Sovrappopolazione relativa e rivendicazioni sindacali

Ho appena letto il vostro Quaderno su Rivoluzione e sindacati, nel quale si affrontano le tematiche rivendicative di classe, che ci interessano direttamente, e quelle interclassiste, che ci interessano in quanto sintomatologia del malessere sociale. Tenendo presente questo argomento, vedo che nella rivista date molta importanza, in più di un articolo, alla sovrappopolazione relativa come riflesso generale dell'esercito industriale di riserva. E questo è in linea con Marx, infatti le due definizioni si sovrappongono, per così dire, in quanto la maturazione del capitalismo ha portato a una cronicizzazione della riserva industriale disoccupata. Di qui, correggetemi se sbaglio, ne traete la conseguenza che nell'epoca del capitalismo ultramaturo la sovrappopolazione relativa (rispetto ai cicli industriali boom/crisi) diventa sovrappopolazione assoluta (rispetto alla irreversibile crescita della forza produttiva sociale). Se però questo è vero, ho l'impressione che le tematiche rivendicative elencate nel Quaderno siano "vecchie", nel senso che se si è passati dall'esercito industriale di riserva alla sovrappopolazione assoluta, le lotte rivendicative dei proletari e dei mancati proletari finiscono per identificarsi. Perché "salario ai disoccupati" quando si sa che tutti i senza-lavoro, quelli che mediamente, statisticamente non l'avranno mai, devono comunque mangiare? Perché "drastica riduzione del tempo di lavoro" quando mediamente il tempo di lavoro per unità di prodotto è ormai minima rispetto anche solo a vent'anni fa? Luciano Gallino ha calcolato che in una automobile Fiat il "costo del salario" è l'8% del prezzo di vendita. Non voglio dire che non si debba chiedere una diminuzione dell'orario di lavoro, voglio dire che se anche la si ottenesse nell'ambito di una trattativa sindacale (utopia!) sarebbe del tipo "vertenza vittoriosa", cioè qualche minuto al giorno. E fosse anche di un'ora, cosa impensabile, non cambierebbe di molto la situazione del proletariato ma solo quella degli occupati. E anche la rivendicazione del salario, un tempo fondamentale proprio per le ragioni spiegate nel Quaderno [spostamento del punto significativo che separa il lavoro-necessario dal pluslavoro, ndr] finirebbe per essere discriminante in una società nella quale sono più i disoccupati di quelli che lavorano. Perciò più andiamo avanti, più le rivendicazioni di carattere generale come la casa, i beni comuni, il reddito di cittadinanza, le tariffe, l'ambiente, la decrescita si affiancano a quelle tradizionali del movimento operaio e in certi casi le assorbono sovrapponendosi. Non voglio dire, come fanno alcuni, che il proletariato non c'è più, che ormai l'umanità intera è diventata una classe universale e che ogni rivendicazione è utile alla stabilizzazione del sistema. Però è sicuro che fra poco vedremo una saldatura fra tutti coloro la cui vita è appesa a un filo precario e che non sono tutti operai di fabbrica. Mi sembra che questo aspetto nel vostro Quaderno non sia avvertito.

 

Abbiamo tardato a pubblicare questa "doppia direzione" oscillando fra l'attesa di avere spazio sufficiente, data la lunghezza (circa il doppio rispetto alla parte che pubblichiamo, e che comunque, come noterai, è integrale rispetto agli argomenti), e la tentazione di trarne un articolo. Siccome però sappiamo che i nostri lettori si precipitano sulle rubriche prima che sugli articoli, abbiamo scelto la via tradizionale. Incominciamo con una spiegazione: le nostre fonti per trattare i problemi intorno alle lotte rivendicative sono solo quattro, ma scandite da cambiamenti epocali: 1) ovviamente Marx ed Engels; 2) l'atteggiamento del PCd'I nei primi anni '20 del secolo scorso; 3) l'atteggiamento della Sinistra Comunista nel decennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale; 4) la nostra esperienza diretta fino a oggi. A proposito del Quaderno Rivoluzione e sindacati, pensiamo che sia un riassunto accettabile dei primi tre punti e da controllare per quanto riguarda il quarto. Pubblicato nel 1985 su uno schema di quasi dieci anni prima, ha quarant'anni sulle spalle e si sentono, tant'è vero che ne abbiamo in programma la ripubblicazione con alcune note e/o qualche paragrafo esplicativo, specie nella parte finale.

Negli anni '50-'60 del secolo scorso l'atteggiamento sindacale della Sinistra Comunista era quello di lavorare all'interno della CGIL in difesa di un "sindacato rosso", con la consapevole valutazione dei rapporti di forza. Questo atteggiamento era giustificato dall'alto livello di scontro fra le classi. Infatti, fino alla fine degli anni '60, avevamo gruppi sindacali comunisti in diverse fabbriche, con un seguito non indifferente fra tutti coloro che erano realmente disposti a lottare in difesa di un sindacato di classe. Su questo presupposto si tenevano assemblee con proletari di varia estrazione politica. Fino a quegli anni, era fondata la prospettiva multipla: 1) conquista violenta del sindacato esistente, 2) fondazione ex novo ed estinzione di quello vecchio, 3) situazione rivoluzionaria che impone il superamento del sindacato e l'emergere di organismi immediati di carattere politico, tipo soviet. Questa prospettiva fu ritenuta valida più a lungo del necessario, perché fin dal 1965, dopo soli tre anni dalla fine del "patto del lavoro", la CGIL, nelle sue tesi congressuali, si dichiarò responsabile di fronte al programma economico del governo. L'esperienza successiva risentì della confusione che ciò aveva comportato, e poco per volta ogni prospettiva di lavoro sindacale classico venne meno nei fatti (anche perché la CGIL praticò un'epurazione di massa fra i propri iscritti). Essendo impossibili "parole d'ordine" che avessero un significato empirico, adottammo il criterio dei soli rapporti di forza e del clima luogo per luogo. Questo criterio si dimostrò molto più efficace di quello precedente, più chiaro e più diretto. Non a caso furono quelli gli anni in cui raggiungemmo il massimo di attività sindacale, con risultati che andarono ben al di là di quanto facessero supporre i rapporti di forza. Negli anni successivi, diciamo fino alla crisi "petrolifera" del 1975, la trasformazione della CGIL fu tale che, tranne poche eccezioni, vennero a cadere tutte le premesse per un lavoro sindacale tradizionale. Il criterio dell'intervento era sempre lo stesso, ma ormai non esisteva più la base sindacale, restavano solo una serie di uffici e vertenze a tavolino punteggiate da scioperi simbolici, ecc. Fu in quel clima che nacque la prima bozza del Quaderno (soprattutto perché nel frattempo, fra di noi, nel vecchio partito, era esplosa la "questione sindacale"). La bozza fu utilizzata per un taglia/incolla su alcuni documenti interni e finì nel cassetto. Ne uscì dieci anni dopo, quando la situazione richiese l'aggiunta dei capitoli sulle lotte di carattere interclassista. Diventa di nuovo attuale oggi, quando è palese la necessità di precisare fino a che punto è maturato il capitalismo e siano maturati di conseguenza i caratteri della lotta per le condizioni immediate; tanto che siamo obbligati ad occuparci di nuovo dell'argomento, non solo scrivendone su questa "doppia direzione" ma verificando sul campo, specie fra i lavoratori dell'ultra-precariato.

Per chi come te ha vissuto quegli anni di trasformazione, tutta questa pappardella introduttiva può essere noiosa, tanto è risaputa nel nostro ambiente. Per un giovane, anche se è al corrente dei fatti, può servire da collegamento con lo scenario odierno in modo che una sua valutazione abbia salde radici. Tale scenario è descritto lucidamente nella tua esposizione, ed è certo lo stesso che fece prendere posizione a vari personaggi, da te quasi citati per nome. Noi però crediamo che ci sia ancora molto spazio per un ottimismo rivoluzionario. Se infatti si prendesse alla lettera il significato attribuito alla trasformazione avvenuta nel rapporto fra la classe operaia e il resto del mondo, non ci sarebbe più alcuno spazio per la "lotta di classe", come si diceva una volta. Se si rifiuta l'approccio classico di tipo prettamente sindacale, con tutte le valutazioni del caso, le differenze epocali e via dicendo, le alternative semplicemente non ci sono.

La realtà, secondo quello che possiamo distillare dal lavoro delle generazioni precedenti confrontandolo con il nostro, non si presenta con caratteri così netti, e può essere ancora affrontata con gli schemi interpretativi della nostra corrente anche al terzo livello della scaletta che abbiamo tratteggiato all'inizio. Basta che al posto di "CGIL" e "Sindacato rosso" scriviamo genericamente "organismi rivendicativi di tipo intermedio". Quel "genericamente" non è affatto riduttivo, anzi, essendo attinente a situazioni generalizzabili, mostra che lo scenario si è semplificato e permette di ricondurre situazioni diverse sotto un modello unico. E, dato che il "movimento reale che abolisce ecc." è stato più veloce di tutti noi, scriveremo "organismi di tipo intermedio", togliendo "rivendicativi", perché le nuove forze combattenti non rivendicano più nulla e di fatto si presentano collettivamente come alternative al capitalismo. Semplicemente non dicono ancora che cosa vogliono al suo posto, ma se lo dicessero sarebbero ascese alla potenza del partito e non possiamo per adesso pretendere tanto. Si potrà obbiettare che non sono forze sindacali ma tendenzialmente politiche. Tanto meglio, e comunque hanno dimostrato di sapersi agganciare con la classe. Per questo abbiamo dato tanta importanza a fenomeni come Occupy Wall Street. In una situazione come questa c'è spazio per fare tutta l'attività che si vuole, rimanendo nell'ortodossia marxiana. Del resto la nostra corrente ce lo dice fin dal 1921: è sbagliato fissarsi sulle forme organizzative perché la rivoluzione ne partorisce e uccide di continuo nel corso di una vera e propria selezione darwiniana. La rivoluzione non è una questione di forme ma di forze.

Rivista n. 36