L'Italia nell'Europa feudale (6)
Il retroterra storico del capitalismo più antico del mondo
6. Un modello di equilibrio… negato
Avevamo abbozzato uno schema grafico da cui partire per trarre conclusioni descrittive sulla transizione medioevale (e lo utilizzeremo più avanti), quando ci si offrì l'occasione di affiancargli uno studio appena scodellato dalla borghesia e trovato proprio mentre iniziavamo a scrivere questo articolo (figura 1. Tutte le immagini sono in fondo al testo). Si tratta di un modello elaborato per spiegare il collasso di molte civiltà del passato al fine di suggerire ai governi il modo di evitare la fine che hanno fatto tutte le altre. Il modello si chiama Human and Nature Dynamics (HANDY), è sponsorizzato dalla NASA, l'ente spaziale americano, e raggruppa le ricerche di scienziati dediti a diverse discipline. Il sottotitolo, molto significativo è: "Modellazione della diseguaglianza e dell'uso delle risorse riguardo al collasso o la sostenibilità delle società". Lo studio è la riproposizione di un semplice modello matematico pubblicato dal matematico Vito Volterra nel 1926. Esso è diventato celebre in quanto può fornire molta informazione intorno ai sistemi dinamici basati su interazioni tra agenti, come nel caso di un ambiente popolato da soli predatori e prede. Gli autori dello studio ci spiegano:
"In questo documento tentiamo di modellare matematicamente il collasso [di varie civiltà] in modo più generale [di quanto si possa fare analizzando ogni singola causa specifica per ogni singola civiltà]. Proponiamo un modello semplice col quale non intendiamo descrivere ogni reale, singolo caso, bensì fornire un quadro generale che ci permetta di effettuare un 'esperimento mentale' riguardo ai fenomeni di collasso e sperimentare cambiamenti per evitarli. Questo modello va oltre a quelli dinamici di popolazione perché simula contemporaneamente due importanti qualità separate che mostrano di comparire fra le società che sono collassate: 1) la carenza di risorse dovuta alla tensione riguardo alla capacità di rifornimento; 2) la stratificazione economica della società in élite e masse (o 'gente comune'). In molti di questi casi storici abbiamo un'evidenza diretta che la tensione ecologica e la stratificazione sociale giocano un ruolo centrale nei caratteri del processo di collasso. Per queste ragioni empiriche e per quelle teoretiche spiegate in seguito, il nostro modello incorpora entrambe le qualità suddette […] Possiamo quindi pensare alla popolazione umana in veste di 'predatore' e alla natura (risorse naturali e ambiente circostante) in veste di 'prede', saccheggiate dagli esseri umani".
Nessun modello è neutro, e siamo sospettosi specialmente nei confronti di quelli utilizzati dalla borghesia per i suoi scopi. In questo caso è evidente che qualcuno incomincia a rendersi conto che siamo al collasso e cerca risposte. Prescindendo dal fatto che ogni salmo allarmistico borghese finisce in gloria riformista in onore di un capitalismo eterno, con il grafico sotto agli occhi è immediatamente visibile la possibilità di operare paralleli a volontà fra la popolazione di lupi/conigli del modello di Volterra, e altre popolazioni come umani/natura, romani/schiavi, squali/pesciolini, barbari/romani, capitalisti/proletari.
Tralasciando l'apparato matematico usato dagli autori in questione, qui vediamo che il saggio di mortalità e quello di natalità delle due specie sono sincronizzati secondo curve sinusoidali sovrapponibili: i lupi mangiano i conigli; la diminuzione di conigli provoca un calo demografico fra i lupi, quindi i conigli aumentano e così via. Siccome le interazioni lupi/conigli sono a effetto ritardato, le curve non sono sovrapposte ma sfasate. Quello della figura 1 è un ecosistema in equilibrio: esso collassa o si sviluppa quando intervengono perturbazioni sui parametri di controllo (retroazioni). Se lo teniamo presente nel caso di un impero interamente invaso da forze esterne, riusciamo a capire meglio la funzione dei "predatori" che introducono parametri distruttivi; se lo teniamo presente nel caso di un ex impero già invaso, in cui la distruzione è premessa per il salto a un nuovo equilibrio, riusciamo a capire meglio la funzione delle "prede" che introducono parametri costruttivi.
Nel caso dell'impero invaso e collassato (o viceversa, è lo stesso) i parametri costruttivi sarebbero quelli che aiutano a superare i limiti che impedivano la trasformazione della ricchezza in Capitale. Questo superamento, si capisce, può avvenire soltanto se le prede si trasformano in predatori cioè se i vinti sottomettono i vincitori. I futuri borghesi alla fine, dalle città, domineranno la campagna togliendo ogni diritto ai discendenti degli antichi invasori. Arrivati a questo punto, sappiamo che il Capitale per sua natura si accresce a causa del plusvalore che rientra nel ciclo di riproduzione allargata, non sopporta il susseguirsi di alti e bassi sempre uguali insiti nel modello di Volterra: esso adopera i cicli, ma solo per ritrovarsi sempre più in alto dopo ognuno di essi. Tale andamento è il risultato del passaggio dall'equilibrio oscillante di Volterra a uno schema di crescita, che ovviamente non può essere infinito. L'Alto Medioevo rappresenta la tormentata fase di passaggio tra l'equilibrio e la crescita, tra le società omeostatiche e quelle a "retroazione positiva", cioè a crescita esponenziale illimitata (finché le contraddizioni sociali e l'ambiente lo permettono). Il Medioevo propriamente detto, dal Mille in poi, eredita una sovrastruttura che ad un certo punto si autonomizza e che non corrisponde più agli elementi materiali della forza produttiva sociale in crescita sbalorditiva. Il feudalesimo è il nome che è stato dato a questa sovrastruttura. Utilizziamolo pure – ormai – per descrivere anche il modo di produzione soggiacente, ma pensiamo a quanto sia perlomeno fuorviante chiamare "feudalesimo" il modo di produzione dell'Italia dei Comuni, delle Repubbliche marinare e dello stato federiciano; quello della metropoli parigina del '200 e della Francia di Colbert; quello del rapporto sovranazionale fra Inghilterra e Fiandre dal IX al XIV secolo e delle banche "lombarde" sparse per l'Europa, ecc. ecc.
Avvertenza: Vito Volterra, in quanto matematico, sarebbe assai dispiaciuto se il suo modello formale fosse interpretato attribuendo a "predatore", a "preda" e al loro rapporto, un significato di carattere morale! Potremmo parlare di macchine che assorbono energia a scapito di altre che ne rilasciano e sarebbe esattamente lo stesso.
Non possono esserci solo predatori o solo prede
Immaginiamo ora la Roma del basso impero: il numero degli abitanti è al massimo storico; la ricchezza è estremamente concentrata e la proprietà terriera ancora di più; nelle grandi aziende agrarie la direzione dei lavori è assegnata a un fattore e alla sua famiglia, mentre la produzione si basa in parte sul lavoro di schiavi, in parte su manodopera libera; la produzione nelle città è delegata ad artigiani e garzoni, mentre le fabbriche di articoli in serie si basano soprattutto sul lavoro di schiavi; i lavori pubblici sono appaltati ad aziende che sfruttano sia lavoro libero che schiavi; presso la classe dominante vive un esagerato numero di schiavi improduttivi, acquistati solo per prestigio e lusso; una parte considerevole degli abitanti delle grandi città è costituita da sottoproletari liberi, nullafacenti e mantenuti dalla società. Per ambiente abbiamo un impero che ha raggiunto i suoi limiti di espansione, mentre ai confini premono popolazioni molto interessate a ciò che vedono oltre le barriere e i castra pullulanti di legionari, ormai più numerosi degli abitanti di Roma, tanto che da decenni sono reclutati fra i barbari. I predatori si sono accaparrato tutto, non c'è più spazio sufficiente per coltivare il grano supplementare necessario alle prede. L'Impero consuma una quantità enorme di legna per la flotta, le palizzate dei castra, le terme, i bracieri da cucina e da riscaldamento (la cui efficienza è quasi nulla), perciò i suoi boschi sono ridotti, depredati anch’essi, sempre più lontani dagli insediamenti. Non c'è più spazio per sfasare semplicemente due curve sinusoidali identiche. La popolazione romana non scende, e quella barbarica nemmeno. Il territorio è sempre lo stesso di fronte a due popolazioni di predatori: una delle due deve cambiare ruolo, i romani diventano prede.
Lo schema di Volterra ci permette di eliminare i fronzoli e giungere al sodo, di metterci nei panni dei barbari in quanto predatori nell'atto di sfondare la catena dei castra e gettarsi su tutte quelle belle prede grasse al di là dei confini, con tutti i loro immensi tesori, compresi gli schiavi, che ormai fuori dall'Impero scarseggiano. Di fatto, con un'ondata gigantesca, che alla scala storica è da considerarsi fulminea, la pressione dei nuovi predatori sfonda davvero le posizioni fortificate romane. E dilaga.
La forza sincronizzata di queste ondate travolge l'Impero. Eppure le genti barbare esistevano da secoli, entravano in frizione con le legioni, a volte spingendosi anche in profondità oltre i confini, ma senza mai sconvolgere l'assetto della società romana. Conviene aver chiaro il movimento delle varie etnie germaniche per introdurre, sull'Europa "feudale", un discorso poggiante su una gigantesca perturbazione delle curve predatori/prede. Nel modello del matematico Volterra si ipotizza un sistema in equilibrio, mentre nel modello HANDY l'equilibrio è rotto per cause esterne, ad esempio la limitatezza delle risorse, la distribuzione perversa del reddito, un aumento della dissipazione del sistema (figura). Certamente la sincronizzazione dei movimenti barbarici è stato uno dei fattori decisivi della dissoluzione dell'Impero, ma evidentemente come spiegazione non è sufficiente e dobbiamo far ricorso alle citate cause interne. Prima, però, occorre almeno elencare l'entità dei movimenti barbarici e le loro conseguenze.
I regni barbari fuori d'Italia: predatori "riallocati"
I Vandali, che erano partiti dalla Scandinavia in tempi remoti stabilendosi nell'Europa orientale intorno al 400 a.C., si erano mossi a partire dal 300 d.C.; attraversando tutto il continente romanizzato a Nord delle Alpi, la Gallia e la Spagna, erano arrivati nel Nordafrica nel 400 e, approfittando del vuoto navale nel Mediterraneo, erano diventati per breve tempo una talassocrazia con base, per ironia della storia, a Cartagine.
I Visigoti (Goti occidentali), incalzati dagli Unni, avevano incominciato a migrare dalla Dacia, dov'erano stanziati, verso i Balcani; avevano sconfitto i Romani ad Adrianopoli (378), dov'era caduto sul campo l'imperatore Valente, e avevano occupato, fra l'altro, la Tracia e la Grecia. Incalzati da Bisanzio, erano emigrati verso Ovest, saccheggiando l'Italia, Roma compresa (410), e dopo un tortuosissimo percorso, erano arrivati in Gallia attraversando le Alpi in Val di Susa. Lì si erano stabiliti dilagando oltre i Pirenei e fondando un regno che comprendeva mezza Francia di oggi e quasi tutta la Spagna (418).
Gli Unni, provenienti dalla Siberia orientale e respinti dai Cinesi, erano arrivati in Europa dopo secoli di scorrerie spingendosi fino in Gallia e in Italia (450); sconfitti in seguito dall'esercito romano che si era alleato con diversi eserciti barbari, e decimati dalle malattie, si erano ritirati. Dopo la morte di Attila, l'impero unno si disgregherà sotto l'attacco dei popoli un tempo assoggettati e le sparse tribù rimanenti saranno inglobate nell'Impero bizantino.
I Burgundi, probabilmente di origine scandinava, si erano stabiliti nelle terre fra il Reno e il Meno, attaccando sia le tribù locali, sia i Romani (nel 370 circa) e provocando spostamenti di popolazioni. Nel 411 avevano fondato un regno unificato; ma entrati nuovamente in conflitto con i Romani (i quali nel frattempo si erano alleati con gli Unni) furono da questi sconfitti e, costretti a migrare, si stabilirono infine tra il Rodano e la Saona dove fonderanno un secondo regno (quella che sarà poi la Borgogna).
I Franchi, stanziati nel III secolo al Nord della Francia in un piccolo territorio, si erano espansi nel IV e soprattutto nel V secolo diventando, con Clodoveo, una grande potenza, in grado di espellere i Romani dal regno e di ampliarlo a spese dei Visigoti e di altre tribù confinanti.
Al di là del Mar Tirreno, verso la metà del V secolo, erano entrate in agitazione diverse tribù fra le quali gli Sciri, gli Eruli, i Gepidi, gli Ostrogoti (Goti dell'Est), tanto per citare soltanto quelle che entreranno in scena intorno alla fatidica data della "caduta dell'Impero romano". Tutte le altre genti nominate in questo paragrafo, alla data del 476 avevano fondato i loro regni, e l'Impero Romano d'Occidente si era ridotto praticamente alla sola penisola italiana (le isole erano state conquistate dai Vandali). La situazione era quella mostrata in figura 2.
Struttura dei regni barbari fuori d'Italia
Vandali, Visigoti, Burgundi, Franchi non riescono a frenare la decadenza delle città e, anzi, spesso assestano il colpo decisivo per la loro scomparsa. Il mondo romano non è in grado, fuori d'Italia, di inglobare gli invasori. E questi, nonostante qualche tentativo di costruire chiese e restaurare palazzi romani in cui si insediano solo come segno di potere, non sono in grado di continuare a far funzionare la macchina statale romana. La loro espansione è avvenuta sotto il segno del terrore. Il diritto di preda, il massacro dei vinti, la loro schiavizzazione (che non era certo paragonabile a quella romana nei confronti dei barbari) e la requisizione delle terre innescano un processo irreversibile di decadenza fisica delle strutture e della popolazione. Spezzatosi il rapporto città/campagna l'economia agraria, che forniva il cibo alla popolazione urbana, decade; e con essa decade il ruolo della città. La terra diventa l'unico elemento a sostegno dell'economia, e in poco tempo il potere e la ricchezza degli invasori dipendono quasi esclusivamente dalla popolazione rurale. Con l'eredità del sistema romano di ville agrarie, si forma l'economia curtense, che fuori d'Italia significa enormi estensioni poco coltivate, dato il crollo demografico. A tale economia si adatta il sistema gentilizio di dipendenze parentali, di mutuo sostegno economico e soprattutto militare. In un mondo in cui la razzia è all'ordine del giorno, e l'assassinio il modo più sbrigativo per risolvere questioni di successione, l'intreccio di mutue promesse di assistenza militare diventa automatico.
Venendo meno l'efficientissima rete romana di comunicazioni, le varie proprietà agricole tendono necessariamente all'autosufficienza, e la produzione, distribuzione e riproduzione sociale si svolgono in un sistema caratterizzato da isole chiuse. Le città che non scompaiono si svuotano, e viene a mancare quel legame città-campagna che, assicurando lo scambio di prodotti, rappresenta una sorta di cemento sociale dovuto ad interesse materiale. L'infeudamento delle terre procede spedito nella misura in cui si estende la base sociale agraria, e sulla città prevale il villaggio. Il grave regresso ha come conseguenza una diminuzione della resa agricola che, per la coltura schiavo-servile dei cereali, precipita al 2,5:1. Con una produzione così bassa in rapporto a seme è sufficiente una razzia o una stagione climatica sfavorevole per compromettere la semina per anni. Questo sembra un modello generalizzabile, ma così non è: il modello che continua a caratterizzare la società in Italia è quello romano, benché la Penisola sia invasa, occupata e sottoposta a tributo.
"Si vede chiaramente che i nobili si ritirano nelle campagne abbandonando la città. Solo in Italia e in Provenza continuano a risiedervi. Bisogna indubbiamente attribuire il fenomeno alla conservazione delle tradizioni e dell'organizzazione municipale dell'Impero romano. Le città d'Italia e di Provenza erano troppo intimamente legate ai territori di cui costituivano i centri amministrativi per non aver mantenuto con essi relazioni più strette che in qualunque altro luogo. Qui la nobiltà non assunse quella connotazione agraria che caratterizza quella della Francia, della Germania e dell'Inghilterra" (Bloch, La società medioevale).
In tale contesto è importante lo sviluppo del concetto di proprietà. Ed è al solito evidente la differenza fra l'Italia e gli altri regni:
"[Fuori dall'Italia del diritto romano] è assai raro, in tutta l'èra feudale, che si parli di proprietà, sia di una terra che di un potere di comando; ancor più raro che un processo verta su questa proprietà. Ciò che le parti rivendicano è, quasi uniformemente, la saisine o 'presa di possesso' (in tedesco, Gewere). Non era precisamente un possesso, che la semplice occupazione del suolo 0 del diritto fosse bastata a creare; ma un possesso reso venerabile dal tempo. Se si adducevano prove, era solo per aiutare il ricordo, o, se attestavano una trasmissione, era già quella di una presa di possesso. Una volta prodotta in tal modo la prova del lungo uso, nessuno credeva utili altre giustificazioni" (ibid.).
Il diritto romano è già in crisi all'epoca di Clodoveo (inizio VI secolo), quando prende il sopravvento la legge salica, una raccolta scritta di disposizioni orali dei popoli germanici precedente al diritto romano e all'etica cristiana. Il diritto barbarico risalente alla legge salica si impone perché viene fatto valere per tutti gli abitanti del regno, mentre ad esempio in Italia la legge degli invasori eruli e ostrogoti viene completamente sostituita dal diritto romano. Ed esso resiste anche all'invasione longobarda perché vale solo per gli stessi invasori, mentre la popolazione romana vinta continua a regolarsi con il vecchio diritto. I Franchi, più numerosi e organizzati dei Longobardi, e aiutati dal fatto che le popolazioni a loro soggette (Celti e Germani) sono per la maggior parte di origine barbara, assimilano i Romani rimasti dopo le espulsioni. In Italia, invece, le leggi barbariche e il diritto romano rimangono assolutamente separati, così come rimangono fisicamente separati vincitori e vinti, almeno finché la tradizione, l'enorme sproporzione numerica, la superiorità economica, il retaggio di una civiltà incomparabile e non ultime le guerre porteranno i Romani ad assimilare poco per volta i barbari invasori.
I predatori ultimi arrivati. I regni barbari in Italia
Nel 476, Sciri, Eruli, Sciti, Turcilingi, Ruti, erano accampati in attesa del terzo delle terre che per legge spettava loro in cambio della federazione pacifica con Roma. Constatando che le terre non venivano loro assegnate, si erano rivoltati e avevano eletto loro rappresentante lo sciro Odoacre il quale, marciando su Milano, Pavia e Ravenna, aveva catturato il giovanissimo imperatore Romolo Augusto e ammazzato, come si soleva fare, suo padre e suo zio, eminenze grigie che stavano alle sue spalle. Data la situazione di estremo vuoto di potere, Odoacre, coerente con il ruolo svolto in veste di rappresentante delle tribù, si era autonominato rex gentium pur essendosi oggettivamente trovato ad essere il sovrano d'Italia. Se anche si fosse proclamato re dell'ennesimo regno barbaro o addirittura imperatore nessuno avrebbe fiatato, più o meno com'era successo nell'ultimo secolo con gli altri imperatori. Sarebbe stato acclamato dai suoi e riconosciuto dall'imperatore d'Oriente. Non si sarebbe oggi parlato di caduta dell'impero a quella data ma ad una successiva. La storia è nota e si può concludere con poche righe. Ai confini orientali premevano gli Ostrogoti guidati da Teoderico. L'estrema debolezza del potere in Italia aveva convinto i barbari che ancora non erano giunti al Mediterraneo (Pirenne sosteneva che questo era stato il vero polo di attrazione) a muovere guerra per giungervi. Gli Ostrogoti avevano vinto, avevano deposto Odoacre promettendogli salva la vita se avesse accettato lo stato di cose e, durante un banchetto di pacificazione l'avevano ucciso con tutti i suoi, combattenti veterani e famigliari. Il loro regno si era espanso oltre i confini dell'ex Impero d'Occidente minacciando quello d'Oriente (figura 3). Il loro re Teoderico aveva chiesto in moglie, come si usava tra barbari, la sorella di Clodoveo, Audefleda, per stabilire un'alleanza con i Franchi e garantirsi da pericoli militari a Nord. Questa pratica barbarica dei matrimoni dinastici diverrà uno degli assi portanti della politica feudale.
A grandi linee gli episodi che hanno gettato le basi del feudalesimo, non sono difficili da individuare. Tali premesse sono state portate a compimento in Italia dai Longobardi e, nel resto dell'ex Impero Romano d'Occidente, dai Franchi e dai Normanni. Se le genti che occuparono i vari territori d'Europa avevano retaggi comuni, vi fu però grande divario per quanto riguarda gli sviluppi dei territori occupati diventati regni. È basandoci su questo divario che svilupperemo fino in fondo la nostra ricerca per dare una risposta alle domande iniziali sulla natura del feudalesimo, sul perché nel Sud Italia ce fosse stato meno che al Nord e sul perché in Italia meno che in altri paesi. Di conseguenza: c'era differenza fra il feudalesimo italiano e quello ad esempio francese o tedesco? E se c'era, quali caratteri manifestava? Vedremo che tale differenza c'era ed era sostanziale. Non è possibile accomunare le invasioni barbariche fino al fatidico 476 in gran parte dell'Europa e quelle successive in Italia. Queste ultime ebbero sviluppi tali da incidere sulla nascita del capitalismo non solo in Italia e non solo dopo il Mille, data posta da molti storici come punto di svolta e sferzata produttiva per l'intero continente, ma anche successivamente. Quello che venne chiamato Rinascimento sarebbe assai difficile da spiegare se non ci fosse stata la distruzione radicale del modo di produzione antico. Eventuali successori di Odoacre e Teoderico avrebbero continuato sulla strada imboccata e avremmo avuto una specie di Impero bizantino d'Occidente. Senza sposare le tesi romantiche della storiografia tedesca dell'800, la catastrofe in cui precipitò l'Italia in seguito alla conquista longobarda fu un evento rivoluzionario che permise un taglio netto con l'antico modo di produzione. I rinascimentali non la pensavano così e procedettero a una distruzione, a volte accanita, di testimonianze "romaniche" considerate residui barbarici, ma le radici della loro grandezza affondavano nel Medioevo, non in quell'antichità da cui riprendevano l'estetica.
Sopravvivenze di forme proprietarie gentilizie
Secondo Georges Duby il feudalesimo sarebbe il risultato di una contaminazione barbarica della società romana causata dal retaggio gentilizio dei Germani (i barbari che abbiamo nominato finora, protagonisti delle invasioni, sono praticamente tutti germanici meno gli Unni). Essi erano organizzati per gentes e per famiglie allargate e avrebbero riprodotto lo schema famigliare nella società conquistata: al vertice il senior, l'anziano capofamiglia e, al di sotto, il resto della piramide ai cui componenti il capo doveva garantire saggia amministrazione, capacità di combattimento in guerra, giustizia secondo tradizione e buona distribuzione delle terre.
Secondo Aron Gurevich caratteristica fondamentale originaria del feudalesimo sarebbe l'assenza di proprietà privata, fenomeno anch'esso legato alla struttura della società gentilizia. L'esistenza, nell'Alto Medioevo, di terreni utilizzabili in modo diversificato, parte ager publicus, parte in concessione feudale derivante da investitura, parte in proprietà privata, non deve far pensare che quest'ultima forma di possesso fosse vera proprietà come la intendevano i Romani, e meno che mai come la intendiamo oggi. In realtà le forme feudali di proprietà privata si sarebbero portate dietro tracce di forme proprietarie antiche, la cui storia sarebbe rintracciabile con il confronto fra varie aree d'Europa. In quella romana l'allodio; in quella centro-settentrionale il folkland, in quella nord-orientale l'odal. Pur essendo forme contemporanee di proprietà, esse evocherebbero fasi antiche differenziate: l'odal quella più arcaica, il folkland quella di mezzo, l'allodio quella più recente, cioè più vicina alla proprietà privata integrale, sancita dalla legge e difesa dall'autorità centrale. In ogni caso le tre forme rappresenterebbero un limite, più o meno accentuato, alla formulazione del diritto romano: Ius utendi et abutendi re sua, quatenus iuris ratio patitur (Diritto di usare e abusare della propria cosa, finché lo permetta un valido motivo di legge).
Le interpretazioni di Duby e Gurevich si intrecciano: una struttura sociale a base famigliare allargata ben si accoppia con la proprietà "privata" della terra condizionata a vari livelli, mentre la sopravvivenza di una proprietà condizionata ci ricorda l'epoca in cui ciò era vitale per la sopravvivenza del gruppo umano. Nel Medioevo ovviamente non era rimasta traccia materiale della società gentilizia mentre ne era rimasta una traccia nei costumi. Osservando il quadro di queste due realtà intrecciate, non può che venire in mente l'elaborazione di Engels sui dati di Morgan a proposito della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. I rapporti parentali delle società "primitive" studiate da Morgan non avevano alcuna spiegazione razionale rispetto alla vita quotidiana che in tali società si conduceva; ma erano operanti, registrati nella tradizione, perciò non potevano che derivare da strutture antiche di cui si era persa la memoria.
Nella nostra indagine sulle differenze di sviluppo e radicamento del feudalesimo dall'Alto Medioevo alla Rivoluzione Francese e oltre ("preteso feudalesimo nell'Italia meridionale!") terremo conto anche di questa possibilità di sopravvivenza, a sostegno di quanto già detto sulla differenza fra modo di produzione reale, dominante, e ricordi rimasti appiccicati nel corso della storia ai rapporti fra uomini di classi diverse. Insomma, un principe d'oggi (ma anche del tempo di Gobetti, Gramsci o Sereni), può giusto darsi in affitto per dar tono a qualche ricevimento, come nell'ultimo film di Sorrentino. Anche gli accademici hanno incominciato a revisionare i loro concetti su di un feudalesimo che essi stessi hanno contribuito a creare. Scrive ad esempio (con cautela) Giovanni Tabacco:
"Siamo ormai sazi di un ‘mondo feudale’ generico e confuso, dove problemi economici, politici, giuridici sono tutt'insieme mescolati, per lo sforzo di riassumere nell'apparente concretezza di un discorso onnicomprensivo molteplici aspetti di tutta una società. Non vi è uno studio, non vi è un articolo, da cui non si debba espungere, in maggiore o minore misura, l'abusato termine feudale" (Tabacco, Feudo e signoria…).
Abbiamo intravisto le differenze fra la penisola italiana e il resto d'Europa, traendo il materiale di studio dai testi di vari storici specializzati sul Medioevo. Naturalmente la nostra è una chiave di lettura orientata nel senso di classe, e quindi ci hanno colpito in particolare i dati di fatto che collimano ad esempio con il testo di Marx sulla transizione feudale. È utile ricordarlo, dato che adesso ricorreremo ai testi appena citati mettendoli a confronto con quello di Marx e tenendo sullo sfondo il modello volterriano. Questo ci servirà ad analizzare qualitativamente le suddette differenze, supportando le conclusioni cui via via perverremo con i ritrovamenti archeologici, una fonte di dati quasi assente dalle opere accademiche. Vedremo anche lo schema che abbiamo tratto appositamente dai dati materiali offerti dagli scavi archeologici al fine di eliminare, per quanto possibile, il riferimento quasi automatico al Medioevo romantico inventato nell'800. Quel Medioevo non esiste, ma in larga parte non esiste neppure quello ricostruito dagli storici contemporanei. Nonostante tutto, essi ci mettono in contatto con l'immenso lavoro svolto nei secoli passati di trascrizione, traduzione e interpretazione della massa di documenti originali sopravvissuti.