Fare, dire, pensare, sapere
Corollari alla teoria rivoluzionaria della conoscenza

"L'arcano della forma merce consiste sem­plicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l'im­magine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come pro­prietà sociali naturali di quelle cose" (Marx, Il Capitale, Libro I, capi­tolo I).

"Tutto il merito dei progressi della civiltà venne attribuito alla mente, allo sviluppo e all'attività del cervello; gli uomini si abituarono a spiegare la loro attività con il loro pensiero invece che con i loro bisogni. Sorse così quella concezione idealistica della vita, che ha dominato le menti sin dalla fine della civiltà antica. Essa è ancora tanto dominante, che persino gli scienziati darwinisti non riescono ancora a farsi un'idea chiara delle origini dell'uomo, perché, essendo ancora sotto l'influsso dell'idealismo, non riconoscono la funzione che ha avuto il lavoro in quel processo" (Engels, Dialettica della natura).

"Riteniamo che la conoscenza umana sarà veramente tale quando l'umanità avrà portata e applicata la chiarezza in sé stessa, nel suo modo sociale di vivere… L'umanità non compirà la rivoluzione perché avrà raggiunto il vero, ma raggiungerà il vero quando sarà capace di portare a compimento la rivoluzione" (Amadeo Bordiga, Rovesciare la piramide conoscitiva).

Negli abbozzi per una teoria rivoluzionaria della conoscenza la nostra corrente affermò che i grandi problemi epistemologici delle scienze d'oggi non possono essere risolti senza che sia abbattuta la società del capitale. Nel corso dei millenni l'uomo ha prodotto conoscenze che, con gli effetti della loro applicazione, si sono autonomizzate, prima come utili interpretazioni del mondo e poi, con l'avvento della proprietà e delle classi, come supporto al potere della classe dominante (vedere anche l'articolo Informazione e potere sul numero precedente di questa rivista). Dalla prassi che scatena i processi della conoscenza, si è passati alla convenzione secondo la quale i processi compiuti sarebbero di per sé "progressivi", in grado di evolvere eternamente. Così, dallo schema della rivoluzione borghese che vede la teoria affinarsi sulla grande base di una piramide (la natura) per giungere al vertice delle potenti formalizzazioni basate sulla scoperta di leggi, con il consolidamento della ex classe rivoluzionaria tutta la conoscenza viene a poggiare sul vertice di una piramide rovesciata, come del resto succede nella società con le classi. La conoscenza classica e illuminista non vedeva nella piramide una gerarchia ma una gradinata da salire (il gran libro della natura da leggere pagina dopo pagina), mentre nella versione rovesciata, reazionaria, il vertice si trasforma in un imbuto, un "collo di bottiglia" dove l'enorme conoscenza accumulata si ingorga senza poter esprimere un suo futuro.

Il ri-rovesciamento di tale "piramide conoscitiva" è necessario affinché l'inversione micidiale sia neutralizzata e negata: il controllo umano sui fatti materiali dovrà sostituire l'attuale dominio delle idee a causa del quale la tecnologia e la scienza sono considerate dei semplici supporti strumentali alla conoscenza se non addirittura nemiche. In questa società che vanta potenti computer, automazione spinta e reti vastissime, persino eminenti scienziati non riescono a capire che siamo noi a trasporre nelle macchine parte di noi stessi e non viceversa. Siamo noi, fin da quando un essere unicellulare ha incominciato a muoversi in cerca di cibo, gli esseri informati, cibernetici, capaci di elaborare in base a leggi e teorie, mentre le macchine non sono che una copia delle nostre facoltà, una proiezione del corpo e del cervello, una protesi che questa società non sa neppure utilizzare appieno, in modo utile all'uomo. L'industria in senso lato è la vera antropologia (Marx, Manoscritti del 1844), mentre lo pseudo-umanesimo attuale, riaffermando il dualismo uomo/natura, pensiero/materia, sguazza nei residui del nostro essere animali da troppo poco tempo evoluti.

La prassi come rapporto organico tra uomo e natura

L'individuazione dei neuroni specchio (neuroni che si attivano in caso di comportamento relazionale), insieme ad altre scoperte nella sfera delle neuroscienze, ha comportato una buona verifica degli assunti materialistici sul rapporto fra cervello, lavoro e comportamento sociale nell'evoluzione dell'uomo. Questa attivazione dei neuroni "per aree", generalizzabile in via di principio a tutto il cervello, è un utile punto di partenza per portare a miglior definizione i semilavorati sulla teoria della conoscenza da noi ereditati. Così come una parte della nostra massa cerebrale è dedicata al linguaggio o alla vista, un'altra parte è dedicata a una sorta di comunicazione bi-direzionale con i nostri simili, soprattutto mentre siamo nell'atto di fare qualcosa:

"È negli atti, in quanto atti e non meri movimenti, che prende corpo la nostra esperienza dell'ambiente che ci circonda e che le cose per noi assumono immediatamente significato. Lo stesso rigido confine fra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran parte artificioso. Non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell'azione, risultando più articolata e composita di come in passato è stata pensata, ma un cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende. Si tratta di una comprensione pragmatica, pre-concettuale e pre-linguistica e tuttavia non meno importante, poiché su di essa poggiano molte delle nostre tanto celebrate capacità cognitive" (Rizzolatti e Sinigaglia).

Dunque un cervello che comprende può essere soltanto un cervello che agisce. Colleghiamo questo brano a materiale "nostro" leggendo attentamente le tre citazioni poste in apertura:

1) Marx, senza poter conoscere le neuroscienze, era giunto a un risultato analogo. Egli afferma, infatti, che la realtà creata dall'uomo è osservata dall'uomo stesso come se fosse una proprietà della natura. Ciò sarebbe esatto, dato che l'uomo è un prodotto della natura, e il suo modo di conoscere non può essere qualcosa di diverso dal modo di conoscere della natura rispetto a sé stessa. Ma l'interazione uomo-natura ha prodotto una varietà di forme che in natura non c'erano. Quindi per conoscere non è più consentito lasciar fare ai nostri sensi, basandoci sulle elaborazioni che ne trae il nostro cervello. Quest'ultimo si è evoluto in milioni di anni quando la maggior parte delle cose di cui ci siamo circondati non c'erano. La merce, ad esempio, non è un albero, una nuvola o una nevicata. In essa ci sono più cose nascoste che cose percepibili. Per capire cos'è ci vuole elaborazione ulteriore rispetto a quella che era necessaria nello stadio sociale precedente la sua comparsa. Ci vuole una teoria.

2) Engels sottolinea il processo che, dal lavoro di trasformazione della natura, l'unica fonte di evoluzione e conoscenza per l'uomo, ha portato al dominio delle idee. Il mondo capitalistico è giunto ai limiti delle sue possibilità perché, pur basandosi sullo sfruttamento del lavoro, non riconosce il valore evolutivo di quest'ultimo e si ferma al valore di mercato.

3) Bordiga precisa: potremo conoscere la natura solo comprendendo i meccanismi della conoscenza, l'influenza della struttura sociale su di essi, le modalità che ci fanno agire sulla base dei sensi e della elaborazione dei dati che questi ci forniscono. Bisognerà renderci conto che dobbiamo conoscere i meccanismi attraverso i quali possiamo conoscere. Oggi sono stati fatti passi avanti, ma nel 1960 non era affatto acquisita la nozione di "coscienza" come risultato di attività biofisiche del cervello; quindi la richiesta di capire come facciamo a conoscere per rinforzare le basi di una teoria della conoscenza era del tutto controcorrente. L'individuazione del DNA da parte di James Watson e Francis Crick risaliva al 1953, tuttavia l'argomento divenne "popolare" solo dopo l'attribuzione del Premio Nobel agli scopritori, nel 1962. Crick fa riferimento al problema nel suo libro La scienza e l'anima, un'ipotesi sulla coscienza, del 1994: "Per capire noi stessi dobbiamo capire come le cellule nervose si comportano e come interagiscono" . La cosa era dunque nell'aria da tempo.

L'umanità non può conoscere la natura (cioè sapere qualcosa di preciso su di essa) se non giunge a capire come si formano nell'uomo la conoscenza, la capacità di astrazione, la possibilità materiale di trattare i fenomeni dovuti all'evoluzione extracorporea (industria, strumentazione, memorizzazione, urbanizzazione, ecc. Alcuni, ad esempio Cavalli Sforza, adottano l'espressione "evoluzione culturale"). La storia della rivoluzione industriale è un paradigma eclatante dell'epoca che Marx definisce "preistoria umana" perché non ancora giunta al "rovesciamento della prassi", cioè alla capacità di progetto sociale, di decidere sulla propria esistenza e sul proprio futuro. In tale società ancora "naturale", esposta al caso, è l'invenzione della pila elettrica a dare il via alle successive ricerche sull'elettricità. E la produzione di motori, di lampade e di strumenti ha richiesto lo sviluppo delle teorie dei campi (Faraday, Pacinotti, Maxwell, Hertz); anche la macchina a vapore è stata concepita e costruita prima che sorgessero le teorie sulla termodinamica, sull'energia e sulla potenza (Carnot, Kelvin, Clausius, Joule, Watt). Gli esempi sul "fare poi pensare" sono innumerevoli: i Greci svilupparono mirabili teorie partendo da osservazioni pratiche; il mercantilismo medioevale e rinascimentale portò alla definitiva adozione del sistema posizionale indo-arabico, dell'algebra e degli algoritmi per risolvere i problemi di aritmetica commerciale. La necessità contabile dei banchieri lombardi, veneziani e fiorentini fu uno dei terreni di coltura della matematica e dell'economia, ecc.

Oggi abbiamo conoscenze sufficienti per fare ciò a cui ci ha predisposti la natura: progettare la nostra esistenza, superando il dominio del caos darwiniano, della legge della jungla. Manca solo un passo: abbandonare l'ultima ideologia e adottare i criteri scientifici di una conoscenza non asservita a interessi di classe.

Merce, denaro, capitale, salario non sono affatto categorie eterne, anzi, sono recentissime rispetto alla storia dell'evoluzione umana. Ma tendiamo ad eternizzarle perché le abbiamo trovate già pronte e sviluppate alla nostra nascita, e il nostro organismo percepisce il proprio ambiente con gli stessi mezzi (sensi e capacità individuale di elaborazione) di tre o quattro milioni di anni fa. Alcuni test hanno evidenziato che nel rapporto naturale fra predatore e preda quest'ultima non può mai perdere troppo tempo per pensare. Quindi in presenza di una figura potenzialmente pericolosa sviluppa una percezione rapida, elementare: quando nel suo campo visivo entra una figura asimmetrica significa che è in prossimità di un animale visto di fianco, per cui assume un atteggiamento del tipo "stiamo a vedere cosa succede". Se nel suo campo visivo entra invece una figura a simmetria assiale significa: "animale visto di fronte, possibile attacco, fuggire o difendersi". Il cercopiteco Campbell, ad esempio, ha un linguaggio di soli tre vocaboli: alto, basso, orizzontale, per significare "rapace", "serpente" e "leopardo". Gli basta, anche se il suo vocabolario elementare si arricchisce, senza perdere in semplicità, aggiungendo suoni diversi ad ognuna delle tre parole. Molte nostre azioni spontanee rispondono agli stessi criteri. Il mondo "esterno" cui abbiamo dato origine, cioè tutto ciò che abbiamo prodotto trasformando l'ambiente con un'immane accozzaglia di manufatti, non è più compatibile con l'animale che è ancora in noi, che agisce in base a istinti primordiali come quello della simmetria appena ricordata. Per la nostra specie una simile accozzaglia ha la funzione di quella pila elettrica che scatenò la corsa alle teorie sull'energia e sui campi, agisce su di noi come quella macchina a vapore che ci obbligò a scoprire le leggi della termodinamica. Non è un caso che, quasi esattamente negli stessi anni in cui si sviluppavano le teorie di una nuova scienza fisica, l'umanità sviluppava la teoria di una nuova scienza sociale pubblicando il suo Manifesto nel 1848.

Noi siamo passati un paio di milioni di anni fa da prede a predatori, ma con la nostra naturale attrezzatura da caccia avremmo potuto fare ben poco. Perciò abbiamo sviluppato un'attrezzatura artificiale usata in modo collettivo (e, sviluppando gli attrezzi, siamo diventati cacciatori più abili). Siccome il nostro cervello si è evoluto con la capacità di memorizzare ed elaborare interiormente informazione, sviluppando nel contempo un linguaggio per trasmetterla ad altri, esso ha di conseguenza elaborato il concetto di uno spazio intimo (chiamiamolo pure coscienza), un "interno" che comunica in vari modi con un "esterno". La quasi totalità delle costruzioni filosofiche e anche scientifiche si sono basate per millenni su due presupposti: 1) l'esistenza di un Io, un personaggio che osserva il mondo "là fuori" interagendo con esso e 2) il dualismo fra il corpo di questo personaggio e la sua anima, o mente, o coscienza (di qui in poi useremo esclusivamente quest'ultimo termine). Anche oggi vi sono neuro-scienziati apparentemente materialisti che cadono nel cosiddetto "errore di Cartesio" (Damasio): non tanto nella sua volgarizzazione ("penso quindi sono" rovesciato in "sono quindi penso") quanto nella impossibilità di liberarsi dell'anima, o quantomeno di un ente ordinatore interno che maneggia i dati inviati dai sensi per trasformarli in risposte, reazioni, comportamenti razionali.

L'uomo "interagisce" con la natura?

Il solipsismo, in tutte le sue manifestazioni, è molto più diffuso di quanto non si creda. La sua forma primigenia è proprio quella che schematizza il mondo sul modello di un corpo dialogante dualisticamente con la propria anima, entrambi racchiusi in uno scafandro e intenti ad "osservare" la natura esterna. Nei casi estremi questo modello giunge ad affermare che la natura esiste soltanto in quanto l'uomo ne prende coscienza osservandola. Alcune tendenze della fisica modernissima non si discostano troppo dal modello solipsistico sostenendo che la "realtà", cioè l'universo tutto intorno a noi, è semplicemente l'informazione che abbiamo su di esso. Anche quattro milioni di anni fa l'universo dell'australopiteco non era altro che l'informazione di cui egli disponeva su di esso. Con un tale approccio, tutta l'informazione accumulata in quattro milioni di anni non troverebbe alcuna spiegazione.

Attraverso l'uomo la natura conosce sé stessa, e da questo punto di vista è ancora riduttivo immaginare che si possa superare il dualismo affermando semplicemente che uomo e natura interagiscono. Il tenere separati i due termini dell'interazione non pone in rilievo l'operare sincronizzato del cervello come motore d'azione e motore di comprensione. La natura non è semplicemente uno stato cibernetico in cui cose separate interagiscono scambiandosi adeguati feedback; la natura è lo stato cibernetico per eccellenza, è tutte le cose insieme, non ha avuto bisogno di un principio ordinatore cosciente per evolvere fino all'intelligenza biologica, ha in sé proprietà di auto-organizzazione. Semmai è questa intelligenza che ha ancora bisogno di evolvere. Dapprima ha avuto bisogno di forme elementari di conoscenza, come la tassonomia, la classificazione degli oggetti, per distinguerli, riconoscerli, utilizzarli. E non è possibile alcuna tassonomia senza la discretizzazione degli oggetti o degli eventi da classificare. C'è stato bisogno di scandire anche il tempo, senza parlare della materia di cui sono fatte le cose già discretizzate. Persino l'atomo, il cui nome vuol dire indivisibile, è stato infine suddiviso in sub particelle discrete. Ma quando si è imposta la necessità di una scienza unificante, che superasse i vecchi dualismi e le suddivisioni in categorie distinte per rispondere a nuova conoscenza, si è approdati contemporaneamente ad una teoria generale del continuo (Relatività) e a una teoria generale del discreto (Quantistica), senza che ci fosse la possibilità di unificarle. Pur essendo entrambe fondate sull'esigenza di concepire l'universo come un insieme inscindibile di relazioni, sono rimaste allo stadio di teorie di transizione.

Qui occorre fermarci un momento: mentre si è giunti alla demolizione del dualismo fra materia ed energia, non si è ancora riusciti a superare il dualismo fra discreto e continuo. Questo risultato non è raggiungibile con l'accanimento a spremere come un limone la scienza attuale che ha già dato tutto ciò che poteva dare. Ecco perché una rivoluzione è indispensabile. Come abbiamo visto, le scienze sono giunte al punto in cui scatta un noto paradosso logico: esse dovrebbero comprendere fenomeni che sono alla base della nostra capacità di comprensione. Il funzionamento del cervello sociale non può essere molto diverso da quello del cervello individuale. Può un cervello fatto di atomi comprendere la natura degli atomi? O la comprende proprio grazie alla sua struttura atomica? La nostra capacità di comprensione deriva dalle configurazioni di atomi che si raggruppano in molecole e poi in cellule, organi e corpo. Riusciamo a capire le configurazioni cui i micro-componenti danno vita, ma non come mai configurazioni composte da materia identica siano in alcuni casi viventi e in altri inerti. Non riusciamo a capacitarci del fatto che abbiamo "inventato" una fisica del dualismo fra discreto e continuo che funziona mirabilmente pur essendo satura di tremendi paradossi anti-intuitivi che il nostro cervello digerisce solo con un po' di fede negli esperimenti.

Quando la scienza s'inceppava, ci ha sempre pensato una rivoluzione ad aprire i cervelli. Prendiamo la teoria darwiniana dell'evoluzione attraverso selezione naturale. Già dalla fine del neolitico l'uomo sapeva che le specie vegetali e animali sono migliorabili geneticamente, ma per millenni a nessuno era venuto il sospetto che la natura potesse fare altrettanto. Nella prassi era in vigore una conoscenza consuetudinaria che nella teoria non era contemplata. Si concepiva il tempo come ciclico e non orientato irreversibilmente, perciò gli organismi, anche se nascevano e morivano, erano considerati sempre uguali a sé stessi, com'è attestato dai testi filosofici e religiosi. Eraclito sapeva che tutto scorre, ma tale dinamica non comportava cambiamento di forme. Aristotele e Platone erano tra coloro che giungevano a stabilire una gerarchia di forme, ma non nel tempo. Queste concezioni, passate al cristianesimo, si fissarono comunque per due millenni. Eppure Lucrezio (I secolo a.C.) accenna a una eugenetica naturale, e Lucio Columella (I secolo d.C.) riporta che al suo tempo era in vigore l'incrocio in zoologia per migliorare le specie. Le cose non vanno meglio nel periodo illuminista: La Mettrie, Maupertuis, Buffon avevano preso spunto da Lucrezio sviluppando una concezione dinamica perlomeno per la nostra specie, ma ciò non ebbe effetto sulle credenze consolidate. Alla fine del Settecento Linneo concepiva ancora le specie che stava catalogando come immutabili. Bisogna arrivare ai primi dell'Ottocento per trovare qualcuno che si interroga sui fossili, peraltro conosciuti da secoli. Allora si fa improvvisamente strada l'idea che il rinvenimento di numerose specie estinte, accanto a specie ancora esistenti, possano significare una evoluzione delle specie stesse. Lamarck pubblica la sua ricerca sull'evoluzione degli organismi nel 1809. Nonostante l'imprecisione (ereditarietà dei caratteri acquisiti), per la prima volta veniva spezzato il dogma dell'immutabilità. Cinquant'anni dopo, Darwin dava alle stampe una teoria completa dell'evoluzione.

Per migliaia di anni le leggi dell'evoluzione avevano fatto parte della prassi umana e ciò non aveva avuto riflesso nella teoria. Ci volle una grande rivoluzione politica per liberare la forza produttiva sociale e insieme ad essa le menti adatte a produrre una teoria completa dell'evoluzione, il ricongiungimento di teoria e prassi.

Se le rivoluzioni liberano la capacità di scovare nuove leggi e di produrre nuove teorie, sarebbe però assurdo immaginare che le rivoluzioni abbiano potenza creatrice, possano far scaturire qualcosa dal nulla. Ogni teoria rivoluzionaria ha un retroterra che la anticipa. Arretriamo quindi un poco per prendere la rincorsa: proveremo a saltare il più lontano possibile nel futuro per rispondere a un quesito fondamentale posto dalla nostra corrente: giunti a questo punto, non sarebbe il caso di rovesciare la prassi scientifica e, invece di cercare di capire la natura, cercare di capire come fa la natura a capire attraverso di noi? Cos'è che impedisce un salto analogo a quello che ha effettuato la teoria dell'evoluzione?

Immaginiamo l'atterraggio di una sonda aliena senza equipaggio. Non succede niente, forse è guasta. Ovviamente saremmo curiosissimi di sapere da dove viene, a che cosa serve, come funziona, ma su di essa non ricaveremmo certo una gran quantità di informazione semplicemente esplorandone l'interno o anche smontandola. Occorrerebbe trasportarla in un luogo in cui dovremmo allestire un ben attrezzato laboratorio, con apparecchiature per analisi, strumenti di misura, macchine varie. E se per caso ci mancasse uno strumento ce lo procureremmo o addirittura lo inventeremmo. Conosciamo le procedure per indagare sulle strutture metalliche, abbiamo sofisticati strumenti per le analisi chimiche, sappiamo fare prove di resistenza alle sollecitazioni, possiamo captare eventuali onde elettromagnetiche, ecc. ecc. Insomma, sull'astronave marziana potremo avere una conoscenza più o meno completa solo dopo che l'avremo analizzata con i nostri strumenti.

Il nostro cervello è uno strumento assai perfezionato per indagare, ma le attuali teorie della conoscenza operano esattamente al contrario rispetto alle procedure che utilizzeremmo per l'astronave aliena. Crediamo di sapere quasi tutto sul nostro stesso pianeta e sull'umanità che lo abita perché l'abbiamo semplicemente valutato con i nostri sensi, con qualche ipotesi (quando non con pure e semplici congetture od opinioni) e poca teoria sul fatto che è come un grande organismo vivente; ma non sappiamo quasi nulla sul laboratorio e i suoi strumenti, cioè sul nostro cervello e le sue configurazioni, quelle che attivano ancestrali istinti, quelle che agiscono a livello di elaborazione e quelle che dirigono il traffico unificando o scindendo i due livelli. C'è sempre in agguato il trabocchetto logico insito nella domanda sul come fa un cervello configurato dall'evoluzione ad analizzare sé stesso tramite proprio la configurazione acquisita. Per dare una risposta, dato che il cervello sociale funziona come il cervello biologico, occorrerebbe un meta-cervello sociale, più potente e configurato, di livello superiore. È qui che entra in gioco la necessità della rivoluzione. È indubbio che questo meta-cervello sta nascendo, ed è l'intelligenza collettiva di una umanità che, come non mai, è connessa a livello planetario. Ci sono già interessanti abbozzi di una nuova teoria della conoscenza basate sullo strumento cervello. Ma questo emergere, a livello individuale e soprattutto collettivo, è frenato dalla forma sociale capitalistica. Oggi non siamo più obbligati a dare struttura scientifica alle conoscenze intorno all'elettricità o al vapore; il capitale non ha bisogno di superare il dualismo fra Relatività e Fisica dei Quanti. Sono teorie che "funzionano" e, anche se ognuna sta per conto suo, tanto basta per produrre merci. Merci che da oggetti discreti stano diventando sistemi continui, come già osservava Marx a proposito delle ferrovie e dei telegrafi, si pagano a "canone", che è una forma del prezzo sempre più coinvolgente, tanto da permeare la vita quotidiana. Il canone è per sempre, come nella pubblicità dei diamanti.

Ora, affinché la rivoluzione sbocchi nella vittoria, non è necessario che tutti i suoi militi prestino giuramento su di una sofisticata teoria della conoscenza. Tuttavia il partito della rivoluzione rappresenta già la società futura: una volta impostata la società nuova, salterà il blocco dei pregiudizi ideologici, e il cervello sociale utilizzerà quella che sarà una ben conosciuta panoplia di strumenti cerebrali per l'indagine sulle leggi della natura e sul rapporto fra noi e quest'ultima. È questo il salto nel futuro che vogliamo compiere, per quanto possibile, a partire dal materiale che abbiamo ereditato dalla nostra corrente sull'argomento. Noi abbiamo incominciato là dove quel materiale terminava, cioè dove si profilava l'esigenza di sapere come è fatto il nostro cervello e per quali vie perviene a conoscenze sempre più profonde, come infine le utilizza.

L'uomo come prodotto organizzato della natura

Tra i materiali del dossier che abbiamo raccolto per lavorare a questo articolo c'è un breve saggio intitolato I is becoming an obsolete pronoun ("Io" sta diventando un pronome obsoleto). Sappiamo che il nostro organismo non è affatto unitario come si credeva fino a poco tempo fa e che anzi, oltre che fatto di molecole e atomi, vive solo se in simbiosi con miliardi di ospiti. Noi non siamo degli individui ma dei networks biomolecolari. Uno dei casi classici in cui l'intero è più grande della somma delle sue parti

La maggior parte degli umani, captando le informazioni che escono dai laboratori e finiscono sugli organi d'informazione, s'è fatta un'immagine mentale della nostra struttura genetica: saremmo ciò che stabilisce un programma registrato in un certo ordine molecolare. Specialmente dopo che il genoma umano è stato sequenziato (risultato reso possibile dall'esistenza dei supercomputer), serpeggiava la meraviglia per il fatto che condividiamo la quasi totalità dei geni con lo scimpanzé (e vada, è pur sempre un primate) e una percentuale di poco inferiore con il topo (e questa proprio non va giù). In effetti il genoma non è il manuale delle istruzioni per montare il corpo umano e neanche il software per dargli una coscienza. Tutte le sequenze genetiche dei mammiferi sono più o meno "lunghe" uguali, uomini e topi. Il genoma, se proprio vogliamo fare delle analogie, assomiglia più a un dizionario da cui trarre parole e frasi. Diciamo che I promessi sposi e un romanzo di Liala possono usare lo stesso dizionario, ma quello che in esso cambia è l'ordine in cui sono disposte le parole e le frasi. Quando alla scala evolutiva l'uomo e il topo si formano e sviluppano, attingono allo stesso dizionario posto nello scaffale "mammiferi" per diventare esseri diversi. Questa "attivazione" è presidiata da geni specifici che, con precisione straordinaria, attivano a cascata altri geni. Il lavoro maggiore è svolto da una piccola minoranza di geni regolatori i quali, con poche istruzioni, ottengono un ordine di portata enorme rispetto al punto di partenza. Tale ordine non è, come in un dizionario, un ordine alfabetico. L'analogia è più pregnante se immaginiamo un opuscolo per turisti che contenga la traduzione di frasi ricorrenti in cui siano presenti scenari diversi: frasario per il ristorante, per la banca, per la mostra d'arte, per la stazione ferroviaria, per il negozio, ecc.

Rispetto a un ordine alfabetico, o cronologico o di altro tipo, quello in cui si dispongono i geni è del tutto arbitrario, ma è così funzionale che il meccanismo cellulare non sbaglia mai sul gene da "scegliere". Va precisato che la mancanza di errori è notevole, anche perché l'esempio che abbiamo fatto non è del tutto adeguato e va corretto: sia le parole del dizionario che le frasi dell'opuscolo sono sempre le stesse, mentre ciascun gene può essere rappresentato da una frase di senso compiuto ma sempre diversa. Per di più ogni gene è utilizzato più volte in contesti differenti, cosa che complica enormemente l'operazione, se teniamo conto del numero di relazioni interessato. Come si vede, non abbiamo un modo esaustivo per spiegare con analogie riferite al linguaggio il "funzionamento" del genoma e l'incredibile mancanza di errori in tutta la preparazione della sequenza. La spiegazione sta nel fatto che non abbiamo a che fare con un apparato meccanico, la cui precisione dipende esclusivamente dalle tolleranze di lavorazione e dal processo analogico che è servito a produrlo (variazioni continue nelle dimensioni e delle posizioni). Al contrario: in campo genetico lo stato in cui si trova il programma dipende da un assetto digitale, c'è/non c'è, 0/1, senza sfumature, quindi senza errori.

Secondo alcuni genetisti ed evoluzionisti l'analogia migliore è quella con la subroutine di un computer. Infatti il sistema operativo possiede, memorizzata da qualche parte, una raccolta di istruzioni preconfezionate cui i programmi applicativi accedono per eseguire le operazioni richieste. Questa "cassetta degli attrezzi" (toolbox) è universale, nel senso che fornisce una base unica per raggiungere lo scopo. Noi non vediamo nulla, ma ogni volta che apriamo un menu o digitiamo un comando, facciamo ricorso a una o più subroutine che ci permettono di lavorare.

Questa analogia, ricavata in sintesi dal libro di Richard Dawkins Il racconto dell'antenato, non sarebbe stata possibile se non ci fossero i computer. Dawkins è schierato sul fronte anti-spirituale, e citeremo altri schierati come lui, ma ciò non significa affatto che aderiamo alle sue tesi. Il nostro criterio è quello di ricavare più informazione possibile per trarne tesi "nostre", nel senso di coerenti con il nostro programma di ricerca. Il materiale più interessante è offerto dalle critiche reciproche, il più scadente (secondo i nostri criteri) è quello propositivo.

Noi sosteniamo però che non ci sarebbero i computer se in natura non esistesse la capacità computazionale fisiologica degli organismi viventi. Capacità che non è specifica dell'uomo, ma è tipica di tutta la materia vivente. La differenza tra questa materia e l'uomo consiste nel fatto che nell'uomo i processi intenzionali ad un certo punto dell'evoluzione subiscono un'accelerazione atipica, assente negli altri organismi. Chiamiamo processi intenzionali (finalizzati) tutti i processi che, a partire dai più elementari come la ricerca di cibo, giungono alla capacità di progettare oggetti o sistemi complessi. Tra i filosofi contemporanei c'è discussione sul significato di "intenzionale". Qui e altrove per noi il termine significa sempre "rovesciamento della prassi", quello che, in contrapposizione a "necessità", potremmo definire anche "volontà" o "libertà" se tali termini non fossero logorati dall'uso. Purtroppo la filosofia sta dilagando nel campo delle neuroscienze e il risultato è una gran confusione (oltre tutto i filosofi del campo cognitivo cambiano spesso "idea" e non li si può neanche citare senza precisare il tempo). Niente a che vedere, dunque, con il "libero arbitrio". Il nostro cervello è un organo sociale che si è formato ed evoluto in seguito a potenti fattori di comunicazione sociale:

"Persino i comportamenti abituali sono considerati frutto di libera scelta. A livello psicologico Albert Einstein sentiva di agire liberamente, anche se sul piano intellettuale era fedele all'idea di un universo meccanicistico. Quella di agire per un atto di libera volontà è una credenza così potente che deve nascere da una proprietà fondamentale dell'organizzazione cerebrale umana… Spero di spingermi oltre per collocare i dati scientifici in un più ampio contesto sociale che di sicuro interagisce con la natura fisica della nostra specie, ma che di solito non viene preso in considerazione" (Michael Gazzaniga, Il cervello sociale).

Scheggiare una pietra, produrre neuroni

Fare, dire, pensare, conoscere. Questa sequenza è l'effettivo succedersi cronologico e logico delle fasi che riassumono la nostra evoluzione in quanto uomini. Naturalmente il "pensare" copre tutte le quattro fasi, ma qui ci interessa il pensare razionale che si fa strada con il rovesciamento della prassi. Non ritorneremo su ciò che abbiamo già detto in altre occasioni a proposito del classico brano di Engels sull'interazione fra mano e cervello nel processo di ominazione che va dall'australopiteco all'uomo d'oggi. Basti ricordare che i pochi scheletri esistenti di paleantropi molto antichi, risalenti a due milioni di anni fa, presentano tutti caratteri che dimostrano un'evoluzione a partire agli arti inferiori.

Quando nel 1974 fu trovata Lucy, un australopiteco femmina vecchio di 3,2 milioni di anni, gli archeologi che per primi confrontarono le ossa delle gambe (evolute) con quelle del cranio (primitivo) pensarono a un rimescolamento di strati geologici e delle relative ossa contenute, a una confusione tra australopitechi e ominidi più evoluti. Lucy aveva infatti un cervello che, secondo le credenze precedenti alla sua scoperta, risultava troppo piccolo in confronto alle gambe, che erano invece molto simili alle nostre di oggi (Johanson, Lucy). Mentre scriviamo arrivano due conferme importanti: in Kenya sono stati trovati utensili prodotti intenzionalmente 3,3 milioni di anni fa (retrodatando di 700.000 anni la nascita dell'industria litica); e in Sudafrica è stata rinvenuta una nuova ramificazione della nostra specie, l'Homo naledi, non ancora datata con sicurezza ma risalente a forse 2 milioni di anni fa. La perplessità dei paleoantropologi odierni permane dopo ben 40 anni. Sul sito de Le Scienze (10 settembre 2015), infatti, la scoperta viene commentata in questo modo:

"Anche se complessivamente la sua anatomia lo colloca senza ambiguità all'interno del genere Homo, presenta però alcuni tratti sconcertanti. Combina infatti una corporatura e una statura di tipo umano con un piccolo cervello, di dimensioni analoghe a quelle degli australopitechi; presenta caratteristiche della spalla apparentemente molto adatte ad arrampicarsi sugli alberi, associate a una mano e un polso dotati di adattamenti simili a quelli che nella nostra specie consentono una manipolazione fine; ha l'anca da australopiteco ma piedi e arti inferiori adatti a camminare al suolo; ha già la mandibola debole e i denti piccoli [come noi], ma con una struttura ancora primitiva".

Sia Lucy che il paleantropo keniota fabbricatore di attrezzi e Homo naledi ci danno la prova inconfutabile che la statura eretta venne prima della scomparsa dei caratteri scimmieschi della testa, come il prognatismo e l'attaccatura poco angolata fra cranio e vertebre cervicali. Nel caso dell'Homo keniota, che conosciamo solo attraverso i suoi utensili, è evidente che le mani erano più evolute del cranio, segno che la loro capacità meccanica era già notevole pur essendo quelle di un australopiteco. La capacità di usare sassi taglienti o altri oggetti, trovati in natura e scelti per le loro proprietà, è dunque ancora più antica, risale a prima che la connessione tra mano e cervello producesse un rovesciamento della prassi, cioè la facoltà di ottenere oggetti voluti e quindi codificati sia nella loro struttura che nel processo di fabbricazione. Rovesciamento, cioè consapevolezza, applicazione di volontà per ottenere un fine. E tale processo evolutivo non poteva avvenire senza che nell'interazione mano-cervello si sviluppasse non solo il primo linguaggio ma anche l'area specifica del cervello dedicata ad esso. Se applichiamo gli stessi criteri alla società di oggi, vediamo che dal punto di vista dello sviluppo collettivo, sociale, i piedi sono evoluti, ma il cambiamento non ha ancora interessato il cervello. Ci siamo autodefoniti Homo Sapiens sapiens, ma senza il rovesciamento della prassi la nostra condizione di specie non potrà fregiarsi di un terzo " sapiens".

"Non è l'uomo che produce la natura ma è la natura che produce l'uomo". Una frase all'apparenza un po' banale, piena di buon senso comune, dal significato esatto. Ma non fa parte del bagaglio teorico della borghesia come classe dominante. Nel contesto filosofico, politico, scientifico, artistico, l'uomo è ancora al di sopra della natura, il suo atteggiamento di fronte ad essa è quello di dominarla e sfruttarla. Nella saggistica prodotta dall'uomo, la natura può essere radiosamente utile e collaborativa, oppure avversa e catastrofica. Che sia in un modo o nell'altro, con l'uomo fautore del progresso o all'opposto schiavo del progresso, questa meraviglia del creato è sempre posta al centro dell'Universo, come un essere a sé.

Ma la visione antropocentrica, oltre che inaccettabile è estremamente fastidiosa. L'uomo non è un dio creatore senza progenitori. Egli è un prodotto dell'auto-organizzazione della materia; e la sua struttura atomica, cellulare, organica, non è un qualcosa di distinto rispetto al resto della natura. La sua stessa capacità di comprendere e apprendere non può basarsi su leggi diverse da quelle che regolano il resto dell'universo. Marx osserva che, liberando l'essenza dell'uomo dalle incrostazioni ideologiche, quel che rimane è l'attività dell'uomo in un rapporto organico con la natura. La quale, essendo la "prima sorgente di tutti gli strumenti ed oggetti di lavoro", si pone nei confronti di quella sua parte che è l'uomo come l'entità unica da cui provengono le materie da trasformare. Abbiamo dunque una materia che trasforma sé stessa; che nella trasformazione produce un fenomeno che chiamiamo umanità; che adopera quest'ultima per trasformare ulteriormente sé stessa:

"L'esistenza dell'abito, della tela, di ogni elemento della ricchezza materiale non presente in natura, ha sempre richiesto la mediazione di una speciale attività, produttiva conformemente ad uno scopo, che assimilasse particolari sostanze naturali a particolari bisogni umani. In quanto creatore di valori d'uso, in quanto lavoro utile, il lavoro è dunque per l'uomo una condizione di esistenza a prescindere da ogni forma sociale; una necessità naturale eterna per mediare il ricambio organico fra uomo e natura e perciò la stessa vita umana. I valori d'uso abito, tela ecc., insomma i corpi delle merci, sono combinazioni di due elementi: materia fornita dalla natura e lavoro" ( Il Capitale, Libro I cap. I).

L'attività umana è storia, ed entrambe non possono essere scisse dalla natura. Ma, curiosamente, prassi umana, storia e natura sono separate nella coscienza teoretica dell'ideologia dominante. Secondo la quale la storia non è il risultato dell'attività umana, non è il risultato della produzione. Anche nel caso in cui si presti attenzione alle determinazioni geografiche ed economiche, come nelle correnti di scuola francese, la tendenza di fondo rimane quella della cronologia di eventi con attori di rango differenziato ma sempre protagonisti di scelte in quanto fattori di storia più che prodotti. Comunque ben lontani dalla vita materiale che produce acciaio, cibo, macchine, vestiti, strutture urbane, ecc. Tutte le proposizioni su natura, uomo, storia, prassi, avanzate dalle "correnti del pensiero" filosofico, teologico, scientifico, epistemologico, ecc. finiscono per essere senza fondamento, proprio perché non tengono conto che l'unica possibilità per l'uomo di essere uomo consiste nel trasformare materia esistente attraverso il lavoro. Non quello santificato da borghesi, politicanti e sindacalisti ma quello che si misura in "forza per lo spostamento nel tempo", vale a dire energia.

"Finora tutta la concezio­ne della storia ha puramente e semplicemente ignorato la base reale della storia, oppure l'ha considerata come un semplice fatto marginale, privo di qualsiasi le­game con il corso storico. Per questa ragione si è sempre costretti a scrivere la storia secondo un metro che ne sta al di fuori; la produzione reale della vita ap­pare come qualcosa di preistorico, mentre ciò che è storico, inteso come qualche cosa che è separato dalla vita comune, appare come extramondano. Il rap­porto dell'uomo con la natura è quindi escluso dalla storia, e con ciò è creato l'an­tagonismo tra natura e storia" (Marx, Engels, L'ideologia tedesca, cap. 1).

Fare e comunicare è conoscere

Neanche la scienza "pura" è esente da questa contaminazione ideologica. Da una parte lo scienziato lavora in ambiente asettico, come se la scienza fosse al di fuori della società; dall'altra egli introduce, nei dati dai quali scoprire leggi, strutture o dinamiche, elementi esclusivi di questa società, com'è dimostrato nelle tre riunioni della nostra corrente sulla teoria della conoscenza (1960, vedi n+1 numero 15-16), dove si citano parole del linguaggio economico che si intrufolano nelle descrizioni di stati fisici. Le scienze, pure o no, sono veicolo della prassi capitalistica tanto quanto la scuola o la propaganda della classe dominante. Di fatto si esprimono attraverso un linguaggio inerente allo scambio, alla produzione dell'industria, insomma attraverso l'attività pratica degli uomini in una determinata epoca. La rete dell'attività capitalistica è talmente integrata che se in un esperimento mentale venisse cancellato uno solo dei suoi nodi importanti verrebbe a mancare l'intera civiltà, l'intera umanità evolutasi fin qui. La percezione degli individui non si basa sui libri di filosofia borghesi ma sulla prassi quotidiana. Il loro istinto di conservazione non può permettere che spariscano ad esempio le banche, sia pure nell'esperimento mentale: sparirebbe il mondo. Ci vuole un bel salto in un'altra dimensione per immaginare possibile la scomparsa di un universo con il quale abbiamo un rapporto materiale prima che ideale.

Se venisse a mancare anche solo una parte del vocabolario borghese sarebbe certo uno sconquasso, dato che l'archeologo non potrebbe chiamare "stato" l'organismo ordinatore antico-egizio o trattare la "contabilità" di Ebla come quella di una banca; e ognuno di noi non avrebbe modo di usare a piene mani aggettivi e pronomi possessivi.

Il "fare" – abbiamo visto – viene prima del "pensare" e ovviamente prima anche del "conoscere". Non si tratta di una scaletta scaturita da qualche teoria sociologica: l'ordine è dato dalla nostra evoluzione, anzi, dalla co-evoluzione della mano e del cervello, della capacità di costruire schemi astratti e della conseguente capacità di sondare la natura per mezzo della natura, onde trarne strutture, modelli, leggi.

Se insistiamo tanto su questi aspetti della conoscenza è perché quest'ultima non cade dal cielo, e il suo processo di formazione fino a oggi porta ad una fase di stallo che occorre analizzare affinché sia possibile prevedere che cosa potrà avvenire dopo. Dopo che sarà compiuto il ciclo in corso e la rivoluzione sfocerà in una società completamente nuova. Oggi sono sul tappeto tutti gli ingredienti per dare una risposta al quesito sul "dopo". La forza produttiva sociale è giunta al massimo e addirittura tende ad essere frenata da questo modo di produzione; con la diffusione dell'informatica il macchinismo ha raggiunto livelli che non si potevano nemmeno immaginare fino a pochi decenni fa; miliardi di sensori stanno inviando informazione continua a centri di raccolta ed elaborazione dati; si dibatte, come vedremo, sulla natura dell'intelligenza artificiale. Per una società come quella capitalistica è troppo. La sua anarchia intrinseca impedisce un consapevole controllo della situazione, e l'intero sistema è alla deriva. Nemmeno il general intellect, così come sta prepotentemente emergendo negli angusti limiti di questa società, riesce a fornire informazioni utili intorno al funzionamento del cervello, biologico o artificiale. Certamente esso è infettato all'estremo. Ma, nonostante tutto, si delineano tentativi di risposta sociale basata su schemi completamente inediti nella forma e nella sostanza. Come Occupy Wall Street: da una parte s'è creata una poltiglia sociale interclassista, ma dall'altra, tutte le volte che si apre uno scontro o anche solo un attrito, non c'è più dialogo fra classi, è morto il "tavolo delle trattative". Finalmente.

Dicevamo che ci sono tutti gli ingredienti per trascendere nel nuovo, e va bene; ma sono sparsi alla rinfusa nelle pieghe della società, occorre individuarli, ordinarli e trattarli secondo criteri che la rivoluzione in corso ha già reso disponibili. Marx chiamava "ricambio organico" il rapporto fra uomo e natura: nel senso che l'uomo, per le sue attività, non può far altro che prelevare materia prima dalla natura e trasformarla con il lavoro. Questo vale per ogni epoca, ma con l'immane crescita della forza produttiva sociale si va ad intaccare la possibilità stessa di prelevare e trasformare. Per dirla alla Marx, se fino ad un certo punto la prassi umana nei confronti della natura consisteva in una reciprocità, essendo ancora l'uomo preminentemente natura, ora l'uomo diventava predatore rispetto alla natura (quindi addirittura rispetto a sé stesso). Non è affatto un giudizio morale: abbiamo visto un modello sistemico di estinzione sociale basato sulla dinamica predatori-prede, del matematico Volterra (cfr. questa rivista n. 35). Dunque se un tempo era la prassi ad impedire l'estraneità dell'uomo rispetto alla natura e viceversa, molto prima dell'affermarsi globale del capitalismo il rapporto era già invertito: era la prassi predatrice che produceva l'estraneità. Nell'epoca in cui si fabbricavano strumenti con la pietra, con l'osso o fibre vegetali, i limiti imposti dalla natura con i suoi equilibri non potevano essere sorpassati: oggi la società umana non può neppure immaginare di esistere senza superare ogni giorno i limiti imposti dalla natura. Il sistema automatico di macchine si autoreplica (produzione di macchine per mezzo di macchine), e per definizione non conosce limiti teorici che possano impedire la crescita della produzione industriale. Tuttavia l'insieme del pianeta questi limiti li ha: un combustibile fossile ha bisogno di milioni di anni per formarsi, tutti i vegetali e gli animali di cui ci nutriamo possono essere coltivati e allevati con un ciclo vitale poco alterabile, legname e materie prime da coltivazione idem. Sappiamo che in otto mesi consumiamo le risorse che il pianeta riesce a rigenerare in un anno.

Fare strumentazione complessa

Per parlare di natura Marx non aveva bisogno di ricorrere, come fanno tutti adesso, alla stucchevole finzione "bio" e a tutti i prodotti della sottocultura propagandistica di sostegno a nuove sfere merceologiche (compresa l'impronta ecologica, che teoricamente è una cosa seria). Per Marx la modifica dell'ambiente da parte dell'uomo è coerente con la natura per la semplice ragione che l'uomo-industria è effettivamente natura. Il "consumo" del Pianeta era evidente anche ai suoi tempi, e dato che non esiste crescita infinita in un mondo finito, egli basava la propria critica sulle leggi inesorabili piuttosto che sulla critica moralistica del "Pianeta sfruttato", della "nostra casa nello Spazio" depredata da biechi affaristi, della necessità di "fare la rivoluzione". L'uomo, producendo, "non può fare altro che operare come la natura stessa, cioè può unicamente modificare le forme dei materia­li " .

Opera secondo natura anche quando produce, poniamo, milioni di automobili all'anno? La capitalista General Motors è dunque paragonabile al comunista australopiteco in grado sì e no di produrre qualche centinaio di chopper in tutta la sua vita?

Eppure Marx dice esattamente "a prescindere da ogni forma sociale". L'evoluta trasformazione della materia tramite il lavoro, la produzione organizzata, non è altro che un'estensione del tagliare legna o estrarre minerali dalle miniere. L'attività umana libera "potenze latenti della natura", e la materia, "afferrata dal lavoro vivo", è strappata al regno dei morti ed elevata a valore d'uso. La potenzialità è elevata ad effettualità (Wirklichkeit, realtà che produce effetti). Il valore d'uso dipende dall'adeguatezza di un prodotto del lavoro a soddisfare bisogni umani. Questo compito è raggiunto sia quando tale prodotto entra nel processo primario di sussistenza (cibo, vestiario, casa), sia quando entra nel ciclo di trasformazione della materia come strumento atto a potenziare l'attività produttiva umana. In ogni caso e in ogni epoca, il processo produttivo ha intrinseche capacità automatiche di amplificazione: la trasformazione della materia tramite lavoro provoca un cambiamento sia nell'insieme dei valori d'uso per la sussistenza, sia, soprattutto, nell'insieme dell'attrezzatura atta ad ottenerli. Come nel caso dell'interazione fra mano e cervello, l'interazione fra valori d'uso e attività umana produce un affinamento di entrambi, tanto che è impossibile dire se è l'uno che fa progredire l'altra o viceversa. Di sicuro un valore d'uso che affina o amplifica un bisogno per poi modificarsi in seguito all'invenzione di nuovi strumenti che producono nuovi valori d'uso mostra un ciclo continuo di condizioni che sono alternativamente fattore e prodotto. Il cestello che serve a contenere frutti ma non liquidi diventa vaso di ceramica che può contenere entrambi; e a sua volta la ceramica dà un impulso a tutte le altre attività sociali, ad esempio un'industria fittile sviluppata, che ha bisogno di grandi fornaci, nelle quali si raggiunge la temperatura necessaria per fondere i metalli e così via:

"Dopo le Crociate, l'industria si era enormemente sviluppata e aveva portato alla luce una quantità di nuovi mezzi meccanici, chimici e fisici. Essi fornirono non solo un vastissimo materiale di osservazione, ma offrirono anche, di per se stessi, mezzi di esperienza che erano ben altra cosa rispetto a quelli che c'erano stati fino ad allora, e permisero la costruzione di nuovi strumenti. Le scoperte geografiche fatte esclusivamente ubbidendo al profitto e quindi alla produzione, misero a disposizione un infinito materiale fino ad allora inaccessibile nei campi meteorologico, zoologico, botanico e fisiologico" (Engels, Dialettica della natura).

Speciale prassi dell'uomo-industria e "ricambio organico"

Speciale, in quanto unica rispetto a quella di tutte le altre specie animali. "Ricambio organico", fenomeno già identificato da Marx in tutto il sistema di retroazioni e che si può sintetizzare nell'assunto: la storia della nostra specie è un processo di "umanizzazione della natura e di naturalizzazione dell'uomo".

Siccome la materia fornita dalla natura risponde a leggi specifiche, ad ogni stadio dell'evoluzione tecnico-sociale scaturisce il bisogno di conoscere queste leggi: sia per facilitare i processi naturali, sia, al contrario, per impedirli se sono dannosi o tenerli sotto controllo se, così facendo, si intravede la possibilità di ottenere nuovi risultati. C'è un momento in cui il lavoro che umanizza la natura e la natura che naturalizza l'uomo non coincidono più? Per Marx questa condizione non si verifica mai: in primo luogo, perché la vera natura dell'uomo è l'industria (in senso lato); in secondo luogo perché l'uomo diventa il depositario delle conoscenze che permettono un ricambio organico sempre più perfezionato tra sé e la natura. Ovviamente c'è di mezzo la forma sociale, il modo di produzione. L'uomo oggi si autoproclama potenza in grado di dominare la natura, arbitro fra l'intelligenza e la materialità, depositario del pensiero, della conoscenza e della coscienza. Dimenticando di essere parte della natura, esalta il suo essere industria ma mortifica (da morte) il suo essere uomo. Non si accorge che più si accanisce a "sottomettere" la natura più sottomette alla natura sé stesso, diventando a un certo punto dis-umano: proprio come il filosofo tedesco, fustigato da Marx, che cerca la libertà non nella collettiva "fine della preistoria umana" ma nella fuga dell'individuo. La libertà del cinghiale.

Siamo dunque di fronte 1) a un ricambio organico, una invarianza di fondo che vede la trasformazione della natura da parte dell'uomo in tutte le epoche e 2) a una freccia nel tempo, che vede un percorso a variazione univoca e irreversibile: dalla "libertà del cinghiale" alla libertà come capacità di conoscenza della natura (compreso l'uomo che conosce sé stesso e la propria società), alla capacità di progetto sociale. Se in Marx la prassi è presa in esame soprattutto per essere rovesciata, dalla spontaneità bestiale della jungla alla esistenza armonica e razionale entro un progetto umano, vale a dire un progetto secondo la vera natura dell'uomo-industria, allora è indispensabile una conoscenza sulle modalità del conoscere, e un discorso sulla meta-conoscenza diventa inevitabile. In quanto potenza della natura fra le altre (capacità vitali, armonie, simmetrie, catastrofi) siamo un pericolo per la nostra stessa specie oltre che per il Pianeta. Secondo alcuni, scienza e tecnica sarebbero diventate un elemento mediatore di qualsiasi attività umana troppo potente, perciò intrinsecamente pericolose. Non siamo d'accordo. Il pericolo sta nel modo di produzione. Ma per rendersene conto occorre prima di tutto sapere che esistono più modi di produzione, diversi tra loro; noi, nascendo, siamo piombati in quello capitalistico.

Secondo un materialismo spicciolo è il modo di produzione che si riflette sul nostro influenzabile cervello. Non è semplicemente così: è il cervello che elabora schemi in base a ciò che ha registrato durante l'evoluzione adattandoli alla realtà "là fuori", che troviamo ogni volta già pronta alla nostra nascita e che perciò tendiamo a considerare natura. Da questo punto di vista il cervello umano non è per nulla "influenzabile", anzi: tende a blindarsi per autoconservare sé stesso e il proprio contenitore, cioè il nostro corpo. Chiaramente, quando si parla di co-evoluzione di elementi della natura diventa impossibile stabilire priorità rispetto a chi influenza cosa, ma è certo che mettendoci nei panni di un uomo di Neanderthal saremmo assai preoccupati di convivere con un nostro simile più evoluto, l'uomo di Cro-Magnon, in grado di avere ben altro impatto sull'ambiente. Eppure il cervello neandertaliano era più voluminoso di quello del suo antagonista. Era adatto ad affrontare situazioni che richiedevano più elaborazione? Oppure era l'istintualità maggiore a richiedere più massa cerebrale? Non si sa, ma il Neanderthal si estinse, mentre il Cro-Magnon… siamo noi. Mettersi nei panni del meno evoluto non è una buona operazione scientifica, è solo un artifizio retorico per mostrare che il neanderthaliano poteva avere serie preoccupazioni (istintive o razionali, non importa) nel constatare che il suo antagonista si poneva in un diverso rapporto con la natura. Se avesse sviluppato una filosofia avrebbe di certo speculato sui danni della tecnologia e sulla devastazione dell'ambiente, danni che giungevano a deturpare la sacralità naturale delle grotte "sporcandole" con simulacri dipinti.

L'operazione "mettersi nei panni di…" nel nostro caso riesce meglio se proviamo con l'uomo della società futura. Ma come? Se il nostro essere in una data forma sociale "si blinda nell'autoconservazione di ciò che percepisce come naturale" sarà difficile mettersi nei panni dell'anti-forma. A meno che non esista qualcosa che spezzi l'istinto di conservazione immediato, arcaico, a favore della conservazione della specie. Il processo evolutivo rivoluzionario, con i suoi catastrofici punti di rottura, fornisce la risposta: l'uomo è uno degli "strumenti" della rivoluzione, non è l'individuo che sceglie la rivoluzione ma la rivoluzione che sceglie l'individuo. Questo è l'unico modo per essere in regola con Marx e con Darwin. Ed è anche l'unico modo per seppellire un secolo di mistificazione fatta di lessico inadeguato, di eroi e condottieri dotati di coscienza di classe, di democrazia sostanziale e di comunismo caricaturale.

Merce come feticcio

Ci stiamo avvicinando ai processi di autonomizzazione di molti dei caratteri capitalistici, fenomeno fondamentale per capire l'essenza del capitalismo a questo grado di sviluppo. Il massimo processo di autonomizzazione, individuato da Marx, è ovviamente quello del Capitale. Alle origini, in forma monetaria, esso era saldamente legato al suo possessore, ma già nel Medioevo si smaterializzava in documenti di credito/debito, poniamo a Venezia per rimaterializzarsi altrove, poniamo a Lubecca (e viceversa). Con l'espansione del credito grandi capitali anonimi si formarono rastrellando piccoli capitali individuali, mentre l'estensione del sistema azionario permise a funzionari stipendiati di sostituire i capitalisti che diventarono "tagliatori di cedole". È in questo stadio che il capitalismo, secondo Marx, "cessa potenzialmente di esistere". L'affermazione è potente: da quando il capitalismo esiste, dalle repubbliche marinare ai fascismi, lo Stato ha sempre sottomesso il Capitale controllando il fatto economico; ma nella fase attuale, estromessi i capitalisti dalla proprietà diretta dei capitali, il Capitale totale, anonimo ha sottomesso lo Stato raggiungendo il massimo di autonomia.

Capitale vuol dire merce, e questa è in grado di riassumere in sé l'intero rapporto sociale. Con il suo completo bagaglio di contenuti che si erge di fronte al restante mondo economico, si autonomizza nella società. All'interno della quale tutto è diventato merce, perciò questa "categoria" è un buon portale per fare ingresso nel mondo della conoscenza attuale. La merce, abbiamo visto, è prima di tutto un oggetto, un servizio o una procedura in grado di soddisfare un bisogno. In un'altra forma sociale la stessa "cosa" poteva soddisfare un bisogno senza tuttavia essere merce. Dunque un oggetto è o non è merce a seconda dei parametri adottati per analizzarne i caratteri. La merce ha un mercato che dipende da molti fattori, ma qui ne prenderemo in esame solo due: il valore d'uso e il prezzo di produzione. Il valore d'uso è soggettivo, anche se in ogni epoca può diffondersi e diventare collettivo assumendo caratteri di massa, come ad esempio alcuni tipi di garum (una salsa di pesce dei Romani) o di certi tulipani olandesi del secolo XVII oggetto di incetta e pagati cifre esorbitanti. Il prezzo di produzione è uguale al prezzo di costo che ogni merce esibisce all'uscita di ogni singola fabbrica rapportato ad uno standard medio, cioè ad un prezzo medio globale dovuto a diversi fattori, come la concorrenza, la macchinizzazione del processo produttivo, l'organizzazione scientifica o meno del lavoro, fattori che spingono ad una uniformità dei processi e, nello stesso tempo, ad una corsa per abbassare il prezzo di costo.

Non è escluso un "effetto moda", che ovviamente può essere slegato dalle qualità atte a soddisfare bisogni concreti (in questo caso è un bisogno mentale, non escluso da Marx). È chiaro che, nella misura in cui gli standard si diffondono, viene messo in ombra quello che dovrebbe essere il fine della produzione, cioè il valore d'uso, la soddisfazione di un bisogno, a favore di una produzione per la produzione, cioè del passaggio da una certa quantità di capitale a una quantità superiore. Quando questo passaggio si completa e i suoi effetti si sommano alla stabilizzazione di un sistema basato sulla produzione sempre più socializzata cui corrisponde il massimo di appropriazione privata, si produce uno sconquasso sociale irreparabile, irreversibile, catastrofico. Il rapporto organico fra natura e uomo si spezza con il crescere dell'indifferenza verso la fonte di ogni trasformazione tramite lavoro. Niente è più subordinato alla finalità del valore d'uso, tutto è finalizzato al valore di scambio il quale, per definizione, è ormai indipendente dal ricambio uomo-natura. Questa condizione della nostra specie è unica, dato che unica è la nostra capacità di alienarci la natura.

Il nostro elementare specchietto sulla genesi dell'apparente indipendenza dell'uomo dalla natura ci mostra i limiti assoluti della società capitalistica: annichilito il fine utile a soddisfare bisogni umani, reso indipendente e dominante il bisogno dis-umano dell'assurdo trasformare capitale in più capitale, tutto è ricondotto al carattere particolare della merce, che cristallizza in sé troppe astrazioni per essere un oggetto neutro. E infatti neutro non è affatto. Il prodotto-merce separato dalla natura diventa come l'amigdala di selce scheggiata: che non serve tanto a cacciare antilopi o spaccare frutti, quanto, soprattutto, come connettore fra mano e cervello, fulcro attorno al quale gravitano i feedback reciproci che portano allo sviluppo anche del linguaggio. La merce, con il suo contenuto di fantasmi sociali, plasma il cervello facendogli credere di vivere in una eternità capitalistica. L'omologazione all'ideologia borghese più che il frutto di un insegnamento subdolo orchestrato dalla borghesia è una condizione materiale di co-evoluzione fra cervello e ambiente. Per questo motivo non è pensabile che lo scenario nel quale vi sono attori intenti a vivere il dominio delle cose sull'uomo, della merce piena di fantasmi sul suo produttore o consumatore, possa trasformarsi quietamente in altro senza l'intervento di una catastrofe rivoluzionaria. Tutte le volte che il nostro cervello si è evoluto saltando da una fase evolutiva all'altra, ha dovuto spezzare violentemente l'equilibrio esistente accoppiando il cambiamento sociale e quello biologico.

Il cambio della guardia fra l'uomo di Neanderthal e quello di Cro-Magnon fu tanto drammatico da provocare l'estinzione del primo a favore del secondo. La rivoluzione neolitica produsse modificazioni metaboliche in seguito a una dieta a base di carboidrati piuttosto che di carne; in un primo tempo ne soffrì la salute ma, con lo sviluppo dell'agricoltura e dell'organizzazione urbana, ne guadagnò il cervello sociale e probabilmente anche quello individuale. La rivoluzione industriale provocò un aumento considerevole delle malattie da malnutrizione causate dal consumo quasi esclusivo di cereali e patate, per di più molto spesso in quantità insufficiente, tanto che dopo diverse generazioni le differenze di classe si presentavano anche come differenze di capacità intellettive. Oggi lo stesso fenomeno si sta ancora producendo con la fame indotta dal capitalismo nei paesi "in via di sviluppo": secondo il Food Policy Research Institute due miliardi di persone hanno problemi nutrizionali che si riflettono sul sistema immunitario e sulle capacità intellettive. La stabilizzazione del capitalismo in Occidente ha variato la dieta e il comportamento, tanto che la statura media di un europeo è cresciuta di 11 centimetri in un solo secolo (gli olandesi di 20 cm.). La statura è un fatto genetico, ma la sua variazione risente maggiormente dei fatti ambientali.

Oggi, a parte questi ultimi casi che non rappresentano mutazioni ma fenomeni reversibili, non è più possibile verificare variazioni genetiche legate alle variazioni sociali a causa dei tempi lunghissimi dell'evoluzione biologica. Ma nel frattempo è nato quel cervello sociale che è in grado di evolvere in tempi infinitamente più brevi. Ovviamente, per noi è lo storico partito, l'unica entità in grado di ricondurre la trasformazione della materia tramite lavoro umano alla condizione di ricambio organico.

Il "fare" produce connessioni

La merce non circola se non fa valere il suo contenuto in denaro, se non si pone sul mercato e si confronta con altre merci tramite un equivalente universale in grado di farci capire immediatamente ciò che una complicata comparazione fra tempi di lavoro, ammortamenti, energia, ecc. ci direbbe con molte difficoltà. Ma qui non ci interessa riassumere i capitoli del Capitale, ci interessa tratteggiare la tremenda coercizione cerebrale che l'individuo subisce quando, con il suo bagaglio evolutivo da paleoantropo, deve affrontare i rapporti ultra-complessi entro la società capitalistica. E ovviamente a noi interessa soprattutto studiare questa complessità per capire quanto essa sia importante nel processo inverso, quando si tratterà di liberare l'uomo dalla coercizione. Non per riportarlo al comunismo originario bensì per consentirgli di balzare nel comunismo sviluppato. In tale quadro noi affermiamo che la complessità evanescente dei rapporti capitalistici – carattere feticistico della merce, alienazione dei rapporti sociali, sussunzione reale e non formale del lavoro al Capitale, denaro virtuale come massima espressione della forma fenomenica del valore, ecc. – dimostra che si è giunti a uno stadio di sviluppo entro il quale si è assai prossimi a ciò che in fisica e chimica si chiama transizione di fase. È lo stadio in cui si formano spontaneamente connessioni fra settori della conoscenza prima separati. In controtendenza rispetto all'ideologia dominante, alcuni esponenti della "cultura" incominciano a cedere. Le connessioni facilitano l'emergere di nuova conoscenza, e poco per volta si formano correnti eclettiche, spinte dal bisogno di una grande unificazione della conoscenza. Le teorie emergenti assumono aspetti contraddittori e si presentano come veri e propri "mostri" mutanti nella scala evolutiva. Fu Richard Goldschmidt, nel 1940, che sviluppò una teoria evolutiva basata sui caratteri genetici di individui mutanti, gli hopeful monsters, mostri promettenti. La teoria fu ignorata e ritornò a galla solo quando le ricerche sulla genetica portarono all'individuazione del DNA. L'evoluzionista Stephen J. Gould ne evidenziò l'importanza.

Un sistema in transizione di fase si trova in equilibrio instabile e piccole variazioni possono comportare grandi effetti. L'individuo che si crede al centro dell'Universo può, in queste determinate condizioni, scoprire improvvisamente che c'è tutto un mondo che non corrisponde ai vecchi paradigmi ed è già maturo per andare oltre all'attuale società morente. Un cervello che fino a poco prima credeva di dialogare come entità individuale cosciente con un suo "esterno" può ritrovarsi come cellula efficiente di un cervello collettivo che condivide neuroni, sinapsi e persino relazioni di tipo nuovo tra gli uomini. Addirittura potrebbe scoprire che tutti i fenomeni di autonomizzazione esistenti in una società in preda al caos, ormai fuori controllo, possono essere l'antitesi della disgregazione e delle forze centrifughe: un segnale, per quanto distorto, di auto-organizzazione, di fuga dallo stretto dominio delle categorie capitalistiche (cfr. numeri 17 p. 3 e 36 p. 41 di questa rivista). Ricordiamoci che stiamo indagando intorno a una teoria della conoscenza, le cui basi sono state gettate a metà '800 e ampliate, irrobustite dalla nostra corrente con vigorosi elaborati. Ora intervengono fatti nuovi a corroborare la teoria: le connessioni del cervello sociale sono esplose in quantità e qualità; la proprietà è messa in discussione dalla stessa industria; giganteggiano le sfere del lavoro gratuito di utilità sociale; con i sistemi peer to peer è ormai normale lo scambio senza corrispettivo di valore. Poco per volta si abbattono le barriere ideologiche che si contrappongono all'avanzata dell'indagine sulla natura materiale della "coscienza", e c'è ormai una letteratura vastissima contro la concezione metafisica di un'anima risiedente da qualche parte in noi, intenta ad interpretare segnali e a trasmetterceli in chiaro affinché possiamo mettere in atto il nostro libero arbitrio. È probabile che il mondo scientifico sia l'ultimo a scrollarsi di dosso le incrostazioni delle certezze dichiarate tali in sede accademica; di fatto non si contano più le pubblicazioni eretiche, spesso ingenue, a volte truffaldine, ma sempre dirompenti, dedicate a una critica serrata delle teorie standard. E in effetti l'intera incastellatura scientifica omologata è seriamente minacciata dal sorgere di correnti che non accettano più il dettato tradizionale che nelle università permette di portare a casa lo stipendio.

In uno dei suoi scritti giovanili Marx prende in esame, dal punto di vista filosofico ma con l'occhio puntato verso un nuovo tipo di conoscenza, la relazione fra proprietà, chi tale proprietà viola rubando e concezione umana dell'esistenza ( Dibattito sulla legge contro i furti di legna). La proprietà fa sì che il derubato abbia il diritto di stabilire, tramite rappresentanti dello stato, la non-umanità del ladro. Se il proprietario derubato è un uomo soltanto attraverso la proprietà (e lo stato si ingegna a dimostrarlo), il ladro è un sub-uomo perché non ha titoli per dimostrare proprietà alcuna. In ogni caso, la punizione del ladro è giuridicamente corretta perché la sua umanità si identifica con il furto, mentre al derubato viene riconosciuto lo status di umano perché possiede. Ma nella proprietà non si esaurisce la dis-umanità del capitalismo: il fatto che la merce si sia resa autonoma rispetto al bisogno che dovrebbe soddisfare modifica i rapporti dell'uomo con le cose. Di fronte al furto che intacca la proprietà, l'oggetto rubato non è più considerato come valore d'uso utile all'uomo bensì come simbolo di una società proprietaria. L'oggetto si autonomizza, la materia si impadronisce dell'uomo e lo domina.

"Il risultato di tutte le nostre scoperte e del nostro progresso sembra essere che le forze materiali vengano dotate di vita spirituale e l'esi­stenza umana avvilita a forza materiale. L'umanità diventa si­gnora della natura, mentre l'uomo diventa schiavo dell'uomo o schia­vo della propria infamia". (Marx, La rivoluzione del 1848 e il proletariato , 1866)

Sistemi di macchine "intelligenti"

Se la storia dell'uomo è la storia della sua industria, da quella litica a quella fittile, da quella manifatturiera a quella multinazionale globalizzata, quand'è che la tecnica di produzione, cioè lo stato dell'arte della strumentazione e della scienza che la rende possibile, incomincia ad autonomizzarsi? Qual è la condizione che porta dalle prime forme di assoggettamento dell'uomo da parte della macchina alle forme evolute di sostituzione?

Di macchine complesse ne sono esistite fin dall'antichità classica. Il mondo ellenistico produceva e adoperava macchine molto sofisticate (come il cosiddetto computer di Anticitera, un astrolabio a ingranaggi rinvenuto fra i resti di una nave naufragata vicino all'isola omonima nel II sec. a.C.), in parte lasciate in eredità al mondo romano e in parte dimenticate (Lucio Russo). Nessuna di queste macchine aveva il potere di asservire l'uomo e ancora meno di sostituirlo. In genere erano semplicemente macchine-protesi, cioè strumenti che amplificavano la forza umana moltiplicandone gli effetti. La preistorica pietra scheggiata rafforzava ciò che potevano fare (male) i denti o le unghie, il propulsore aumentava la gittata della lancia da caccia, l'arco portava a grande distanza una lama montata su di una freccia, la spada metallica moltiplicava enormemente il potere offensivo dei pugnali di selce, un pallottoliere aiutava a fare calcoli registrando passaggi che a memoria era difficile ricordare. Sembra che gli antichi sapessero costruire automi e v'è traccia di ciò nella letteratura greca o cinese, ma non risulta che meccanismi auto-moventi fossero adibiti alla produzione. L'evoluzione dello strumento-protesi è durata millenni e solo recentemente, in rapporto alla durata complessiva del processo, si sono aggiunti elementi che hanno tolto alla strumentazione la sua qualità di protesi. La macchina a vapore è l'esempio che si fa sempre in contesti come il nostro. È inevitabile, perché è la vaporiera che per la prima volta permette a un insieme di macchine (un sistema dice Marx) l'autonomia sufficiente per funzionare da solo e relegare l'uomo ad assistente passivo.

Per giungere a questo risultato occorrono diversi fattori concomitanti: una fonte di energia sufficiente, una forma di memoria che permetta di reiterare dei movimenti, una tecnologia che permetta di fabbricare simili attrezzature e infine, soprattutto, una situazione sociale in grado di apprezzare la quantità prodotta come valore d'uso in sé. (Ad esempio, in contesti sociali diversi, due macchine rispondenti alle stessi leggi della termodinamica, la eolipila di Erone e la macchina a vapore di Stephenson ebbero due destini assai differenti). Deve esistere un mercato in cui l'elemento quantitativo prenda il sopravvento su quello qualitativo, sovvertendo il ciclo finalizzato produzione-merce-valore d'uso (trasformandolo cioè in produzione per la produzione).

L'informazione memorizzata è essenziale in ogni processo automatizzato che assuma la capacità di rendersi autonomo dal controllo umano. Varie forme di memoria meccanica sono state escogitate molto presto: la camma, l'organetto a lamine e pioli, il pallottoliere, la struttura su cui sono tese le corde di un pianoforte, il nastro perforato del telaio automatico Jacquard e la sua versione elettromeccanica rappresentata dalle schede perforate dei primi computer. In parallelo all'autonomizzazone del processo produttivo si precisa l'autonomizzazione del Capitale in generale. Ciò avviene a tutti i livelli: da quello massimo, con l'avvento del vero capitalismo di stato (il passaggio dal controllo dello stato sul Capitale al controllo del Capitale sullo stato), a quello minimo, quando già il prodotto del lavoro non ha più come fine la soddisfazione di un bisogno ma l'aumento di valore del capitale anticipato. Se il valore di scambio non è più vincolato ai bisogni ma risponde a leggi specifiche del mercato, tutta la catena della produzione è obbligata ad avere come fine unico la produzione per la produzione anziché la soddisfazione dei bisogni. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto affonda le proprie radici nella necessità di aumentare il capitale costante in rapporto agli altri parametri del processo produttivo. Capitale costante vuol dire mezzi di produzione, macchine, automazione, tecnica, scienza, organizzazione, energia, materie prime. L'elenco non è altro che la condizione irrinunciabile per la produzione. Una volta autonomizzata la produzione è autonomizzata tutta la società, che da essa dipende. La nostra esistenza come uomini è subordinata al buon funzionamento di questo mostro. Il leviatano non è lo stato, ormai asservito al Capitale, è l'immane apparato produttivo che fagocita ogni stato e lo fa ballare alla propria musica: "lo vogliono i mercati!".

Riassumendo quanto detto sopra: ad un certo punto della sua storia l'uomo incomincia a fornire al proprio corpo protesi che in un primo tempo servono semplicemente ad aumentare la forza degli arti o ad amplificare i sensi. Primitive o evolute che siano tali strumentazioni, esse sono una derivazione diretta di proprietà esistenti non solo nell'uomo ma in tutto il mondo animale. È difficile immaginare come l'uomo preistorico abbia potuto realizzare, dall'Africa all'Australia, un boomerang capace di traiettorie complesse, ma si tratta forse di una delle poche eccezioni. Nella quasi totalità degli esempi possibili l'individuazione del nesso tra facoltà naturale e protesi è più semplice: si capisce al volo che una pinza estende la presa delle dita o simula le chele di un granchio, che una lampadina ci permette di vedere di notte come i gatti, che un sensore ambientale elettronico integra o sostituisce la sensibilità di un cane da guardia, che un termometro misura la temperatura meglio dei polpastrelli.

Anche il linguaggio evoluto è un potenziamento delle primitive forme di comunicazione, e il linguaggio attraverso strumentazione permette di comunicare a distanze considerevoli (tamburi, segnali di fumo, specchi, bandiere, telegrafi, radio, ecc.). Esso in qualche modo si è fissato nel nostro cervello, tanto che vi sono aree dedicate che fanno pensare a proprietà "innate", termine che ci piace poco ma che adottiamo per evitare noiose perifrasi. Detto ciò, deriviamo una prima osservazione in linea con gli abbozzi di teoria della conoscenza che stanno alla base del presente lavoro: l'uomo sta realizzando fuori dal suo corpo biologico un altro "sé stesso" collettivo, con un copia-incolla di facoltà dell'individuo, trasportate alla scala generale. Ovviamente fa tutto questo seguendo percorsi naturali, anche se il risultato per adesso è contro natura. Come abbiamo detto, si tratta di percorsi darwiniani, fra ed entro i quali non si è ancora insediata la capacità di progetto sociale, cioè quel "rovesciamento della prassi" che per adesso adottiamo unicamente nel progettare e costruire merci più o meno complesse in quantità inusitate.

E se provassimo ad applicare lo stesso ragionamento alla capacità dell'uomo di darsi una esaustiva teoria della conoscenza? L'essenza dell'uomo, cioè l'insieme delle proprietà che lo distinguono dagli animali, è quella di essere capace di volere un risultato, carattere che gli permette di distinguere le facoltà del peggiore architetto da quelle della migliore ape. Ma se noi immaginiamo la società come un insieme di individui separati, nel cervello dei quali s'è prodotto un copia-incolla delle facoltà mentali acquisite, non riusciamo a renderci conto della ricchezza e potenza di elaborazione del cervello sociale, con le sue cellule differenziate. In una società alienata e omologata la negazione della diversità porta all'ape, non all'architetto (chiedendo scusa all'ape che è in grado di armonizzare perfettamente nel tutto dell'alveare le proprie cellule-parte differenziate).

Noi viviamo in un folle paradosso: l'uomo ha a disposizione gli strumenti evoluti nel e per il corpo sociale, sviluppati con la sua capacità di progetto, ma per le teorie inerenti alla conoscenza si trascina appresso il bagaglio conoscitivo di quando era cacciatore-raccoglitore nella savana. E ciò spiega anche l'incapacità assoluta di acquisire un controllo del fatto economico-sociale, rimasto ai tempi di Marx, cosa che gli faceva dire a proposito dell'economia: è la non-scienza del caos. Come vedremo, Marx non era sufficientemente pessimista, perché non solo il mondo economico è soggiogato dal caos, ma l'intero mondo scientifico non è in migliori condizioni, essendo giunto in un vicolo cieco proprio sulle teorie della conoscenza che dovrebbero aiutarci a capire il mondo fisico.

Non c'è "dire" senza "pensare" e viceversa

Il fare collettivo presuppone il dire, cioè lo sviluppo del linguaggio, di ogni tipo di linguaggio. Tutto ciò che è in grado di trasmettere informazione è linguaggio, dai disegni per costruire una cattedrale alla sequenza di bit che invia e riceve un satellite per comunicazioni. Nessuna teoria della conoscenza può fare a meno di uno studio sul linguaggio. Ciò che chiamiamo pensiero è un'attività materiale che si svolge entro aree del nostro corpo (probabilmente non solo nel cervello, dato che vi sono neuroni anche nell'intestino) sulla base di dati acquisiti e memorizzati. Sembra che il nostro cervello mantenga continuamente attive varie configurazioni tra l'ordine e il caos sulle quali stimoli di varia natura, provenienti dall'ambiente o dal materiale memorizzato producono ordine specifico. Quando il processo si avvia senza stimoli immediati abbiamo fenomeni come i sogni, le allucinazioni o le ricostruzioni continue della realtà che non riusciamo mai a sopprimere; quando il processo è innescato da impulsi dell'ambiente mettiamo in moto, oltre all'attività interiore, anche un sistema di comunicazione. Non si sa a tutt'oggi come ciò avvenga, perciò non abbiamo basi per adottare un linguaggio adeguato, nuovo, e ci accontentiamo delle vecchie definizioni che usiamo senza pensarci, con significato che adattiamo spesso a credenze soggettive.

Anima, pensiero, mente, coscienza sono parole che possiamo far confluire in un concetto unico, le cui variazioni sono dovute soltanto alle diverse epoche e al contesto in cui vengono adoperate. Nel secolo scorso, la teoria della relatività spazzava via dalla scena scientifica il dualismo fra materia ed energia. Poteva essere l'occasione per eliminare anche il dualismo fra pensiero e materia, dato che quello fra anima e corpo era già relegato esclusivamente alla sfera religiosa. Invece esso sopravvisse, non solo nella filosofia ma anche nella scienza. L'argomento è noto: i problemi della coscienza (o mente, ecc.) non potrebbero essere spiegati con il metodo scientifico tradizionale, cioè galileiano. Ci sarebbe qualcosa di ineffabile che non può essere sottoposto a indagine con strumenti o verifiche sperimentali. Ma se così fosse, ci troveremmo a parlare di un concetto cui non corrisponde una realtà materiale.

In effetti è molto comodo sguazzare nel presunto mistero inconoscibile perché ciò significa adagiarsi su pure affabulazioni e tutto sommato rinunciare per principio a capire. Per quanto chi si adagia in tale condizione sia giustificato dal fatto che il funzionamento del cervello può presentare aspetti anti-intuitivi, bisogna ribadire che le neuroscienze hanno già messo a disposizione degli scienziati e dei filosofi dati oggettivi da cui dedurre che il nostro intuito si è evoluto per sopravvivere nel mondo e non per capirne le leggi. L'esperimento sugli animali che avvertono per istinto, quindi velocemente per la propria sopravvivenza, la conformazione asimmetrica o quella a simmetria assiale di una presenza estranea, spiega bene in quale difficoltà ci imbattiamo quando ci apprestiamo a conoscere. La Terra in fondo gira a dispetto della nostra "esperienza", la quale si è formata quando non si sentiva ancora l'esigenza di sapere cosa succedeva nelle sfere celesti. Dalle quali, semmai, si traeva auspicio per vie ormai dimenticate e arrivate fino a noi in forme del tutto degeneri, come l'astrologia.

Naturalmente l'ambiente scientifico produce anche tesi materialiste, i cui sostenitori si sforzano di utilizzare a fondo le conoscenze attuali per combattere credenze arcaiche. Sono quindi a modo loro unificatori di conoscenze in una scienza unica, quella prevista da Marx, sebbene con altri presupposti e fini. Non essendosi però liberati della filosofia annegano la scoperta di alcune leggi in una montagna di considerazioni senza contenuto empirico. Anche se si tratta di un materialismo ideologico ereditato dall'Epoca dei Lumi, il suo innegabile merito è quello di aver contribuito ai tentativi di eliminare il dualismo coscienza-natura o comunque residui solipsistici ereditati dalle epoche precedenti, pre-scientifiche (sarebbe meglio dire "caratterizzate da un altro tipo di scienza"). Il fautore del materialismo ideologico fa tre operazioni che sono una vera e propria rivoluzione: 1) sbarazza il campo dal dualismo ponendosi al di fuori del sistema analizzato per poterlo meglio analizzare (eterofenomenologia); 2) sostituisce con fatti sperimentali l'ipotesi cartesiana di una rappresentazione del mondo racchiusa in noi alla quale attingere per mettere in funzione le connessioni reali che ci permettono di dialogare con il mondo stesso (teatro cartesiano); 3) rifiuta di attribuire carattere conoscitivo agli epifenomeni qualitativi, soggettivi e quindi opinabili come bello, brutto, amore, odio, ecc. (mondo dei qualia).

Quando pensiamo, soprattutto quando pensiamo di pensare, non mettiamo in moto alcun supporto di memoria sul quale sia registrata una specie di film. Il pensiero non è il contenuto di un hard disk. La ghiandola pineale identificata da Cartesio come parcheggio dell'anima è ancora la metafora trasformata di molte teorie della coscienza, ma nessuna parte del cervello e forse nemmeno il cervello intero funge da serbatoio di informazioni alla maniera di una biblioteca di Borges interiore. Non accediamo ad essa estraendo un libro che prima era nello scaffale del nostro inconscio e che adesso è posto sul tavolo della nostra coscienza. Nel cervello non ci sono configurazioni di libri, capitoli o paragrafi. S'è visto che vi è, piuttosto, uno stimolo continuo di dati parziali cui l'esperienza, attraverso i sensi, aggiunge altri dati parziali fino a che l'insieme della materia grigia e delle altre parti del corpo non raggiunge il livello di informazione adatto a formare ciò che crediamo pensiero cosciente. In realtà sembra che l'intera operazione avvenga su innumerevoli frammenti narrativi tratti dall'esperienza, un fermento caotico di impulsi entro il quale relativamente pochi dati aggiuntivi determinano narrazioni complete mediante auto-organizzazione dei frammenti. Le allucinazioni e i sogni confermerebbero un modello siffatto.

Questo modo di elaborare informazione deve avere avuto inizio con la comparsa della prima materia vivente. Immaginiamo un organismo unicellulare immerso in un liquido, intento a fluttuare lungo un gradiente zuccherino. L'informazione di cui dispone, l'unica che riesce ad elaborare a quel livello di evoluzione, è di tipo binario: zucchero sì, zucchero no. Il nostro primitivo organismo è quindi "pilotato" da questo tipo di informazione, il quale è straordinariamente flessibile e si applica anche a fenomeni di complessità elevatissima come quelli cui ha dato vita l'uomo moderno. A un livello di evoluzione appena superiore a quello dell'organismo unicellulare, scaturisce la necessità di orientarsi in un ambiente più complesso: ad esempio bisogna distinguere un gradiente zuccherino (continuo) da un insieme di ostacoli diversi l'uno dall'altro (discreto). Anche noi uomini eravamo organismi unicellulari. Non eravamo ancora evoluti al livello dell'essere pluricellulare che già utilizzavamo l'algebra di Boole, l'aritmetica dei Greci e la cibernetica (arte del pilotare). Stiamo indagando su fatti evolutivi contemporanei che portano alla scomparsa dell'epistemologia dualistica e, risalendo alle prime forme di vita, ci troviamo in una realtà dualistica che fa parte del nostro essere da tre miliardi di anni o giù di lì.

La natura pensa prima che nasca il "pensiero"

Dobbiamo essere grati al grande geografo anarchico Elisée Reclus per averci dato per primo, nell'800, una perfetta metafora del pensiero: l'uomo è un espediente della natura per darsi memoria e conoscenza. Gli fa eco, oggi, l'epistemologo delle tecnologie George Dyson: "Io sono decisamente dalla parte della natura, ma ho il sospetto che la natura stia dalla parte delle macchine" (L'evoluzione delle macchine). Alla luce della teoria rivoluzionaria occorre affrontare senza titubanze indeterministiche e metafisiche il problema tanto in voga della realtà, ma non entreremo nel merito di quello che è uno dei cavalli di battaglia della filosofia attuale. La materia "pensa" e tramite l'uomo la natura "informa" questo pensiero fino a conoscere sé stessa. Giacomo Leopardi, da noi citato altrove, giunse alla stessa conclusione. Possiamo chiamare il risultato finale di un processo svoltosi in miliardi di anni come vogliamo, anche "coscienza", ma il metodo scientifico non permette di affermare (e quindi credere) che tale coscienza costituisca una "sostanza" a parte rispetto ai componenti costitutivi dell'universo. Intanto non è sempre esistita e la sua nascita non è individuabile, a meno di non collocarla nel momento in cui il citato organismo unicellulare incomincia a destreggiarsi nell'ambiente. E poi sarebbe utile abbandonare il lessico formatosi in millenni e trovare altri modi per descrivere la realtà.

La facoltà di ragionare ed essere presenti a noi stessi è strettamente legata alla caratteristica "ricombinante" della materia. Simulazioni dinamiche al computer, progettate sulla base delle conoscenze odierne sulle forme elementari di vita e sulla loro evoluzione (o, al contrario, sulla loro straordinaria stabilità per miliardi di anni) dimostrano che siamo figli di una elementare capacità della materia di auto-organizzarsi (Kauffman). Questa capacità si è riprodotta nel tempo a livello della nostra struttura cerebrale, la cui flessibilità di fronte a fatti sconosciuti (cioè non registrati nella memoria istintiva) permette "biforcazioni" evolutive. Può succedere infatti che la percezione dell'immediato futuro presenti scenari non registrati nel passato, per cui è necessario o evitare l'ignoto e i suoi potenziali pericoli, o ricondizionare il bagaglio istintivo dotandolo di nuove risorse per affrontare l'ignoto. Ovviamente la seconda opzione tende a superare la nozione di "istinto" e a ricadere nel dominio del "rovesciamento della prassi". Di fatto, la flessibilità del nostro cervello (o plasticità come si dice in neuroscienze) permette una auto-riparazione migliorativa in presenza di ambiente caotico, ostile o semplicemente nuovo. L'apprendimento di tipo umano non è solo l'imparare qualcosa e memorizzarlo ma è un prodotto specifico dell'evoluzione dell'uomo. Il legame lavoro-cervello entro un determinato ambiente produce una riprogettazione delle facoltà cognitive. Questa specificità non autorizza alcun ricorso al dualismo filosofico, è semplicemente una proprietà del nostro patrimonio evolutivo. Non sappiamo ancora quasi nulla di ciò che succede a livello chimico o sub-atomico nel nostro cervello quando riprogetta sé stesso, ma è certo che ciò non ha nulla di metafisico: l'apprendimento modifica l'assetto cellulare e questa modifica produce una variazione di capacità fisiche, le quali producono a loro volta modifiche alle capacità cerebrali, fenomeno che è noto come "effetto Baldwin".

È a questo livello che interviene una differenza fra i tempi evolutivi del corpo biologico e quelli del corpo sociale, differenza così grande che ci permette di considerare conclusa l'evoluzione biologica di Homo sapiens in confronto a quella di Homo novus . Presso i Romani antichi homo novus era chi giungeva a un'alta carica pubblica senza ereditarla dalla famiglia: anche l'uomo del futuro non eredita nulla dalla vecchia società (a parte quei caratteri che anticipano la nuova). L'oggettiva differenza tra evoluzione biologica e tecnica ha prodotto in ambito borghese considerazioni che riteniamo non solo condivisibili, ma capitolazioni di fronte alla nostra dottrina. Esse sono certo il frutto del limite raggiunto dalla maturità capitalistica, al confine con il salto in un'altra società (cfr. ad es. Leroy-Gourhan sul differenziale evolutivo bio e tecno; Dawkins sulla proliferazione simil-genetica delle ideologie tramite il "meme", corrispettivo mentale del gene; Dennett, che affronta la difficile impresa di demolire le fantasie metafisiche sulla coscienza, in fondo mere resurrezioni dell'anima, riconducendole al cartesiano cogito ergo sum).

Pensare: quantità e qualità

Per molti che studiano il cervello portandosi in zone di confine che separano i vecchi paradigmi da quelli nuovi, il processo della conoscenza che conduce a fenomeni come quello che chiamiamo coscienza è reso possibile da una facoltà computazionale del cervello stesso. Ovviamente nessuno si sbilancia fino ad affermare in modo nudo e crudo che il cervello è come un computer, ma è certo che fra neuroscienziati, filosofi, psicologi e logici serpeggia potente la suggestione del tema. Dennett, ad esempio, sostiene che il segreto della nostra evoluzione fino ad esseri pensanti sta nella configurazione del nostro cervello, particolarmente adatta ad elaborare la massa di dati che ci arriva non solo attraverso la normale attività ma soprattutto dal bombardamento di memi di ogni genere. Questa massa di dati oggettivi e soggettivi modifica realmente le configurazioni del cervello a partire dai suoi componenti minimi, neuroni, sinapsi, cellule varie, atomi e, perché no, particelle subatomiche. C'è dunque un'azione fisica dell'informazione (che non è materiale) sull'organo ricevente (che è materiale). Il quale, come un computer, elabora, opera connessioni, ordina dati caotici, forma sequenze intelligibili, il tutto ad altissima velocità, come sembrano dimostrare i sogni. Nel tempo, con l'evoluzione, questa attività cerebrale va a colonizzare sezioni del cervello che non erano auto-progettate per occuparsi di problemi nuovi, producendo in tal modo, oltre al bio-computer, anche una logica per immettere dei dati sui quali porgli delle domande: la logica, per intenderci, all'opera nei computer odierni.

Dennett sembra affermare che l'evoluzione darwiniana conduce a sviluppare parti del corpo inessenziali o ridondanti rispetto all'adattamento, e che queste parti, libere da compiti, furono adoperate dal cervello per funzioni utili. Se è così, allora ci troviamo di fronte al problema esposto da Gould e Lewontin nel lungo articolo I pennacchi di San Marco: nell'innesto tra una cupola rotonda e una crociera d'archi a pianta quadrata, risultano degli spazi che gli architetti antichi raccordavano con superfici pseudo triangolari, i pennacchi, appunto. Questi, a parte il fatto di essere figure geometriche interessanti, non hanno alcuna funzione dal punto di vista strutturale, ma, una volta costruiti, i decoratori li hanno coperti di mosaici facendoli rientrare nello stupendo ciclo complessivo. Dennett non fa riferimento a Gould, ma l'analogia ci sembra evidente. Non solo, ma è ben forte se coinvolge almeno sei discipline: epistemologia, filosofia, neuroscienze, evoluzionismo, psicologia e informatica.

Quando per risolvere un problema occorre chiamare a raccolta molte discipline diverse e farle funzionare all'unisono invece di reclutarle come consulenze specializzate e separate, siamo sulla buona strada. Ora, frettolosi divulgatori hanno amplificato carenze e imprecisioni presenti nelle ricerche e teorie che stiamo esaminando e hanno contribuito così a far circolare un meme deleterio: "il cervello umano funziona come un computer". Questa fesseria verrà demolita nel corso dell'articolo sostituendo ad essa un approccio in linea con la teoria rivoluzionaria della conoscenza oltre che con molte prove tratte dalle ricerche del mondo scientifico borghese, ovviamente quelle che consideriamo eresie di transfughi che hanno saltato il fosso fuggendo nel nostro campo.

Il cervello umano non funziona come un computer. Semmai, e lo vedremo in dettaglio, è il computer che funziona come un cervello umano. O almeno ci prova. La differenza fra l'organo biologico e l'oggetto elettronico rimane apparentemente incolmabile. E sembra dare ragione ai sostenitori del dualismo, per i quali tra i fenomeni quantitativi e gli epifenomeni qualitativi si apre un baratro ineliminabile. Per noi questa differenza va spiegata bene perché c'è il pericolo di fare confusione: tra l'intelligenza umana e quella dei computer non c'è alcun baratro, le due realtà sono parenti strette e nello stesso tempo non confrontabili. È come se facessimo un confronto fra il cervello e un pallottoliere elettronico ultraveloce. Il computer come lo conosciamo oggi non è "intelligente", è solo una macchina che fa operazioni, elabora dati, li ordina. Non sa discernere il bene dal male, il bello dal brutto, non sa odiare e amare. Fa cose per nulla strabilianti, le stesse che fa l'uomo nella vita normale, sebbene con potenza e velocità superiori. È una delle protesi di cui abbiamo parlato, un prolungamento delle nostre facoltà. Lo dobbiamo costruire in un certo modo, programmare, alimentare con dati e con elettricità.

Quanto precede non autorizza nessuno a trarre la conclusione antica secondo la quale l'Uomo è al centro del Creato perché c'è una differenza di natura spirituale fra esseri animati (con anima) ed esseri inanimati. I presunti dati qualitativi che si oppongono a quelli quantitativi non esistono se non nella fantasia di chi individualmente li percepisce. Se prescindiamo dall'uomo, anche la natura, come il computer, non conosce il bene e il male, il bello e il brutto. Non sa che cosa sia odiare o amare. Non diremo, con i grandi illuministi, borghesi rivoluzionari autentici, che se un clavicembalo fosse abbastanza complesso si metterebbe a suonare da solo e magari a comporre musica e figliare altri clavicembali. Ma diremo che siamo potenzialmente capaci di costruire una macchina che risponda a queste specifiche tecniche (von Neumann), mentre non siamo capaci, al momento, di rendere viva la materia inerte.

I processi biofisici che avvengono dentro al cervello, o meglio, in quelle parti del corpo in cui ci sono neuroni, sono perfettamente in grado di spiegare il fenomeno che chiamiamo coscienza ecc.; ma se è così, si innesca un processo attinente alla teoria della conoscenza, per cui tutto ciò che non è spiegabile con la biofisica va eliminato. Dopo di che sorgono altri problemi, ma intanto abbiamo bonificato il terreno dalle insidie della metafisica. Il Sé è un epifenomeno che si sostiene soltanto sul linguaggio prodotto in epoche pre-scientifiche bisognose di un punto di riferimento per l'affabulazione che sostituiva i dati quantitativi. È il risultato di rapporti sociali, secondo Giordano Bruno addirittura l'effetto di programmabili dinamiche di controllo:

"Colui che deve legare deve possedere una teoria universale delle cose, per essere in condizione d'incatenare l'uomo, che di tutte le cose è, per così dire, l'epilogo… Le forze che legano in prospettiva universale sono il Dio, il Demone, l'Animo, l'Essere animato, la Natu­ra, la Sorte e Fortuna, infine il Fato. Questo grande re­ticolo di vincoli, che copre l'universo e non può essere designato con unica denominazione, non lega sotto specie e senso di corpo: il corpo infatti non percuote il senso da sé, ma attraverso un ge­nere di energia che nel corpo risiede e dal corpo procede".

Anche Dennett ha un momento di slancio sociale sui vincoli moderni:

"Non esiste niente come il Sé su cui sono fondati il capitalismo e il romanzo classico… c'è solo la posizione del soggetto attorno alla quale viene intessuta una ragnatela infinita di discorsi di potere, famiglia, sesso, scienza, religione, poesia … Tu non sei quello che mangi ma quello che ti si dice (Coscienza…).

Aggiunge poi citando Derrida: "Nel racconto non c'è niente al di fuori del testo". E sulla eliminazione delle contaminazioni metafisiche:

"L'unica differenza tra l'oro e l'argento consiste nel numero di particelle subatomiche nei loro atomi… Quei fisici hanno fatto sparire l'aurità dell'oro che tanto apprezziamo!... Il fatto che [nell'indagine scientifica] qualcosa venga lasciato fuori non è una caratteristica delle spiegazioni mancate, ma delle spiegazioni riuscite" (ibidem).

È nota l'osservazione di Marx sul metodo del Capitale: "Ogni scienza sarebbe superflua, se la forma fenomenica e l'essenza delle cose coincidessero immediatamente" (Il Capitale, Libro I). Parlando di cervello, coscienza e conoscenza la faccenda si complica assai, a causa delle implicazioni fortemente ideologiche; per cui, se c'è un ambito di ricerca entro il quale occorre far pulizia, è proprio quello delle discipline fuzzy, sfumate, dove l'opinione e l' affabulazione sostituiscono allegramente il ricorso a leggi e alla verifica sperimentale su dati quantitativi. Una delle operazioni che si può facilmente mettere in atto a proposito di una "nettezza filosofico-psicologica" è la riduzione dei temi a concetti elementari, non tanto nel senso classico delle necessarie astrazioni, dei modelli e degli schemi, ma semplicemente nel senso del linguaggio da adottare.

Pensare e basta

L'approccio basato sul minimalismo linguistico non è nuovo. I logici si accorsero molto presto di come il linguaggio naturale, che ha una sua logica, interferisse con le proposizioni della logica matematica. Il grande logico-matematico Giuseppe Peano cercò di inventare una lingua franca da utilizzare appositamente per non inquinare i significati e renderli universali. La sua lingua (un latino semplificato) non ebbe successo, mentre l'uso di simboli per sostituire le proposizioni diventò universale.

L'indagine fisica sulla natura non ha bisogno di particolari qualitativi: in quell'ambito non serve descrivere il famoso ascensore di Einstein attraverso i materiali di cui è fatto, il loro colore, ecc., basta sapere che in prossimità della Terra "cade" a una velocità di 9,8m/sec. 2, e che nell'esperimento mentale ci serve farlo cadere per dimostrare il fondamentale principio di equivalenza della teoria della relatività. Così non ha molto senso sapere quale sia la "sostanza" del pensiero o della coscienza: basta sapere che ci sono sicuramente dei processi bio-fisici, qualunque cosa essi siano, che permettono l'attività cerebrale. Quel "sicuramente" è un segno di demarcazione dalla metafisica, la quale pretende di dare risposta alla domanda sulla natura del pensiero in quanto tale. Quando a Einstein fu chiesto che cosa pensasse della telepatia, rispose che se fosse stata provata sarebbe stata sicuramente spiegabile con qualche legge fisica. Per scoprire quali siano i processi del pensiero bisogna prima fare un po' di pulizia nel laboratorio in cui facciamo esperimenti virtuali… con il pensiero.

Condurre una ricerca aprioristica sul perché e percome pensiamo (pensare di pensare) ci porta in un vicolo cieco, mentre realizzare modelli di pensiero/coscienza sulla base di esperimenti dal vivo ed esperienze neurologiche o traumatologiche (pensare e basta) ci apre la via a considerazioni realistiche. Imboccato questo percorso, ritorniamo al computer del quale abbiamo parlato in termini riduttivi rispetto alla sua pretesa intelligenza. Esso ci può aiutare come stimolatore di congetture plausibili. Possiamo ad esempio immaginarlo "smart" invece di " stupid" e fargli fare la parte del cervello anche se non è adatto. In questo caso, adoperato per un esperimento mentale alla Einstein, può essere immaginato non più come macchina (computatrice, ordinatrice, elaboratrice) ma come organo biologico. In tal modo, per quanto lo scenario dell'esperimento mostri sempre una differenza sostanziale fra computer e cervello, le analogie sovrastano le differenze: abbiamo in entrambi i casi una memoria di massa, una memoria dinamica, una serie di dati in ingresso, un trattamento dei dati, una serie di dati modificati in uscita e, se il computer è collegato a sensori e attuatori, un similcorpo in grado di modificare l'ambiente. Pur senza essere specialisti di computer e di intelligenza artificiale, non appena afferriamo l'analogia ci rendiamo conto che è possibile avere una teoria della conoscenza legata alla "mente" senza che ci sia il bisogno di postulare anime o comunque fenomeni che vanno al di là delle leggi fisiche.

Sappiamo attraverso un modello realistico, ottenuto per esclusione, che se sono cancellati i postulati metafisici quello che rimane è semplicemente un organismo capace di acquisire ed elaborare dati per farne qualcosa . Anche se non vi siamo giunti per via sperimentale, questo assunto ha la forza di un assioma. Tutto ciò potrà sembrare banale di fronte alle altezze vertiginose del pensiero puro, ma ci introduce al discorso sulla possibilità di portare alle estreme conseguenze l'insieme cervello individuale, cervello collettivo e cervello elettronico; insieme che secondo alcuni (ad esempio il cosmologo Stephen Hawking) potrebbe giungere non solo ad autonomizzarsi ma anche a prendere il sopravvento e sottomettere la nostra specie. Noi non crediamo al verificarsi di questa ipotesi. È vero, l'uomo è diventato un "guardiano di macchine"; non siamo però ancora a Matrix e non ci arriveremo, se non altro per l'intervento di una rottura rivoluzionaria che si presenterà, dato lo stato del capitalismo, assai prima di arrivare a quel punto. Il film Matrix è una stravaganza fantascientifica preziosa, con tanto di sostituzione del pensiero-coscienza come se questo fosse un file memorizzato; ma ha il difetto di immaginare una società amorfa, che si auto-riproduce senza finalità, come una specie di mondo vegetale. La società alternativa, quella che lotta per la liberazione dalle macchine è caratterizzata dalla mistica orientaleggiante più che dalla scienza. Bel film pirotecnico, ma fuori sintonia rispetto alle proiezioni possibili: eventuali macchine capaci di assoggettare il mondo sarebbero comunque progettate e costruite dagli uomini prima di una loro evoluzione verso la capacità di autoriprodursi.

Conoscere senza conoscere

Nell'epoca in cui si discute se lo sviluppo dei computer potrebbe precipitarci in una società in cui dominano macchine intelligenti, molti di coloro che si occupano dell'argomento rimangono ancorati al vecchio paradigma della coscienza come imperscrutabile proprietà dell'uomo, non soggetta a indagini riduzioniste. Per quanto ciò possa sembrare strano e paradossale, costoro sono in netta prevalenza. La critica che muovono ai materialisti ha molte facce, ma in genere converge su di un punto che possiamo riassumere con drastica brevità: i materialisti sarebbero dei profittatori che hanno raggiunto grande notorietà adoperando le ricerche scientifiche come specchietto per le allodole senza, in realtà, aggiungere una virgola alla conoscenza dei fenomeni mentali. Collochiamo questi critici fra i nostri avversari anche se non hanno tutti i torti. In effetti i risultati sono scarsi, ed è vero che anche i materialisti finiscono spesso per esporre in altro modo le stesse tesi dei metafisici. La cosa non ci stupisce affatto perché il mondo scientifico non può essere esente da contaminazioni ideologiche; ma c'è una differenza fondamentale fra il mondo scientifico e tutto il resto: se si vuole capire qualcosa di una locomotiva a vapore o di un supercomputer, di una rete ferroviaria o di Internet, bisogna volenti o nolenti applicare scienza e non chiacchiere.

Non è vero comunque che i materialisti equiparano il cervello umano al cervello elettronico, almeno non tutti. L'immagine della coscienza come software implementato in un hardware biologico non corrisponde al modello proposto, che è semplicemente basato sul computer in quanto metafora di ciò che può succedere in altro modo nel cervello. È evidente che noi siamo degli elaboratori di informazione. Quando a cavallo della Seconda Guerra Mondiale esplose l'interesse per la cibernetica (Wiener), per la teoria dell'informazione (Shannon) e per l'informatica (von Neumann), ci si accorse che stavano venendo a galla proprietà comuni all'uomo e alle macchine che l'uomo aveva prodotto. Ancora una volta la razionalizzazione teorica era venuta dopo che la prassi aveva evidenziato i problemi, ma quel grande filone aveva dimostrato che in fondo noi siamo degli organismi cibernetici e che molte delle nostre qualità non sono altro che fenomeni trattabili secondo metodi quantitativi. Il cervello che si è evoluto sulla base del carbonio è una cosa completamente diversa rispetto a quello evolutosi sulla base del silicio, ma le funzioni di entrambi rispondono alle stesse leggi:

"È mia convinzione che il comportamento degli individui viventi sia esattamente parallelo al comportamento delle più recenti macchine per le comunicazioni. Entrambi sono forniti di organi sensori di ricezione che agiscono come primo stadio del ciclo di funzionamento; in entrambi esiste cioè un apparato speciale per raccogliere informazioni dal mondo esterno a bassi livelli di energia, e per renderle utilizzabili nel comportamento dell'individuo o della macchina. In ambedue i casi questi messaggi esterni non sono utilizzati nel loro stato naturale, ma dopo un processo interno di trasformazione operato dalle forze dell'apparato, siano esse viventi o no. Le informazioni sono tradotte quindi in una nuova forma utilizzabile dagli stadi successivi del funzionamento. Sia negli animali che nelle macchine ciò deve tradursi in un'azione effettiva sul mondo esterno. In entrambi l'azione eseguita sul mondo esterno e non la mera intenzione, viene comunicata all'apparato centrale regolatore" (Wiener, Introduzione alla cibernetica, 1950).

Il titolo originale dell'opera da cui è tratta questa citazione è L'uso umano degli esseri umani. Il testo, oggi un po' invecchiato, presenta delle ingenuità di fronte alla fantastica crescita esponenziale dell'informazione e delle macchine che la trattano. Rimane comunque un pilastro nel caos della conoscenza odierna. Un vero e proprio manuale operativo delle attività automatiche spontanee e di quelle intenzionali (coscienti).

I sostenitori della natura speciale della coscienza non fanno a meno del sostegno scientifico alle loro tesi, naturalmente. Si contrappongono ai materialisti accusandoli di usare in modo scorretto proprio la scienza: non si spiega la coscienza, dicono, eliminandola per paura di rimanere impigliati sul terreno metafisico. La filosofia del XVII secolo aveva collocato la mente in una sfera che non poteva essere analizzata con metodo scientifico, ma quella del XXI avrebbe eliminato la coscienza in nome della scienza, lasciando così un vuoto nella conoscenza. "Anche l'apparenza è realtà", è ciò che ci rende diversi uno dall'altro, ognuno con la propria specificità, e niente che sia reale si sottrae all'indagine scientifica. La coscienza, affermano, è parte integrante dell'Arredamento del mondo (Searle).

Riassumiamo quanto dicono riducendolo all'essenziale. Si sa che la coscienza è il risultato dell'interazione di miliardi e miliardi di cellule, le quali interagiscono con l'ambiente esterno ("l'ambiente esterno"!), e quindi è un fenomeno naturale, non metafisico, indagabile col metodo della scienza naturale, come l'acqua che gela, il metabolismo del nostro corpo, la fotosintesi. Perciò non è lecito porsi in modo dualistico di fronte alla difficile indagine: o solo il mistero o solo la materia; nello stesso ambiente scientifico che accoglie la teoria della relatività, quella dell'informazione, l'ingegneria genetica e la meccanica quantistica, può trovar posto una teoria qualitativa della coscienza che sfugge ai rozzi tentativi di riduzionismo meccanico. Tale teoria poggia sul fatto innegabile che la coscienza è il prodotto del comportamento dei neuroni, ma non si può ridurre il fenomeno alle caratteristiche fisiche dei neuroni. Mentre a livello atomico i neuroni sono tutti uguali, il loro insieme biologico rende la coscienza un fatto individuale, analizzabile soltanto tenendo conto di questa specificità, per cui diventa problematico trarre qualcosa di preciso dall'osservazione di altri soggetti. Piuttosto di abbandonarsi a un meccanicismo psico-biologico, occorre preparare il terreno per una "neurobiologia del futuro", la quale saprà di certo comunicarci quali sono i processi causali che producono lo stato di coscienza. Piuttosto di applicare al cervello i modelli di intelligenza artificiale ottenibili con il computer, è meglio trattare la coscienza per quello che al momento crediamo che sia, cercando agganci con l'indagine scientifica su argomenti intorno ai quali sappiamo già qualcosa di certo (Searle).

Conoscere sapendo di conoscere

Nel capitoletto che precede abbiamo evidenziato soprattutto la persistenza di una concezione da "due culture" (Snow), ma alcune affermazioni possono essere difese, naturalmente a patto di trasporle in altro ambiente. Nel già citato articolo sulla teoria della conoscenza del 1960 (cfr. questa rivista nn. 15-16) la nostra corrente afferma che le rivoluzioni marciano fino alla rottura sociale, e questa non è frutto di teorie più o meno appropriate ma di impulso, di istinto. Questi due fattori sono rivoluzionari, mentre la ragione che li spiega a posteriori è conservatrice. Al di là del fatto che ogni rivoluzione produce e dispiega la propria teoria anche prima della rottura sociale, è certamente vero che le emozioni non possono essere disgiunte dal raziocinio. E ciò ha evidentemente a che fare con la coscienza, con la volontà e con i processi del cambiamento sociale.

In una teoria rivoluzionaria della conoscenza l'istinto (come le emozioni in genere) non può essere ignorato, anche solo per il fatto che nelle sue manifestazioni dà vita a effetti fisici come sudorazione, variazione della pressione e del ritmo cardiaco, produzione di adrenalina, ecc. Separare questi fenomeni dall'attività del cervello non ha senso. Il detto popolare secondo cui un comportamento istintuale è definito "di pancia" ha un curioso riscontro nella diffusione dei neuroni ad esempio nell'intestino. In questo organo poco adatto alla letteratura e alla filosofia, un mezzo miliardo di neuroni sono in simbiosi con un numero incomparabilmente più alto di batteri, e l'insieme rappresenta una sezione del sistema nervoso/cervello dedicata al funzionamento delle ghiandole secretorie, del flusso sanguigno, della muscolatura liscia che rendono possibile l'assorbimento di energia dal cibo. Non si sa perché ci sia bisogno di un cervello intestinale: l'evoluzione poteva forse inglobare le sue funzioni nel cervello propriamente detto, ma potrebbe essersi creata una contiguità con i batteri intestinali, che sono la maggior parte dei 100.000 miliardi che convivono con il nostro corpo. Il cervello "gastro-enterico", però, non svolge le sue funzioni solo localmente. Come parte del sistema nervoso periferico, le sue varie parti (plessi) comunicano fra loro tramite processi chimici e particolari recettori, e l'insieme è in grado di elaborare una massa di informazioni paragonabile a quella elaborata dal cervello propriamente detto. E siccome il sistema neuronale gastro-enterico è controllato dal sistema nervoso centrale a mezzo dei fasci simpatico e parasimpatico (funzioni automatiche dell'organismo, eccitate o inibite), il collegamento con i comportamenti istintuali è evidente. Secondo alcuni autori l'automaticità dei processi e la velocità di risposta agli stimoli entro il sistema neuronale periferico rendono quest'ultimo paragonabile a una macchina computazionale più del cervello propriamente detto.

Le variazioni nella conformazione profonda di quest'ultimo avvengono dunque con il concorso di tutto il corpo, e quando entrano in funzione i sensi (sensazioni) entro il cervello globale si forma uno scenario in base al quale si attivano alcune delle funzioni primarie dell'organismo, o anche tutte in casi estremi (Damasio). Questo dovrebbe essere l'approccio materialistico non volgare, non una "narrazione", ma ricerca bio-fisica. È possibile che Dennett si riferisca a uno scenario del genere quando dice che in un romanzo non c'è niente al di fuori del testo. Comunque sia, per mettere alla prova i dualisti egli si concede qualche esagerazione meccanicista:

"Siamo delle macchine, e non in senso metaforico, ma letterale. Siamo macchine fatte di altre macchine. Le proteine di cui siamo composti sono esse stesse delle macchine, dei meccanismi. E il cervello è a sua volta una immensa macchina (Daniel Dennet, Cervelli che parlano).

Dennett ha di recente moderato il suo macchinismo riconoscendo che i fenomeni biologici del cervello vanno affrontati con giudizio, ma i dualisti continuano a rispondere inorriditi che questo è meccanicismo di secoli addietro, che certo un uomo non potrebbe amare una macchina. E perché no, risponde il "materialista riduzionista meccanicista". Logica vuole che se noi, così come siamo, vogliamo definirci macchine, possiamo benissimo amare una macchina come noi, ad esempio una copia perfetta della nostra attrice preferita. Tutto sta nel metterci d'accordo sul significato di "macchina". Che sia anche un problema di linguaggio lo riconoscono tutti. Fino a poco tempo fa era considerato "macchina" qualsiasi oggetto inanimato, con parti mobili, atto ad ottenere un risultato. Con l'avvento del computer ci siamo dati macchine potenti che raggiungono risultati senza essere fatte di parti mobili. Il salto dal chopper dell'ominide allo smartphone è sicuramente più grande di quello dallo smartphone al nostro cervello. Eppure abbiamo appena ammesso che la differenza è importante, che una macchina non è in grado di programmare sé stessa con quel mix di raziocinio, istinto e impulso necessario sia alla vita quotidiana che alle grandi rivoluzioni epocali.

C'è qualcosa che non va, qualcosa che il nostro cervello, per sua costituzione, grazie a un processo evolutivo che l'ha portato a questo punto, non riesce ad assimilare. Poco fa abbiamo detto che non è il cervello ad assomigliare a un computer ma è il computer ad assomigliare a un cervello. Fa davvero differenza o è solo una questione di lana caprina?

"Indagine intorno alle leggi del pensiero"

Fa una differenza enorme. Partiamo da una considerazione che abbiamo già fatto quando abbiamo parlato dell'organismo unicellulare che segue il gradiente zuccherino nel liquido in cui è immerso. Tale gradiente è la linea di separazione tra zucchero sì e zucchero no, perciò il nostro organismo primordiale risponde a questo dato di fatto muovendosi per cercare la concentrazione maggiore di cibo. Per farlo corregge in continuazione la propria rotta in base alla maggiore o minore diluizione dello zucchero, fermandosi quando si allontana dal gradiente, spingendosi avanti quando si avvicina. Il nostro organismo unicellulare non è affatto intelligente, ma risolve brillantemente l'unico scopo della sua esistenza utilizzando l'algebra di Boole, la cibernetica di Wiener e la macchina ricorsiva di Turing. Gli mancano ancora la logica di von Neumann e la teoria dell'informazione di Shannon, ma le svilupperà durante il successivo salto nella scala dell'evoluzione. La cosa non ha importanza, perché nel primo caso tale logica serve soltanto a ridurre i tempi della macchina di Turing che possono essere indeterminabili, e nel secondo a discernere il messaggio che ci interessa dal rumore di fondo che ci impedisce di capirlo. Vedremo più in là qualche dettaglio a proposito delle scoperte legate a questi nomi di persona.

Per adesso ci serve sapere che il modello elementare dell'organismo unicellulare intento, miliardi di anni fa, a reagire con il suo mondo, non è altro che un computer. Attenzione: non "assomiglia" semplicemente a un computer, lo "è". È esattamente come quelli superpotenti di oggi. Entrambi funzionano secondo la logica "se, allora, altrimenti" come tutti i computer. Perciò il computer è nato miliardi di anni prima dell'uomo. Allora "che cosa assomiglia a cosa" ha un orientamento nel tempo. In origine la nostra cellula non poteva assomigliare a nulla perché quella era l'unica forma di vita esistente. In seguito gli organismi complessi "assomigliarono" a quelli che li avevano preceduti e quando furono abbastanza evoluti da progettare e costruire macchine, le fecero "a loro immagine e somiglianza". Dunque non diremo più che il cervello umano "assomiglia" ad un computer, se non altro perché la macchina elettronica è venuta dopo. Certamente potremo dire che quest'ultima è per il momento una brutta copia del cervello umano. Molto veloce e precisa, ma nemmeno paragonabile. Ricordiamoci di quando dicevamo, con Leroi-Gourhan, che l'organismo umano ha incominciato a evolversi proiettando al suo intorno alcune sue caratteristiche trasformate in protesi tecnologiche. Era inevitabile che, giusta la massima di Elisée Reclus, essendo una proiezione della natura, proiettasse a sua volta l'aspetto computazionale del proprio cervello. Ecco allora nascere ad esempio l'algebra binaria che George Boole presenta nel 1854 nel testo dal titolo estremamente significativo di Indagine intorno alle leggi del pensiero sulle quali si fondano le teorie matematiche della logica e delle probabilità . Scrive l'autore nella prefazione:

"Lo scopo del presente trattato è investigare intorno alle leggi fondamentali di quelle operazioni della mente attraverso le quali il ragionamento si manifesta; per dar loro espressione per mezzo del linguaggio simbolico del calcolo e, su questi fondamenti, per stabilire una scienza della logica e costruire il suo metodo; per fare di questo metodo stesso la base per un metodo generale per l'applicazione della dottrina matematica delle probabilità; e, finalmente, per collegare i vari elementi di verità, per mostrare se nel corso di queste ricerche si presentano alcune probabili prescrizioni concernenti la natura e la conformazione della mente umana".

Boole aveva capito che portando alle estreme conseguenze l'attività umana attraverso la logica, tutte le proposizioni si riducevano a vero/falso, sì/no, c'è/non c'è, uno/zero. Non si trattava di contaminare la matematica con un manicheismo filosofico, ma di riprodurre matematicamente ciò che succede in natura, da noi esemplificato con il protozoo che fluttua lungo il gradiente zuccherino. Senza l'algebra di Boole e il contesto in cui nacque, non sarebbero stati possibili la macchina da computazione virtuale (Turing), l'algoritmo che permette di operare su dati complessi (von Neumann), l'applicazione dell'algebra binaria all'informazione (Shannon), la ricca complessità del mondo relazionale dove ogni elemento subisce gli effetti di una retroazione (Wiener), le teorie materialistiche basate sul modello computazionale del cervello e della coscienza (Putnam, Fodor, Dennett, Pinker, ecc.). Chiediamo scusa ai nostri lettori per tutta questa personalizzazione con nomi propri. Ma la natura non poteva fare direttamente questo lavoro, doveva scegliere entro sé stessa i veicoli adatti per raggiungere il risultato. E li ha trovati. Consideriamo i nomi di persona come i numeri delle pagine di un libro, riferimenti per un contenuto: capitolo tale alla pagina tale.

Pericoloso Homo capitalisticus

Stiamo parlando di un solo ramo della conoscenza e la sua vastità ci impone il reclutamento di altri rami, fino a configurare un continuum che solo arbitrariamente, a causa dei nostri limiti, suddividiamo. Oltre alle teorie che stanno alla base della cosiddetta Intelligenza Artificiale e che tanto fanno discutere quando si confrontano cervelli biologici ed elettronici, dovremmo prendere in esame tutte le teorie scaturite nell'ultimo secolo. Non ha molto senso isolare solo quelle che possono essere collegate alle neuroscienze. Il cervello umano è condizionato dallo spazio e dal tempo e, anche se questi sono stati discretizzati per ragioni di necessità della misura (metri e ore con le loro frazioni e multipli) si sa che sono delle entità continue, così sono percepite e così sono trattate nelle teorie ad esse inerenti.

La teoria della relatività di Einstein è una teoria del continuo. Ma lo stesso Einstein adoperò incessantemente regoli e orologi nei suoi esperimenti virtuali. La discretizzazione del tempo e dello spazio è una necessità inerente alla conoscenza, e quando si è trattato di analizzare a fondo la materia/energia è scaturita l'esigenza insopprimibile di discretizzare anche l'oggetto della nostra attenzione, di "quantizzarlo". Con tutti i problemi e le contraddizioni che da questa operazione sono derivati: ad esempio con l'emergere del dualismo onda/particella o della sovrapposizione degli stati, su cui Schrödinger ironizzava con la metafora del suo famoso gatto contemporaneamente vivo e morto. L'uomo sta insomma proiettando sé stesso in quelle che sono state spacciate come ultime frontiere della conoscenza, ma l'operazione si è bloccata. Primo, perché non ci sono ultime frontiere della conoscenza; secondo, perché, come abbiamo detto appoggiandoci al lavoro di chi ci ha preceduto, sarebbe un bel guaio se, entro le sfere della conoscenza e delle sue manifestazioni, ci si dedicasse alla prassi in quanto primati giunti allo stadio di Homo capitalisticus: ciò che è stato proiettato nel mondo "esterno" è troppo potente per essere lasciato in mano a una classe che come unico orizzonte ha il profitto.

Una volta che fossero completamente spezzati gli equilibri della natura, introdotti strumenti di immane potenza in un ambiente inadatto a controllarli, potrebbe essere in gioco addirittura la sopravvivenza della specie umana. Il pericolo non è nelle macchine e neppure nell'uomo in quanto animale intelligente senza controllo. La biosfera ha la capacità di metabolizzare una specie che diventa ottusamente pericolosa: predatori troppo voraci che eliminassero le prede morirebbero di fame. Il pericolo è in una forma sociale che ha i mezzi tecnici per rattoppare i disastri che combina, trovando nel rattoppo una stabilità artificiale, fittizia, che non permette alla biosfera di provvedere ad una stabilità naturale. Eppure è attraverso il rattoppo che si è sviluppata l'intelligenza collettiva, la conoscenza necessaria al salto nel progetto. In un certo senso è il progetto ben fatto che rende inutile il rattoppo. Ovunque ci giriamo, vediamo emergere la teoria della conoscenza come rovesciamento della prassi. Con macchine.

Lo sappiamo bene: i materialisti borghesi ci accuseranno di antropomorfizzare la natura e gli idealisti ci strilleranno qualcosa di indignato a proposito dell'identificazione della coscienza con un computer. Ma a dispetto di tutti costoro è un dato di fatto l'emergere di questo surrogato di cervello, di una macchina che, non ancora in grado di fare granché, ha già ricoperto il pianeta con le sue reti. Quella che stiamo vivendo è la più grande rivoluzione che sia mai avvenuta dopo che per la prima volta un protozoo s'è mosso secondo un unico criterio: "cibo".

Conoscere. Come i computer?

No. Siamo noi che abbiamo immaginato e costruito il primo computer applicando, consapevoli o meno, il nostro modo di funzionare. Torniamo per un momento al protozoo automoventesi nel brodo di coltura: la sua "capacità di calcolo" è quella di un robottino tosaerba o aspirapolvere. Ma reiterando per milioni di anni le sue funzioni elementari alla fine riesce ad evolvere 1) memorizzando qualcosa, 2) aggiungendolo a qualcosa memorizzato in precedenza, 3) prendendo atto del risultato e adoperandolo per successivi ulteriori passaggi. Questo è il computer primordiale, tutto ciò che viene dopo nella scala evolutiva funziona in base agli stessi principi basilari, solo più velocemente e coinvolgendo schemi più complessi della materia/energia. Cos'è dunque un computer? Risposta: tutto ciò che è vivo. Quello che oggi chiamiamo computer in effetti non lo è: ha bisogno di connettersi a qualcosa di vivo per funzionare ed evolvere. Noi siamo il computer, la macchina è una protesi.

Tuttavia siamo riusciti a identificare il principio fondante di ogni computer, vivo o inanimato, quindi abbiamo incominciato a capire di quale rivoluzione abbiamo adesso bisogno nel campo delle teorie della conoscenza. È ora dunque di vedere cosa c'è dietro ai personaggi che abbiamo citato. Ci aiuta in apertura di questa ricerca Alan Turing con la sua macchina ideale escogitata nel 1936 per rispondere a problemi che i matematici di allora avevano sollevato a proposito della matematica stessa e della sua affidabilità. L'esperimento di Turing è importante per capire la "fisica del cervello". Non è questo il luogo dove si possa sviluppare il percorso che ha come traguardo la macchina di Turing e il computer di oggi. Nella storia affascinante (ma non a lieto fine, com'è noto) c'entrano il linguaggio e alcuni modi per trattarne meccanicamente i simboli. Una macchina per scrivere, ad esempio, serve a trasformare informazione memorizzata nel nostro cervello in informazione codificata scritta su carta che scorre sotto ai martelletti mossi dai tasti. Lo scappamento che fa muovere il carrello passo passo è un automatismo legato al movimento dei tasti. Una telescrivente che scrive su nastro perforato è una macchina per scrivere con un più alto livello di automazione e un più complesso sistema di codifica del linguaggio (i fori su nastro). Macchina per scrivere e telescrivente non fanno altro che scrivere, come dice il loro nome. Esistevano allora calcolatrici meccaniche adatte solo a calcoli. Turing immaginò un congegno che permetteva di individuare e comprendere i limiti del calcolo meccanico, provando che una macchina di natura molto semplice poteva risolvere mediante algoritmi e istruzioni una gamma di problemi. Gli "stati" o "configurazioni" assunti dalla macchina nella risoluzione dei problemi erano analoghi ad un flusso del "pensiero". Turing aveva bisogno di una macchina che facesse qualsiasi cosa legata al linguaggio, matematico o no (cioè "pensasse"). La telescrivente "leggeva" un nastro perforato, ma qualcuno lo doveva aver "scritto"; le due funzioni potevano essere unite in un solo "pezzo" della macchina virtuale. Il termine computer significa calcolatore, nel senso di persona che calcola. All'epoca, per non rifare ogni volta gli stessi calcoli, si usavano tavole pre-calcolate per diversi usi, con le loro caselle, preparate una volta per tutte e poi stampate. Turing immaginò uno di questi calcolatori umani intento a preparare le sue tavole ma con un'operazione al giorno. Per mettere un segnalibro alla casella raggiunta, l'operatore avrebbe scritto un biglietto e, già che c'era, avrebbe aggiunto degli appunti per sapere cosa fare il giorno dopo alla casella successiva. Avrebbe lasciato cioè delle istruzioni.

La macchina di Turing nella sua stupefacente semplicità è tutta qui. Basta avviarla, farle scrivere qualcosa, muovere avanti e indietro il nastro in modo da poter accedere a tutte le caselle, modificare con delle istruzioni le caselle stesse, leggere ciò che ne risulta e in base alla lettura continuare nello stesso modo. In realtà la macchina originale era ancora più semplice, perché ogni casella rispondeva al codice binario: piena/vuota, scritta/cancellata, 1/0. Non cambia niente, basta immaginare che nelle caselle sia depositata o meno dell'informazione codificata a sua volta con degli uno e degli zeri, un carattere 8 bit, due caratteri 16 bit, ecc.

Il più potente computer del mondo d'oggi funziona ancora così, e non si vede come il suo funzionamento potrebbe variare anche se fossero ancora al massimo le spinte propulsive di questa società, che invece è decadente, al limite della putrefazione. Si dice che un cambiamento decisivo verrà con il computer quantistico, ma per quanto si sa da quel che se ne può leggere, sembra che sia nuovamente una questione di velocità e potenza, non di principi di funzionamento.

Turing si rese conto di aver immaginato una macchina deterministica in grado di risolvere, sempre allo stesso modo, qualsiasi problema l'uomo si proponesse (anche in futuro) di affrontare in forma di algoritmo, a patto di non introdurre un limite al tempo di calcolo e alla lunghezza del nastro. Di sicuro non poteva rendersi conto che la meravigliosa invenzione era una fra le tante cose che il nostro essere biologico aveva proiettato verso l'esterno. Non avrebbe potuto affermare, come si usa oggi, che il cervello funziona come un computer o che un computer può simulare il cervello, non vi erano i presupposti. Nessuno poteva scambiare una macchina così elementare per un cervello e viceversa, mentre ormai è noto che proprio questa semplicità può spiegare l'apparentemente infinita plasticità del cervello. Oggi per fare il paragone ci si basa sulla potenza di calcolo, che è cambiata, e non sull'architettura della macchina, che invece è sempre la stessa. Ciò nonostante sappiamo benissimo che un supercomputer moderno è imbattibile nel gioco degli scacchi ma non vince propriamente una partita, è solo molto veloce ad analizzare le configurazioni possibili del gioco per scartare quelle inutili o non promettenti. Efficacia tanta, intelligenza "umana" zero, intelligenza di macchina… dipende da che cosa vogliamo dalla macchina. Turing ideò un test per stabilire se un computer pensa o meno: un uomo A è collegato in rete a un altro uomo B e a un computer C; dialogando, il test è superato se il primo uomo A non riesce a capire quale sia il computer tra B e C. Non importa che cosa succede dentro al computer, basta il risultato.

Il test di Turing ha molte varianti. Alcuni scienziati e filosofi negano che il test dimostri qualcosa a proposito di pensiero o intelligenza (Searle). Ma Turing ha ragione: per sapere se qualcuno o qualcosa pensa bisognerebbe essere quel qualcuno o qualcosa. Siccome non si può, bisogna prendere come parametro la capacità di sostituirsi a un essere umano. Siamo sicuri che con questo criterio si giungerà allo sviluppo di una Intelligenza Artificiale, sicuri come saremmo stati sicuri di volare dopo aver visto l'improbabile trabiccolo dei fratelli Wright. Marx disse che l'uomo non può pensare che a problemi la cui soluzione già si prospetta, e molte prove ci sono in tal senso, sia in campo scientifico che in campo sociale. È la stessa sicurezza che proviamo pensando alle determinazioni che ci mostrano l'ineluttabilità di una nuova forma sociale, nonostante gli eventi che si susseguono sembrino indicare il contrario. Non sarà la macchina booleana a darci l'Intelligenza Artificiale nel senso di una sua auto-evoluzione verso funzioni simil-biologiche, ma è certo che, essendo in grado di risolvere qualsiasi problema codificabile in termini di zero/uno, ci metterà a disposizione la potenza necessaria per arrivarci, magari seguendo altre vie al momento non evidenti.

Conoscere ai confini della conoscenza

Abbiamo affermato, non solo in questo articolo, che l'uomo ha dovuto sviluppare capacità che sopperissero alla sua debolezza intrinseca rispetto al mondo in cui egli si muoveva nella preistoria. Vi sono alcuni evoluzionisti che avversano tale convinzione. In fondo abbiamo qualità non-cerebrali e non-sociali che ci rendono competitivi rispetto ad altre specie. La nostra muscolatura era adatta a ogni tipo di attività (correre, saltare, strisciare, lanciare sassi e lance, ecc.), che riuscivamo dunque a svolgere in modo molto preciso; con un minimo di apprendimento eravamo capaci di prestazioni spettacolari, che venivano sfoggiate in gare di abilità; avevamo la possibilità di modulare la voce con variazioni innumerevoli; con la voce stessa inviavamo messaggi che diventarono linguaggio; il binomio occhio-cervello ci permetteva una visione tridimensionale, colorata e ad alta risoluzione; udito e olfatto erano sicuramente pari al livello medio di quello delle belve che amavano cibarsi di noi; il gusto e il tatto erano certo di livello superiore, altrimenti non avremmo imparato a cuocere i cibi, a salarli e a condizionarli in vari modi.

Il ragionamento fila, ma c'è un errore: il bagaglio elencato è quello acquisito, non l'avevamo da sempre. Quindi è frutto dell'evoluzione, ed è indubbio che quando eravamo più o meno come gli scimpanzé bonobo, con i quali condividiamo il 98% del DNA, l'unica salvezza era negli alberi alti, peraltro ben poco sicuri se il predatore era in grado di arrampicarsi, come il leopardo (il quale ha lasciato i segni dei suoi denti sulle nostre povere ossa di allora). Può darsi che la teoria evolutiva dell'incompletezza faccia acqua da tutte le parti, ma quella della mirabile completezza ha bisogno di un creatore. Non staremo a dimostrare che i nostri antenati stavano più tranquilli quando si muovevano in gruppo, comunicavano, avevano lance, archi, fionde e lame di selce, rispetto a quando se ne stavano zitti e l'attrezzatura non c'era. Se non chiariamo che evoluzione biologica ed evoluzione tecnica non possono essere separate, sarà difficile comprendere i passi successivi.

Noi siamo il risultato dell'incontro fra un essere "incompleto" e un ambiente che gli ha "suggerito" violentemente di fare qualcosa se non voleva estinguersi. Un essere in grado di completarsi in vari modi, compresi gli effetti collaterali (i citati pennacchi di San Marco); ma in generale il fatto di sviluppare tecnica e comportamento sociale per non essere mai più "incompleti" produsse, alla scala dell'evoluzione, una regressione selettiva. Se ci difendiamo dai pericoli della incompletezza andiamo contro la selezione naturale che agisce sull'esemplare più adatto a un certo ambiente facendo soccombere il meno adatto. È un po' come la scoperta della penicillina: fece saltare tutti i diagrammi statistici delle malattie infettive salvando milioni di persone, ma bloccò la darwiniana selezione naturale per quanto riguarda la resistenza ai batteri, e questi ultimi acquisirono per converso una resistenza alla penicillina.

Abbiamo dunque modificato profondamente l'omeostasi evolutiva basata sul feedback fra noi e la natura: correndo ai ripari contro i pericoli dell'incompletezza abbiamo adottato misure che esaltano l'incompletezza: adesso che abbiamo il coltello di selce in mano, possiamo fare a meno definitivamente delle zanne. Estendiamo il discorso al computer: abbiamo proiettato al nostro esterno, razionalizzandola, la nostra capacità di "calcolo" basata sull'architettura del nostro cervello-corpo; evolvendo, nel giro di pochi decenni questa capacità si è mostruosamente amplificata, tanto da risultare indispensabile fino al punto di sostituire alcune nostre funzioni. Non sono più in ballo la zanna e il coltello: una volta imboccata questa strada bisogna percorrerla fino in fondo e molte altre funzioni saranno sostituite.

Come? Quando tutto comunica, dove finisce il corpo e dove incomincia la macchina? L'elemento fondamentale del sistema è ormai il complesso corpo-macchina (cyborg) ed è assolutamente arbitrario tracciare un confine ri-discretizzandolo, ritornando alla separazione che fu: da una parte l'uomo che confina con la sua pelle, in mezzo l'ambiente e dall'altra parte la scocca di acciaio e plastica con dentro hardware e software. La definizione di "cyborg" sarebbe "organismo cibernetico", che però è una tautologia (come dire "pagnotta di pane"): non esiste un organismo vivente che non sia cibernetico. Ma oggi l'uomo è un cyborg nell'accezione comune del termine, un uomo-macchina, perché si fa sempre più problematica la "separazione fra il nato e il prodotto" (Marchesini, ma specialmente Kelly).

Conoscere tramite macchine

La mostruosa capacità di elaborazione del complesso di servizi che sta dietro al logo di Google è dovuta a due miliardi di righe di codice, cioè a un insieme enorme di "istruzioni" elementari. Il contenitore di questa macchina per elaborare è suddiviso in varie parti sparse per il Pianeta e il suo funzionamento richiede tanta energia quanta ne producono diverse centrali elettriche. Il calore emanato dalla macchina dev'essere dissipato da un sistema idraulico che ha la portata di un fiume. Tutta questa potenza è dedicata soprattutto a indicizzare e gestire 500 miliardi di pagine ognuna delle quali contiene mediamente centinaia di migliaia di byte fra testo e immagini. Il sistema è dinamico perché "serve" miliardi di utenti offrendo l'informazione che chiedono e nel frattempo "imparando" dai loro comportamenti: ufficialmente per servirli meglio (vero), in realtà e soprattutto, per ricavarne notevoli profitti (non c'è valore di scambio senza valore d'uso).

Google è un immenso sistema per conoscere, possiede automatismi che non richiedono l'intervento umano ed è capace di apprendere e di auto-organizzarsi. Utilizza persino uno dei pochi computer quantistici sperimentali esistenti. Ma è un cervello poco intelligente. Se funziona così bene, è solo perché ad esso si collegano innumerevoli cervelli umani. I quali lo fanno attraverso tastiere e schermi perché hanno bisogno di adattare i loro organi di ricezione e trasmissione a quelli della macchina. Raggiungerebbero lo stesso risultato se potessero usare un connettore come nel romanzo fantascientifico Neuromante di Gibson o nel film Matrix.

Si capisce che l'insieme costituito dal cervello umano e dalla macchina interfacciata è una metafora fin troppo facile per l'idealista che volesse insistere sul dualismo mente-corpo: da una parte starebbe il software (la nostra coscienza e le istruzioni che abbiamo immesso nella macchina), dall'altra l'hardware (il nostro corpo e quello della macchina). La metafora si smonta agevolmente: l'hardware biologico è stabile da un milione di anni e quello meccanico può durare secoli, mentre il software, specialmente quello biologico, è soggetto al vento che tira, e dall'alto delle ineffabili vette del pensiero, invece di dominare con il suo libero arbitrio è dominato da innumerevoli fattori di condizionamento che provengono dal mondo materiale. La macchina è stata inventata e, già che c'è, si riempie di contenuti precedentemente impensabili diventando parte integrante dell'intera opera della natura. Ritornano gli ormai famosi pennacchi di San Marco che, come la macchina, diventano ausilio di comunicazione, di conoscenza. Solo che con la macchina l'ausilio è così potente da scaraventare l'intera nostra specie al confine di una nuova epoca. In questa società l'Intelligenza Artificiale esiste solo nella misura in cui si parla di Intelligenza Potenziata. In quella futura vedremo.

Per la nostra corrente, l'istinto è un piano biologico atto alla conservazione della specie mentre la coscienza assembla sequenze per capire che cosa succederà nel futuro. O per volerlo. Per Paul Valéry, citato da Dennett, la coscienza è quella parte di noi che ha il compito di produrre futuro. Come si vede, qualcosa si fa strada fra i bastioni della conservazione, e "nell'aria" si diffonde la convinzione che il rovesciamento della prassi è nello stesso tempo anticipazione del futuro e sua realizzazione, come in un progetto. Ma normalmente la scienza di oggi e le sue leggi, specialmente quelle formulate nell'ultimo secolo, sono il prodotto ultimo della società borghese, quindi più sospette che mai. Invece di generare futuro conservano passato. La società futura saprà eliminare le contraddizioni dovute all'ideologia dominante perché saprà controllare il processo di formazione della cosiddetta coscienza; ma adesso? Una volta eliminate le false prospettive che si insinuano fra i vari rami del conoscere, sarà agevole la critica integrale della società precedente, cioè quella in cui viviamo, tuttavia per far questo dobbiamo prima proiettarci nel futuro e sviscerare le dinamiche del passato e del presente. Per demolire un edificio occorre sapere qual è la sua struttura in modo da piazzare la dinamite al punto giusto. E dobbiamo sapere qualcosa anche sulle macerie, in modo da poter sgombrare agevolmente la strada ( Traiettoria e catastrofe…).

Negli anni '50 del secolo scorso il sistema di macchine di cui aveva parlato Marx era giunto alla massima perfezione consentita dall'elettromeccanica. Le fasi automatiche della produzione erano ottenute con attuatori di vario tipo che rispondevano a comandi elementari costituiti da camme, nastri perforati, relais. La diffusione dell'elettronica con un suo mercato fu una conseguenza di molti dei passi che abbiamo analizzato in precedenza. Fra i primi settori coinvolti da quella che fu poi chiamata automazione vi fu la lavorazione dei metalli, con le prime macchine a controllo numerico. Esse facevano ciò che al tempo di Marx già facevano le macchine meccaniche nell'industria tessile o, qualche decennio più tardi, quelle elettromeccaniche in ogni industria e, adesso, quelle elettroniche. L'attenzione si focalizzò naturalmente sulla "disoccupazione tecnologica". Come se si fosse trattato di un banale calcolo ragionieristico su quanti operai fossero rimasti a casa senza salario e quindi senza essere in grado di consumare le ondate di merci che uscivano dalle fabbriche svuotate e ancor più produttive; e su quanti invece sarebbero stati assorbiti dalle fabbriche di macchine automatiche. Neanche i sovietici avevano capito la portata dell'automazione. Essendo parte della banda capitalistica mondiale rispondevano sul piano della concorrenza: il fatto che nell'URSS lo stato controllasse l'economia, dicevano, garantiva gli operai contro la disoccupazione. Secondo loro, l'industria sovietica era competitiva perché pianificata mediante l'uso di supercomputer. Rispondemmo ad entrambe le argomentazioni che il fenomeno dell'automazione non sollevava semplicemente uno dei tanti "problemi" che si cercava di risolvere provvisoriamente con delle toppe man mano si presentavano, ma soprattutto metteva in risalto lo scontro epocale fra modi di produzione. A questo proposito non possiamo fare a meno di citare per esteso:

"Ma quelli che sono rimasti più nell'imbarazzo dinanzi alla prospettiva di una produzione totalitariamente automatica sono gli innumerevoli marxisti di mezza tacca, che abbondano anche tra le non fitte schiere di quelli non legati allo stalinismo, e al post-stalinismo. Come faremo, si sono detti questi poveri uomini, a sostenere che tutto il valore aggiunto in ogni ciclo della sua dotazione deriva dal lavoro dei salariati, quando la produzione non richiederà più lavoro… dato che le macchine si daranno la briga di calcolare e progettare tutto? Cadrà la legge del lavoro che genera valore, la dottrina del plusvalore, e tutta la nostra costruzione critica della economia e della forma di produzione capitalistica... Ora il fatto è questo: gli immediatisti oppongono un antagonismo contabile, chiuso in una busta, allo scontro tra due epoche, tra due forme di produzione, due mondi, scontro che ha con l'episodio pecuniario un legame logico, ma dialetticamente mediato da passaggi rivoluzionari su antitesi di ben altra ampiezza e respiro, su archi immensi di tempi di spazi e di modi. Costoro si sono condannati a non capire per correre dietro a filosofie dello sfruttamento e dell'autonomia dell'esecutore dal dirigente; il fatto è che stavamo aspettando [questo scontro] da un secolo. Al macero le leggi del valore, dello scambio equivalente e del plusvalore: con la loro caduta nel nulla cade la forma stessa di produzione borghese. Le prime valgono fino a che la seconda vive, e quando la scienza e la tecnologia, per quanto secolare monopolio di classe, le infrangeranno, non sarà che l'esempio supremo della rivolta delle forze produttive contro le forme che devono crollare. Questa dottrina dell'automatismo nella produzione si riduce a tutta la nostra deduzione della necessità del comunismo, fondata sui fenomeni del capitalismo" ( Traiettoria e catastrofe…).

In Marx il sistema di macchine è messo alla base delle considerazioni sullo sviluppo del cervello sociale. Le leggi di auto-conservazione del capitalismo sono nello stesso tempo leggi di auto-distruzione, e il cervello sociale registra questa contraddizione sia esaltando il progresso scientifico e tecnologico, sia paventando un sopravvento da incubo della macchina sull'uomo. Anche se è vero che la macchina ha assunto caratteri di autonomia e di automazione spinta, non è lecito confondere questi caratteri effettivi con una sorta di auto-determinazione competitiva per il "potere". La macchina è, per Marx e per noi, un fenomeno da "leggere" per trarre conclusioni sul nostro sviluppo evolutivo e sociale, per capire quanto siamo vicini alla società nuova. La macchina non è un nostro alter ego situato in un "altrove": fa parte di noi come la matematica, che non è una scienza ma un suo strumento. La macchina ci ha fatto capire che cosa ci sia davvero in ballo nella nostra evoluzione prossima, peraltro anticipata nei Manoscritti del 1844 (cfr. Genesi dell'uomo industria).

Il prossimo salto sarà veramente enorme, se non addirittura epocale, perché verrà messo in discussione il carattere specifico dell'uomo come parte integrante della natura. Cadrà la concezione umanistica avversa a questa integrazione. Stanno già scomparendo le mistiche sul pensiero e sulla coscienza, bombardate da scoperte empiriche devastanti rispetto allo status quo. Il nuovo paradigma già se la ride di fronte ai rozzi tentativi di critica a un presunto neo-riduzionismo, perché si rende sempre più evidente che semmai sta succedendo il contrario, con il bisogno di unificare la conoscenza e con il convergere spontaneo e sempre più frequente di discipline un tempo separate. La macchina più potente e versatile sinora escogitata porta in sé il germe di questa scienza del tutto, perché elabora dati indifferentemente dalla loro origine, biologica, fisica, psicologica, ecc.

Conoscere la storia della conoscenza

Secondo il biologo e neuro-scienziato Gerald Edelman "la coscienza è un processo la cui funzione è conoscere… [e questa dinamica ci aiuta a capire] quale sia la relazione tra i progressi delle scienze del cervello e i problemi della conoscenza umana" .

Sembra che sia proprio il problema la cui soluzione ci interessa tanto a proposito di una teoria della conoscenza. Questo problema naturalmente ha una sua storia. La quale, scritta dall'uomo, non è ancora giunta al traguardo perché l'uomo stesso non vi è giunto. Si sa ancora troppo poco intorno al rapporto cervello-coscienza, ritenuto un passaggio obbligato per sapere come fa l'uomo a conoscere. Per Edelman c'è una coscienza primaria che è quella del protozoo o, a un livello più alto, del neonato umano; ad un livello ancora più alto si svilupperebbe poi la coscienza derivante dai dati culturali, che è quella di cui ogni essere umano adulto è consapevole e che è la base per la formazione del pensiero scientifico. Siccome a questo livello di coscienza ogni procedimento scientifico è "immaginazione al servizio della verità verificabile", la scienza sarebbe tributaria della coscienza. Se fosse così, allora saremmo già in possesso di una soddisfacente teoria della conoscenza e basterebbe riuscire ad esporla con chiarezza in modo che fosse sperimentalmente verificabile (anche con esperimenti virtuali). Dalla base materiale a quella culturale, sarebbe in funzione un "darwinismo neurale". La conoscenza sarebbe dunque un fatto evolutivo.

La darwiniana selezione naturale tende a escludere la regressione evolutiva: per definizione sopravvive e si rinforza l'organismo più adatto. Perciò è corretto risalire il più lontano possibile per vedere quali siano stati i fattori evolutivi che hanno condotto all'uomo, passando attraverso fasi intermedie.

Abbiamo già visto il protozoo che fluttua lungo il gradiente zuccherino. È in grado di conoscere? Sembrerebbe di sì, dato che, cercando cibo, "sa" che cosa fare e raggiunge lo scopo. Difficile dire la stessa cosa del passaggio precedente: prima dell'organismo unicellulare si erano formate catene di molecole in grado di combinarsi e ricombinarsi. Non erano ancora esseri viventi ma non erano più grumi di materia inanimata. Erano simili ai virus, ma senza la possibilità di interagire con una cellula ospite, che non c'era ancora. Detti insiemi avevano dunque una proprietà, se non vogliamo ancora dire capacità, di assumere configurazioni differenti inglobando altri pezzetti di materia, un po' come nel gioco del Tetris. Queste zone di confine sono le più promettenti quando si cerca materiale per le rivoluzioni. Infatti, simulando al computer ambienti in cui è possibile che si formino spontaneamente configurazioni di un certo ordine… esse si formano.

Edelman è tra coloro che non ammettono analogie fra cervelli veri e artificiali: "Nulla indica l'esistenza di un programma composto di procedure efficaci per il controllo degli ingressi, delle uscite e del comportamento del cervello. L'intelligenza artificiale non funziona nei cervelli veri" . L'autore vuol certamente dire che non possiamo paragonare il cervello alla macchina, e nei paragrafi successivi a quello citato cerca di spiegare il perché. Ma il piccolo lapsus (ovviamente non si può implementare un software nel cervello umano) dimostra il pregiudizio ideologico: per sostenere l'origine speciale della coscienza si continua a fare l'esempio della incompatibilità fra cervello e computer, cosa che nessuno a modo suo nega.

Il fatto che sia stato inventato il computer aiuta però a capire che cosa succede nel processo che conduce alla coscienza e alla capacità di conoscenza. Già abbiamo visto che il nostro organismo unicellulare si comporta come un computer: non è ancora "intelligente", quindi non scandalizziamo nessuno se gli facciamo fare operazioni booleane come "cibo sì/no", oppure cibernetico-neumaniane come "se non trovi cibo allora fermati altrimenti torna indietro". Si potrebbero simulare in un computer tanti organismi unicellulari che compiono movimenti analoghi a quello da noi immaginato. Queste cellule elementari conoscono l'ambiente solo tramite istruzioni binarie: c'è o non c'è nel loro intorno (un quadretto della griglia su cui si muovono) un altro organismo unicellulare; a seconda se la risposta è sì o no, aggiungono o tolgono questo essere, modificando sé stessi e/o facendo nascere altri esseri. Introducendo all'inizio un elemento d'informazione e reiterando per migliaia di volte queste operazioni casuali, si forma un ambiente abbastanza complesso popolato di esseri viventi di tipo diverso in grado di evolvere. Quando il matematico John Conway procedette a questo esperimento, con quadratini bianchi e neri al posto delle nostre cellule, si accorse che la simulazione riproduceva i cicli di evoluzione della vita sulla Terra. Il programma si chiama Game of Life ed è scaricabile gratuitamente da Internet. Ma la cosa più stupefacente fu lo scoprire che questi cicli di reiterazione caotica, alimentati solo dall'intrusione di elementari informazioni, producevano automaticamente universi paralleli e in alcuni di questi comparivano delle Macchine di Turing capaci, come l'originale, di computare ogni cosa computabile dell'Universo! (riportato da Dennett).

In effetti, osservando gli esserini digitali in movimento darwiniano il nostro cervello ha la netta sensazione che quel fermento di "leggi", "sposta", "scrivi", "cancella", sia lo specchio di quello che sta succedendo nel nostro cervello, un campo caotico sempre attivo, a diversi livelli, in cui stimoli ambientali producono cambiamenti di stato, ordine, significato dando luogo a ricordi, sogni, progetti, allucinazioni, ecc. Il filosofo Hilary Putnam dice di aver "preso in seria considerazione" uno scenario di teoria computazionale del cervello il cui formalismo è rappresentato da macchine di Turing. Tutto ciò che è vero per le macchine di Turing è vero per qualsiasi altra macchina, purché abbia caratteristiche di computabilità. Ergo, è vero che cervello e computer hanno delle analogie. Ed è per questo, aggiungiamo noi, che si crede di aver "creato" il computer mentre lo si è semplicemente materializzato a nostra immagine e somiglianza ed esteriorizzato.

Ci eravamo chiesti – ed è ciò che aveva fatto sentire il bisogno di questo lavoro – se fosse possibile riprendere l'osservazione della nostra corrente sul "rovesciamento della piramide conoscitiva". Se fosse cioè possibile elaborare una teoria rivoluzionaria della conoscenza partendo dall'assunto che, per farlo, l'uomo ha bisogno di conoscere come fa a conoscere, e che questo presupposto poteva realizzarsi solo con una rivoluzione sociale. La rivoluzione è in atto e corre verso la sua soluzione discontinua. Il fattore tempo si sta rivelando un po' troppo esteso. Forse è per questo che, intanto, sprazzi di teoria rivoluzionaria della conoscenza emergono dalla società così com'è. E ci dimostrano che le connessioni da noi tentate in questo lavoro sono plausibili: l'algebra di Boole vede la luce con un libro dal titolo evocante una teoria della conoscenza basata su di un riduzionismo estremo che ricorda le pulsioni elementari degli esseri viventi originari; la fisica relativistica e quella quantistica ripropongono la nostra struttura conoscitiva alle prese con i mondi apparentemente separati del continuo e del discreto (e in questo sono il prodotto della nostra immaturità sociale); le teorie dell'informazione, le macchine elaboratrici universali, la cibernetica diventano scienza perché rispecchiano il nostro modo di essere.

Basi fisiche della coscienza e sviluppo… metafisico?

Cervello e macchina da elaborazione veloce non sono la stessa cosa e le analogie si fermano dove abbiamo visto, ma è innegabile che l'Intelligenza Artificiale è figlia nostra ed è un tentativo di far funzionare la macchina come funzioniamo noi. La struttura al silicio non è adatta e d'altra parte non c'è altro. Si riponevano molte speranze sul computer quantistico, ma sembra al momento irrealizzabile: ogni intervento per prelevare i risultati del calcolo cozzerebbe contro il principio secondo il quale l'osservatore fa parte dell'osservato e lo modifica tentando di giungere a una misura.

Abbiamo visto che il nostro cervello è un sistema che memorizza configurazioni e le mantiene attive in modo che siano pronte a confrontarsi con nuove configurazioni introdotte attraverso i sensi. Questo continuo confronto e riconoscimento di configurazioni si deduce sia da esperimenti condotti su animali o su volontari, sia da studi condotti su episodi traumatici riguardanti aree specifiche del cervello. Ciò che noi riferiamo alle emozioni, dunque alla sfera qualitativa, può essere ricondotto al modello qui descritto. Perciò i non materialisti potrebbero stare tranquilli: le configurazioni qualitative che costituirebbero la base delle emozioni non sono negate dal modello materialista e possono convivere con le configurazioni quantitative "misurabili" e generalizzabili, quindi oggettive.

Noi abbiamo posto il pensiero organizzato dopo il linguaggio (fare, dire, pensare, sapere), mentre i non materialisti lo pongono prima. Persino Engels indulge su questo primato. Il suo modello evolutivo contempla ovviamente il lavoro, il suo effetto sull'organismo e il suo estendersi a livello sociale. Ma quando arriva al passaggio critico afferma: "Gli uomini in divenire giunsero al punto in cui avevano qualcosa da dirsi" . Cos'era quel "qualcosa"? Evidentemente dell'informazione che avevano acquisito prima che si sviluppasse il linguaggio articolato diretto ad altri. Informazione che però, nello spazio delle configurazioni di cui sopra, non poteva che essere un linguaggio. Possiamo dunque immaginare un linguaggio "interno", pre-esistente a quello adatto alla comunicazione con altri? Dennett sembra propenso a crederlo. Non c'è alcun errore in Engels, c'è solo una difficoltà oggettiva nel comunicare passaggi logici. Se per pensiero intendiamo un qualcosa di extra-materiale, di innato, esso verrebbe evidentemente prima nel tempo; ma se intendiamo il sistema di configurazioni che rimane "acceso" per riconoscere ed elaborare ciò che arriva dall'ambiente, e dall'insieme trarre indicazioni per rovesciare la prassi, allora la sua "comparsa" deve essere successiva. Le configurazioni sono un risultato del lavoro e della comunicazione. Dal punto di vista evolutivo, però, la discussione ha poco senso, dato che corpo, pensiero e linguaggio co-evolvono. Ma la capacità di dar luogo a configurazioni mentali il cui ordinamento sfocia nel progetto deve essere posta dopo perché è una capacità sociale; non importa se, ancora al tempo nostro, non si è evoluta completamente (Marx la indica come passaggio dal regno della necessità a quello della libertà) e attende un salto rivoluzionario. I non materialisti trattano questa capacità sociale come un fenomeno separato che in genere chiamano "cultura", quasi fosse una seconda natura dell'uomo:

"Una spiegazione scientifica esclusivamente riduzionistica di questa seconda natura, della sua etica e della sua estetica non è desiderabile né probabile né imminente. I fattori culturali hanno una grossa parte nella determinazione delle credenze, dei desideri e delle intenzioni" (Edelman).

Le teorie sul comportamento virale dei memi, entità non materiali che hanno effetti sulla materia, per quanto sgrossate e al limite dei criteri scientifici, sono preferibili alle teorie basate sulla cultura. Infatti, per quanto Edelman sia contrario ad ogni ipotesi riduzionista rispetto ai fatti culturali, riconosce che la storia dell'evoluzione è ormai basata più sui dati della conoscenza acquisita e delle condizioni sociali in cui viene utilizzata che non sui dati biologici:

"L'evoluzione del cervello e di menti coscienti è avvenuta per selezione naturale nell'ambito della struttura data dalle leggi fisiche; in seguito all'evoluzione dell'Homo sapiens, l'emergere del linguaggio e della coscienza di ordine superiore ha consentito lo sviluppo della scienza empirica. L'applicazione della logica in relazione al linguaggio e all'osservazione del mondo, e della matematica come studio di oggetti mentali stabili, ha profondamente arricchito questi sviluppi… Tra la scienza e le discipline umanistiche non vi è una separazione logicamente necessaria, ma solo un rapporto di tensione in cui la scienza è riconosciuta come una base fondamentale, ma non esaustiva né unica, della conoscenza".

Che cosa sarà mai la "coscienza di ordine superiore" non si sa, ma l'importante per noi non è la polemica sterile con lo scienziato borghese, bensì il fatto che egli è costretto ad ammettere che tra le discipline scientifiche e quelle umanistiche non vi è un dualismo logicamente necessario, che la scienza è la base e il resto ideologia (considerando che comunque anche nella base scientifica attuale vi è ancora tanta ideologia). Tutti ammettono che il nostro cervello individuale è assolutamente soggettivo, pochi però ammettono lo schema di rovesciamento della prassi, che ha un senso esclusivamente nello svolgimento sociale. L'unico modo per neutralizzare la soggettività (sempre che questo obiettivo sia nel programma di chi svolge la ricerca) è riconoscere il primato del dato sociale su quello individuale. Ovviamente non si può fingere che l'individuo non esista, ma la ricerca ha già trovato la soluzione abbozzando sia una "fisica della storia", sia un modello oggettivo per trattare l'individuo come "atomo sociale" (Buchanan). Se si accetta il dato di fatto che il cervello è un elaboratore di configurazioni, bisogna accettare il fatto che il loro riconoscimento comporta un confronto, una qualche procedura per stabilire una quantità di informazione, anche per integrare eventualmente i vuoti. Siamo assai vicini, se accettiamo questo, ad un cervello che funziona confrontando bit di informazione, esattamente come stabilisce la teoria di Shannon.

Il futuro cosciente della conoscenza

A leggerli con il filtro della rivoluzione, anche i lavori dei non materialisti nel campo delle neuroscienze tendono ad entrare nel campo di quell'attrattore che è la futura teoria della conoscenza. Alla fin fine sono costretti ad ammettere che sì, la storia è intrinsecamente diversa dalla fisica, ma, come scrive Edelman, non si può prescindere dalla logica. E, come abbiamo visto, la logica del cervello, esteriorizzata, è contenuta in quel filone ormai ben definibile che va dal protozoo nella sua soluzione zuccherina ai supercomputer, passando da Boole e dal suo lavoro dal titolo stupefacente che avremmo potuto scrivere noi.

Occorre chiederci quale futuro possano avere le ricerche intorno a una teoria "naturalistica" della conoscenza, a partire dalle anticipazioni rintracciabili oggi. Il dualismo anima/corpo (uomo/natura, ecc.) è tenace, ma sta soccombendo sotto i colpi delle scoperte intorno alla struttura del cervello. Si sa ancora poco, ma certo gli effetti di dette scoperte sono visibilissimi. Alcuni dualisti si sono avvicinati al materialismo e viceversa, per cui i seguaci dei due "ismi" ne hanno partorito un terzo, l'emergentismo. Il guaio è che non è emerso un nuovo e più alto livello di conoscenza ma un compromesso: i materialisti rinnegano il riduzionismo spinto che non tiene conto delle dinamiche non lineari insite nel vivente; i dualisti rinnegano le concezioni decisamente mistiche e antiscientifiche. Ne risulta un pasticcio che non permette affatto di superare gli antichi scogli e sotto-sotto si rivela un espediente basato sul linguaggio:

"Se si considera che tra le fibre nervose e la mente vi sono almeno altrettanti livelli gerarchici che tra la fisica atomica e le fibre ner­vose, non dovrebbe stupire che la materia del cervello, e quindi quella della mente, sia diversa dalla materia nervosa. Se riconoscere questo fatto significa essere dua­listi, allora anch'io sono dualista… Ancorché prudente, questo processo verso la conoscenza ignora però il confronto con i fatti, uno dei pilastri della tradi­zione scientifica … [Io assumo perciò] che la coscienza sorga dai sistemi fisici, ma in termini non riduzionisti: non è dunque necessario fornire una spiegazione pura­mente fisica di come l'esperienza cosciente entra nella rappresen­tazione. È questo non-riduzionismo l'ingrediente in più che considero indispensabile per sfuggire alle teorie meccanici­stiche che fingono di poter spiegare la coscienza… Essendo uno scienziato della natura, credo anch'io che tutto sia fatto delle particelle e dei campi della fisica (e di qualcosa che, probabilmente, dobbiamo ancora scoprire). Ma questo è solo il pro­logo della storia che vorremmo poter raccontare. Questo è il materialismo: i problemi sorgono, a mio parere, con il ma­terialismo riduzionista, secondo cui i movimenti degli atomi baste­rebbero a raccontare l'intera storia. " (Alwin Scott).

Un passo veramente significativo. Questo autore si dichiara emergentista, ma è chiaro che non si limita a simpatizzare per il dualismo pur accettando le basi fisiche del materialismo; egli è profondamente dualista anche mentre rinnega sé stesso. Tanto più che se la prende soprattutto con i funzionalisti, una corrente dei materialisti. Costoro dicono: non importa se non sappiamo dove risieda la coscienza, di quale materia sia fatta, l'essenziale è che noi si possa verificare il fatto che due sistemi dinamici sono compatibili quando hanno input e output identici, pur senza sapere come sono fatti "dentro". Insomma, una teoria della scatola nera: si deducono i caratteri di un processo non conosciuto dalle caratteristiche degli input e degli output. Il funzionalismo ha una variante "forte": il nostro corpo è fatto di cellule dal comportamento tanto semplice da essere facilmente riprodotto con un computer. Una macchina così potente e complessa da riprodurre il nostro corpo, cellula per cellula, cervello compreso, sarebbe in grado di pensare, avere coscienza. Ovviamente questo tipo di riduzionismo manda in bestia i dualisti:

"Dire che è possibile spiegare tutte le vicende umane in termini strettamente fisici è pura sciocchezza. Altrettanto insensato è affermare che richiamarsi alla filosofia politica, alla legislazione o al clima ideologico equivalga ad affi­darsi a qualche sorta di misticismo, a una cabala non scientifica. Non pos­siamo eliminare questi concetti da una discussione delle dinamiche sociali, a meno di limitarci a descrivere i flussi di persone nella metropolitana durante le ore di punta. Costruire una teoria puramente fisica della società sarebbe un'impresa insensata, tranne che per il più ottuso dei riduzionisti" (Erich Harth).

Questo signore ha ragione, come aveva ragione quel critico di Darwin che osservava: "Il suo mondo è il risultato del caos, manca un qualsiasi elemento di ordine divino". Il riduzionismo becero è fratello del dualismo antico. Ma, accidenti, il "riduzionismo meccanicistico" dei grandi scienziati rivoluzionari borghesi ha cambiato il mondo. La macchina computante di cui ci stiamo occupando ci ricorda l'assunto di Laplace: se un'intelligenza infinita analizzasse il mondo al tempo t, saprebbe in anticipo come sarebbe il mondo stesso al tempo t1. Laplace non conosceva la meccanica quantistica con il suo indeterminismo (forse) ontologico, ma dal punto di vista newtoniano aveva ragione: un'intelligenza infinita risolve tutto, rende auto-coerente la proposizione. Il funzionalismo forte è più auto-coerente ancora: se fossimo capaci di riprodurre noi stessi in un computer saremmo… altri noi stessi. Solo che non lo sappiamo fare. Quel che riusciamo a fare è un modello, fisico o mentale, e di lì sviluppare teorie o progetti usando la gran macchina. L'organismo unicellulare di cui abbiamo parlato è un computer elementare, le sue funzioni viventi le sappiamo riprodurre con una macchina non vivente. Abbiamo fatto l'esempio dell'aspirapolvere automatico, uno dei gradi di automazione più semplici. Abbiamo citato anche il tosaerba, un pochino più complicato (esce dal suo parcheggio quando avverte l'erba alta e la va a tosare evitando le parti del prato già tosate; quando ha finito ritorna al parcheggio e ricarica le batterie aspettando che l'erba cresca di nuovo). Scalando i livelli di simulazione della materia vivente su su verso quello della coscienza, abbiamo il robot industriale, il drone, il simulatore di volo, il simulatore meteo e il simulatore della coscienza negli esperimenti di Intelligenza Artificiale.

L'uso del computer e la sua storia ci hanno già aiutato ad ampliare la nostra conoscenza. Oggi però, da una parte usiamo macchine potenti come i computer in modo assai stupido, dall'altra le riteniamo capaci di riprodurre la mente. Anche i dualisti in fondo sostengono disperatamente il primato irraggiungibile della ineffabile coscienza proprio perché è iniziato l'assedio al primato stesso. In questa società, il guaio per tutti coloro che lavorano al problema della coscienza/mente è che esso è ancora troppo affine agli argomenti privilegiati dalla filosofia, perciò tutti diventano un po' filosofi e i filosofi sguazzano nel loro congeniale brodo di coltura.

Così si perde di vista la vera funzione della macchina: che non è quella di pensare, ma di aiutare a pensare. Con la sua anima manichea di uno e zeri ci ricorda che rispondiamo al codice binario da tre miliardi di anni, che siamo fatti di cellule uguali a quelle vaganti negli oceani di allora, che probabilmente proprio per questo abbiamo escogitato tutti i formalismi necessari, compresi il plurimillenario dualismo, l'algebra di Boole, la meccanica dei quanti, affinché alla natura fosse consentito di fare il salto in un'altra delle sue fasi fondamentali. La nostra corrente affermò che le astrazioni matematiche, le formalizzazioni, i modelli, gli schemi, le misure, sono tutte "macchine per conoscere". Adesso c'è una macchina per conoscere che comprende e riassume tutto ciò che l'ha preceduta. In quanto a intelligenza non è niente di speciale, ma con i suoi bit booleani ci permette di elevare alla massima potenza la nostra, biologica.

Digitale e analogico, macchina e uomo, si ritrovano in un tutto fino a questo momento sconosciuto. Se la macchina, in via di principio, risolve qualsiasi problema computabile, ciò che è arduo non è rispondere, ma è formulare la domanda.

LETTURE CONSIGLIATE

  • Bateson Gregory, Mente e Natura, Adelphi.
  • Battaglia Pippo, L'intelligenza artificiale, UTET.
  • Boole George, An Investigation of the laws of thought, Walton & Maberly, 1854.
  • Bordiga Amadeo, Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica, free download sul nostro sito – Archivio storico 1952-1970.
  • Bordiga Amadeo e altri, Scienza economica marxista, file gratuito a richiesta.
  • Bruno Giordano, De vinculis http://www.jonicalive.it/wp-content/uploads/2013/06/ Bruno-De-vinculis-in-genere-ita.pdf
  • Buchanan Mark, Ubiquità, Mondadori.
  • Buchanan Mark, L'atomo sociale, Mondadori.
  • Colombetti Marco, Le idee dell'intelligenza artificiale, Mondadori (vasta bibliografia).
  • Crick Francis, La scienza e l'anima. Un'ipotesi sulla coscienza, Rizzoli.
  • Damasio Antonio, L'errore di Cartesio, Adelphi-
  • Dawkins Richard, Il gene egoista, Mondadori.
  • Dawkins Richard, Il racconto dell'antenato, Mondadori.
  • Dennett Daniel, Coscienza. Che cosa è, Laterza.
  • Dennett Daniel, La mente e le menti, Rizzoli.
  • Dennett Daniel, Strumenti per pensare, Cortina.
  • Dennett Daniel, L'evoluzione della libertà, Cortina.
  • Dennett Daniel e altri, Cervelli che parlano, Mondadori.
  • De Rosnay Joël, L'homme symbiotique, Editions du Seuil.
  • Delbrück Max, La materia e la mente, Einaudi.
  • Dyson George, L'evoluzione delle macchine, da Darwin alla intell. globale, Cortina.
  • Edelman Gerald, Il presente ricordato, Rizzoli.
  • Edelman Gerald, Più grande del cielo, Einaudi.
  • Engels Friedrich, Il socialismo dall'utopia alla scienza, Editori riuniti.
  • Engels Friedrich, Dialettica della natura, Editori Riuniti.
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  • Gardner Howard, La nuova scienza della mente, Feltrinelli.
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  • Minsky Marvin, La società della mente, Adelphi.
  • n+1 numero 0, Il cervello sociale.
  • n+1, numero 4, Einstein e alcuni schemi di rovesciamento della prassi.
  • n+1 numero 15-16, Per una teoria rivoluzionaria della conoscenza (1960).
  • n+1 numero 19, Genesi dell'uomo industria.
  • n+1 numero 30, Contributi a una teoria della conoscenza.
  • n+1 numero 33, Realtà e percezione. Per una teoria rivoluzionaria della conoscenza .
  • n+1 numero 33, Un mondo d'infinite relazioni. Intorno alle teorie della mente.
  • n+1 numero 35, L'Italia nell'Europa feudale, (free download sul nostro sito).
  • n+1 numero 36, Come fa l'uomo a conoscere.
  • n+1, Quaderni di, La passione e l'algebra, cap. sul "rovesciamento della prassi".
  • PCInt., Teoria e azione nella dottrina marxista, 1951, sul nostro sito.
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  • Wachowski, Fratelli, Matrix, Warner Bros.
  • Wells Herbert George, The World Brain, free download su Gutenberg.
  • Wiener Norbert, Introduzione alla cibernetica, Bollati Boringhieri.

"Anticipando una conclusione che potrà far parte di ricerche sulla teoria della conoscenza nel sistema marxista, rileviamo anche che il trattare le entità su cui si indaga con misure numeriche e relazioni matematiche tra le loro misure quan­titative conduce a rendere le nozioni e le relazioni e il loro possesso e maneggio meno individuali, più impersonali e valevoli collettivamente. Il puro apprezza­mento qualitativo contenuto in giudizi e indagini comunicati in parole del linguaggio comune, serba l'impronta personale in quanto le parole e i loro rapporti assumono valore diverso da uomo a uomo secondo le precedenti tendenze e pre­disposizioni materiali emotive e conoscitive. Sono quindi personali e soggettivi tutti i giudizi e i principi morali estetici religiosi filosofici politici comunicati e diffusi a voce e per iscritto. I sistemi di cifre e le relazioni di simboli matematici (algo­ritmi) con cui hanno poca famigliarità anche molte persone che si affermano colte, tendono a stabilire risultati validi per tutti i ricercatori, o almeno trasferibili in campi più vasti senza che siano deformati facilmente da particolari interpretazioni.

Il passaggio, nella storia della società e delle sue conoscenze, non è certo semplice; è duro e difficile e non privo di ritorni e di errori, ma in questo senso si costituisce il metodo scientifico moderno.

Di alto interesse a tal uopo e al fine di dare un valore oggettivo reale e materiale alla conoscenza umana, sarà l'esame di algoritmi moderni che hanno raggiunto tale potenza da lavorare e camminare per conto loro in certo sensofuori della coscienza e dell'intelligenza, e come vere macchine per conoscere. La loro scienza diviene non più fatto dell'io, ma fatto sociale. L'io teoretico, come quello economico e giuridico, deve essere infranto!".

(Da Elementi dell'economia marxista, 1946)

Rivista n. 38