Da Yarmuk a Parigi

Andate su Google, digitate Yarmuk e cliccate su Immagini. Vedrete un reportage sulla Quarta Guerra Mondiale che a saperlo leggere è più significativo di un articolo da premio Pulitzer. L'ambiente è quello urbano moderno, con i palazzi d'abitazione che incombono sulle vie. Ma ogni edificio è crivellato dai proiettili, molti non sono checumuli di macerie, i piani sventrati penzolano appesi ai ferri contorti del cemento armato. Nonostante il pericolo di crolli, le strade brulicano di persone. Un'epica fotografia della Reuters ne mostra migliaia che fanno la coda per il pane in uno scenario da incubo. Da anni la scena si ripete: la guerra civile libanese mostrava immagini simili, come anche a Grozny, a Gaza, ad Aleppo e in tutte le città che sono state coinvolte dalla guerra civile. "Civile": è il modo di essere della guerra oggi. Anche se a Yarmuk si intrecciano rapporti che hanno radici a Washington, Mosca, Gerusalemme, Parigi o Londra, l'aspetto della guerra è quello della carneficina minimalista quotidiana: in una via si combatte, in un'altra si fa coda per l'acqua o il pane, in quella vicina c'è un mucchio di cadaveri insepolti, più in là dei bambini giocano fra le macerie sullo sfondo del fumo dovuto ai bombardamenti. Non c'è fronte segnato sul terreno come non c'è fronte che divida le fazioni in lotta. La guerra sta diventando vita normale.

Yarmuk è un paradigma. Nel n. 32 di questa rivista (2012) ci chiedemmo che cosa stesse succedendo in questo campo per profughi palestinesi, diventato una città di 160.000 abitanti oggi quasi tutti sfollati. Il campo era controllato dal FPLP - Comando Generale, filo-siriano, ma "ospitava" anche combattenti di altre tendenze oltre a cittadini siriani. Con la guerra civile in Siria si erano moltiplicati gli scontri fra palestinesi ed erano comparsi sulla scena nuovi protagonisti: gruppi che ne avevano abbastanza dei loro capi ultra-compromessi, dei reclutatori di Hamas e di infiltrati jihadisti dello Stato Islamico e del Fronte Al Nusra. L'esercito siriano aveva bombardato, senza troppo discernere, tutti i gruppi che non erano controllati da Damasco. Contemporaneamentealla ribellione verso la corrotta borghesia palestinese, cresceva anche la presenza jihadista che, come dicevamo allora, poteva far cadere gli abitanti di Yarmuk dalla padella nella brace. Dal 2012 a oggi il campo è diventatoquasi totalmente inabitabile a causa di una guerra di tutti contro tutti.

Il campo è alla periferia di Damasco, a 8 Km dal centro e vi sono rimasti solo 18.000 abitanti, i quali non potranno resistere a lungo ai consueti massacri, dato che l'alleanza fra IS e Al Nusra ha come obbiettivo la conquista totale di Yarmuk. Essendo un ambiente fortemente urbanizzato, abbandonato e in rovina, può diventare una roccaforte dalla quale attaccare la capitale non appena vi fosse un segnale di collasso del governo. Tutto dipende dalle vie di rifornimento che l'IS riuscirà a realizzare e mantenere contro l'esercito regolare. Se si arrocca nei maggiori centri abitati mantenendo il controllo delle vie di comunicazione, come sta facendo, sarà molto difficile ripristinare le condizioni precedenti. Questo è uno dei motivi per cui s'è intensificato l'intervento di Mosca il quale, a sua volta, ha obbligato Washington, Parigi, Londra, Teheran e Gerusalemme a riconsiderare il loro atteggiamento. Persino Roma e Pechino stanno intervenendo con aiuti e armi.

Si sapeva che i jihadisti si stavano infiltrando un po' dovunque, a Gaza, nei grandi campi-città palestinesi, nelle recenti tendopoli dei profughi siriani e iracheni. Erano giunti fino ai confini con Israele con azioni dimostrative, come il rapimento di soldati dell'ONU di presidio sulGolan. Era evidente che, controllato un vastissimo territorio fra Iraq e Siria, avrebbero creato un retroterra in grado di alimentare la loro avanzata militare con grandi mezzi, oltre a quelli forniti dal fondamentalismo islamico di alcuni stati. In effetti tutto sembra avvalorare la tesi secondo cui la "resistibile ascesa" dello Stato Islamico non sarebbe nient'altro che l'ultimo atto di una "distruzione programmata" degli equilibri esistenti (Iraq, Siria, Libia) da parte degli Stati Uniti per destabilizzare tutta l'area a loro favore. È vero che la passività dell'Occidente sembra un po' troppo smaccata in confronto all'attivismo dimostrato in altre occasioni. Ma tutto ciò non giustifica le fantasiose dietrologie cui troppi si dedicano. Dice ad esempio Michel Chossudovsky da noi a volte citato, economista, animatore di Global Research:

"I terroristi dello Stato Islamico sono descritti come nemici dell'America e del Mondo occidentale. Com'è ampiamente documentato, l'IS è una creazione dei servizi segreti occidentali, è sostenuto dalla CIA e dal Mossad israeliano ed è finanziato dall'Arabia Saudita e dal Qatar. Abbiamo a che fare con un piano militare diabolico in cui gli USA stanno bombardando un esercito ribelle creato da essi stessi" (G. R., febbraio 2015).

Oppure: si bombardano i civili e si risparmiano apposta i terroristi. "Obama ha le mani lorde di sangue". Non siamo mai stati d'accordo con tesi del genere, che risolvono grandi questioni geostoriche attribuendo al cattivo di turno la colpa degli eventi. È comodo ed evita la fatica di pensare, ma è moralismo puerile. Gli Stati Uniti sono il maggiore paese imperialista e fanno ciò che hanno sempre fatto gli imperialisti: guerra al nemico e, se è necessario, arruolamento del nemico del nemico. A volte succede che quest'ultimo si metta in proprio. Altre volte che lo si debba pagare fino alla fine del lavoro per cui è stato arruolato, anche se bisogna ricordargli con qualche missile di non uscire dall'ambito degli accordi. Niente di nuovo, non c'è alcun bisogno di inventare leggende. Nell'epoca delle proxi wars, le guerre per procura, succede anche di peggio. Ad esempio che un generale iraniano, alla testa di milizie fondamentaliste sciite iraniane (di un paese dunque nemico degli USA), "liberi" una importante città sunnita occupata dall'IS (sunnita) in Iraq, paese retto da un governo sciita (amico degli USA). Fin qui tutto abbastanza normale, sennonché il generale in questione era appena volato in Giordania (paese amico degli USA) per accordi sul piano militare, dato che Amman e Teheran sono gli unici due governi, fra le decine della "coalizione" anti IS, ad impegnarsi sul terreno. E nella stessa coalizione ci sono paesi che armano e finanziano l'IS mentre fingono di fargli guerra.

Le guerre per procura sono la prassinell'epoca in cui la guerra è endemica: il paese imperialista x mobilita le proprie partigianerie contro quelle arruolate dal paese nemico y, ma sul terreno reale di scontro sovente tutto si rimescola. Come, ad esempio, di fronte alla guerra civile in Yemen:con i ribelli yemeniti (sciiti) rimangono Iran, Iraq e Siria, mentre ben 13 paesi islamici, pur essendo nemici tra loro, si alleano a USA e Inghilterra a favore del governo di Sana'a (sunnita). E ci fermiamo qui, perché se andassimo ad approfondire ciò che succede in Siria o in gran parte dell'Africa, affrontando i doppi, tripli ed ennesimi giochi degli stati, non finiremmo più. Naturalmente non si può fare a meno di annotare che, mentre il caos avanza, gli Stati Uniti firmano con il nemico di Teheran l'accordo nucleare, apparentemente scaricando l'amico di Tel Aviv.

Yarmuk è dunque il paradigma non solo della guerra d'oggi ma del caos incontrollabile scatenato dalla follia di un sistema economico che produce a sua immagine e somiglianza una sovrastruttura anarchica, incapace di autogoverno. Mentre i miliziani del Califfato avanzavano, quelli dei gruppi palestinesi che fino a quel momento si erano dovuti arroccare in difesa, riconquistavano terreno dopo un accordo, sembra, tra l'OLP e Damasco, in seguito al quale l'aviazione siriana aveva smesso di bombardare i palestinesi concentrandosi sui jihadisti. Yarmuk è a un tiro di schioppo dal palazzo presidenziale, e il governo è stato costretto a rendersi contoche non è il caso di massacrare chi è costretto ad essere suo alleato. In queste guerre si è sempre pedina di qualcuno. Nella feroce battaglia di Kobane, i Kurdi erano stati lasciati soli a combattere contro l'avanzata dell'IS, mentre l'esercito turco osservava dal confine sulle colline sovrastanti; ma siccome la situazione si metteva al peggio, Ankara aveva permesso il trasferimento di gruppi armati kurdi, ultranemici, dal proprio territorio a quello siriano: sarebbe stato più pericolosoavere un avamposto jihadista sul confine.

A Yarmuk, dicevamo, si stanno incrociando le pesanti determinazioni geostoriche non solo dell'intera area mediorientale. Il governo jihadista ha mandato i bulldozer a "demolire i confini colonialisti". Virtualmente, perché sono linee tracciate un secolo fa non sul terreno ma sulla carta. Nella realtà i confini stanno svanendo da soli nella misura in cui al loro interno non vi sono più stati ma caotiche aggregazioni incapaci di funzionare. Mentre la Coalizione tenterà (forse) la "liberazione" di alcune città strategiche come Mosul e Palmira, Damasco rischia di cadere con effetti nemmeno lontanamente paragonabili a ciò che è successo finora.

Difficile immaginare che l'IS abbia forze sufficienti per prendere davvero la capitale siriana e mantenerne il controllo. Ma la situazione potenziale messa in luce dai combattimenti attuali si chiarisce ogni giorno di più: non è il jihadismo che avanza, è il resto che arretra. Damasco controlla ancora, oltre alla Capitale, una striscia che sarà un terzo dell'intero territorio nazionale. L'esercito è sempre più provato dopo quattro anni di guerra civile. In una situazione come questa i rapporti di forza sono del tutto relativi e Damasco può non essere imprendibile.

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Andate su Google, digitate Parigi/attacchi/IS e cliccate su Video. Vedrete poliziotti e militari in tenuta da combattimento. In terra sangue, bossoli borse, abiti, scarpe, quel che resta di stragi multiple. Uno stralcio Tv comunicale cifre: 132 morti e 350 feriti di cui un centinaio gravi. Una piantina mostra nove luoghi colpiti contemporaneamente: allo Stade de France sono scoppiate bombe umane in due delle entrate; due bombe hanno devastato il Fast food di fronte allo stadio e il Ristorante Le Comptoir Voltaire; al Bar Le Carillon c'è stata una sparatoria; idem al Ristorante Le Petit Cambodge e al Bar La Belle Equipe; in Rue de la Fontaine au Roi le sparatorie hanno interessato diversi locali; alla Sala concerti Bataclan c'è stata la sparatoria più grave. L'operazione è stata rivendicata da affiliati allo Stato Islamico che hanno lasciato sul terreno diversi morti, in parte dovuti alla modalità suicidio/omicidio, in parte all'azione delle forze speciali francesi. Altri jihadisti sono stati arrestati. Nei giorni successivi la guerra ha coinvolto altri paesi. Per adesso non ci sono i boulevard coperti di macerie e le case non sono crivellate di proiettili. A parte quella di Saint Denis, Parigi: sette ore di battaglia, 5000 spari. A parte quella di Molenbeek, Bruxelles. A parte le altre sei in tutto il Belgio, dopo i blitz delle forze speciali. Parigi non è Yarmuk, ma ci stiamo arrivando.

Non era pensabile che una guerra globale, con perno in Medio Oriente, cioè in una delle polveriere del mondo, rimanesse limitata alle aree dove la frizione fra le forze avverse è maggiore. Ed è inutile mettersi a disquisire sulle responsabilità di quei paesi imperialisti che hanno foraggiato il jihadismo per poi trovarselo contro o, secondo versioni più fantasiose, per poi fingere di trovarselo contro e continuare a maneggiarlo sfacciatamente. Comunque sia, molti sono convinti che la formuletta anti-imperialista di maniera sia sempre valida: vi sono paesi imperialisti che attizzano con la loro politica reazioni violente e, siccome tali paesi sono troppo forti perché si possa muovere loro una guerra, la risposta è giocoforza di carattere terroristico. Forse è il caso di ribadire per l'ennesima volta che la guerra è un'espressione della società ad un dato livello di sviluppo e che non si svolge più con enormi eserciti in trincea che si sparano a vista fronte contro fronte. E nemmeno con eserciti macchinizzati estremamente mobili che si contendono terra e mare occupando le aree conquistate con milioni di uomini e governi fantoccio.

La guerra moderna ha carattere endemico. Il suo essere "mondiale" si concretizza con il fatto che non punteggia più, interrompendoli, periodi di pace. Nel numero 11 di questa rivista (2003) avevamo cercato di dare sistemazione teorica a questa trasformazione, traendo dai fatti una tesi che era già stata enunciata dalla nostra corrente negli anni '50 del secolo scorso: una permanente polverizzazione di guerre locali ha sostituito, diventando globale, quella che un tempo si configurava come Guerra Mondiale limitata nel tempo. Questo processo è irreversibile, com'è irreversibile l'assetto economico mondiale giunto alla interconnessione planetaria della produzione e dei capitali. Abbiamo di conseguenza affermato che vi era continuità logica fra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale e che quindi il ciclo è proseguito con la cosiddetta Guerra Fredda, cioè con unaTerza Guerra Mondiale. Caduto il duplice schieramento imperialista, quella che stiamo vivendo è la Quarta e, se lo schema è corretto, come crediamo, non ci mostrerà più soluzioni di continuità. La guerra non è solo diventata un fatto permanente; non è piùcombattuta da eserciti bensì da civili armati. È insomma diventata guerra civile. Cosa che ha capito anche la Chiesa, esprimendo al suo vertice un gesuita, cioè un "soldato di Cristo". Il quale si è subito premurato di precisare che questa è una guerra Mondiale. E Civiltà cattolica, l'organo dei gesuiti, ha ribadito: la Chiesa è caritatevole ma non imbelle.

È inutile e fuorviante andare alla ricerca di chi ha incominciato suscitando la reazione di chi ha subìto e così via. In guerra le azioni militari si pianificano per la loro efficacia, non per un senso morale. E la rappresaglia è sempre stata parte integrante dello scontro. Coventry e Dresda furono rase al suolo e i morti furono decine di migliaia , le motivazioni riguardarono l'esito della guerra, non certo le ideologie che apparentemente si scontravano.

Da molti mesi prima degli attacchi parigini, una eterogenea e anche illogica coalizione bombardava incessantemente obbiettivi nel territorio controllato dallo Stato Islamico. Una settimana prima, raid aerei francesi avevano distrutto i pozzi petroliferi siriani occupati e sfruttati dai jihadisti. Droni e missili da crociera avevano battuto i presunti "covi" di personaggi ritenuti influenti. Due giorni dopo gli attacchi parigini, uno stormo di aerei francesi radeva al suolo alcuni quartieri di Raqqa, la capitale dei jihadisti, peraltro già semidistrutta. Questo ciclo militare si auto-alimenta: la presenza "terroristica" è estesa dall'Atlantico all'Oceano Indiano, e il Medio Oriente ormai è collegato all'Africa, unificando ideologicamente un immenso territorio che diventa riferimento per milioni di musulmani. Ciò rende la guerra alla consolle una non-strategia che alimenta una guerra a bassa intensità di macchine, diffusa, che rende vulnerabili le città-simbolo nemiche le quali, circondate da banlieue-Yarmuk sono già adesso candidate al collasso.

Rivista n. 38