Comunismo e agricoltura

"Nessuno si sognerebbe di sostenere che la rivoluzione proletaria non possa esplicarsi se prima il processo economico che dall'artigianato conduce alla grande industria non abbia avuto la totale sua applicazione. Altrettanto assurdo sarebbe dire che, poiché si è assodato che solo le grandi tenute moderne agricolo-industriali possono considerarsi mature per l'esercizio collettivista, la rivoluzione proletaria si inizierà dopo che tutta l'agricoltura avrà subito il processo di trasformazione delle forme più arretrate in questa moderna" (Amadeo Bordiga, La questione agraria, 1921).

Quello che segue è un testo inedito che abbiamo ricavato dalla sbobinatura degli interventi di Bordiga e di altri due compagni a una riunione generale svoltasi nel 1961. Si tratta di frammenti che abbiamo ricomposto, quindi da non considerare come una trascrizione pura e semplice dei nastri ma come una fedele ricostruzione. La riunione aveva preso le mosse da un lavoro in corso di pubblicazione sul giornale di partito e affrontava anche l'argomento del piano quinquennale da 500 miliardi per l'agricoltura varato in occasione del centenario dell'unità nazionale. Come traccia fu usato un opuscolo in cui era stato pubblicato il resoconto stenografico di una conferenza tenuta dallo stesso Bordiga nel 1921. Nell'opuscolo si criticava la socialdemocrazia di allora che, con classico gradualismo, spostava la rivoluzione a un futuro indeterminato, a quando, cioè, l'economia sarebbe stata adeguatamente sviluppata. La riunione del '61 era certamente una risposta alle tesi del Partito Comunista Italiano che sosteneva non tanto un gradualismo "rivoluzionario" quanto un'aperta collaborazione del proletariato con la borghesia, in quanto l'Italia, specie al Sud, sarebbe stata in una situazione pre-borghese, tanto che una lotta del sedicente partito operaio a fianco della borghesia sarebbe stata assimilabile al un nuovo risorgimento. La conseguenza logica di tale posizione era non solo l'appoggio al movimento contadino e bracciantile spontaneo ma la lotta contro i "feudi" del Mezzogiorno, fino alla loro occupazione.

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…Il problema dell'agricoltura in regime capitalistico si pone in maniera molto semplice, indipendentemente dal fatto che ad analizzarne la struttura sia un partito comunista come il nostro o qualche altra componente sociale. Anche oggi, come nel 1921, vi sono forze che tendono a spostare la rivoluzione in un futuro indeterminato, con il pretesto che il capitalismo abbia ancora da svolgere compiti antifeudali. Non solo questa concezione è sbagliata da un punto di vista politico, dato che la rivoluzione proletaria può benissimo portare a termine le rivoluzioni borghesi ove non fossero giunte a compimento, ma è sbagliata da un punto di vista materialistico e storico, dato che l'agricoltura è parte integrante del mercato mondiale e, per quanto arretrata, dipende completamente dalla rete di interessi capitalistici, che vanno dalle macchine ai crediti, dalle sementi selezionate all'ammasso dei prodotti, dai fertilizzanti alle assicurazioni contro gli eventi atmosferici.

Perciò, pur sussistendo in molti paesi un ritardo dell'agricoltura rispetto all'industrializzazione, l'insieme della società è nettamente capitalistico anche se la classe contadina vive condizioni apparentemente legate a modi di produzione pre-capitalistici. In alcuni casi abbiamo addirittura un'inversione di questo fatto: in Inghilterra, ad esempio, la rivoluzione agraria ha preceduto quella industriale già al tempo di Enrico VIII e di sua figlia Elisabetta. Negli Stati Uniti, a dispetto dell'epopea western, l'agricoltura è stata fin dal principio estensiva e meccanizzata, tanto che i maggiori costruttori mondiali di macchine agricole furono americani.

La presenza contemporanea di aspetti antichi e moderni nell'agricoltura è dovuta alla condizione materiale di produzione. L'evoluzione tecnica dall'artigianato all'industria è stata veloce, non è stata il risultato di una metamorfosi evolutiva ma di una vera e propria rivoluzione, dove il macchinismo e la forza motrice hanno sovvertito la posizione dell'uomo all'interno della produzione. In agricoltura vi sono condizioni materiali che non hanno permesso questo passaggio rapido: il ciclo annuale delle coltivazioni, la dipendenza da fattori esterni come il clima e l'irrigazione, il rapporto diretto del contadino (spesso in condizioni miserabili) con la terra e i suoi mezzi di produzione, il ritardo degli effetti dell'investimento sulla terra (a volte anche vent'anni), la necessità di cicli di "riposo" del terreno, che si possono abbreviare solo con l'apporto di concimi chimici.

Mentre dunque la produzione industriale può aumentare senza limiti teorici, quella agraria ha dei limiti fisici insormontabili. Nel tempo, la moderna agricoltura si è potuta affermare a partire dalle zone di più facile coltivazione, cioè nelle pianure alluvionali, mentre le zone aride e la montagna, ad esempio, hanno visto un rallentamento notevole per le difficoltà di investimento, date le basse rese per unità di superficie. E dove le rese sono maggiori, anche se le coltivazioni sono in collina o montagna, come per l'ulivo, il nocciolo, la vite o gli alberi da frutto, le condizioni ambientali rendono impossibile l'espansione sia riguardo alla superficie coltivabile che riguardo all'apporto di capitale per adottare i metodi delle grandi fattorie. Vi è dunque in agricoltura anche questo effetto paradossale: alcune colture adatte a terreni difficili sono mantenute da parte di aziende che non possono espandersi a causa delle condizioni ambientali. Tuttavia quelle colture hanno un rendimento superiore alla media e questo permette di evitare l'esproprio dei piccoli poderi da parte dei grandi.

Tutte queste argomentazioni che possiamo leggere nel libretto del 1921 servono a dimostrare che c'è un'invarianza nonostante siano passati quasi quarant'anni. Da una parte vediamo che i sinistri di allora erano minimalisti e riformisti, occupati a smorzare lo slancio del proletariato, che all'epoca era impressionante; dall'altra non possiamo fare a meno di osservare che costoro adottavano un linguaggio roboante sulla dittatura del proletariato eccetera, ma nei fatti fungevano da freno. Quindi ci trovavamo a dover smascherare, con l'esempio del loro comportamento nei fatti, ciò che sostenevano a parole, ma nello stesso tempo dovevamo mettere in guardia contro l'abitudine parolaia dei politicanti: eravamo noi che volevamo "andare piano", commisurare la nostra velocità a quella del movimento sociale. Sapevamo allora e sappiamo oggi quale sia la strada e quale il tempo che sarebbe occorso per percorrerla tutta. Sono passati i decenni e siamo qui, per niente stupiti di avere avuto ragione allora. E ripetiamo le stesse cose, poco romantiche, poco eroiche ma realistiche. Quella di essere noi i poco realisti è una vecchia accusa. Noi saremmo gli attendisti che non vedono il movimento avanzante di volta in volta. In realtà eravamo gli unici a vedere lo svolgimento dei fatti con realismo. E la realtà ci diceva che il tempo della rivoluzione era passato. Nel 1921 non era più possibile dare l'assalto al potere borghese. La parte industriale del paese, quella dove la tecnologia aveva messo radici, quella dove il proletariato era più forte, non era più la punta avanzata del movimento. Bisogna dire che in nessun paese l'industria ha cancellato del tutto le forme antiche, le quali nei momenti sfavorevoli pesano negativamente sullo svolgimento dei fatti. Il processo rivoluzionario dal 1918 al 1920 è stato rallentato dai socialdemocratici, ma una concausa è stata certamente la scarsa industrializzazione dell'Italia e il peso di un'agricoltura arretrata. Persino la Francia, l'abbiamo visto, ha dovuto subire il peso negativo della sua agricoltura soverchiante.

Ciò non significa che nel 1921 fossimo disposti a rinviare la rivoluzione per queste ragioni. La nostra era una concezione corretta della rivoluzione. Di tutta questa razzumaglia di non-classi ci si sarebbe occupati dopo, altro che fare fronti unici. Avremmo forse chiesto a tecnici e borghesi di essere così gentili da far funzionare per qualche tempo fabbriche e amministrazioni, ma non teorizzavamo prima che si dovesse andare a braccetto. Era la gentilezza che i bolscevichi avevano chiesto ai loro pochi borghesi al posto della fucilazione, bastava tenerlo presente. Loro sì che avevano una "questione contadina", noi, per quanto i contadini fossero numerosi, non l'avevamo.

Ogni rivoluzione ha un aspetto politico e un aspetto economico. Quello politico ha tempi brevi, quello economico ha tempi più lunghi, dipende dallo sviluppo della forza produttiva raggiunto. Ma nel passaggio da una società all'altra, quando si passa dalla produzione sociale in ambiente di appropriazione privata alla produzione sociale a favore dei produttori in grandi unità industriali, allora il fattore politico può produrre un'accelerazione dei processi. La produzione e la distribuzione dei prodotti non può essere affidata all'opera locale di gruppi di lavoratori e nemmeno all'organizzazione aziendale. I primi non potrebbero avere una visione d'insieme, la seconda è efficientissima per quanto riguarda la produzione, dal progetto al mercato, ma nei confronti di quest'ultimo non è in grado di pianificare secondo previsioni. Il mercato capitalistico è di per sé anarchico, si basa su aggiustamenti spontanei e non può essere adottato, nemmeno in transizione di fase, dalle forze rivoluzionarie.

Il motore storico di una tale opera non può che essere il potere organizzato, centralista, armato, della classe vittoriosa. E questo potere, qualunque cosa ne dicano liberali o anarchici, dev'essere consapevole di quanto il potere avversario sia in grado di auto-conservarsi, mistificando o attaccando frontalmente. Perciò è indispensabile che il partito del proletariato sappia valutare non solo i rapporti di forza sul campo, ma sappia soprattutto quali dovranno essere i suoi compiti riguardo al futuro.

Il problema della trasformazione economica non è di quelli che si risolvono con piani tracciati a tavolino: il capitalismo ha talmente consolidato i suoi metodi, le sue procedure, i suoi apparati e il suo modo di pensare (inculcato ai bambini fin dall'asilo) che può contare sulla potenza di un'armata invisibile, la consuetudine, in grado di permeare le forze rivoluzionarie. Per questo, senza tanti complimenti, il potere proletario dovrà impadronirsi dei gangli fondamentali della società che si accinge ad abbattere. Ad esempio, dovrà impadronirsi della banca di stato e chiudere tutte le altre banche, in modo da avere il controllo dei movimenti di capitali finché questi ultimi esistono. Deve cadere nelle mani del proletariato anche tutta l'amministrazione dello stato e delle entità amministrative locali. Per non parlare del sistema di informazione, radio, giornali, scuola.

Finché esisterà il denaro, sarà necessario stabilire con quali criteri esso sarà utilizzato e contabilizzato. Una volta stabilizzato il potere proletario, il denaro potrà essere rapportato a quantità fisiche o, meglio ancora, a quantità di lavoro. Quindi a quantità che, nel sistema descritto, sono legate alle ore di lavoro e non sono cumulabili.

I mezzi di produzione, concentrati in grandi insiemi organici, sono dunque la premessa per la loro gestione collettiva. Tuttavia, la società appena uscita dalla rivoluzione vittoriosa non è ancora la società della gestione collettiva. Del resto, anche oggi la gestione collettiva dei mezzi di produzione è possibile soltanto imbrigliando le spinte verso il futuro. Questa parola, della quale speso si abusa sviluppando argomenti come questo, dovrà permeare con il suo significato l'azione degli uomini, ancora restii a muoversi secondo il comando delle determinazioni che portano al comunismo.

Nel quadro di questa situazione, all'indomani dell'abbattimento dello Stato borghese, qual è il lavoro che l'apparato statale proletario deve esplicare nel campo della economia agricola? Esso dipende indubbiamente dal grado di sviluppo dei processi di trasformazione dell'impresa agraria, diverso da paese a paese, da regione a regione dello stesso paese, ed è complesso per la coesistenza di varie forme fondamentali di gestione agraria.

Come si vede, se volessimo rispondere alla tesi dell'immaturità della rivoluzione rispetto al problema dell'agricoltura, dovremmo risalire alle confutazioni sull'intero sistema da cui abbiamo tratto queste considerazioni. Non ci passa neppure per l'anticamera del cervello di confutare le basi teoriche della dottrina, mitigare la dinamica del modello comunista per introdurre elementi gradualistici nati dalla vigliaccheria di opportunisti che non hanno il coraggio di guardare in faccia la realtà e si rifugiano a volte nel "ritardo" della rivoluzione, a volte nella "immaturità" della stessa. Dovremmo ritornare alle obiezioni generali di Kautsky sul potere proletario, rileggere la posizione sostenuta dalla socialdemocrazia durante la guerra, riaprire la discussione sui caratteri specifici della Rivoluzione d'Ottobre, individuare le falle teoretiche ed evidenziare le vittorie inconfutabili. Ma tutto questo è lavoro a largo respiro, che può avere una soluzione solo nello sviluppo della rivoluzione internazionale e del suo partito.

La cosiddetta immaturità, vuoi della situazione economica generale, vuoi dell'industria, dell'agricoltura o del proletariato è diventata quasi una teoria tuttofare che andrebbe bene sia per la Russia bolscevica, sia per i paesi dell'Europa occidentale. Nel 1921 la Rivoluzione Russa era solo l'inizio di una rivoluzione mondiale. Non si era mai visto nella storia un così rapido estendersi di un attacco al potere costituito. Il problema non era dunque la maturità o meno delle situazioni, degli uomini o dei loro organismi politici ma l'implacabile esigenza della fine dell'economia capitalistica. Questa non era un'esigenza legata a questo o quel motivo contingente ma al grado di maturità dell'insieme dei rapporti capitalistici, del commercio mondiale, della produzione ovunque socializzata, dell'agricoltura diventata una produzione da ammasso (silos giganti, mulini modernissimi, allevamento intensivo, macelli pubblici, ecc.). Il potere proletario poteva dunque continuare il suo cammino nel tempo e nello spazio anche in paesi in cui fossero immature le condizioni della socializzazione. E ammesso ma non concesso che l'agricoltura fosse arretrata a livello mondiale, esclusi pochi paesi, era del tutto evidente che l'ondata rivoluzionaria avrebbe potuto rinvigorirsi a condizione che tutte le forze rivoluzionarie avessero adottato uno schema d'attacco univoco, rifiutando l'abbraccio tossico della socialdemocrazia.

Il neonato Partito Comunista d'Italia vedeva chiaramente il problema agrario come appendice del più generale problema rivoluzionario. Da questo punto di vista la differenza di sviluppo tra paesi era secondaria. La soluzione di un'efficienza capitalistica dell'agricoltura non si poneva se l'obiettivo era chiaro, cioè se non si tergiversava sulla questione della presa del potere [qui Bordiga trae una citazione dall'opuscolo del 1921]:

"Il problema del progresso dell'economia agraria si presenta, per l'impossibilità di una vasta sua soluzione nei quadri del capitalismo, soprattutto nel cuore della crisi postbellica, come una grande questione rivoluzionaria al fianco di quella della socializzazione della grande industria e delle grandi vie di comunicazione mondiale."

Il problema dell'agricoltura è naturalmente delicato, perché da essa dipende l'alimentazione della popolazione e, mentre di altre merci si può fare temporaneamente a meno, il flusso di cibo, specialmente nelle città, non può essere interrotto. Questo delicato equilibrio dev'essere mantenuto e, se anche l'alimentazione nei paesi più moderni si basa su di una rete distributiva, fatta di ferrovie, strade, mezzi, mercati generali e celle frigorifere, che ha un suo ritmo facilmente rilevabile dalla rivoluzione, è possibile che in un temporaneo subbuglio sociale tale ritmo si spezzi producendo danni alla rivoluzione in corso. La risposta a situazioni come queste, in parte sperimentata in Russia, può essere sia la militarizzazione del comparto economico, sia la sua permanenza in una situazione di mercato, ovviamente con un controllo stretto sui fenomeni di accaparramento e mercato nero, che potrebbero non essere fenomeni spontanei ma dovuti a sabotaggio controrivoluzionario. Rispetto all'opuscolo del 1921, oggi [1961] la grande distribuzione all'americana, che sta prendendo piede anche in Europa, può essere semplicemente rilevata e potenziata, per cui il problema si risolverà quasi da sé.

Passata la transizione, sarà possibile superare il meccanismo capitalistico che vede l'operaio obbligato a vendere la propria forza lavoro per acquistare i beni che servono alla propria riproduzione. Questa doppia compravendita sarà eliminata. A parte le considerazioni sul meccanismo ancora proporzionale al lavoro erogato, tutta la popolazione darà il proprio contributo alla società senza vendere alcunché e riceverà in cambio ciò che le serve per vivere senza acquistare. È possibile già nelle prime fasi della società futura estinguere il denaro per la maggior parte degli scambi. Per quanto riguarda i beni necessari, il denaro potrà essere sostituito immediatamente da buoni-lavoro, a cominciare dal settore alimentare. Tali buoni di per sé non eliminano il denaro finché tutta l'economia non funziona indipendentemente dalla legge del valore.

Vedete la continuità storica. Queste cose che stiamo commentando mentre seguiamo come traccia il libretto del '21, data in cui la degenerazione non era ancora perfettamente visibile, le avremmo dette pochi anni dopo quando sarebbe stato chiaro che in Russia l'economia monetaria non sarebbe stata intaccata. Insomma, non abbiamo aspettato le sfacciate adesioni al capitalismo di Stalin e Kruscev per denunciare il fatto.

Soppresso il principio secondo cui ogni cosa viene scambiata non secondo la sua utilità ma secondo un prezzo che oscilla intorno al valore, sparirà anche la differenza fra remunerazioni del lavoro, per cui lo scambio incomincerà ad avvenire nell'indifferenza rispetto al valore. Sarà quindi possibile realizzare la formuletta secondo la quale, a partire dall'attività differenziata di ognuno, non vi sarà scambio tra equivalenti, esattamente come succede già oggi all'interno di un ciclo industriale con la movimentazione di materie prime e prodotti semilavorati.

Ciò avrà effetti importanti anche sulla famiglia. Non esistendo più rapporti di valore, cambierà totalmente il rapporto fra uomo e donna, oggi basato su di una divisione sessuale del lavoro dovuta anche al fatto che l'operaio porta il denaro e la donna fa e alleva figli. Insomma, a differenza di ciò che è successo in Russia, nella società futura la famiglia si estinguerà, come il denaro, lo stato e la legge del valore. E l'estinzione della famiglia sarà specialmente sentita nella campagna, dove vige ancora in molti paesi uno stretto patriarcato. Con il raggruppamento delle terre, già iniziato con i normali storici processi di espropriazione dei contadini poveri da parte di quelli ricchi (un benefico attacco al diritto di proprietà) viene facilitata l'evoluzione positiva verso l'industria agroalimentare, oggi deleteria, ma altamente funzionale in una società non capitalistica. Oggi nei paesi capitalisticamente avanzati l'espropriazione è in fase avanzata e anche se a catasto la proprietà è ancora atomizzata, un solo contadino coltiva molti appezzamenti di altri, praticamente a titolo gratuito.

Nella società futura vi saranno due sole forme di esercizio dei fondi agrari: la grande industria agroalimentare a conduzione statale e la relativamente piccola industria locale per assicurare il rifornimento immediato e fresco di alimenti, specie alle zone urbane. In Russia hanno vissuto addirittura una regressione: giunti al sovkoz, grande industria statale, e al colcos (cooperativa con proprietà mista), sono riusciti a far languire il primo e a trasformare in proprietà privata il secondo.

Pubblicheremo un lavoro sull'agricoltura comparando Russia e Occidente. Limitiamoci qui a poche considerazioni di carattere generale. La prima delle quali riflette in maniera particolare l'Italia dalla quale partiremo per far una serie di rilievi statistici. E contribuiranno a dimostrare le posizioni classiche del partito e le leggi marxiste dell'economia. In particolar modo ciò ci servirà per dimostrare un altro assunto che i russi vorrebbero far passare per socialista, cioè il fatto che la loro economia si diversificherebbe dalla economia capitalista per alti ritmi di incremento produttivo. Ciò è falso. Ad esempio, nella economia italiana, in particolar modo per alcuni prodotti basilari come l'acciaio, la ghisa, l'elettricità, i minerali di ferro, si sono raggiunti degli incrementi eclatanti nei ritmi produttivi. Questo serve a dimostrare, a smontare, quella falsa teoria secondo la quale il socialismo russo sarebbe quel modo di condurre l'economia che comporta un'accumulazione velocissima. Serve a dimostrare, per la serie degli articoli in preparazione, l'inversione dello sviluppo produttivo in due settori fondamentali della economia, quello industriale e quello agrario (diminuzione degli incrementi percentuali annui). L'industria si sviluppa in una maniera più o meno ascendente e progressiva, eccetto in momenti di crisi e periodi di guerra e di distruzione, eccetera. Nell'agricoltura abbiamo una progressione verso l'alto della produzione assoluta, mentre abbiamo una discesa costante relativamente alla produzione totale. Sono due curve diverse, due curve opposte. E questo si riscontra non solo nell'economia italiana, non solo nella classica economia capitalistica occidentale, ma anche nella supposta economia agricola socialista russa.

Questo sarebbe l'anno del centenario della fondazione dello stato italiano. La commemorazione comporta, fra l'altro, spettacoli e conferenze. Si parlerà ovviamente dell'economia, ma in particolare, abbiamo visto, dell'agricoltura, perché il governo ha varato il cosiddetto Piano Verde. Si tratta di 500 miliardi di lire da gestire secondo un piano quinquennale per lo sviluppo, l'ammodernamento eccetera. Gli opportunisti hanno detto di essere contrari ma a quanto sembra solo per la cifra, che sarebbe troppo bassa.

Occorre mettere in evidenza questo: sia i russi che gli occidentali ormai vanno avanti per piani quinquennali. Sull'economia ormai c'è identità di programmi. Ci sono dei problemi? L'agricoltura è la solita palla al piede rispetto all'industria, regina della crescita? Dov'è il problema? Ecco qua 500 miliardi (o rubli). Il PCI applaude, la CGIL applaude. Sono investimenti produttivi, li hanno chiesti loro. Protestano solo un po' per l'avarizia. Hanno la stessa parola d'ordine di cento anni fa: "La terra a chi la lavora". Solo che un secolo è tanto tempo. Nel 1861 e anche dopo, la "questione contadina" dei socialisti contemplava la distribuzione delle terre. Era già allora una sciocchezza, perché la terra rende di più quando è coltivata in grandi appezzamenti, ma soprattutto in grandi industre agrarie. Ma un secolo fa i contadini non facevano calcoli complessi, a loro sarebbe bastato un pezzo di terra per coltivare qualcosa che li sfamasse e permettesse loro di acquistare i beni che non auto-producevano.

In Russia, nell'anno 1961, Kruscev potenzia i colcos a discapito dei sovcos. Che cosa s'inventa? Concede macchine agricole e sementi direttamente ai contadini. Ora, è assai chiaro che, consegnando il monopolio del cibo a una classe particolare, significa consegnare tutta la società a quella classe. L'ha detto Marx, ma è come se l'avesse detto il governo americano, il governo del paese che teoricamente dovrebbe essere nemico numero uno della Russia. A Washington l'hanno fatto prima che in Russia: solo che invece di macchine e sementi hanno dato tanto denaro. Così, secondo chi crede che il socialismo sia solo statizzazione, gli Stati Uniti sarebbero l'unico paese capitalista ad avere un'agricoltura sovvenzionata dallo stato, cioè… "socialista". Nell'area del mondo in cui è stato proclamato il "socialismo in un solo paese", l'agricoltura gode di concessioni non inferiori che in America ma è più arretrata. Il sistema del colcos, basato sulla proprietà famigliare ibridata con quella statale, produce una piccola economia privatista dai risultati miserabili, mentre il socialismo dovrebbe essere liberazione della forza produttiva sociale.

Rivista n. 44