La guerra del petrolio
A differenza dell'epoca in cui scienza e tecnologia erano elementi vitali di sviluppo del capitalismo, oggi sono ormai incompatibili con questa forma sociale. Il capitalismo continua ad averne un bisogno estremo, ma la loro applicazione si dimostra invece mortale. Era successo con l'automazione dei processi produttivi, che provocava un aumento del profitto locale, ma una caduta del saggio di profitto globale con relativa disoccupazione cronica. Ora succede con la rendita, in particolare quella petrolifera. Appena un anno fa, l'aumento del prezzo del greggio aveva reso possibile e conveniente lo sfruttamento dei giacimenti peggiori, specie quelli poco sfruttati di rocce e sabbie bituminose. L'affinamento della tecnica di fracking aveva fatto il resto: gli Stati Uniti e il Canada, sul cui territorio vi sono importanti giacimenti di questo tipo, hanno aumentato la produzione. Il successo veniva infine presentato come elemento di rilancio dell'economia mondiale ancora in crisi. Infatti la locomotiva americana stava muovendosi, e il nuovo petrolio "facile" era il lubrificante che ci voleva perché voleva dire prezzi bassi. Il presidente degli Stati Uniti si affrettava a comunicare lavoro per 3 milioni di disoccupati entro il 2020, dato che nel frattempo il Paese avrebbe raggiunto l'indipendenza energetica e addirittura esportato greggio. Qualche esperto aveva anche previsto un impensabile ribasso a 30 dollari. In confronto al tetto di 147 dollari raggiunto qualche anno fa, voleva dire appetibilissimi extraprofitti. Solo che il diavolo si nasconde nei dettagli.
Il prezzo di riferimento per il petrolio è normalmente quello del Brent, di qualità media, ma estratto offshore da costose piattaforme. I prezzi dell'Arabian light e quello del WTI (West Texas Intermediate) sono importanti soprattutto perché riferiti rispettivamente al primo produttore dell'OPEC e al primo consumatore del mondo. Vi è poi il prezzo del greggio estratto in Russia, influente a causa dell'estremo bisogno di vendere da parte di quel paese e quindi regolatore del mercato. Per stabilire che cosa succede in campo petrolifero occorre paragonare il prezzo di mercato, poniamo quello del Brent, 80 dollari mentre scriviamo, a quello medio di estrazione dei vari paesi produttori o, per meglio dire, al prezzo al di sotto del quale quei paesi andrebbero in perdita (breackeven price). Ora, al momento, il breakeven del Brent è 80 dollari, pari dunque al prezzo di riferimento, quindi i pozzi del Mare del Nord sono in bilico, non perdono e non guadagnano. Guadagnano ancora l'Arabia Saudita (breakeven di 75 dollari), il Kuwait (74), il Qatar (71), gli Emirati (78), il Canada (75). La Russia è in perdita (100 dollari), e così la Nigeria (126), l'Iran (134), il Venezuela (162). Gli Stati Uniti sono in una condizione particolare: producono ancora molto petrolio con metodi tradizionali (breakeven 75 dollari), che però stanno per essere soppiantati da quello estratto con il fracking (90). In definitiva gli Stati Uniti potranno continuare su questa strada per ben poco tempo, a meno che lo Stato non intervenga per supportare questa tecnologia per ragioni strategiche. Ma così facendo, manderebbero in rovina tutto il mondo petrolifero con un breackeven superiore a 80 dollari. Non è finita: un conto è il mercato tradizionale, con estrazione, ordini, contratti a medio termine che registrano in gran parte prezzi passati. Altro conto sono gli ordinativi e i contratti nuovi che registrano la situazione contingente. Inoltre c'è il mercato spot per acquisti immediati atti ad affrontare picchi di consumo e, ovviamente, la grande speculazione su futures e derivati.
Questo lo scenario di fine novembre 2014. L'incontro dell'OPEC a Vienna si è appena concluso con un niente di fatto, cioè i paesi produttori del cartello non abbasseranno la produzione per sostenere i prezzi. Nel frattempo il greggio di riferimento (Brent del Mare del Nord) è crollato a 77 dollari e quello del Kuwait addirittura a 54. Il West Texas Intermediate è sceso a 73 dollari e si stanno vendendo i futures per l'estrazione 2015 a 68 dollari. Ora, è vero che il petrolio buono come l'Arabian light o il libico sono ancora cari (da 120 a 150 dollari), ma non influiscono sul prezzo di riferimento. Abbiamo detto che al di sotto di questo prezzo medio fra poco dovranno chiudere alcuni pozzi: e infatti incominciano a chiudere, ad esempio nel Mare di Barents, nel Mare del Nord e in Siberia (per cui i russi stanno perdendo 170 miliardi di euro all'anno). Siccome si legge che stanno diventando produttivi nuovi pozzi la cui trivellazione è iniziata in una situazione completamente diversa, vuol dire che la loro maggiore produttività accentuerà la crisi dovuta al fattore rendita.
Fin qui tutto normale: la causa principale va cercata nel calo dei consumi che ha fatto scendere la spesa energetica, nel boom dello shale oil e delle tecniche di fraking, nella concorrenza fra paesi produttori. Ciò che non è normale è l'unanimità (quasi) dell'OPEC nel tenere alta l'estrazione nonostante i prezzi bassi. È noto infatti che i paesi produttori tendono a mantenere la produzione sul filo del rasoio, cioè ad un livello di prezzo sufficientemente alto ma che non faccia diminuire la domanda. E comunque, anche quando scende la domanda, i giacimenti servono da salvadanaio per il futuro. Oggi sta succedendo esattamente il contrario: è come se i paesi OPEC scialacquassero il petrolio guadagnandoci poco per ottenere qualcosa.
Una lettura non troppo azzardata dei fatti potrebbe essere questa: gli Stati Uniti hanno strombazzato l'autosufficienza energetica un po' sapendo di mentire, un po' perché il capitalismo i capitali li vuole subito anche se maledetti, un po' per tenere il fiato sul collo ai russi che stanno mostrando velleità imperialistiche crescenti, non solo in Ucraina ma anche nella zona caucasica. Come diceva il fisico Feynman, non possiamo ingannare la natura, e il conto termodinamico conferma: la legge della rendita ha colpito prima del previsto. Quattro dei sette bacini di shale oil sono in esaurimento (da 1,1 mln di barili al giorno a 0,8 mln), mentre gli strati del Dakota non producono come previsto (-28% da luglio). Insomma, è assai probabile che gli sbruffoni di Washington abbiano sfruttato l'ipotetica autosufficienza petrolifera sia per costringere i concorrenti a chiudere i pozzi meno redditizi e così salvaguardare il proprio breackeven, sia per costringere lo stato a considerare il petrolio argomento strategico alla stregua dell'acciaio e del cibo. I paesi dell'OPEC cercano di correre ai ripari: ci rimettono sul momento a pompare in esubero, ma è un buon investimento, perché se resisteranno qualche settimana avranno il coltello dalla parte del manico per far chiudere pozzi alla fragile concorrenza americana.
Dopo di che chiuderanno i rubinetti e il prezzo del petrolio schizzerà alle stelle. Evidentemente è guerra energetica. Con risvolti di guerra-guerra: di fronte a una prospettiva del genere il petrolio dell'Iraq potrebbe diventare decisivo. Converrà di più re-invadere l'Iraq o comprare a basso prezzo, di contrabbando, dai "terroristi" dell'IS?