Dai batteri a Bach e ritorno
Daniel Dennett, Dai batteri a Bach. Come evolve la mente. Cortina editore, 2018. Pagg. 568, euro 32. Titolo originale From bacteria to Bach and back.
Questa la tesi di Dennett: il nostro organismo sarebbe una macchina computazionale biologica in grado di raccogliere dati dall'ambiente ed elaborarli a seconda degli stimoli captati dai sensi. Fin qui niente di speciale, dato che un simile processo può essere sottoscritto anche dai sostenitori della teoria del "progetto intelligente", quella che contempla un dio sovrintendente all'evoluzione dell'uomo dopo aver fornito l'appropriata spinta iniziale.
Per il creazionista vecchio stampo e per il sostenitore del progetto intelligente nell'uomo c'è una qualità speciale, che si chiami anima o altro, in grado non solo di abilitarlo a sviluppare un pensiero complesso, ma anche di immaginare il futuro, di interagire con la natura e di realizzare cose che non ci sono ancora.
Per il materialista non c'è bisogno di invocare un'anima o una qualità speciale impalpabile: tutto ciò che evolvendo abbiamo realizzato in noi stessi e nei confronti della natura, è perfettamente spiegabile con le configurazioni che innumerevoli elementi materiali hanno assunto in miliardi di anni, a cominciare dai primi atomi raggruppati nelle prime molecole costituenti i primi esseri viventi. Noi siamo materia informata a partire dalle primitive configurazioni di atomi e di interazioni fra atomi, configurazioni che non sono casuali ma determinate dall'incessante relazione fra elementi della natura. Dennett quindi fa propria la teoria del "progetto intelligente" attribuendola non a un dio ma a una natura che mette in continua relazione i propri elementi come se si dedicasse a tempo pieno alla ricerca con un portentoso ufficio Ricerca & Sviluppo. E l'ufficio è portentoso non perché possa mostrarci qualche miracolo ma perché lavora con elementi semplici, dato che non c'è altro per raggiungere la complessità.
I primi organismi viventi un po' più complessi di un virus "sanno già cosa fare" sulla base di informazioni elementari che Dennett chiama "competenza senza comprensione". Questo dato di fatto si perpetua per tempi lunghissimi, fino a che le relazioni fra esseri viventi non producono il linguaggio. Da quel "momento" l'evoluzione differenzia le specie fra quelle che comunicano conoscenza in modo incrementale e quelle che si fermano alla competenza senza comprensione: cioè, a parte piccole differenze, fra noi e il resto del regno animale.
Il discorso si fa provocatorio: la competenza senza comprensione è anche quella di un ascensore automatizzato, dato che le funzioni dell'addetto ai vecchi ascensori sono svolte da un apparecchio elettromeccanico. Nella misura in cui alcune funzioni sono acquisite a livello evolutivo, abbiamo la dinamica di base che spiega la complessità degli organismi viventi più informati. Una volta che si impone il linguaggio, il ciclo evolutivo procede in modo esponenziale. A questo punto l'evoluzione si fa talmente veloce che il suo aspetto puramente biologico passa in secondo piano. Prendono il sopravvento i memi, parti di discorso che diventano "virali" e che, come i geni, partecipano alla differenziazione del primate homo.
La competenza senza comprensione, rappresentata dall'immensa base della massa biologica presente sul nostro pianeta, porta a concludere che vi è un'invarianza strettissima fra inanimato e animato. Tutti gli esseri viventi, nessuno escluso, "funzionano" allo stesso modo: rispondono a uno stimolo modificando il loro comportamento. Tutti gli adattamenti che comportano una selezione darwiniana, specie da quando sono connessi al linguaggio come trasmettitore di informazione, sono la conseguenza dei primordiali "sistemi esperti" che risolvono problemi senza "capirli" (dall'ascensore automatico che ottimizza le corse, al supercomputer che gestisce un immenso sistema di produzione-distribuzione come un grande supermercato). Oggi vi sono macchine in grado di sintetizzare con meravigliosa efficienza la soluzione di problemi dalle infinite variabili ricorrendo a simulazioni di reti neurali, cioè a programmi di intelligenza artificiale. Queste macchine e questi programmi non sono particolarmente "intelligenti", ma raggiungono risultati migliori e più affidabili di quelli del cervello umano distribuendo l'intelligenza a livello capillare, applicando una "carta d'identità" a ogni singolo "atomo" del sistema (la parte indivisibile etichettabile con un codice) e seguendone i movimenti.
L'ascensore con i suoi relè elettronici è come una macchina di Turing semplice (leggi, scrivi, cancella, sposta); un sistema complesso come ad esempio quello di Walmart, con milioni di merci che vengono movimentate miliardi di volte è un sistema complesso ma analogo. La capacità computazionale del nostro cervello ha raggiunto con l'evoluzione una grande potenza, tanto da esportare all'esterno la propria natura implementandola in macchine. Ora, Dennett ci dice che lo studio dell'evoluzione biologica, intelligenza compresa (coscienza) è certamente un qualcosa di fisico, per cui, come in fisica, tale studio può essere seguito dal passato al presente-futuro (dall'ameba a homo) o, indifferentemente, dal futuro-presente al passato. Questa specie di teoria inversa dell'evoluzione ci dice due cose: 1) se guardiamo all'evoluzione degli organismi unicellulari, vediamo che essi sono aumentati di complessità a partire da una competenza senza comprensione elementare, a livello di c'è o non c'è, uno-zero, sì-no; 2) se guardiamo agli esseri evoluti procedendo all'indietro nel tempo, cioè togliendo complessità ai nostri modelli attuali, vediamo che il nostro organismo conserva impronta della passata evoluzione, come un codice genetico esageratamente complesso rispetto alle necessità, parti di cervello con una quantità di neuroni non utilizzati, neuroni presenti nell'addome, ecc.
Analizzando l'intero ciclo della nostra evoluzione, troviamo in ogni punto della traiettoria degli elementi precursori e degli elementi successori, tranne che nel linguaggio. E qui Dennett affronta la parte meno convincente della sua pur materialisticamente accettabile teoria evolutiva della "mente". Non sappiamo come si sia evoluto il linguaggio, ma analizzando le lingue fossili, sopravvissute in luoghi isolati, non troviamo passaggi che indichino in qualche modo una loro evoluzione dal semplice al complesso, come ad esempio succede con la scrittura. Dennett prova ad aggirare lo scoglio attribuendo la mancanza di un proto-linguaggio alla velocità della evoluzione "culturale" in confronto alla lentezza di quella biologica. Abbiamo più volte rilevato questo aspetto, che è reale, ma l'abbiamo sempre messo in relazione alla produzione collettiva, mentre l'autore privilegia, in lunghe digressioni, la teoria dei memi di Dawkins. C'è un problema: il meme può essere qualsiasi cosa, da una informazione come mezzo di produzione all'aria di una canzonetta. Se si parla di evoluzione dei memi, occorre far co-evolvere l'informazione-linguaggio con lo sviluppo della mano e del cervello collegati nella produzione. È maneggiando oggetti pensati e prodotti che a un certo punto diventa indispensabile il linguaggio. È infine da quel livello che si sviluppa anche la mente.