Donald Trump e la politica estera di un ex colosso imperialista

A leggere le esplicite dichiarazioni di Trump, raccolte e commentate dalla stampa internazionale, sembra di essere ritornati alla strategia della Guerra Fredda. Naturalmente le epoche storiche non si ripetono e, con buona pace dei commentatori, non succederà nulla che possa ricordare il periodo che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla caduta del Muro di Berlino. Il fatto che il neopresidente dichiari senza pudore che ammira Vladimir Putin e che questi ricambi la cortesia sarà un dato sovrastrutturale fin che si vuole, ma non è proprio più possibile il ritorno a un mondo bipolare su cui incombe il deterrente atomico. Non è più possibile che si affrontino come protagonisti assoluti due colossi imperialisti affiancati da partigianerie uscite da una guerra mondiale, formate da paesi strettamente legati da alleanze strategiche, raggruppati in due schieramenti separati da un fronte sul quale a volte si combattono ancora guerre di tipo classico.

L'Ucraina, ad esempio, è stato terreno di scontro fra Stati Uniti e Russia, ma non si sono più verificate situazioni analoghe a quelle del passato: le manifestazioni e poi le rivolte a favore dell'Occidente, fomentate e sostenute abbastanza platonicamente dagli Stati Uniti, non hanno provocato tensioni internazionali paragonabili a quelle che provocarono scontri militari come in Corea e Vietnam o comunque prove di forza come a Cuba. La Russia ha mantenuto il controllo sulle zone contestate e tutto è finito lì, come del resto era finito in Georgia. Così nei paesi del Baltico, dove c'era stato un tentativo di intervento politico americano, tutto è congelato. Non si può modificare un processo storico irreversibile a favore della gloria e della potenza passate di un paese imperialista. D'altra parte sono fallite anche le misure economiche tipo embargo, già poco efficaci in passato e ora semplicemente impossibili da attuare a causa del mancato controllo delle vie su cui si muovono merci e capitali, come sulla cosiddetta Silk-road.

Gli Stati Uniti hanno ancora potenza sufficiente per determinare una politica internazionale basata su quel che resta degli schieramenti di un tempo, ma in quanto superpotenza sono inesorabilmente "ex" e la loro strategia si è fatta necessariamente moderata, come ad esempio in Asia. Perdura la guerra in Afghanistan, ma essa langue in mancanza di una capacità di decisione militare, dovuta anche ai costi, cosa che un tempo non era neppure pensabile. Anzi, le guerre americane erano un buon carburante per il motore dell'economia. Perciò, piuttosto della guerra, s'è fatta strada una politica discendente dal fallito Washington consensus, cioè una spinta al libero commercio e ai vantaggi che da esso deriverebbero, formalizzata con forti alleanze internazionali oppure sancita di fatto con accordi locali. Naturalmente tutto sullo sfondo di una dose massiccia di ideologia democratica. In tale contesto le affermazioni di Trump sulla necessità di ridimensionare l'impegno americano in Asia è in contraddizione con il preteso ritorno a una grandezza che fu. Tra l'altro il disimpegno dovrebbe avvenire anche con l'eliminazione dell'ombrello atomico americano che "protegge" Corea e Giappone, paesi che dovrebbero darsi da sé una copertura atomica sviluppando in casa la relativa tecnologia. Il corollario di questa posizione è la speranza che America e Russia possano sottoscrivere degli accordi tipo Yalta per la ripartizione delle zone d'influenza.

L'area del mondo in cui le prospettive di Trump stridono maggiormente con la realtà è il Medio Oriente. "In Iraq ci siamo andati, vi abbiamo speso 3.000 miliardi di dollari, abbiamo avuto migliaia di caduti e adesso guardate, sta succedendo ciò che non volevamo affatto. Abbiamo vinto, ma il bottino non è andato al vincitore". Quel che Trump denuncia non è un errore del governo di allora, ma il dato di fatto che la potenza americana non è più in grado di condurre una guerra all'insegna della politica superimperialistica. Invece di immaginare la guerra come conseguimento della pace per la "costruzione di nazioni", la immagina come distruzione del nemico per appropriarsi di un bottino (spoil). Sarà un modo di dire, ma intanto i rapporti con Iraq, Iran, Siria, Giordania, Arabia Saudita, Turchia, Israele, non sono più quelli di una superpotenza globale che detta le proprie condizioni bensì quelli di una segreteria di stato che si barcamena in una situazione che essa stessa ha contribuito a rendere estremamente complessa. Si potrà magari scherzare su battute come quella che vuole Obama vero fondatore dello Stato Islamico, ma in realtà con la guerra irachena gli Stati Uniti avevano dato un calcio nel classico vespaio ben prima che fosse eletto Obama, per poi non sapere che fare una volta che le vespe sono andate in giro per il mondo a fondare altri vespai. E li hanno fondati con i capitali di alleati di ferro come l'Arabia Saudita, che nel frattempo hanno anche scatenato una guerra in Yemen ma contro l'Iran, impegnato sul campo contro i fondamentalisti sunniti.

Tutti i democratici si preoccupano particolarmente, infine, dei legami possibili fra un governo americano nazionalista, razzista ed economicamente fondamentalista e le frange o i partiti di destra europei. Ma il ricorso a ogni genere di destri usa-e-getta aveva senso quando l'egemonia americana in Europa era una realtà e c'era una "minaccia rossa"; oggi non esiste più un contesto che possa alimentare simili rapporti, e la politica estera di Washington rivela ciò che Trump elenca alla buona ma che è razionalmente esatto: gli Stati Uniti sono una potenza in declino. E si vede, come dice l'ambasciatore francese a Washington: "Dopo la Brexit e queste elezioni tutto è possibile, un mondo sta collassando sotto i nostri occhi".

Rivista n. 40