Mangime standard per umani

Sono passati rispettivamente 17 e 10 anni da quando abbiamo pubblicatoIl lavoro del Sole e Perché gli agrocarburanti affameranno il mondo. Non cambieremmo una virgola di quanto detto allora, registriamo soltanto che la situazione è peggiorata, e di molto. A farla precipitare non sono stati i fatti più visibili e di immediato impatto emotivo, come la coltivazione di cereali da fermentare e distillare per alimentare automobili, o la coltivazione estensiva di soia e altri vegetali che entrano nel ciclo di fabbricazione dei mangimi. Il principale pericolo per la stabilità del Pianeta è ora il semplice innalzamento del livello di vita di un miliardo e mezzo di persone che hanno variato (seppur di poco) la dieta introducendo in essa più carne, incrementando di conseguenza l'allevamento di bestiame da macello che richiede una gran quantità di mangimi e produce più gas serra di tutti i motori in funzione nel mondo.

La "fame nel mondo" non è un oggetto di indagine oscuro. Si sa come affrontarla, e del resto di cibo ce n'è in abbondanza, tanto che si spreca. Anche in termini capitalistici si sa come bilanciare l'impatto di merci problematiche, tossiche o altamente inquinanti. Si potrebbe almeno ricorrere a politiche di compensazione, come si fa con i paesi che inquinano poco e accumulano tagliandi virtuosi da vendere ad altri paesi che inquinano molto. È un'aberrazione disumana, ma andatelo a raccontare a qualcuno che sta morendo di stenti. Più ancora che il prodotto di perverse politiche volute da biechi speculatori, trafficanti, governanti corrotti, la fame è il risultato di un approccio spontaneo alla standardizzazione delle specie alimentari. Ogni contadino che rimane a coltivare la terra è ben felice che la modernizzazione dell'agricoltura costringa altri contadini ad abbandonare la terra stessa. E non avrà nessuno scrupolo ad adottare sementi ibride di poche varietà di specie coltivabili, perché la loro resa lo farà guadagnare di più. È un meccanismo automatico messo in moto dalle esigenze di accumulazione del capitale. Per decenni l'agricoltura si è adeguata al comandamento vincente: ammazzare i millenari sistemi agricoli locali e sostituirli con vasti spazi di colture ad alto rendimento. Quest'ultimo calcolato esclusivamente in termini quantitativi, giacché la "fame nel mondo" pretende che non si vada troppo per il sottile con le proprietà organolettiche. Purché ci sia il modo di riempire pance vuote, non importa se incominciamo a cibarci con lo stesso mais e la stessa soia che abbiamo selezionato geneticamente per alimentare animali. E fra poco (anzi lo stanno già facendo) ci diranno che è normale mangiare larve, insetti o vermi.

Le grandi multinazionali dell'agroalimentare non sono sensibili a temi come la biodiversità, il gusto, il nutrimento, l'impatto sul nostro organismo dei prodotti azotati assorbiti dagli alimenti. Ma fa impressione constatare, mentre la "fame nel mondo" incalza coinvolgendo centinaia di milioni di persone, l'enorme successo dell'ecologismo piccolo borghese, che si ferma agli epifenomeni e non è in grado di affrontare razionalmente il problema.

Ora, è vero che esistono persone in grado di dedicare un po' del loro tempo e del loro portafoglio ad alleviare le sofferenze del prossimo, ed è altrettanto vero che nel campo dell'ecologia, dell'alimentazione, del clima, delle estinzioni, della biodiversità si raccontano balle colossali, ma è certo che questo pianeta non potrà sostenere a lungo la depredazione ecocida cui è sottoposto. Tutte le frottole che si raccontano sia nel campo dell'agrobusiness, sia nel campo dei paladini verdeggianti non spiegano affatto come mai la tanto decantata produttività per ettaro, raggiunta attraverso l'espropriazione di una massa contadina che è andata a ingrossare gli slum urbani, non abbia diminuito la "fame nel mondo", l'abbia, anzi, aumentata. Non ci spiegano come mai la cosiddetta rivoluzione verde abbia prodotto, solo in India, duecentomila suicidi di piccoli contadini che non erano più in grado di acquistare le sementi ibride non autorinnovabili delle grandi multinazionali. Facile concludere: queste ultime sono colpevoli di tale disastro e bisogna fermarle.

Non sono innocenti, è ovvio. Ma hanno fatto tutto da sole? Perché ad esempio, la Banca Mondiale ha finanziato qualsiasi progetto che fosse orientato alla sottomissione dell'agricoltura al diktat dell'uccisione della biodiversità alimentare? Che fosse una diga, un acquedotto, una ferrovia o un megaprogetto di bonifica, i capitali necessari sono arrivati in quantità tale che se fossero stati distribuiti ai contadini morti suicidi avrebbero prodotto risultati meno assassini. Perché il Fondo Monetario Internazionale a garanzia di prestiti agli stati ha sempre richiesto sacrifici a popolazioni già costrette ad abbassare il loro quotidiano livello di vita? Perché l'Organizzazione Mondiale per il Commercio, così sensibile verso il protezionismo americano è spietata con i piccoli paesi agrari che tentano di salvaguardare i loro prodotti contro il dumping dei paesi industriali (sui mercati africani vi sono prodotti agricoli europei che costano meno di quelli locali).

Noi non auspichiamo un'agricoltura fatta di piccoli appezzamenti miserabili sui quali vivono contadini abbrutiti dalla fatica, dalla famiglia e dai debiti. La soluzione alla fame non consiste nel ritorno a condizioni arcaiche. Ma sicuramente il capitalismo, che ha un alto rendimento industriale in ogni singola unità produttiva, ha un bassissimo rendimento sociale. In agricoltura non ce la fa nemmeno a programmare il dimensionamento dei poderi secondo le qualità del territorio, non ce la fa a programmare la quantità di prodotti agricoli necessaria da un anno all'altro. La rendita agraria è una ripartizione del plusvalore e, specie in tempo di crisi quando il plusvalore diventa rarefatto, il coltivatore avrebbe bisogno di produrne in proprio senza andare a prelevarlo altrove. Per fare questo dovrebbe sfruttare lavoro salariato sui campi, cosa che è profittevole soltanto per grandi superfici e coltivazioni "estreme", intensive (ortaggi in serra) ed estensive (cereali, soia), e che è possibile soltanto investendo a grande scala, su grandi superfici ricorrendo alla scienza biochimica per innalzare la produttività.

Rivista n. 43