Scienza, coscienza, percezione, prassi

Da tempo avevamo in programma un lavoro per tentare di rispondere a domande ricorrenti del tipo: dove ha sbagliato l'Internazionale comunista per piombare nell'opportunismo fino al punto di diventare una forza della controrivoluzione? Oppure: dove ha sbagliato la Sinistra Comunista "italiana" per farsi annichilire dagli avversari fino al punto di essere cancellata dalla storia?

Domande mal poste, a cui ci s'illude sia semplice dare una risposta sulla base della documentazione dell'epoca e delle ricostruzioni successive, ma che in realtà pongono dei problemi non da poco, a partire dal ricorso alla concezione di "errore". Fu certo un errore, ad esempio, partecipare a un convegno frontista con l'Internazionale due e mezzo, rappresentata da Adler, Bernstein e Kautsky, che erano figuri sui quali si erano abbattuti i fulmini di quello stesso Lenin che adesso caldeggiava l'avvicinamento, salvo poi infuriarsi con Radek & C. per aver concesso troppo. Ma si può davvero chiamare errore quello di Lenin, e poi quello di Radek? Lenin non era uno sprovveduto, doveva sapere benissimo che andando a merenda con il diavolo ci si bruciacchia un po'. E allora, perché quei "cedimenti"? Anche Bordiga, nella relazione che abbiamo pubblicato nel numero scorso, dice: caro Vladimiro, lo sai bene che se dici agli operai che bisogna fare il fronte unico essi ti credono e obbediscono; ma il fronte unico con i traditori non può che dare risultati alla Radek.

Gli eventi politici di una rivoluzione soggiacciono alle stesse leggi che governano tutti gli altri campi, non si vede per quale ragione ne dovrebbero essere esentati. Le determinazioni che pesano sugli individui e sui gruppi (o partiti) portano a risultati che la storia registra. Siamo attrezzati per analizzare processi in ogni campo, eppure a volte falliamo nel campo che ci interessa di più, quello delle dinamiche e delle forme che caratterizzano una rivoluzione, il suo percorso e il suo sbocco.

Nei primi due articoli di questa rivista formuliamo un approccio che il lavoro collettivo si incaricherà di sviluppare o archiviare. Sicuramente non cerchiamo spiegazioni psicologiche, o colpe di individui. Siamo partiti dagli elementi semplici di cui siamo fatti biologicamente, obbedendo a un imperativo della nostra corrente a proposito della teoria della conoscenza. Abbiamo preso lo spunto da un libretto del matematico Jacob Bronowski (vedi bibliografia) lasciando decantare i primi risultati; e, proseguendo con l'utilizzo di un breve saggio del fisico Enrico Bellone sugli stessi argomenti (id.), ne abbiamo fatto oggetto di una relazione in uno dei nostri incontri redazionali, abbiamo recensito i due testi (sul n. 30) e redatto i due articoli suddetti. Il lettore troverà in questo numero anche la recensione di un corposo volume di Julian Jaynes sull'origine della coscienza.

Bellone, morto poco dopo l'uscita del libro, era un galileiano convinto. Aveva pubblicato molti saggi basandosi sull'estensione secondo invarianti dei principii del grande pisano, alla luce della conoscenza d'oggi. Il suo principio operativo in questo campo era quello di Stephen Hawkins: "La filosofia è morta, non avendo tenuto il passo con gli sviluppi più recenti della scienza". Il metodo che egli utilizza nel saggio citato è quello di sottrarre i fenomeni spiegabili fisicamente alla speculazione delle filosofie idealistiche: una teoria scientifica della conoscenza ci dice che siamo il prodotto di un'evoluzione durata milioni di anni. Non esiste dunque uno speciale "Io" ma un tutto. Una profonda consapevolezza di questo fatto può modificare la prassi di una comunità.

Rivista n. 33