribuire a lasciare questa consegna ai giovani, convincerli che il lavoro rivoluzionario è al di sopra della persona, delle generazioni e del tempo. È un ponte che noi vogliamo ristabilire, è una lotta che dura ormai da oltre quarant'anni, che va al di là del contributo di qualsiasi individuo, anche negli anni della sua maggiore efficienza. È un contributo collettivo. Voglio sottolineare: collettivo.

L'Internazionale non funzionava così, e nemmeno gli altri partiti. Là gli individui rappresentavano correnti e forze contrapposte, deteriori per ogni funzionamento organico. Così saltavano fuori i nomi e fra i nomi quello di Bordiga. Se vogliamo fare la storia della Sinistra non possiamo evitare di adoperare i protocolli. E da questi documenti si vede chiaramente che noi eravamo i soli a dire: "Non è che a Mosca 'date il polverino' alle varie relazioni su quello che s'è fatto in Italia o quell'altro che s'è fatto in Danimarca, Bulgaria, ecc. e poi date l'incarico a questo piuttosto che a quell'altro compagno per dirigere il partito in questo o quel paese. No, il criterio va rovesciato. L'Internazionale rappresenta il proletariato mondiale e dev'essere il centro in cui convergono le sue spinte, sono i rappresentanti del proletariato che devono poter fare un processo all'Internazionale, mentre vediamo solo sempre quest'ultima fare il processo ai rappresentanti del proletariato". [37] Qui nel resoconto c'è scritto che a questo punto scoppiarono applausi e risate. I congressisti lo sapevano che l'andazzo era quello.

In questi discorsi che noi pubblicheremo ricorre spessissimo il nome di Bordiga con quello degli altri con cui si discuteva, perciò sembra di assistere a un duello fra persone e, siccome loro erano compatti contro la nostra corrente, sembra che se la prendessero con un cavaliere solitario che si dilettava a prenderli in castagna. Naturalmente essi avevano tutto il potere di farlo tacere e infine lo fecero tacere. Ma quando non erano ancora giunti a quel limite, questi compagni di Mosca avevano una grande simpatia per il sottoscritto, avevano stima, anche se mi criticavano fieramente. Loro sapevano benissimo che quando parlavano della "quistione italiana" io spostavo il discorso sulla "quistione dell'Internazionale", che era quella della rivoluzione mondiale. Al V Congresso per la prima volta fu messa all'ordine del giorno la discussione sulla tattica dell'Internazionale Comunista. Fino a quel congresso se ne era discusso in margine a tutte le altre quistioni, ma non si erano volute votare delle tesi sulla tattica. Quelle di Roma non avevano lasciato traccia. Quindi risposi a Zinoviev che trovavo necessario l'ordine del giorno sulla tattica. Come sapete, noi pensavamo che dovesse esistere una specie di regolamento sulla tattica dell'Internazionale valevole per tutte le sue sezioni nazionali e i compagni di Mosca avevano piacere, invece, che si lasciasse in bianco questo foglio della tattica, che si potesse mandare a qualunque sezione qualunque ordine in qualunque senso, anche a costo di andare in senso contrario in Danimarca rispetto a quanto si riteneva necessario per la Bulgaria, ecc. , attribuendo maggiore importanza allo sviluppo della situazione nazionale in ciascun paese. Perciò la quistione della tattica non doveva essere strettamente codificata.

Il V Congresso si svolse dal 17 giugno all'8 luglio del '24 e fu l'ultimo al quale partecipammo in forze, dopo di che ci fu soltanto il VI Esecutivo Allargato del '26. A questo congresso, dicevo, prendevamo atto con piacere che finalmente si affrontasse il problema della tattica. Ma una cosa è discutere sulla tattica generale di quello che vuole essere il partito planetario del proletariato, un conto è discutere di ciò che si vuol fare in un tempo specificato in uno specifico paese. Da questo punto di vista loro ritenevano inutile generalizzare perché, dicevano, tutti conoscevamo il rapporto del Comitato Esecutivo "su ciò che si era fatto" tra il IV e il V Congresso, per cui il V stabilisce la tattica fino al VI. Ci dissero: "Avete la possibilità di parlare su argomenti concreti, perché mai vorreste stabilire una tattica che vale per sempre? È una fissazione di voialtri settari, dogmatici, dottrinari. È ragionevole pensare che la tattica di oggi possa non valere domani, le situazioni cambiano nel tempo e nello spazio, ci potranno essere eventi che oggi non possiamo prevedere". Noi sostenevamo invece che si dovesse stabilire universalmente per ogni situazione analoga riguardo allo sviluppo economico e sociale, specie per quanto riguarda i rapporti fra le classi. Inghilterra, Francia, Germania, Italia, ecc. erano terreno di una tattica unica. Paesi arretrati d'Asia e d'Africa, colonie, ecc. richiedevano una tattica diversa rispetto all'Occidente, ma unica per tutto l'insieme.

L'Internazionale non poteva materialmente rispondere a quesiti del genere. Il suo modo di funzionare era già bacato. I congressi non erano già più veri incontri internazionali fra centro e periferia ma luoghi per relazionare su ciò che si era fatto nel paese tale o in quello tal altro. E soprattutto se lo si era fatto secondo i criteri imposti dall'Internazionale sulla base di una totale indeterminazione tattica. Al V Congresso Zinoviev divise il suo discorso in tanti pezzi. Uno su Bordiga, naturalmente, perché io non andavo certo a relazionare sui fattacci contingenti. Le nostre relazioni sulla situazione del proletariato le avevamo fatte al IV Congresso, al V facemmo quella sul fascismo. A me delle cronache minute fregava fino a un certo punto. Ci interessava il futuro del partito, per il quale avevamo fatto un lavoro titanico e volevamo spiegare cosa sarebbe successo in Italia se l'Internazionale ci avesse obbligati a effettuare svolte incompatibili con i veri rapporti economici, con il confronto armato fra le classi. Avevamo già visto che cos'era successo in Francia e soprattutto in Germania, quanto male aveva prodotto la cattiva svolta politica frontista in molti paesi. E allora ci sentivamo in dovere di utilizzare il consesso mondiale per venire a dire quali fossero i pericoli in modo da evitare il precipizio in situazioni sempre più sfavorevoli.

I rappresentanti degli altri partiti erano ben lontani da un atteggiamento del genere. Si comportavano come se fossero in un parlamento borghese. Immaginate il compagno tal dei tali che rappresenta il partito comunista danese o bulgaro. Egli rappresenta una corrente all'interno di detto partito. Ha tutto l'interesse, nel suo discorso di fronte al congresso, a mettere in luce la propria corrente a discapito dell'altra o delle altre. In cambio dell'appoggio di Mosca, egli voterà senza fiatare le tesi presentate da Zinoviev. Così tornerà vincitore e avrà la segreteria del partito. Vedete come funziona la democrazia, così si formano le maggioranze. Anzi, non c'è neppure bisogno di aspettare il voto, si può risolvere la cosa in corridoio. Questo è il sistema costituzional-borghese! Una porcheria ginevrina che puzza di Società delle Nazioni! Noi eravamo contrari a questo sistema. Dicevamo: "Mentre discutiamo sul futuro della rivoluzione mondiale, dobbiamo spogliarci del fatto di essere italiani, danesi, bulgari, tedeschi o francesi e dobbiamo deliberare insieme quello che deve fare l'Internazionale, perché non è corretto che sia il solo partito russo a identificarsi con l'Internazionale fino a darle la sua impronta specifica. Il partito russo contribuirà con tutte le sue forze, che sono notevolissime, con il valore delle sue tradizioni che sono assolutamente eccezionali, ma anche gli altri partiti hanno il dovere di intervenire con il loro peso, altrimenti un vero partito comunista mondiale non si formerà mai". Queste erano quistioni pregiudiziali che avrebbero dovuto prendere il sopravvento fin dal principio, cioè dal 1919, quando l'Internazionale Comunista fu costituita.

Risvolti farseschi del fronte unico

All'inizio, nel 1919, era stata giustissima la preoccupazione, come ho cercato di dimostrare nelle prime puntate del lavoro sull'Estremismo di Lenin, di raccogliere contro la socialdemocrazia traditrice tutte quelle forze che avrebbero potuto convergere sulle tesi rivoluzionarie. Un lavoro in tal senso fu condotto mentre la guerra era ancora in corso. Vi era certo il pericolo che elementi che stavano alla destra venissero con noi dalla Seconda nella Terza Internazionale. Questo pericolo si determinò subito. Non si trattava soltanto di escludere gli elementi o gli organismi apertamente social-patrioti, cioè quelli che avevano sostenuto la guerra, qualunque ragione accampassero. Era chiaro che tutti costoro sarebbero stati senz'altro esclusi facilmente. Ma vi erano molti altri elementi che senza essersi resi responsabili di una politica così apertamente contraria a tutte le direttive classiste e socialiste anche tradizionali, avevano però egualmente mantenuto una posizione errata. Erano ad esempio i pacifisti sociali, quelli che erano contrari ad accettare la dinamica insurrezionale della Rivoluzione d'Ottobre, la lotta armata per il potere, lo scioglimento dell'Assemblea Costituente, la dittatura del proletariato e l'esercizio del terrore. Erano gli elementi che anticipavano il fronte unico. Alcuni potevano ammettere il corso degli eventi in Russia, ma nessuno di loro ammetteva che ciò fosse applicabile nei paesi occidentali nel passaggio dai regimi democratici costituzionali allo stato proletario.[38]

[…] e tutte le zone in cui il proletariato aveva iniziato a costituire le sue formazioni di potere locale furono travolte, perciò la battaglia fu perduta, ma fu, come tutte le battaglie perdute, gravida di molti insegnamenti. La "Lettera aperta" di Levi aprì la strada al fronte unico e questa tattica sfociò alla fine in quella del governo operaio. La nostra posizione fu semplice e diretta: La teoria dell'offensiva si riduce a una aberrazione tattica e non può bastare a definire l'azione completa di un partito rivoluzionario. È certo che occorre agire a tutto orizzonte, propaganda, stampa, agitazione, presenza in tutte le lotte operaie, presenza in tutti i sindacati, rete sindacale per cercare di conquistare la direzione centrale dei sindacati, preparazione illegale. Su questo orizzonte d'azione noi dimostrammo non solo in teoria ma anche in pratica di essere completamente sul terreno di Lenin. Ma ci opponemmo al fatto che in Italia e in altri paesi si applicasse acriticamente la tattica del fronte unico in quanto patto di alleanza del Partito Comunista con altri partiti. Allora si discuteva naturalmente dei soli partiti che si richiamavano al proletariato, quello comunista, quelli socialdemocratici, quelli degli indipendenti e quelli che appartenevano all'Internazionale Due e Mezzo. [39]

Fummo persino costretti a partecipare a un convegno che si tenne nel 1922 a Berlino, nel palazzo del Reichstag, fra le tre internazionali. Ovviamente le due internazionali socialdemocratiche respinsero tutte le nostre proposte. Io potei arrivare solo all'ultima giornata per storie inerenti al visto tedesco. C'era molta tensione per via delle concessioni che ci chiedevano e si arrivò quasi a una rottura. Radek, presente, era possibilista, Bucharin e Rosmer, anche loro presenti, erano perplessi. Lenin, pur favorevole al fronte unico, avanzava delle riserve da Mosca. Gli stessi compagni che ci avevano portati lì riconobbero che si sarebbe finiti con vergognose concessioni. Nonostante ciò, sostennero la necessità di portare i socialdemocratici a una nuova conferenza mondiale. Volevano dimostrare ai proletari che i comunisti erano pieni di buona volontà ma che il fallimento era colpa dei "gialli" come li chiamavamo. Questi compagni erano abbastanza ben disposti nei confronti dei socialdemocratici due e mezzo che fingevano di essere più a sinistra degli altri, ma io dissi che quelli erano peggio, perché più ambigui e quindi pericolosi. C'era anche Serrati, che fece il massimalista a Berlino, mentre qui si allineava ai compromessi del PSI e della Confederazione del Lavoro. Riuscii solo a inserire una dichiarazione contraria alla formazione di qualsiasi comitato permanente delle tre internazionali congiunte. Radek cavillò facendomi notare che si trattava solo di una commissione col compito di preparare la conferenza socialista internazionale.

Anche Lenin disse che proprio quella conferenza si doveva preparare, ma poi rimproverò i delegati per aver ceduto troppo. Voleva il fronte unico e poi criticava i compagni se facevano concessioni. Ma i fronti sono fatti per concedere. Ciò era pericoloso. Quando dici ai compagni: "Vai a fare un'alleanza con altri gruppi e partiti", quelli obbediscono e fanno di tutto per realizzare l'alleanza. E infatti quelli si spinsero ai limiti, sebbene litigassi tutto il tempo, come ha raccontato Rosmer nel suo libro. [40] I delegati dell'Internazionale due e mezzo avevano già ottenuto la nostra firma di comunisti su una risoluzione che non diceva proprio niente, che lasciava le cose come stavano, e in più avevano ottenuto di assistere al processo contro i socialisti rivoluzionari. [41] Lenin disse che avevamo fatto malissimo a cedere su questa faccenda del processo, la Russia era l'unico paese in cui il proletariato aveva preso il potere e non si poteva ammettere che rappresentanti della borghesia come questi finti socialisti accampassero pretese di controllo sul suo operato. Ora, con tutto il rispetto che avevamo per Lenin, noi dicevamo che il proletariato non poteva capire come mai attaccavamo violentemente tutti i rappresentanti della borghesia e poi li invitavamo alle conferenze e alle trattative. Ma egli sosteneva che proprio quello era un mezzo per far capire ai proletari quanto fossero infidi e traditori i nostri avversari, che il problema era di imparare ad applicare bene la tattica del fronte unico, che quindi non bisognava fare concessioni politiche del tipo di quella per il processo ai socialisti rivoluzionari. Io per Lenin sarò stato un semplicista dottrinario e dogmatico, ma sostenevo semplicemente che la massa proletaria ha bisogno di consegne chiare, di sapere esattamente chi è il nemico. Non si può spiegare per quale via tortuosa a Mosca processiamo i nemici e magari li fuciliamo nella guerra civile e a Berlino ci sediamo a conferenza con loro, chiamandoli compagni. La "famosa quistione" era tutta qui.

Che diavolo vuol dire "governo operaio"?

Ma quella era una, ce n'erano altre, naturalmente. [42] Ad esempio quella del governo operaio, venuta fuori al IV Congresso. Si incominciò col dire che il proletariato non scendeva in lotta nel resto dell'Europa perché gli opportunisti, coadiuvati dai borghesi e dagli anarchici, avevano fatto una tale propaganda contro la consegna della dittatura proletaria che le masse ora ne avevano paura. Era vero che la controrivoluzione utilizzava questi argomenti, che diceva ai proletari di fare attenzione, che sarebbero caduti dalla padella nella brace e, invece di liberarsi, avrebbero eretto con le proprie mani una nuova impalcatura di dominio. Ma non è che noi, per abilità manovriera, avremmo ottenuto qualche vantaggio nascondendo l'espressione "dittatura proletaria" e sostituendola con "governo operaio". Che cosa diavolo significa "governo operaio"? Ne furono date diverse versioni, da Radek, da Zinoviev e da altri, ma praticamente il modello generale era un governo come quello di Budapest cioè un governo ibrido al quale partecipano, oltre ai comunisti, altri partiti, e questo unicamente perché essi si chiamano "Partito Operaio di questo o quel paese" o "Partito Socialista", compresi i mezzi socialisti e mezzi comunisti. [43] Non è serio, Lenin aveva condannato questo modello proprio riferendosi a Budapest, 1919. Come se noi dicessimo: "In Italia abbiamo preso il potere e adesso vogliamo stabilire la dittatura del proletariato governando insieme con Togliatti, Nenni e Saragat". Sarebbe evidentemente una cosa assurda, lo è adesso e lo era anche allora. La espressione "governo operaio" voleva essere uno pseudonimo di "dittatura del proletariato" ma in realtà era semplicemente una sciocchezza. Noi ci ribellammo. Dissi al Congresso, e lo dicemmo nelle nostre tesi: "Noi chiediamo che al governo operaio venga fatto un funerale di terza classe. Sia per il modello che per il nome. Soprattutto per il nome, perché il modello di per sé non funziona, mentre la parola d'ordine può trarre in inganno masse di operai". Lenin aveva un bel dire che anche se fossimo andati al governo con qualche opportunista, la questione del potere si sarebbe risolta facendolo fuori, come succede in tutte le rivoluzioni. Di fatto è dimostrato che quelli facevano fuori noi.

La gran maggioranza dei congressisti respinse il nostro punto di vista, che era poi lo stesso descritto nelle Tesi di Roma. Sul punto del fronte unico la discussione fu violenta e contro di noi furono ripetute le solite accuse. Allora adoperai una espressione che non posso ripetere testualmente: "Noi siamo pronti a stringere la mano al traditore, al rinnegato, se voi ci dimostrate tecnicamente che stringendo questa mano un minuto dopo arriviamo a prenderlo per la strozza e a soffocarlo. Anche i lottatori che si incontrano sull'agone per fare la lotta greco-romana cominciano con una stretta di mano, ma poi si tratta di vedere chi è che mette l'altro con le spalle al tappeto. Ma se noi vi dimostriamo che dopo aver stretto questa mano è lui che ci agguanta alla gola e ci caccia a terra, allora dovete rinunciare a questa tattica. Noi non la respingiamo per scrupolo di ordine estetico o morale, ed è questa la sostanza delle tesi preparate in Italia: seppure andare a letto con gli opportunisti ci fa schifo, siamo pronti a farlo se voi sarete in grado di dare dimostrazioni di realistico successo. Altrimenti dovrete rispondere del fallimento eccetera, eccetera".

Sul governo operaio fummo ancora più radicali che sul fronte unico. Zinoviev incominciò a fare uno dei suoi soliti discorsoni. Disse che ci sono tanti tipi di governi operai, che ci sono governi operai borghesi e liberali, ci sono governi operai socialdemocratici, il nostro sarà un governo operaio comunista. Citò l'Australia e qualche altro paese. Noi dicemmo a tutti coloro che ci insultavano che il potere è uno, o si prende o non si prende. Al nostro grido "dittatura del proletariato!" enormi masse si erano entusiasmate e avevano lottato, non avevano bisogno di uno pseudonimo, quella era una parola d'ordine chiarissima che ormai tutto il mondo aveva capito. Oggi non la capisce più, dopo tanti anni di disfattismo, di rinnegamento dei principi fondamentali, ma allora altroché se la si capiva. Tutti noi avevamo la sensazione fortissima di un'atmosfera rovente, nella quale il proletariato europeo si muoveva con slancio generoso. E presso gli stessi nostri avversari la dottrina rivoluzionaria si era imposta, precipitandoli nel terrore. Per questo ci sembrava particolarmente deleterio sostenere una politica che ci portava veloci e diretti alla rovina.

Troppo tardi se ne accorsero compagni del calibro di Zinoviev e di Bucharin, quando ormai la macchina di Stalin li stava trascinando innanzi al plotone di esecuzione. Chissà come sarebbe andata se avessero ascoltato la critica che avevamo loro rivolto nel '22 e nel '24. Forse avrebbero riconosciuto che noi avevamo pronosticato la rovina. Non si salvò Trotskij che pure aveva dato battaglia prima di loro ed era riuscito, invano, a sottrarsi, se non alla morte, almeno all'infame processo. Come avevano potuto immaginare che, da ben tre congressi, le masse avrebbero accettato una parola d'ordine che noi stessi, i loro grandi capi marxisti della rivoluzione mondiale, non sapevamo spiegare? Chi aveva mai avuto le idee chiare su che cosa diavolo fosse il fronte unico e poi il governo operaio? Come avevano potuto credere che milioni di proletari impegnati nella lotta quotidiana, già schierati generosamente sotto le nostre bandiere, bisognosi di parole chiare, avrebbero digerito i nostri comportamenti, che stavano diventando quelli tipici dell'opportunismo?

La Centrale Sindacale Rossa

Le quistioni erano oggetto di discussione non solo nella grande sala del congresso ma anche nelle riunioni delle commissioni. Esplodevano le divergenze fra compagni. Ricordo che passai intere nottate a discutere con il compagno Zinoviev. Lui insisteva con la faccenda del combattivo Bordiga che sarebbe stato un ottimo deputato in un parlamento dedito alla politica del fronte unico e del governo operaio: "Voi" (in Russia tra compagni ci si dava del Voi), "siete l'uomo adatto per realizzare questo nostro programma. Proprio Voi che rifiutate, mentre dobbiamo mettere tutto in mano a certi fessi mezzo borghesi. La colpa di un eventuale fallimento sarà vostra e di quelli come Voi". E io, che mi ero già dovuto sorbire le ramanzine di Lenin, di rimando: "No, siete Voi e i compagni bolscevichi che in questo modo rovinerete tutto, compreso il partito e la Russia. Se voi commettete questi errori i nostri nemici vinceranno, la controrivoluzione vincerà. Non solo presso di noi, che sarebbe il meno, dato che in Occidente il regime borghese, che prenda la forma fascista o la forma democratica, non è stato mai allentato. Ma è in Russia che il potere del proletariato sarà travolto se l'Internazionale e i bolscevichi si mettono su questa falsa direzione. A noi cosa volete che potrà nuocere, potrà dare qualche fastidio alle nostre persone ma per il proletariato sarà lo stesso". E, se mi è permessa un'immagine un poco drammatica e sentimentale, sono certo che quando Zinoviev si è trovato innanzi ai fucili puntati, deve avere ripensato a quanto gli avevo detto durante quelle nostre discussioni.

Vi furono altre grosse quistioni come quella sindacale, cui abbiamo accennato. Occorre che la riprendiamo, seppure rapidamente. Per quanto riguarda la tattica sindacale internazionale da seguirsi in campo nazionale, il nostro partito poté vantare di essere l'unico esempio storico della integrale applicazione delle tesi sindacali di Mosca. In quegli anni ci opponemmo violentemente ad un'altra mossa di quelle che preludevano ormai non più alla degenerazione ma alla liquidazione della nostra impalcatura comunista internazionale. Noi avevamo detto: "Nazionalmente lavoriamo nella Confederazione Generale del Lavoro, affiliata alla Internazionale di Amsterdam, che raccoglie tutti i sindacati "gialli". Essa si è sfasciata alla vigilia della Prima Guerra Mondiale ed è poi rinata dopo la guerra in mano ai riformisti. Ma dal '20 esiste la Internazionale Sindacale Rossa di Mosca e dal '21 il Partito Comunista, quindi lanciamo la campagna contro coloro che, come i socialisti, compreso Serrati, pretendono che sia possibile aderire sia ad Amsterdam che a Mosca". Nel 1926 ci furono le prime avvisaglie di liquidazione ma non potemmo fare nulla. Infatti nel 1927 la direzione opportunista sciolse il sindacato.

[…] esprimeva la direttiva del partito chiarissimamente senza del resto […] [44] come fecero innanzi al parlamento quando ritornarono. Quando i centristi commisero l'errore di uscirne unendosi a tutte le forze antifasciste, dai socialdemocratici ai destrissimi liberali borghesi, fummo noi astensionisti a far ritornare il gruppo parlamentare comunista dall'Aventino. Fu il nostro Repossi che capitanò questo reingresso, leggendo una forte dichiarazione di guerra. [45] I fascisti, verdi di rabbia, lo misero fuori a pedate, trascinandolo di peso. Sbatterono fuori tutti quanti. Dopo di che avvenne quello che disse Lenin nell'opuscolo del 1920. [46] Disse Lenin: "Noi facemmo male a boicottare la Duma del reazionario Stolypin e ci rimproverarono giustamente i menscevichi". Vedete com'è la storia, quante volte su fatti singoli hanno avuto torto i bolscevichi e quante i menscevichi. Ma è l'insieme della storia che conta. Lenin, nel darci dei dottrinari, ci spazzola con la dialettica. Allora noi diciamo: "Va bene la dialettica, se il partito è in grado di afferrarla, digerirla, approfondirne le grandi contraddizioni e le verità nascoste sotto lo specchio delle contraddizioni. Ma il proletariato nella lotta non sta a disquisire di filosofia, segue fino ad un certo punto. Se una volta che abbiamo partecipato alla Duma, tutti i bolscevichi finiscono in Siberia (e questo fu anche il risultato) c'è un problema. Su quello, sulla salvaguardia del partito, siamo d'accordo. Ma tutti i fetenti eletti adesso, dopo l'uccisione di Matteotti non rischiano più nulla, il fascismo traballa e loro fanno lo sciopero della democrazia, si ritirano indignatissimi. I nostri parlamentari astensionisti fanno benissimo a rimandare indietro quelli parlamentaristi. Che stanno a discutere nell'ala del palazzo? Via, a combattere! Questo è l'unico modo di fare parlamentarismo rivoluzionario". E i fascisti furono davvero messi in difficoltà. Poi successe quel che successe.

Dunque, l'Internazionale sindacale… Ah, ecco, siccome ci era andato Repossi, il suo intervento alla Camera, insieme con il problema dei due fronti, sindacale e politico, mi ha condotto a quest'altra digressione. Così, invece di fare una lunga e complicata esposizione, questa cronachetta si alleggerisce e forse vi diverte anche un poco. [La quistione sindacale internazionale per noi consisteva in questo: nazionalmente, stiamo nella centrale sindacale affiliata ad Amsterdam, cioè siamo contro l'errata concezione Kapedista. Qual era questo errore? A causa delle spinte frontiste, l'Azione di Marzo in Germania era stata un disastro certamente a causa dell'impreparazione politica del partito di fronte alla determinazione di lotta che veniva dal basso. Ma il movimento insurrezionale si dimostrò debole nonostante la forza numerica anche e forse soprattutto a causa di un altro genere di impreparazione, quella dovuta alla negligenza nei confronti della lotta sindacale immediata. Questa negligenza si era manifestata sia con una passività quasi aristocratica da parte della Zentrale del partito, sia con il rifiuto da parte di altri organismi, come il KAPD, di lavorare a favore del necessario affasciamento dei proletari per la lotta sindacale indipendentemente dalla loro affiliazione politica. Non che questi compagni fossero insensibili alle istanze che salivano dal basso a proposito delle condizioni di lavoro e di vita, ma tendevano a farle confluire in una prassi concettualizzata della rivoluzione, per cui adoperavano male gli strumenti adatti a questo tipo di lotta, tendevano a separare la guerra quotidiana per risultati immediati da quella per una società nuova, mentre i comunisti hanno sempre detto che la lotta sindacale è la "scuola di guerra del comunismo"].

Dunque lavoravamo nella Confederazione del Lavoro anche se era affiliata ad Amsterdam, e nello stesso tempo avevamo la nostra centrale sindacale cioè l'Internazionale Sindacale Rossa (Profintern), a cui aderivamo con tutte le organizzazioni economiche. Questo per non rompere con la Confederazione italiana creando un "sindacato comunista", che sarebbe stato un errore dal punto di vista della teoria e della pratica. D'altra parte non sarebbe stato logico far aderire il Profintern ad Amsterdam, dato che denunciavamo ogni giorno sulla nostra stampa che quello era un covo di briganti, la longa manus della Società delle Nazioni, un agente dell'imperialismo. Ad un certo momento, ahimè venne fuori la proposta di sciogliere il Profintern e aderire all'Internazionale sindacale gialla di Amsterdam. Il Partito italiano si oppose incondizionatamente a questa operazione e Zinoviev al solito si arrabbiò con noi. Ma la posta era alta: "Di questo passo" dicemmo, "se trovate opportuno per manovra tattica di sciogliere il Profintern un giorno scioglierete anche il Comintern". Naturalmente ci risposero: "Ah! queste sono le solite insinuazioni dei sinistri italiani, perché mai e poi mai noi bolscevichi, a costo di morire fino all'ultimo, mai e poi mai scioglieremo il Comintern!". Sono morti effettivamente, Zinoviev ha mantenuto questo suo impegno perché è stato fucilato, ma è venuto il giorno in cui è stato sciolto non solo il Profintern ma anche il Comintern.

Ultimo atto, la bolscevizzazione

Noi ritenevamo che, se si fosse reagito allora, cioè fin dai primi congressi, non soltanto dal quarto, quando reagì Trotskij, purtroppo tardivamente, qualcosa si sarebbe potuto fare per opporci alla degenerazione. Trotskij in quel frangente dimostrò nonostante tutto di essere un grande marxista. Non lo dico solo perché fu finalmente solidale di fatto con noi sulle principali quistioni sul tappeto, ma soprattutto perché capì, al contrario di Zinoviev, Bucharin e altri, che il processo in corso da noi denunciato era controrivoluzionario. Poi lo ridussero al silenzio buttandolo fuori, ma obiettivamente sostenne posizioni simili alle nostre. Poi buttarono fuori Zinoviev e naturalmente il sottoscritto, il dogmatico dottrinario che non capiva niente di quistioni pratiche, di quistioni storiche, le cui previsioni erano sballatissime petizioni di principio e che nel 1924, prima di andare via da Mosca, aveva gridato: "Guardate che Trotskij e Zinoviev costituiranno un'unica opposizione comunista nel partito. Sono due rivoluzionari, non passerà molto tempo e si accorgeranno dei propri errori. Non è una profezia, è un dato materiale. Voi al congresso dominato da Stalin non osate parlare, venite in gran segreto, trotskisti e zinovievisti, separatamente, a confidarmi quanto sia avanzata la decomposizione dell'ambiente, lo fate con me perché sapete che con altri rischiate troppo, quelli che per far carriera vanno a spifferare tutto e Stalin li adopera". Non previdi il salto di Bucharin, non ricordo. L'ambiente era quello e anche Bucharin non era un fesso qualsiasi perciò ammazzarono anche lui. Fu gravissimo errore il suo, come quello di Trotskij e di Zinoviev, il non aver capito che Stalin adoperava la macchina dello Stato contro una tendenza di opposizione nel Partito. Bisognava capire che ciò era inammissibile perché lo Stato proletario è la nostra macchina per esercitare la dittatura ed il terrore contro la borghesia, invece Stalin lo utilizzava per terrorizzare chi stava dentro l'area della classe proletaria. E il fenomeno si rifletteva sull'Internazionale.

Qui arriviamo all'ultima grande quistione di questa traccia che seguo per sommi capi, la cosiddetta bolscevizzazione, conseguenza di quanto abbiamo detto fin qui. Si incominciò col fare sillogismi di questo genere: "C'è confusione nei partiti occidentali. Essi hanno difficoltà ad adottare il modello bolscevico che ha dato così buona prova di sé. Sono poco centralizzati, poco disciplinati, attraversati da frazioni. Non hanno un corretto rapporto con la fabbrica. Siccome i bolscevichi hanno vinto perché avevano stretto questo rapporto con un sistema di cellule operaie, allora anche i partiti occidentali si devono organizzare per cellule di fabbrica". Noi ci opponemmo fermamente e sostenemmo che persino il sindacato non deve essere ricondotto a suddivisioni di mestiere e di fabbrica ma deve essere organizzato territorialmente, figuriamoci il partito. Fummo accusati di seguire i criteri socialdemocratici tipo Seconda Internazionale. Replicammo che questa novità del partito organizzato per cellule di fabbrica, per cui l'unico luogo dove i proletari comunisti potevano ritrovarsi era il posto di lavoro, risentiva degli effetti dell'immediatismo. La cellula della Fiat sarà in via del tutto naturale portata a discutere dei problemi della e nella Fiat, la cellula di una fabbrichetta in un piccolo centro urbano sarà portata a discutere a quel livello, quella dei braccianti anche, e così via. In tal modo il partito non potrà mai attingere ad una vitalità collettiva al di sopra delle contingenze individuali com'è nella concezione completa marxista e rivoluzionaria. Questa fu una delle ultime campagne da noi sostenuta, sia nelle discussioni che facemmo in Italia, sia nelle discussioni generali avvenute in Russia fino al 1926. [47]

[Questo compendio delle nostre enunciazioni su quella che dovesse essere la politica dell'Internazionale e quindi dei partiti comunisti, questo elenco di richieste che pretendevano una risposta sulla loro tattica, sulla teoria che doveva illuminarla, serve a far sì che la storia non resti una pagina bianca sulla quale chiunque possa scrivere quello che vuole. Il partito non dev'essere mai più esposto a sorprese, a capriole tattiche improvvise, annunziate da un giorno all'altro. Vedete che il vizio imperversa ancora oggi, quando al XX Congresso del PCUS si comunica al mondo che è abolito il principio universale stabilito al precedente congresso e se ne adotta un altro, naturalmente sempre universale, che sarebbe quello delle vie nazionali al socialismo, la coesistenza pacifica e addirittura l'emulazione fra stati. Quello che ieri fu tragico, oggi è ridicolo, ma continua ad essere la prova che il nostro storico lavoro lungo mezzo secolo è sempre stato fondato su solide basi, le uniche in grado di spiegare come potessimo prevedere con una tale precisione quello che sarebbe successo. La nostra fu una denuncia tempestiva di fronte al proletariato mondiale e alla sua naturale organizzazione che solo per contingenza storica risiedeva a Mosca. Purtroppo tale denuncia rimase senza risposta e vennero inesorabili gli anni dolorosi dello sfasciamento generale della rivoluzione, del movimento proletario, della sua energia rivoluzionaria. Il perno di questa carrellata storica è il III Congresso dell'Internazionale Comunista. Ho insistito sulla diatriba fra noi e Lenin circa la disgraziata ambiguità sorta a proposito di un intervento della nostra delegazione, anche in rappresentanza di altri partiti. Perché ci fu questo dannato equivoco che si ripercosse poi sull'intera nostra azione all'interno del movimento comunista? Giova spiegarlo materialisticamente, perché è impossibile che tutto sia dovuto al discorso di Terracini su una manciata di emendamenti. Evidentemente era in moto l'ondata controrivoluzionaria che avrebbe travolto tutti. Questo è un insegnamento importante che deve farci riflettere sulla potenza o meno del "pensiero" delle persone. L'individuo è travolto dall'ondata e se ne fa portavoce, non è lui che fa la storia e non è combattendo lui che si modifica tale storia. Per questo diciamo che è importante salvaguardare la teoria, dalla quale la tattica discende. I bolscevichi non vinsero la rivoluzione perché adottarono le cellule di fabbrica, questa è solo una sciocchezza; vinsero perché riuscirono a restaurare la dottrina dopo i disastri della socialdemocrazia. Nei consessi internazionali noi chiedevamo qualcosa di più che non emendamenti, regole o appelli. Pretendevamo addirittura che il partito mondiale non riflettesse più le categorie della società borghese. Per questo possiamo dire chiaramente, nei confronti degli schifosissimi e luridi traditori che si sono chiamati marxisti-leninisti, specie quelli di oggi, che noi lo siamo al 99 per cento mentre a loro non resta nemmeno l'1 per cento, cioè il nome e basta. Marx e Lenin sono stati uccisi al cento per cento da questi farabutti, per cui prima o poi faranno a meno anche del nome. [48] E comunque noi non utilizziamo volentieri i nomi di persona per definirci comunisti].

Si fecero "errori"?

L'impostazione programmatica di un partito rivoluzionario è come le Tavole della Legge, ogni militante aderisce volontariamente e, tessera o no, accetta quel che c'è scritto su queste tavole. Se non lo accetta non si capisce che cosa ci venga a fare. Se lo accetta e poi lo rinnega va fuori. Tutti coloro che sono per un altro sistema di tavole e perciò di principi se ne devono andare fuori. Questo fu chiarito. E fu chiarito anche il senso del nostro centralismo, che deve rispettare quella che oggi chiamiamo "doppia direzione". Per questo chiedemmo di "rovesciare la piramide", cioè di togliere l'ipoteca dello stato-partito russo sull'Internazionale e sui suoi partiti. Non lo hanno voluto fare, non hanno potuto, e il risultato è stato che l'opportunismo ha vinto la sua battaglia. La controrivoluzione ha trionfato e il capitalismo controlla tutti i paesi e la stessa Russia, ormai completamente. Oggi è facile dire che allora si fecero errori, ma noi lo dicemmo sul momento. Lenin fece errori? Lo sapeva quanto noi che la politica frontista era pericolosa, e infatti in Russia non l'aveva mai adottata. Ma allora sembrava che non ci fosse tempo da perdere, che le masse si sarebbero sollevate di lì a poco tempo per ingaggiare la lotta se non sul piano mondiale, su tutto quanto il piano europeo; e quindi bisognava correre il rischio di non allontanare noi stessi più del necessario dai partiti che avevano un seguito nelle masse. Evidentemente la rivoluzione non aveva ancora suscitato una politica sufficientemente razionale rispetto alle necessità di un drastico cambiamento. Il centro di Mosca era schiacciato da questa presunta responsabilità, voleva disciplinare forze centrifughe e fare in modo che le forze fondamentali che erano con noi, che stavano mostrando uno slancio formidabile, trascinassero tutte le altre, comprese quelle che avevano già tradito più di una volta. Forse in quel momento l'Internazionale non volle precisare troppo, volle lasciare elasticità perché credeva che fossimo troppo vicini alla battaglia per enunciare rigide norme e sottilizzare troppo. Il tempo è passato senza che quelle opportunità favorevoli si verificassero e oggi possiamo dire che noi avevamo ragione e Lenin torto. Ovviamente non è così che si fa la storia. Come abbiamo visto, giustificazioni per la fretta rivoluzionaria c'erano. Del resto siamo rimasti a dare battaglia proprio perché non consideravamo chiuse tutte le porte alla rivoluzione, almeno fino al 1926, anche se all'anno 1921 e anche prima c'erano già molti segni contrari.

Siamo alla fine di questa inquadratura generale della nostra storia all'interno di quella dell'intero movimento rivoluzionario. È il caso adesso di far parlare la massa dei documenti raccolti. Siccome sono epoche ormai lontane, pochissimi sono quelli che le hanno vissute e ormai la stragrande maggioranza di noi è fortunatamente fatta di giovani che non hanno questi ricordi, sarà saggio procedere ad un lavoro storico-filologico. Lo pubblicheremo e speriamo che sarà nello stesso tempo istruttivo e narrativo. Di documentazione ne sta venendo alla luce moltissima e la stiamo ordinando. Cercheremo volta per volta di collocarla in un quadro storico vivo, che metta in risalto non solo gli eventi ma soprattutto il gioco delle forze in campo, in una vera trattazione rivoluzionaria e non semplicemente storiografica.

Per procedere con ordine, abbiamo preparato delle cronologie e a questo proposito lascio la parola al compagno che tratterà quella della Germania, cioè del paese in cui si condensarono i problemi della rivoluzione, problemi che in certo senso si ricollegano a quelli attuali, e non soltanto perché oggi, con nostra grande gioia e per la prima volta, sono presenti dei compagni tedeschi. Prego il compagno di voler esporre. [49]

Letture consigliate

  • AA.VV., Annali Feltrinelli VIII, 1966.
  • Agnello Luigi, Amadeo Bordiga, voce del Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 34, Treccani, 1988 (presente su Internet).
  • Agosti Aldo, La Terza Internazionale 1919-1928, Storia documentaria, 4 volumi, Editori Riuniti, 1974.
  • Broué Pierre, Rivoluzione in Germania, Einaudi, 1977.
  • Cortesi Luigi, Le origini del Partito Comunista Italiano, Laterza, 1977.
  • Daniele Chiara (a cura di), con un saggio di Vacca Giuseppe, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca - Il carteggio del 1926, Einaudi 1999.
  • Direzione del PSI, Resoconto stenografico del XVII Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano, Livorno 1921. Ristampa. Edizioni Avanti! 1962.
  • Frazione Comunista Astensionista del PSI, Il Soviet, periodico 1918-1922 (la raccolta completa è nella collezione dei nostri CD Rom dell'archivio storico).
  • Galli Giorgio, Storia del Partito Comunista Italiano, Bompiani 1976.
  • Martinelli Renzo, Il Partito Comunista d'Italia 1921-1926, Politica e organizzazione, Editori Riuniti, 1977.
  • n+1, La Sinistra Comunista "italiana" e il Comitato d'Intesa. Quaderni di n+1, 1993.
  • PCd'I, Rassegna Comunista, organo del Partito Comunista d'Italia, raccolta completa, 1921-1922. Reprint International, 1969 (presente nella nostra raccolta di materiale digitalizzato su CD Rom).
  • PCd'I, La questione italiana al Terzo Congresso dell'Internazionale Comunista, Libreria editrice del PCd'I, 1921. Reprint Edizioni Rinascita, 1980.
  • PCInt., Storia della Sinistra Comunista. Volume primo, dalle origini al 1919. Volume secondo, 1919-1920. Volume terzo, 1920-1921. Volume quarto, 1921-1922.
  • PCInt., La Sinistra Comunista in Italia sulla linea di Lenin, Quaderni di n+1, 1992.
  • PCInt., In difesa della continuità del programma comunista, Quaderni di n+1, 1992.
  • Ragionieri Ernesto, La Terza Internazionale e il Partito Comunista Italiano, Einaudi, 1978 (lo citiamo solo come esempio di mistificazione tipicamente centrista: su oltre 400 pagine, Amadeo Bordiga è nominato tre volte in nota per questioni del tutto marginali. Da notare che in una di queste si dice che Bordiga era di gran lunga il più nominato nelle dediche degli operai per le sottoscrizioni all'Unità gramsciana, mentre Gramsci quasi non compariva!).
  • Rosmer Alfred, A Mosca al tempo di Lenin, Jaca Book, 1970 (integrale in francese su Marxists Internet Archive).
  • Somai Giovanni, Gramsci a Vienna, Argalìa Editore, Urbino 1979.
  • Spriano Paolo, Storia del Partito Comunista Italiano - Vol. I, Da Bordiga a Gramsci, Einaudi 1967.
  • Tasca Angelo, I primi dieci anni del Partito Comunista Italiano, Laterza, 1971.
  • Togliatti Palmiro, La formazione del gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano, Editori Riuniti, 1962.
  • Trevisani Giulio, Piccola enciclopedia del socialismo e del comunismo, Edizioni de Il Calendario del Popolo, 1963, voce "Bordighismo" (pag. 77-78, anche in questo caso un chiaro esempio di calunniosa disinformazione stalinista).

Amadeo Bordiga, 1960-61. Trascrizione da nastro magnetico, 2012.

Note

[1] I titoli dei paragrafi sono tutti aggiunti in fase redazionale.

[2] Una parte della Storia della Sinistra Comunista "italiana" era già stata trattata e più avanti si parla della sua pubblicazione in volume, cosa che effettivamente avvenne nel marzo del 1964. Per ulteriori dettagli vedere l'editoriale.

[3] Il lavoro sull'Estremismo fu pubblicato nei numeri dal 16 al 24 del 1960.

[4] Tenuta il 12 e 13 novembre del 1960.

[5] Nel citato primo volume della Storia, curato da Bordiga, l'anonimato è mantenuto con l'espediente di nominare la funzione dell'autore ("il rappresentante della Sinistra", "l'articolista", ecc.), cosa che ovviamente sarebbe parsa artificiosa in una situazione colloquiale.

[6] Del 1961.

[7] La Germania, verrà specificato sul periodico e sul primo volume della Storia, aveva più industria e quindi più proletari dell'Italia, anche se la maggior parte era in condizione semi-artigiana, ma "L'Italia aveva, sulla Germania, il vantaggio di una soluzione più completa della grande rivoluzione liberale, anche se si era in monarchia e non in repubblica. Ogni forma di potere delle vecchie classi feudali era scomparsa statalmente e legalmente; inoltre, stava contro l'influenza del clero cattolico la violenta rivendicazione della Roma papale. Per contro, la Germania era tuttora dominata da forme statali di tipo feudale che nemmeno gli effetti della guerra franco-prussiana e della rivoluzione nazionale dall'alto contro l'Austria dovevano radicalmente eliminare". Quindi ad una maggiore potenza produttiva tedesca, corrispondeva una più matura situazione italiana per quanto riguardava i rapporti di produzione. Ciò permette di comprendere come mai nel "laboratorio politico" Italia, a differenza degli altri paesi, si siano sviluppati parallelamente sia il fascismo come più moderno assetto del sistema di potere borghese, sia una più dura e coerente lotta contro l'opportunismo. L'argomento viene ripreso nei paragrafi successivi ed è importante notare come in esso si saldino le determinazioni economiche materiali con la sovrastruttura ideologica nel quadro di una dinamica storica che comprende indissolubilmente il nucleo fondamentale del capitalismo: Italia-Francia-Inghilterra-Germania.

[8] Come nei testi trascritti da bobina che abbiamo pubblicato in precedenza, le parentesi quadre racchiudono, là dov'è stato possibile procedere in tal senso, ricostruzioni di parti lacunose o mancanti. Tutto il resto è trattato come nelle normali trasposizioni dallo scritto al parlato.

[9] Vedere sull'argomento la monografia sul numero doppio 15-16 di questa rivista.

[10] Dal punto di vista della lotta immediata e sindacale, invece, la Sinistra comunista riuscì a portare sulle proprie posizioni, oltre a numerosi socialisti, gli anarchici e gli anarcosindacalisti fino a promuovere l'adesione della centrale sindacale anarchica USI, all'Internazionale Sindacale Rossa, realizzando di fatto un combattivo "fronte unico dal basso" (cfr. Relazione del PCd'I al IV Congresso dell'Internazionale Comunista, 1922).

[11] Come ammetterà lo stesso relatore fra poco, in questi due paragrafi e in parte di quello successivo si accavallano disordinatamente pensieri e ricordi, tanto da obbligarci a mettere un po' d'ordine fra incisi non chiusi e riprese su registri diversi.

[12] Bordiga rimase al confino, prima a Ustica e poi a Ponza (passando per il carcere di Palermo con l'accusa, dimostratasi fasulla, di tentata evasione) dal novembre 1926 al novembre 1929.

[13] Al VII Esecutivo allargato in realtà intervennero sia Trotskij che Zinoviev. Probabilmente Bordiga vuol dire che non fu loro possibile affrontare gli argomenti scottanti sulla situazione del partito russo e dell'Internazionale.

[14] Un resoconto che rende bene l'atmosfera plumbea dominante al VI Esecutivo Allargato e l'insofferenza attiva di Bordiga, è in: Giuseppe Berti sull'incontro fra la delegazione italiana e Stalin, sul nostro sito alla sezione "Archivio storico – Materiali inerenti alla Sinistra Comunista". In tale documento sono riportati la notizia di un lungo colloquio chiarificatore fra Trotskij e Bordiga e il brano dello scontro fra quest'ultimo e Stalin sulle prospettive del socialismo in Russia. Per capire il complesso rapporto Bordiga-Trotskij si veda tra gli altri: La quistione Trotskij, del 1925, e Plaidoyer pour Staline, del 1956.

[15] La conferenza degli 81 partiti "comunisti e operai" si tenne a Mosca dal 10 novembre al 1 dicembre 1960. Avrebbe dovuto rispondere alla crisi generalizzata dei partiti comunisti nazionali dopo la svolta ulteriormente revisionista al XX Congresso del PCUS (febbraio 1956), impersonata da Krusciov, ma si risolse nella pubblicazione di un generico Manifesto. Cfr. "Replica all'ignobile manifesto degli 81 partiti cosiddetti comunisti ed operai", Il programma comunista n. 5 del 1961.

[16] Il XVI, dal 5 all'8 ottobre del 1919. Bordiga fece il suo intervento il 7 ottobre. Il testo si può leggere sul Resoconto stenografico del XVI Congresso del PSI, ed. L'Avanti!, 1920, evidentemente il libro citato e fotografato da Cesare Saletta, allora militante del Partito Comunista Internazionale.

[17] Cioè la citazione secondo la quale Lenin avrebbe detto che la Sinistra avrebbe rinunciato all'astensionismo.

[18] Il riferimento è alla bozza di riunione intitolata "Origine e funzione della forma partito", pubblicata sul n. 13 de Il programma comunista del 1961.

[19] Questo concetto sarà ripreso nelle Tesi di Napoli, del 1965.

[20] Jacques "Oscar" Camatte e Roger Dangeville. I compagni francesi contribuivano al lavoro di partito anche raccogliendo e traducendo testi di Marx ed Engels all'epoca non facilmente disponibili, specie in Italia.

[21] Questo passo ricorda quello del giovane Marx, che scrive: "Si vedrà allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente" (Lettera a Ruge, settembre 1843).

[22] Cfr. nn. 15-16 di questa rivista.

[23] In realtà qui Bordiga sintetizza l'insieme degli inasprimenti richiesti e non la sola ventunesima condizione che recita: "Quei membri del partito che respingono per principio le condizioni e le tesi formulate dall'Internazionale Comunista debbono essere espulsi dal partito. Lo stesso vale specialmente per i delegati al Congresso Straordinario".

[24] Le Edizioni Avanti! ne pubblicarono una ristampa l'anno dopo, nel 1962, col titolo originale: Resoconto stenografico del XVII Congresso Nazionale del PSI, e con un'appendice sul nascente Partito Comunista d'Italia. Il discorso di Bordiga, con ampi riferimenti ai 21 punti e alle loro implicazioni, è a pag. 271.

[25] Riccardo Roberto, era nella presidenza del Congresso in rappresentanza della Frazione Comunista.

[26] Tanto per rendere l'idea dell'atmosfera che regnava al congresso, bisogna tener presente che esso era stato spostato da Firenze a Livorno per questioni di sicurezza, dato il pericolo di attacchi fascisti. Il teatro Goldoni era accerchiato da polizia e soldati e al suo interno avvenivano battaglie violentissime. Ecco un esempio tratto dal Resoconto cit.: "Ad un certo momento Vacirca, rivolgendosi a un palco occupato dai comunisti, mostra a Bombacci un temperino, gridando 'rivoluzionario del temperino!'. Si vede Bombacci alzarsi concitato e puntare contro Vacirca una rivoltella. L'atto provoca l'immediata reazione di tutti quelli che si trovano sul palcoscenico. Le invettive, gli urli, le minaccie si incrociano dall'una all'altra parte con violenza inaudita… sembra si stia per venire alle mani… La seduta è sospesa per 40 minuti." (pag. 238).

[27] Nel resoconto stenografico del congresso infatti Gramsci non compare, anche se era relatore sul "Movimento sindacale, comitati di fabbrica e controllo operaio" con Giuseppe Bianchi ed Emilio Colombino.

[28] Qui il nastro è indecifrabile. Bordiga si riferisce a una pubblicazione con un aneddoto su Gramsci, poi alla posizione tentennante di Lazzari, alla "scena lacrimogena di Roberto" e a un personaggio di cui non si afferra il nome: "un capo teorico e come organizzatore era un uomo abilissimo e ferratissimo. Avevamo tessuto una rete nazionale", forse in relazione alla scissione.

[29] Il n. 4 del 1961.

[30] Quest'ultimo fu siglato il 3 agosto del 1921. Enrico De Nicola, presidente della Camera, fece da moderatore. Erano rappresentati: il Consiglio nazionale dei Fasci di Combattimento, il Gruppo parlamentare fascista, la Direzione del Partito Socialista, il Gruppo parlamentare socialista, la Confederazione del Lavoro.

[31] "La sinistra italiana e l'Internazionale Comunista al II Congresso", Il programma comunista n. 22 del 1960.

[32] Abbiamo cercato, nel limite del possibile di ovviare all'inconveniente ricostruendo la cronologia, cioè spostando qualche riferimento e qualche paragrafo.

[33] Marx stigmatizzò questo modo di pensare osservando che, se quando piove si apre l'ombrello, non basta aprire l'ombrello per far piovere. La sequenza fondamentale adottata da Bordiga può essere meglio compresa leggendo i primi due capitoli delle Tesi di Roma del 1922 e gli appunti intitolati Teoria e azione nella dottrina marxista, I. Il rovesciamento della prassi, del 1951, compreso di schema e commento allo stesso (Partito e classe, Quaderni di n+1).

[34] Questa parte della registrazione è molto rovinata. Il paragrafo incomincia con una citazone dagli emendamenti proposti dalle delegazioni rappresentate da Terracini e finisce con una citazione dalla replica di Lenin.

[35] Per colmare le lacune e le parti oscure o poco comprensibili della registrazione, la parte che segue fra parentesi quadre è l'interpolazione di frammenti originali con brani compatibili recuperati altrove. Abbiamo utilizzato il contenuto di tre testi che trattano l'argomento: gli articoli di Bordiga, intitolati rispettivamente Mosca e la quistione italiana e Chiudendo la quistione italiana, apparsi nei nr. V, 30 giugno, e XIII, 15 novembre 1921 di Rassegna comunista, e il capitolo VI del III volume della Storia della Sinistra Comunista.

[36] Lettera di Marx a Engels, 18 maggio 1859. Più avanti: "lavativi" erano i rappresentanti del socialismo piccolo-borghese, che non avevano superato l'esperienza tramontata della Lega dei comunisti.

[37] Bordiga intervenne a lungo sulla relazione Zinoviev il 25 giugno del 1924 alla XIII seduta. L'espressione "dare il polverino" significa "approvare senza neanche leggere" (il polverino era minerale in polvere che si versava sull'inchiostro fresco per farlo asciugare, prima che ci fosse la carta assorbente).

[38] Segue un frammento registrato su altra bobina. Esso fa parte sicuramente della stessa riunione come si evince dal testo. Purtroppo non c'è materiale sufficiente per elaborare un collegamento.

[39] I comunisti chiamarono così in modo spregiativo, l'organismo fondato a Vienna da quei socialisti che avevano sostenuto una posizione ambigua di fronte alla guerra (Adler, Bernstein, Kautsky) con il nome Unione dei Partiti Socialisti per l'Azione Internazionale o semplicemente Unione Internazionale Socialista.

[40] Alfred Rosmer, anarchico in gioventù, passò al sindacalismo rivoluzionario e poi all'Internazionale Comunista, per la quale svolse diversi incarichi prima di allontanarsene. Scrisse il libro di memorie A Mosca al tempo di Lenin, con una prefazione di Albert Camus (edito in Italia da Jaca Book, 1970).

[41] Contro una pace ritenuta iniqua e nel tentativo di far scoppiare una rivolta, nel luglio del 1918 gruppi di aderenti al Partito Socialista Rivoluzionario di Sinistra avevano ucciso l'ambasciatore tedesco in Russia e il governatore militare dell'Ucraina. Tutti i rappresentanti del Partito Socialista Rivoluzionario di Sinistra presenti al V Congresso dei Soviet che si teneva a Mosca erano stati arrestati dai bolscevichi. I socialisti rivoluzionari, dopo aver organizzato un gruppo di ribelli armati di circa 2.000 uomini, avevano a loro volta arrestato Dzerzinskij, il direttore della Commissione Straordinaria dello Stato russo (cioè i nascenti servizi di sicurezza). I ribelli erano stati facilmente sconfitti dalla Guardia Rossa. I capi imprigionati erano stati condannati a morte con la sospensione della pena se fossero cessati gli atti di terrorismo e di ostilità contro il governo sovietico. I capi rimasti liberi si erano poi uniti agli eserciti bianchi, gli iscritti operai ai bolscevichi.

[42] In realtà si era incominciato a parlare di "governo operaio" in Germania, già nel 1920, dopo il putsch di Kapp.

[43] Dall'intervento di Bordiga al IV Congresso: "Si potrà dire che il governo operaio non è ciò che noi supponiamo; ma io debbo osservare che ho inteso spiegare ciò che il governo operaio non è; debbo però ancora sentire dalla bocca di Zinoviev o di altri ciò che il governo operaio è".

[44] Lacuna irrecuperabile tra due frammenti. Dal contesto si può facilmente supporre che qui Bordiga abbia fatto un confronto: da una parte, il fronte unico internazionale tra proletari per le lotte immediate; dall'altra il fronte politico fra partiti per… non si sapeva bene cosa. L'episodio dell'Aventino fu significativo della confusione che regnava tra i centristi: avevano praticato il morto parlamentarismo borghese e adesso che questo era in pericolo per mano dei fascisti correvano in suo soccorso altrove invece di assecondarne l'affossamento all'interno, come avrebbe preteso la tattica leninista. Parlamentaristi fino al midollo, diventavano astensionisti non a favore della rivoluzione ma in difesa del parlamento a fianco dei borghesi.

[45] Eccone uno stralcio significativo: "Il proletariato non dimentica le responsabilità di coloro che hanno preparato e fiancheggiato il fascismo, di chiunque ne ha favorito l'avvento al potere... Già allora noi prevedevamo che, restringendo la lotta antifascista alla ricerca di un compromesso parlamentare… non si poteva giungere a nessun esito positivo. Si recava anzi aiuto al fascismo. Noi non viviamo nell'attesa di un compromesso borghese per il quale la borghesia invoca oggi l'intervento del re… e auspica una 'amministrazione superiore ed estranea agli interessi di ogni parte', cioè una dittatura militare che dovrebbe impedire l'avvento inesorabile della dittatura del proletariato. Il centro della nostra azione è fuori di quest'aula, fra le masse lavoratrici le quali sempre più profondamente si convincono che la fine della vergognosa situazione in cui il paese è tenuto da voi, dai vostri sostenitori filofascisti e dai vostri alleati e fiancheggiatori democratici e liberali, si avrà soltanto col ritorno in campo e col prevalere sopra di voi della loro forza organizzata".

[46] Si tratta di: L'Estremismo, malattia infantile del comunismo.

[47] La parte che segue, fra parentesi quadre, è un riassunto e una elaborazione dell'originale: trattandosi della chiusura di due riunioni, di cui la seconda tenuta alcuni mesi dopo la prima, ci sono almeno due pagine di riepilogo sull'intervento di Terracini e sulla risposta di Lenin, praticamente una ripetizione che nel nostro contesto è del tutto superflua. Abbiamo quindi eliminato le parti praticamente identiche e messo in evidenza le conclusioni tratte dal relatore.

[48] È noto che nel secondo dopoguerra la Sinistra Comunista pronosticò la vittoria degli Stati Uniti sulla Russia per mezzo del dollaro piuttosto che delle armi. Una "Grande confessione", cioè l'ammissione che in Russia non c'era mai stato socialismo bensì capitalismo sarebbe divenuta inevitabile.

[49] Purtroppo di questa "cronologia" abbiamo solo poche pagine che pubblicheremo in uno dei prossimi numeri della rivista.

Rivista n. 32