L'avvento della libertà
Daniel Dennett, L'evoluzione della libertà, Cortina, pagg. 453, euro 29
Il titolo non è di quelli che attirano la nostra attenzione: sapendo che Dennett è un filosofo, il lettore s'immagina la solita tiritera su una qualche variante del libero arbitrio, magari con un pizzico di materialismo e determinismo, dato che l'autore è sì filosofo, ma un po' particolare. Leggendo le molte recensioni presenti su Internet, l'impressione si rafforza: sembra davvero che ci troviamo di fronte a un libro di filosofia su quella libertà che comparve sulla bandiera della borghesia rivoluzionaria insieme all'eguaglianza e alla fraternità. Trascriviamo da una delle recensioni critiche più significative dal punto di vista della distorsione ideologica:
"[Dennet] si propone di dimostrare che la libertà umana è del tutto conciliabile con la necessità espressa dalle leggi scientifiche... Ciò significa che la libertà è una facoltà nient'affatto misteriosa, che si sviluppa nelle specie viventi, concretizzandosi in una capacità di adattamento sempre più efficace… Dennett identifica dunque la libertà con la flessibilità di comportamento, vale a dire con la capacità di reagire adeguatamente agli stimoli ambientali in rapporto all'esigenza di soddisfare bisogni biologicamente importanti" (recensione su Il Diogene, www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=Dennett04.html).
Ora, è vero che Dennett affronta il tema della libertà dal punto di vista evolutivo, prima che filosofico, ma la maggior parte dei recensori non si accorge nemmeno che egli modifica radicalmente il punto di vista borghese secondo il quale la libertà è un principio universale che riguarda i diritti dell'individuo. L'essere unicellulare che tre o quattro miliardi di anni fa dava inizio alle forme di vita più complesse godeva di una libertà che perdette quando si unì ad altre cellule per costituire organismi più complessi. Miliardi e miliardi di queste cellule non saranno affatto libere in un organismo siffatto. Nelle forme di vita evolute la libertà non è una prerogativa dell'individuo ma dell'insieme. Sarebbe ovviamente troppo pretendere che Dennett ci sciorinasse una teoria evolutiva del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà nell'accezione di Marx ed Engels. Ma non è troppo lontano da un'operazione del genere, a dispetto di quanto dice ancorail recensore:
"Dennett contesta precisamente l'idea che un sistema basato su unità deterministiche debba comportarsi, a sua volta, in maniera deterministica. Ma non ci fornisce neppure un argomento autenticamente scientifico (basato cioè su teorie controllabili) dicome da un insieme di eventi vincolati alle ordinarie leggi fisiche si possa giungere a comportamenti misteriosamente sottratti dal dominio della necessità" (idem).
È vero anche questo, ma si sa che l'uomo si è evolutodistinguendosi dal resto del regno animale quando ha smesso di farsi semplicemente determinare dall'ambiente ed è riuscitoa determinare a sua volta l'ambiente stesso. La capacità di modificare volutamente la natura non ha nulla a che fare con il libero arbitrio, concetto arrivato sulla scena molto tardi rispetto ai percorsi evolutivi. Ma soprattutto la capacità di progetto non contraddice il determinismo dei fatti: è proprio la linea evolutiva dell'uomo che risulta da catene causali, e ne genera, fino alla grande capacità progettuale di oggi, che orridamente si manifesta conuna pletora di manufatti che sta uccidendo il pianeta. Proprio mentre il pianeta si riempie di oggetti e sistemi progettati, la società umana di questa epoca dimostra di essere la meno attrezzata per progettare sé stessa, perprogettare armonicamente la propria esistenza. È meno libera di quando doveva lottare per sopravvivere ai carnivori nella savana.
È interessante constatare come tutti i recensori che abbiamo preso in esame non riescano a leggere in Dennett ciò che nel suo lavoro si avvicina a una teoria nuova della libertà in quanto contrapposta alla necessità. Naturalmente anche noi vediamo nel libro di Dennett ciò che collima con il nostro retroterra teorico: questo autore è politicamente un classico liberal americano ateo, ma produce un qualcosa di vagamente attinente al nostro "rovesciamento della prassi". Per noi è già tanto. Mentre il recensore da noi citato (e non solo quello) tende a verificare dall'interno del sistema di conoscenze consolidate e omologate se il libro corrisponde o meno all'omologazione, criticandone l'eclettismo materialistico, noi cerchiamo una relazione tra gli argomenti trattati e un altro sistema di conoscenza. A noi non importa nulla cheDennett "non riconosca alcuna importanza all'idea di libertà così come essa emerge dal vissuto di ogni individuo". Anzi: meno male che qualcuno incomincia a parlare di "libertà" nel senso di superamento della bestiale "necessità" anziché fermarsi al contenuto ideologico di due rivoluzioni addietro.
Ci vogliono due minuti per leggere l'indicedel libro e accorgersi che l'interpretazione ideologizzantenon funziona. I primi tre capitoli ("Libertà naturale", "Uno strumento per riflettere sul determinismo", "Riflettere sul determinismo") aprono il discorso con l'appello a un riduzionismo non meccanicistico, cioè a supersemplificazioni consapevoli che aiutano a sgombrare il campo dalle "credenze" non scientifiche. I successivi tre ("Stiamo a sentire le ragioni dei libertari" – cioè dei sostenitori del libero arbitrio, "Da dove viene tutto il progetto?", "L'evoluzione delle menti aperte") trattano dell'evoluzione avvenutaattraverso la simbiosi fra il mondo biologico e quello costruito nell'arco dell'ominazione,non solo in senso paleoantropolgico ma soprattutto moderno, sottolineando "progetto" (sottocapitolo: "Come i simbionti culturali trasformano i primati in persone"). Negli ultimi quattro capitoli l'autore cerca di collegare teoria evolutiva deterministica e società, in un miscuglio che meriterebbe maggiore chiarezza espositiva ("L'evoluzione dell'agire morale", "Siete fuori dal giro?", "Il nostro bootstrapping per essere liberi", "Il futuro della libertà umana". È invece chiaro il suoripiombare, specie nel finale, nelle categorie filosofico-politiche correnti, dove per "libertà" si intende il "tesoro" morale che i popoli hanno conquistato e difendono in forma di democrazia.
Nonostante quelle che per noi sono gravi cadute nel convenzionale, il libro nel suo insieme è forse il massimo che può produrre la scienza borghese. Dennett, come abbiamo detto è un filosofo, ma si compiace di ricorrere ad ogni espediente scientifico per sostenere le sue tesi. Partendo dall'assunto che "per ogni istante c'è solamente un futuro fisicamente possibile", egli demolisce luoghi comuni, e in ciò "lavora per noi". Non è vero, dice, che l'assunto deterministico comporti l'ineluttabilità degli eventi; non è vero che il libero arbitrio, al contrario, dimostrila validità dell'indeterminismo; non è vero che in un mondo deterministico ogni scelta fra opzioni diverse sia solo apparente. Come si vede, in poche righe si condensano un paio di millenni di attività cerebrale dei filosofi e bisogna fare un po' di fatica, nelle 450 pagine complessive a distillare ciò che ci serve. Dennett è in effetti più abile a difendere un determinismo laplaceano che non a dimostrare la possibilità di cambiare il futuro secondo un progetto ("libertà"), tuttavia ci è possibile districare la matassa e vedere un collegamento con il nostro programma a proposito del cervello sociale, quello che noi chiamiamo "partito storico", in quanto fattore determinato e determinante del cambiamento.