Buoni di non lavoro

Nel 2016 sono stati usati 145 milioni di buoni-lavoro, corrispondenti a più di 18 milioni di giornate lavorative, 70.000 posti di lavoro per un anno. Il calcolo si basa sul valore nominale di un'ora per ogni buono, ma essi vengono usati senza riferimento al tempo, perciò è possibile che si paghino con un solo buono più ore di lavoro. Non vi sono controlli su questa possibilità di nascondere lavoro in nero, perciò le cifre che circolano sono stime. I sindacati hanno provato a calcolare quanto i buoni ne possano nascondere e, facendo una media, ne hanno ricavato un iceberg con 1/3 di parte emersa e 2/3 di parte sommersa. Quindi saremmo a circa 200.000 posti di lavoro per un anno.

Fin qui alcuni numeri riguardanti il fenomeno. Ma perché il fenomeno stesso? Il fatto che Milano e Torino siano le province in cui si utilizzano più buoni la dice lunga sulla tipologia di chi offre lavoro pagato in quel modo: evidentemente l'industria si è subito adeguata. Il capitale cerca di esaltare tutti i modi di valorizzazione che trova e, siccome ultimamente ne trova pochini, si butta su quello che c'è, senza badare troppo alle conseguenze. La prima delle quali, come dice il segretario confederale della UIL, è che il buono è "entrato organicamente e patologicamente nel nostro mercato del lavoro" facendo crescere "l'economia dei lavoretti".

Con l'integrazione del sindacato nella politica statale, con la sua responsabilità verso l'economia, con il persistere dopo la guerra del modello corporativo, si era aperta un'epoca di mediazione dei conflitti di classe. Il capitale aveva beneficiato largamente della protezione statale, ma nello stesso tempo si era impastoiato nelle regole che esso stesso aveva suscitato. Il risultato, specie in tempi di crisi, è stato quell'ibrido che tanti guai produce da quasi 10 anni: un capitalismo di stato per quanto riguarda la struttura; un capitalismo selvaggio per quanto riguarda la circolazione delle merci e dei capitali. E siccome la merce forza-lavoro si mette ormai in vendita nella parte selvaggia del mercato, ecco che si fa strada in modo irresistibile, quasi automatico, la de-regolamentazione di questa parte.

Dunque siamo di fronte non solo al proliferare dell'economia dei lavoretti, ma all'organica simbiosi fra mercato e potere legislativo, alla patologica distruzione delle garanzie contrattuali, perciò alla liberazione totale della forza-lavoro sul mercato, fuori da ogni controllo. Un artificio per far emergere il lavoro nero, particolarmente nascosto nel campo delle "attività occasionali", era diventato spontaneamente uno strumento per tutte le tipologie lavorative. Con gli attuali diagrammi di crescita esponenziale, l'eccezione sarebbe diventata la regola. Più che l'economia dei lavoretti il capitale stava rafforzando l'economia dei salarietti per qualsiasi tipo di lavoro, senza "guarentigie" che assicurino la pace sociale, senza regole che neutralizzano lo sciopero. Viene in mente quanta energia potrebbe accumulare e liberare una classe operaia messa in queste condizioni, non più sottoposta al soffocante controllo da parte dei sindacati parastatali ma ricompattata su nuove basi, organizzata non più per categoria e per fabbrica ma sul territorio, indipendentemente dal mestiere, coordinata in rete, senza nulla da perdere.

Ma la borghesia è una classe vile che non ha più nulla di "progressivo" come amava dire di sé stessa: di fronte alla liberalizzazione totale del mercato della forza-lavoro si è spaventata, ha preferito ritornare alla routine consociativa.

Rivista n. 41