Verso il collasso epocale

"Il mercato mondiale allora costituisce a sua volta, insieme, la premessa e il supporto del tutto. Le crisi rappresentano allora il sintomo generale del superamento della premessa, e la spinta all’assunzione di una nuova forma storica" (Marx, Grundrisse).

Per Marx la crisi è sovrapproduzione, quindi eccedenza; che noi leggiamo come eccedenza di merci, perché viviamo nel mondo delle merci. Ma in una società non ancora mercantile l'eccedenza viene barattata in quanto tale, non è merce. Anche nella società attuale tutto ciò che non è scambiato al suo valore non è merce. Ciò vale per l'eccedenza, e vale soprattutto per i beni durante il ciclo di produzione, nel corso del quale essi non sono merci, non hanno un valore di scambio. Tutto diventa merce nel processo complessivo, quando gli oggetti si presentano sul mercato e vengono scambiati per realizzare il loro valore sotto forma di denaro. La crisi dunque, prodotto e fattore dell'eccedenza invendibile, è la negazione in potenza del capitalismo. Ma la crisi stessa è anche una soluzione temporanea all'eccedenza: distruggendo parte dei fattori di produzione rivitalizza il ciclo produttivo. Ora, bisogna chiedersi che cosa succede se l'eccedenza diventa cronica e il ciclo economico non si rivitalizza.

Da quando è iniziata questa crisi, sul piano economico non ci sono novità di rilievo se non la durata, dato che siamo entrati nel settimo anno. Il sistema del credito continua a non trovare capitali parziali sufficienti per formarne di globali in grado di finanziare grandi investimenti; i consumi delle famiglie continuano ad essere depressi; la produzione industriale non ha ancora recuperato i livelli perduti (in Italia siamo ancora a -39% rispetto al 2007); gli stati continuano a "stampare" moneta nel tentativo di rilanciare gli investimenti; dall'inflazione pericolosamente bassa siamo passati in certi casi alla deflazione. Dal punto di vista della classe proletaria il salario medio si è decisamente abbassato; la precarietà generalizzata sfocia in forme mistificate di schiavismo; la disoccupazione è a livelli mai visti. Si è verificato ciò che spaventava gli economisti, cioè una crisi a "L", un crollo dei parametri economici e una stabilizzazione nel tempo sui livelli più bassi.

Ci sono invece novità importanti nei rapporti fra stati e nel loro assetto interno, mentre rivolte e guerre hanno sottolineato l'impatto sociale prodotto dai fatti economici. Si è accentuata, politicamente, una deterrenza imperialistica degli Stati Uniti alla quale non fa riscontro il sorgere di uguale potenza da parte di un'altra nazione. Si è dunque precisata la prevista interruzione della serie della leadership imperialistica, la famosa serie che va dalle prime Repubbliche Marinare a Venezia, dal Portogallo alla Spagna, dall'Inghilterra agli Stati Uniti. Finché il mondo era bipolare qualcuno poteva pensare che fosse l'Unione Sovietica a rappresentare una successione, data la sua vastità e la ricchezza di risorse, unite all'industrialismo pesante da accumulazione giovane. Dopo il suo collasso, molti hanno individuato nella Cina un paese abbastanza vasto e soprattutto capitalisticamente vitale, con un alto incremento della produzione, in grado di farsi avanti sulla scena mondiale. Ma in epoca imperialistica un grande capitalismo nasce vecchio: anche la Cina, che è ancora in testa come paese produttore di plusvalore industriale, sta velocemente diventando un utilizzatore di plusvalore prodotto nel mondo. Ormai da più di un decennio il paese asiatico è entrato in simbiosi con il vecchio imperialismo americano, assorbendone buona parte del debito e incamerando così un "reddito" da capitale fittizio.

Il Giappone richiederebbe un discorso a sé. Da trent'anni in crisi di sovrapproduzione, non riesce a risolvere la crisi finanziaria che ne consegue, dovuta a una esuberanza cronica di capitali. È stato il primo paese ad entrare in crisi per eccesso di produttività quando fu massimo l'asservimento di una classe operaia disposta a produrre fino all'inverosimile; e questo mentre si verificava un enorme aumento della composizione organica del capitale come risultato di cicli produttivi estremamente automatizzati con ampio uso della robotica. La fuga del capitale verso la rendita urbana provocò una bolla di proporzioni gigantesche, con la relativa cancellazione dei capitali fittizi quando la bolla esplose. Da allora il Giappone è in coma. Fu anche il primo paese a tentare l'espediente monetario estremo regalando il denaro affinché fosse utilizzato per ravvivare il sistema produttivo (il che voleva dire "creare" nuova moneta). E fu del resto il primo paese a constatare che, quando si è in crisi di sovrapproduzione, non serve a niente lo stimolo alla produzione. La verifica dello stato comatoso dell'industria venne dalla circolazione monetaria: nonostante la creazione di denaro, non si presentò l'inflazione. Ciò significava che erano congelati sia gli investimenti produttivi di ogni tipo, che i consumi delle famiglie. Il valore nominale della moneta non cambiava perché nessuno sapeva cosa farsene della moneta. Fu come se, per assurdo, di fronte a una crisi catastrofica i valori azionari non variassero unicamente perché nessuno si presenta alla compravendita, per cui al fixing non succede niente.

Oggi il mondo intero è in una situazione "giapponese". È chiaro che l'economia mondiale sta andando non solo verso una saturazione dei processi industriali ma verso una immane cancellazione di capitale fittizio. Il fenomeno si è verificato prima nei paesi a vecchio capitalismo con una specie di crisi cronica a partire dalla metà degli anni '70, quando fu chiaro che non vi era più sovrapprofitto sufficiente per pagare la rendita ai paesi esportatori di materie prime, petrolio in testa. In seguito, a partire dalla crisi finanziaria del 1997, entrarono nella spirale recessiva anche quei paesi che stavano diventando protagonisti di un tardo boom economico industrial-finanziario (le Tigri asiatiche, ma anche il Brasile, il Sudafrica, gli Emirati).

Nessuno sa a quanto ammonti il capitale investito in strumenti finanziari cosiddetti speculativi. Certo si tratta di milioni di miliardi di dollari, un gigantesco multiplo del valore aggiunto prodotto in un anno nel mondo (circa 70.000 miliardi di dollari). In una situazione del genere è difficile fare dei calcoli, perché le cifre con cui abbiamo a che fare sono drogate. Da un punto di vista teorico il PIL corrisponde al valore aggiunto o al reddito nazionale; con i dati disponibili non si riesce a distinguere l'apporto del capitale fittizio da quello del capitale da investimento, da quello, cioè, che dovrebbe fornire il credito alla cosiddetta economia reale. Ad esempio, gli Stati Uniti denunciano per il prossimo anno una crescita del 4%, che è stranamente alta rispetto alla crisi in corso e alle cifre fornite dai maggiori paesi, per cui è del tutto evidente che in questa percentuale di crescita è conteggiata indebitamente una ripartizione mondiale del plusvalore. Il sistema delle multinazionali, che fattura gran parte del valore prodotto nel mondo, permette di spostare profitti da un paese all'altro a seconda della convenienza fiscale o di altro tipo. Bisogna anche tener presente che gli Stati Uniti sono passati dal 50% del PIL mondiale nel dopoguerra al 20% attuale. Insieme con la vecchia Inghilterra, gli USA monopolizzano il mercato finanziario attirando da tutto il mondo capitali, la cui "gestione" fornisce una specie di rendita. E sappiamo che la rendita è sovrapprofitto altrui, in questo caso contabilizzato dai due paesi con il proprio "valore aggiunto". In ogni caso il calcolo complessivo del plusvalore mondiale è, se non più affidabile, meno sospetto, poiché le varie ripartizioni all'interno dell'intero sistema si compensano. La crescita mondiale si è assestata da qualche anno intorno al 4%. Questa cifra è la media fra paesi che hanno ancora la crescita a due cifre (pochi), quelli che crescono in percentuale circa il doppio della media, e quelli che non crescono affatto o addirittura decrescono. Ora, per un mondo che si sviluppa quantitativamente così poco, esiste un grosso problema di sopravvivenza. L'economia mondiale sta esaurendo le possibilità industriali molto prima che il livello di vita di masse enormi si sia neppure avvicinato ai livelli occidentali. E questo è un paradosso tremendo: se per una qualche ragione l'economia mondiale si riprendesse e procedesse la marcia di cinesi, indiani, ecc. verso consumi di tipo occidentale, non salterebbe solo l'economia ma l'intero equilibrio del pianeta. Bisogna ricordare che l'umanità sta "consumando" il pianeta a ritmi incredibili e che già da tempo i parametri dell'equilibrio entro la biosfera sono completamente saltati.

Per tornare all'economia politica, che comunque fra poco non sarà il cruccio maggiore per il capitalismo, le cifre sono drogate, e quindi la situazione reale è sicuramente peggiore di quanto appaia dalle statistiche. Da qualche decennio la composizione del PIL, in tutti i paesi, nessuno escluso, varia a favore dei servizi e a discapito dell'industria e dell'agricoltura. Nei paesi maggiori il rapporto è mediamente 70-25-5. Gli Stati Uniti sono a una proporzione 80-18-2. È difficile discernere fra plusvalore e reddito su ripartizioni del genere, e quindi il vero stato di salute dell'economia mondiale si può solo ipotizzare ponderando i dati. Si capisce che quel 4% di crescita mondiale deve tener conto del fatto che nel mondo dei servizi si può contabilizzare di tutto. Ed effettivamente il confine fra servizi e industria è labile, specie con l'avvento dell'informatica, dove l'apparecchio fisico non conta quasi nulla rispetto alla merce immateriale, per cui la fornitura di entrambi può essere classificata come si vuole.

Abbiamo visto che in Italia la produzione industriale è ancora ben al di sotto rispetto a quella del 2007. Inghilterra, Francia e Germania sono ferme a qualche anno dopo, ma in generale il mondo capitalistico che conta non ha ancora raggiunto i livelli di produzione dell'inizio della crisi. Al blocco dell'economia corrisponde in modo del tutto automatico quello che abbiamo chiamato marasma sociale; tutto si lega, compresa l'incapacità o impossibilità degli stati di funzionare in quanto tali, cioè da guardiani del Capitale. Perché ormai, come andiamo sostenendo da anni, i disastri incontrollabili che affossano l'economia sono dovuti alla perdita sempre più evidente di controllo degli stati sul fatto economico. Normalmente si crede che il "capitalismo di stato" sia un sistema in cui lo stato controlla e dirige una parte importante dell'economia, o anche, come in URSS, l'economia nel suo complesso (non era in realtà così, ma ciò è ininfluente). Il vero capitalismo di stato non è quello delle Repubbliche marinare o dei fascismi, ma quello ultramoderno in cui il capitale si è reso autonomo e comanda sullo stato. È un'inversione di tendenza rispetto a quando ci si accorse che, con l'aumentare della complessità sociale, il fatto economico non poteva più essere abbandonato all'anarchia delle scelte individuali dei capitalisti (keynesismo, fascismo). Quindi capitalismo di stato come normalità del modo di produzione attuale. Solo che non è più capitalismo. Molto prima che quest'ultimo giungesse al livello keynesiano-fascista, Marx aveva osservato che lo sviluppo del capitale di credito e soprattutto quella sua versione che è il capitale azionario, rendeva superflua la borghesia, ormai sostituita da funzionari stipendiati. E affermava: in questo modo il capitalismo ha smesso potenzialmente di esistere.

Nonostante le litanie sulla "ripresa", per i governanti è sempre più difficile dare ascolto agli economisti. L'impotenza regna sovrana. I più critici rispetto ai provvedimenti adottati per la salvaguardia del capitale (il solito terzetto che teniamo d'occhio, Krugman, Stiglitz, Roubini) incominciano a non avere più argomenti nemmeno per le critiche. Il loro keynesismo "dolce" suona quasi ridicolo di fronte all'aria di catastrofe che incombe.

Come al solito, di fatto, senza passare attraverso teorizzazioni di scuola, l'Italietta in questo campo ha surclassato tutti e, tramite l'attuale Presidente del Consiglio, ha tirato fuori dal cappello a cilindro una specie di revival keynesiano. Proprio mentre il mondo continua a prendere misure restrittive, il governo italiano prova a creare moneta a scopo espansivo, non per salvare le banche ma per stimolare i consumi. Partiti sinistri e sindacati al traino, invece di "partecipare" come hanno sempre fatto sottoscrivendo porcherie antioperaie anche peggiori, stavolta chiamano allo sciopero. Ovviamente una terza o quarta ondata keynesiana non può più avere effetto: il sistema è talmente drogato che è in overdose, e non sarà una microscopica "distribuzione del reddito" a modificare l'andamento economico. Tuttavia il programma renziano, sommerso da mille chiacchiere che hanno oscurato la sua vera natura, è chiaramente orientato, addirittura inquietante:

- 80 euro alle famiglie a basso reddito come provvedimento-tampone in vista di aumentare la "propensione marginale al consumo" aumentando i redditi più bassi;

- ridistribuzione del reddito da realizzare con provvedimenti utili alla ricostituzione di una fascia media di consumatori (e non con la leva fiscale);

- accorpamento di tutti gli ammortizzatori sociali in una legge che regolamenti un unico provvedimento sul "salario ai disoccupati";

- eliminazione delle 43 tipologie di lavoro precario introdotte dalla legge Biagi;

- eliminazione dei contratti di lavoro a scadenza fissa e loro sostituzione con la contrattazione aziendale;

- contratto di lavoro unico per tutte le categorie (è una direttiva europea recepita dal governo);

- eliminazione della legge n. 300/1970 "Statuto dei lavoratori"; la Legge 300 va considerata come ingerenza dello stato nel rapporto fra lavoratore e imprenditore, dato che come tutela c'è già il previsto contratto unico;

- superamento del consociativismo a tutti i livelli; il governo non è l'interlocutore naturale dei sindacati; se questi hanno qualcosa da rivendicare si rivolgano agli imprenditori.

Probabilmente manca qualcosa, ma non siamo riusciti a trovare un programma governativo completo di tutti i suoi punti. Questo che riassumiamo è ricavato dall'intervento conclusivo al meeting della Leopolda integrato con vari punti illustrati in articoli, ecc. Commentare i singoli punti non serve, notiamo soltanto che, complessivamente, se ciò rappresentasse davvero un programma e non solo aria fritta, saremmo di fronte a una bella contraddizione: contro questo programma scioperano sindacati come la Fiom, che hanno firmato i peggiori accordi capestro. Ciò vuol dire che sono talmente spiazzati da non essere in grado di capire quel che sta strombazzando Renzi. Nemmeno i seriosissimi riformisti che dirigevano la CGL degli anni '20 avevano nei loro programmi il salario ai disoccupati e il contratto unico per tutti i lavoratori al di là delle categorie di mestiere. La tesi sulla separazione dei ruoli delle "parti sociali" dovrebbe essere un principio del proletariato, mentre alla Leopolda è stata presentata in una versione keynesiana che piacerebbe a Landini: mercato del lavoro completamente libero e intervento dello stato a tutela del lavoratore (una specie di "capitalismo compassionevole" di marca americana). Il programma è inquietante perché rende evidenti due limiti, raggiunti i quali scatta una biforcazione: 1) un governo borghese che traccia un programma del genere, controcorrente rispetto al resto del mondo, deve proprio avere l'acqua alla gola; 2) un sindacato corporativo che lotta per rimanere tale invece di approfittare dell'occasione per spingerne al massimo la tendenza è un sindacato morto.

Non crediamo affatto che la CGIL possa essere qualcosa di diverso da quel che è. Notiamo solo che nella sua storia, nei momenti di crisi organizzativa, perdita di iscritti, ribellioni interne ecc. ha sempre cercato di sfoggiare una maschera grintosa per non perdere credibilità. Stanno emergendo fenomeni interessanti di coordinamento e auto-organizzazione che puntano più su reti di contatti che non su specifiche rivendicazioni. Sprazzi che si possono riassumere con le parole sempre attualissime di Marx: gli operai non hanno da difendere garanzie in questa società, ma lottano per le condizioni immediate nella prospettiva di farla saltare.

Probabilmente il programma renziano è semplicemente dovuto al fatto che siamo di fronte ad una follia sistemica del modo di produzione capitalistico, che si sta traducendo in un impoverimento assoluto della popolazione dei paesi più ricchi del mondo senza che vi sia un'altra ricetta salvifica. Non è una novità, ma adesso tutti stanno toccando con mano che stiamo per superare un'altra soglia, quella della fame per eccesso di ricchezza e di produzione. L'ultimo dato della Caritas conferma quello precedente dell'Istat: sono 6 milioni i poveri assoluti in Italia, con 1 milione circa di affamati. In tutti i paesi avanzati siamo a una regressione che si ripercuote in tutta la società, anche per quanto riguarda la salute e lo stato fisico della popolazione in generale. I parametri che leggiamo non sono di "crisi", ma di una situazione irrecuperabile. Arrivati a questo punto, tutto converge nel mondo verso la necessità di una soluzione drastica. Solo che nessuno sa quale possa essere, dato che oltre tutto una guerra planetaria non è pensabile entro i tempi utili a scongiurare il collasso.

Non rimane quindi che il collasso. Da questo punto di vista, e lo abbiamo visto da diverse angolazioni, la situazione per il capitalismo non è rosea perché i sintomi di sfacelo sono a uno stadio avanzato. Il venir meno del potere degli stati nel governo della società è un dato effettivo, e i borghesi se ne stanno rendendo conto, anche se non sono terrorizzati come dovrebbero perché hanno ancora in mente l'andamento ciclico dell'economia. Dal punto di vista della nostra teoria, la grande legge generale biologica dell'auxologia, cioè del decremento della crescita nel tempo, si può applicare non solo agli organismi viventi ma anche, come diciamo dagli anni '50, alla società capitalistica. Di fronte a questo grande schema fisico e biologico, per cui non esiste crescita infinita, la borghesia cala il sipario, si rende cioè cieca cercando teorie alternative che ovviamente non ha più.

Rivista n. 36