Riscontro "psicologico"
Questa e-mail non vuol essere un "contributo", parola grossa per uno come me che sta ai margini dell'attività di altri, ma un saluto motivato. L'occasione è l'ultimo incontro redazionale cui ho partecipato, incontro che ha visto i presenti marciare su un doppio binario, su rotaie parallele che non si incontrano mai. È vero che voi potete opporre, a coloro che si dicono in disaccordo, l'argomento del lavoro per la rivista, lavoro precisamente orientato cui chiamate a partecipare coloro che, d'accordo o meno, abbiano la curiosità di farlo. Logica vorrebbe che chi si dichiara estraneo e in disaccordo stesse zitto o addirittura non partecipasse. Tuttavia penso che quando succedono "incidenti" del genere, con interruzione del lavoro in corso, un po' di psicologia non guasti.
È evidente che persiste la condizione di estraneità fra le correnti che si rifanno ancora alla Terza Internazionale, quelle della sinistra antistalinista consigliare e quelle della Sinistra Comunista "italiana". È altresì evidente che la Sinistra Comunista ha rappresentato un elemento di rottura non solo sul piano storico-scientifico ma anche sul piano antropologico e semantico. Dico questo per "giustificare" dal punto di vista oggettivo l'incomprensione profonda da parte di individui o gruppi verso una corrente che si è comportata andando controcorrente ed ha argomentato usando un linguaggio controcorrente. Prescindiamo dal "disturbo" dovuto all'avvio di un dibattito che giustamente avete troncato, ma mi chiedo se non sia meglio in questi casi sfruttare un incidente inevitabile per far valere il punto di forza che contraddistingue la Sinistra sui tre piani cui ho accennato.
Secondo me dovreste ricavare un angolo, sulla rivista o sul sito, in cui fare non solo un resoconto, ma un vero e proprio bilancio degli incontri generali, incidenti compresi, se ci sono. A proposito di punti di forza, non bisogna sottovalutare il fatto, a me immediatamente chiaro in quanto spettatore, che voi siete avvantaggiati perché gli altri non capiscono, non a causa di complessità del problema o simili, ma a causa di sedimentazioni storiche. Quello che per voi è programmaticamente palese, per altri è sprofondato in una confusione di questioni dibattute all'infinito e che ognuno risolve a modo suo a seconda dei filoni in cui si è imbattuto. La Sinistra è rimasta isolata per decenni e questo le ha consentito di mantenere una unità teorica che altri non hanno neppure sfiorato. Giusto o sbagliato che sia, questo unicum teoretico fa saltare i nervi dei vostri interlocutori, che invece sono sottoposti a un bombardamento di "posizioni".
Se il programma della Sinistra appare per abitudine come un punto di vista fra gli altri e per giunta distante dagli altri, a maggior ragione occorre spezzare la diffidenza e far avanzare il bisogno di conoscere (non dico abbracciare) tale prospettiva. Si nota sempre, infatti, che le critiche più ingiuriose e infondate si accompagnano a un rispetto che in altri confronti manca del tutto. Questo risvolto sa forse di psicologia spicciola, ma credo che ci sia il bisogno di alleggerire l'atmosfera, altrimenti si rischia di congelare ulteriormente ogni possibilità di conoscenza. Per il vostro affiatato e agguerrito gruppo di lavoro è facile sommergere presuntuosi orecchianti, ma l'ambiente è quello che è e purtroppo alimenta sé stesso. Ognuno di noi ha una provenienza e una destinazione e finché non verrà ribaltato l'attuale stato di cose, finché non prevarrà l'istinto di milioni di uomini sul cervello individuale, una spiegazione può valere un'adesione.
Il difficile problema che hai posto nell'incontro redazionale e nella lettera: come diavolo farsi capire quando l'andare controcorrente è totale? Come evitare l'anomalia di una conoscenza condivisa sì, ma... in circolo chiuso? Nella serata precedente alla riunione avevamo parlato a lungo con i compagni ospiti e ci erano sembrati molto interessati ad alcuni aspetti del nostro lavoro. Conosciamo il loro percorso, anche se solo a grandi linee, e quindi non c'erano sorprese. Avevamo anche anticipato che, siccome di solito il "dibattito" porta in vicoli ciechi quando non addirittura a spiacevoli conseguenze, sarebbe stato meglio evitarlo, concentrando gli interventi su domande per arrivare ad approfondire eventualmente temi che sappiamo essere ostici.
Purtroppo abbiamo avuto l'impressione che, nonostante le premesse, e nonostante avessimo già abbondantemente parlato di percorsi diversi, trovando normalissima la faccenda, i compagni non avessero afferrato il senso della necessità di evitare vecchie abitudini distruttive. Dalle reazioni si capiva che il rifiuto del "dibattito" era preso come rifiuto di discussione comune. Discussione che peraltro aveva occupato serenamente più ore prima che ci ritrovasse per la riunione programmata. Se chiacchierando liberamente si riesce a considerare normale la differenza e a mettere l'accento sulle cose che reciprocamente interessano (altrimenti perché ci avrebbero chiesto di partecipare?), dovrebbe essere possibile rompere le vecchie abitudini del confronto fra opinioni e provare ad avviare un lavoro, come del resto facciamo con qualche lettore che ci invia dei contributi. Il bilancio delle riunioni è difficile da fare sulla rivista. Bisognerebbe affrontare il problema generalissimo della possibilità di rendere condivisa la conoscenza. Perlomeno una certa conoscenza. Max Plank diceva che nuovi rami della scienza non si impongono da sé, ma che questo succede quando muoiono tutti i sostenitori dei vecchi rami.
Vorremmo non essere così pessimisti. Vorremmo considerare quei giovani come portatori sani di vecchia conoscenza rivoluzionaria degenerata. Navigando su Internet alla ricerca di un testo sulla complessità, abbiamo notato quanto, tutto intorno a noi, il partito storico stia giganteggiando. Ovunque si trovano ricerche appassionate, tentativi di legare conoscenze prima separate: un sociologo cita la teoria matematica delle catastrofi; un biologo vede certi processi dal punto di vista dell'entropia; un fisico esplora l'unificazione delle scienze; un matematico pone le basi per una teoria delle trasformazioni biologiche; un economista cerca di quadrare la sua materia con la fisica del caos; uno psichiatra applica la logica dei computer per spiegare e guarire la schizofrenia; un etologo adopera schemi elettrici per dimostrare la dialettica del quantitativo/qualitativo; un ecologo traccia schemi logici della conoscenza umana.
Un marxista... che cosa fa un marxista? Tradizionalmente fa polemica con altri marxisti, oltre a dedicare un po' di tempo, se ne ha la possibilità, al lavoro sindacale, anche in questo caso con largo corollario di "confronti" sull'annosa "questione". È tradizione attribuire alla nostra corrente una buona capacità teorica e una cattiva capacità di metterla in pratica, cosa che le farebbe perdere il treno alle fermate della rivoluzione. Una specie di tradimento da in-attivismo. Queste banalità hanno alimentato per qualche decennio il lavoro di solerti cani da guardia dello stalinismo e affini. Pensiamo davvero che di fronte alla situazione attuale "una spiegazione potrebbe valere un'adesione"? L'attivismo era il vero argomento della discussione cui ti riferisci. Per sapere se negli ultimi settant'anni ha dimostrato la sua efficacia, basta guardarsi attorno. Ha avuto un programma e un obiettivo? Ha applicato teoria e volontà per giungervi o s'è lasciato trascinare dagli eventi? È riuscito ad operare connessioni dialettiche entro un mondo complesso o ha professato e praticato un riduzionismo a formulette? Ha mai dimostrato di capire che cosa veramente potrà essere la società futura?