Mali e Niger
Il comando delle truppe d'occupazione francesi in Mali ha proclamato la pacificazione del paese dopo la firma dell'accordo con le tribù tuareg per il cessate il fuoco e ha concesso l'autonomia amministrativa all'area su cui esse sono stanziate. Tutt'altro discorso va fatto per l'avversario jihadista, sconfitto momentaneamente sul campo, in ritirata provvisoria nei paesi limitrofi o in zone non controllate dai francesi e dall'esercito lealista maliano. Il dato più evidente è che, al di fuori delle zone presidiate direttamente dai militari francesi, regna il caos totale. Il governo di Bamako non è nemmeno in grado di pattugliare tutta la capitale ed è quindi in difficoltà a far funzionare l'embrione di stato uscito dalla guerra. Ad esempio, non è ancora riuscito a censire la popolazione e a realizzare un'anagrafe per distribuire carte d'identità. Non parliamo poi di un catasto e di tutti gli altri strumenti tipici di uno stato moderno.
In una situazione come questa, è chiaro che non appena le truppe francesi dovessero rimpatriare o anche solo diminuire gli effettivi, l'esercito maliano si disintegrerebbe e ritornerebbero i fondamentalisti, rafforzati dai legami internazionali nel frattempo maturati. Il contingente straniero di "peacekeeping" conta 12.000 uomini di cui 6.000 francesi e 500 cinesi, gli unici ben addestrati. Fra i contingenti militari stranieri presenti in missioni "pacificatrici" nel mondo, quello stanziato in Mali è il terzo come numero di combattenti, eppure è evidente che non può far quasi nulla per sorvegliare gli immensi spazi del Sahel. La paura del contagio fondamentalista è in realtà paura per la perdita di controllo su una parte considerevole dell'Africa. L'ipotesi non è per nulla astratta: gran parte dell'Africa settentrionale sta cadendo realmente nelle mani della Jihad islamica. Per questo motivo, a fiancheggiare la presenza fisica dei soldati francesi, cinesi e africani, giunge il sostegno economico e militare dei maggiori paesi imperialisti (4,2 miliardi di dollari), Stati Uniti in testa, ma anche Russia (supporto logistico aereo) e ONU (appoggio ufficiale degli interventi). Ma in quella situazione non è certo risolutivo.
Le milizie jihadiste in ritirata strategica non hanno che da scegliere in tutta la fascia sub sahariana per quanto riguarda le loro basi: dal Mali sono passate in Algeria, Libia e Niger, di qui hanno preso contatti con quelle del Chad, del Sudan e della Nigeria. In Somalia controllano già buona parte del paese (se si può dire che esista ancora una nazione con quel nome), ed è quindi evidente che manca poco alla realizzazione di una fascia continua che va dall'Oceano Atlantico all'Oceano Indiano, e che taglia l'Africa in due. Teniamo presente che "scuole" islamiche sono state impiantate in Mauritania, in Burkina Faso, in Guinea e in Senegal. Ai Jihadisti non interessa conquistare stabilmente il territorio, cosa che del resto non sarebbero in grado di fare. Il loro obiettivo è quello di installare gruppi di riferimento da cui partire per reclutare milizie, ben sapendo che il nemico Occidente non potrà mai dislocare truppe a sufficienza sui quattro milioni di chilometri quadrati del Sahel. È chiaro che il tempo è a loro favore. Il sistema islamico, per quanto contaminato dal capitalismo, è comunitario e si basa sulla solidarietà di gruppo. In un'area immensa come questa, una delle più povere del mondo, dove la carestia è endemica, i residui comunitari dell'Islam antico attecchiscono più facilmente che altrove e i petroldollari delle monarchie arabe aiutano, come aiutano i traffici vari, compresi quelli delle armi, dei sequestri e della droga. I servizi occidentali calcolano che dal 2004 a oggi l'ordine di grandezza dei "ricavi" sia stato 60 milioni di dollari per ognuno dei tre rami. Non siamo alle cifre del business illegale di altri paesi, ma bisogna tener conto di quanto vale una vita nel Sahel.
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Il Niger, confinante con Mali, Algeria, Libia, Nigeria, Chad, Benin e Burkina Faso, è forse il paese più povero del mondo. Santuario per le milizie di guerre che si svolgono altrove, ha una sua propria guerriglia endemica contro il "governo" centrale. Recentemente, militanti di questa guerriglia hanno sferrato due attacchi suicidi, uccidendo 35 persone, in una miniera francese di Uranio ad Arlit e in una base militare ad Agadez, entrambe in pieno deserto. Di conseguenza, il governo ha "accettato" l'aiuto militare di Stati Uniti e Francia, al momento concretizzatosi in addestramento delle truppe e in droni da ricognizione con base nella capitale Niamey. Ma sarà difficile impedire che i 16 milioni di abitanti al limite della sopravvivenza, sparsi su una superficie completamente desertica grande quattro volte l'Italia, rafforzino i contatti con le milizie islamiche ospitandole e fornendo loro un aiuto logistico. Durante la guerra in Mali, 50.000 profughi hanno attraversato il deserto per raggiungere il Niger. Altre migliaia di profughi sono giunti in Niger dalla Nigeria, dove imperversa la guerriglia del gruppo jihadista Boko Haram. Nessuno è in grado di stabilire quali siano i profughi e quali i "terroristi".
Miniere di uranio, basi petrolifere e insediamenti militari sono luoghi del tutto insicuri, specie per il personale straniero, che infatti sta lasciando il paese. Gli impianti, quasi sempre gestiti da tecnici bianchi, rimangono inutilizzati. Persino le centrali elettriche funzionano a singhiozzo lasciando vaste aree senza elettricità, per cui artigiani e piccole industrie sono costretti a procurarsi gruppi elettrogeni indebitandosi più di quanto non lo siano già. Più il paese si impoverisce, più aumenta la pressione demografica. Il paese più povero del mondo ha il tasso di crescita della popolazione più alto. Metà degli abitanti è gravemente sottonutrito e metà ha meno di 16 anni. Il Niger è uno dei terreni di reclutamento più fertili per la Jihad.