Una borghesia vecchia di mille anni
Con questo numero monografico terminiamo il ciclo sulle transizioni da un modo di produzione all'altro entro il grande arco millenario che collega l'antico comunismo originario con il futuro comunismo "sviluppato". La parte iniziale prende spunto da un nostro duro atto d'accusa degli anni '50 del secolo scorso contro il Partito Comunista Italiano sulla famigerata "questione meridionale". In breve, tale partito adeguava la propria politica parlamentare, democratica e corporativa, a un semplice assunto: siccome la borghesia era caduta nel fascismo, considerato un ritorno al passato, e siccome l'arretratezza del Mezzogiorno sarebbe stata dovuta a residui feudali che il Risorgimento non era riuscito a cancellare, compito del proletariato sarebbe stato quello di raccogliere il tricolore che la borghesia aveva lasciato cadere nel fango (Togliatti) e portare a termine la rivoluzione nazionale democratica antifeudale. A questo miscuglio di fascismo, feudalesimo, democrazia e politica borghese era stata contrapposta una constatazione altrettanto semplice: "Non può pretendere di chiamarsi comunista chi non sa leggere, nel passaggio da precapitalismo a capitalismo, le caratteristiche del passaggio da capitalismo a comunismo". Questo significa che occorre essere in regola con il partito storico per far parte del futuro partito formale. Il testo di riferimento anche per quest'ultimo lavoro è Dottrina dei modi di produzione, integrato con la nostra introduzione, e con Lezioni delle controrivoluzioni del 1951. Il ciclo sulle transizioni era da noi considerato quasi un obbligo imperioso, dato che abbiamo ereditato dalla nostra corrente molto materiale semilavorato, accenni sparsi e indicazioni precise.
Il nostro primo articolo, Struttura frattale delle rivoluzioni (n. 26 del 2009), fu una premessa generale, tesa a sottolineare che il passaggio da una forma sociale all'altra comportava 1) invarianze importanti, come una presenza di sovrapposizioni di stato (convivenza di forme antitetiche); 2) un processo storico che esprime la tendenza alla stabilità strutturale mentre al suo interno maturano elementi di morfogenesi, atti a rompere la stabilità (cuspide, biforcazione, catastrofe); 3) l'auto-somiglianza, a diversi ordini di grandezza (zoom +/- su fenomeni come l'andamento di una lotta parziale o quello di una rivoluzione epocale); 4) il presentarsi di fenomeni di soglia oltre i quali si entra nel campo delle transizioni di fase.
Il secondo articolo, La prima grande rivoluzione (n. 27 del 2010), era imperniato sulla transizione di fase che va dalle prime manifestazioni della divisione sociale del lavoro ancora in ambito comunistico integrale alle persistenze comunistiche in società altamente organizzate, già urbane, centralizzate, con produzione agraria all'ammasso, nelle quali accenni di proprietà, di classi e di Stato non producono ancora il salto al modo di produzione successivo.
Il terzo articolo, Modo di produzione asiatico? Stabilità strutturale e morfogenesi nelle forme sociali di transizione (n. 28 del 2010), era dedicato all'importantissima "questione" delle società che non transitano dalle forme comunistiche originarie alle società proprietarie, classiste e statalizzate, ma si "omeostatizzano" in una forma intermedia che Marx aveva chiamato "asiatica" e che nel corso della rivoluzione/controrivoluzione era stata variamente conformata alle tesi diverse politiche sostenute.
In questo numero ci occuperemo della transizione dal feudalesimo al capitalismo, cercando di rimediare alla confusione che nasce spesso quando ci si trova di fronte ad aspetti sociali che persistono dopo la morte di un modo di produzione (vedi la sopravvivenza della nobiltà "feudale" comune a piemontesi e borbonici nel periodo risorgimentale). Stabilito che è il processo di maturazione della forza produttiva sociale a determinare il passaggio da un modo di produzione all'altro, giusta l'Introduzione di Marx a Per la critica dell'economia politica, tutte le volte che ci si trova di fronte a un cambiamento profondo della società occorre chiedersi quali classi siano in movimento, quale modo di produzione esse rappresentino, se hanno vinto o sono state sconfitte, se il modo di produzione è cambiato. Vi sono esempi di rivoluzione vittoriosa facili da analizzare, e dal punto di vista delle classi in gioco e dal punto di vista della forma sociale o modo di produzione. Con la Rivoluzione francese, ad esempio, vince la borghesia, si impone il suo modo di produzione e la restaurazione non modifica i dati fondamentali. Sul piano storico vittoria e sconfitta delle classi sono in regola con il processo materiale. Anche a livello internazionale abbiamo la vittoria netta del modo di produzione capitalistico e delle leggi utili al suo sviluppo (Codice napoleonico) mentre la sconfitta politico-militare della borghesia è ininfluente sul grande piano storico.
Da quando, nel mondo si può parlare di capitalismo? Allorché i cavalieri della Quarta crociata marciarono su Costantinopoli e la conquistarono (1204), fu evidente che si era al culmine di una pressione economica espansionistica. Secondo Fernand Braudel i rapporti capitalistici a quella data erano maturi, le grandi fiere internazionali facevano circolare merci e finalmente moneta. Produzione, mercato, finanza e trasporti europei erano controllati totalmente da mercanti e banchieri italiani. La feudalità europea fornì la macelleria cavalleresca, i capitalisti delle Repubbliche marinare, di Firenze, di Milano, di Siena, aprirono i forzieri ed ebbero accesso a nuovi sbocchi di mercato. Lujo Brentano l'ha chiamata "orgia capitalistica". Braudel l'ha considerata un'apertura internazionale al capitalismo italiano, che in tal modo conquista un silenzioso primato sull'intera Europa e sul Mediterraneo, fino a "soggiogare" (usa esattamente questo termine) tre civiltà: Bisanzio, l'Islam e l'Europa. L'intero mercato dell'Occidente viene messo sotto controllo dal capitale italiano; nei secoli successivi non c'è porto, città capitale, crocevia di carovaniere, importante fiera internazionale e locale, cantiere navale, persino credito di guerra, che non sia registrato sui voluminosi e segreti libri contabili dei capitalisti italiani (Braudel, L'Italia fuori d'Italia, Storia d'Italia Einaudi, vol. IV).
Il discorso di Braudel sottintende navi, convogli, flotte militari. Nel testo della nostra corrente Armamento e investimento, si evidenzia come la flotta sia una macchina capitalistica in tre sensi: primo, perché mezzo di produzione mosso da energia eolica; secondo, perché richiede un'industria della carpenteria, del cordame, delle tele per vela, degli strumenti, dell'alimentazione conservabile, dell'artiglieria, ecc., industria che abbisogna di organizzazione tecnica, capitale, macchine e ovviamente operai; terzo, perché nel Medioevo solo uno Stato poteva affrontare l'approntamento di flotte abbastanza potenti da conquistare per secoli l'egemonia sui mari. La flotta mercantile non è che una parte del sistema di porti, magazzini, trasporti via terra, sistema che non può più essere considerato "feudale".
Allora la rivoluzione borghese in Italia c'è stata molto tempo prima di quella nazionale, e dovrebbe collocarsi al tempo in cui è cambiato il modo di produzione dominante. Si tratta di capire se la borghesia abbia lottato, contro quale classe e rappresentata da chi. Questo però la storia non ce lo dice, anche se è scritta in base a personaggi, eventi, cronache. I nobili della feudalità italiana non erano una forza tale da mettere in difficoltà la borghesia nascente. Essa era feroce quanto loro, meglio attrezzata dal punto di vista finanziario poiché deteneva il potere economico in grado di indirizzare capitali verso un'accumulazione di stato; ma non risulta che sia stata protagonista di una rivoluzione alla francese. Ha lottato, questo è sicuro, e vinto battaglie locali, in genere esautorando i nobili dal potere pubblico e vietando loro di accedervi, ma non era intralciata al punto di insorgere compatta, cosa che tra l'altro avrebbe facilitato la formazione di uno stato nazionale. Forse il feudalesimo italiano era troppo inconsistente per richiedere misure così drastiche. In effetti neanche gli imperatori germanici di turno, a parte le ricorrenti devastazioni a carico dei Comuni coalizzati, impensierivano più di tanto la borghesia.
Secondo alcuni storici, i dati dimostrerebbero che tra il XV e il XVI secolo l'Italia si apprestava a fare il salto verso una "rivoluzione industriale" (Zangheri, Braudel). L'industria era al massimo, la rete internazionale di traffici sempre più potente, i forzieri delle banche stracolmi, Firenze era la capitale del mondo in tutti i campi. È a questo punto che storici ed economisti si chiedono cosa possa essere successo per dare inizio al disastroso declino. Di solito si chiama in causa l'apertura delle nuove rotte atlantiche, la perdita d'importanza del Mediterraneo, la caduta di Costantinopoli e l'ascesa dell'Impero turco, che avevano provocato la chiusura dei canali mercantili con l'Oriente. Ogni minimo approfondimento mostra che la spiegazione è debole. Costantinopoli era già una città in crisi al tempo della conquista crociata, viaggiatori successivi confermano l'agonia dell'antica metropoli. La via della seta aveva perso d'importanza da quando gelsi, bachi e tessiture si erano radicati in Italia. I convogli navali di Genova e Venezia seguivano rotte atlantiche verso Londra, Bruges, Paesi Bassi e Baltico. Non mancavano i navigatori: Colombo era genovese, Da Verrazzano e Vespucci fiorentini, Pigafetta vicentino, Caboto veneziano.
La borghesia "italiana" sarebbe dunque ascesa al potere senza una sua grande rivoluzione e sarebbe stata relegata in secondo piano senza una controrivoluzione. È possibile: nei tempi in cui ciò sarebbe potuto avvenire non aveva nemici alla sua altezza. In ogni caso la rivoluzione per l'unità territoriale 1860-1870 era già un compimento di quella precedente, non c'era più posto per un terzo episodio che giustificasse, con la teoria del "ritardo storico" o "dei residui feudali", i compromessi con una parte della borghesia (democratica) contro l'altra (fascista, feudale, arretrata). Morto (o forse mai nato) il feudalesimo in Italia, non avevano senso presunti ibridi capitalistici che giustificassero fronti con la borghesia:
"Messa dunque bene in chiaro la contrapposizione fra il sistema di rapporti di produzione precapitalistico feudale e quello borghese, gli stessi caratteri definiscono tutto il periodo storico che si svolge fino alla successiva chiara contrapposizione fra rapporti di produzione borghesi e società socialista: non esistono sottospecie del tipo sociale borghese o capitalista" (Lezioni delle controrivoluzioni).
Come abbiamo cercato di mostrare nelle pagine che seguono, il capitalismo e la borghesia italiani sono sulla scena, fra alti e bassi, da mille anni. È decisamente troppo, altro che ritardo. Nel frattempo la borghesia nostrana ha inventato mille modi per sfuggire alla morte, primo fra tutti il trasformismo opportunistico. Virus contagioso, colpisce il cervello. Viene usato come arma di distruzione di massa a fini controrivoluzionari. L'unico antidoto possibile è l'assimilazione di anticorpi dal futuro, dove non ci sono bandiere da raccattare.