Dov'è finito il Futuro?
Sul filo dello spazio-tempo
"I gruppi umani sono partiti da tentativi di sapere il futuro prima di avere edificato sistemi anche iniziali di conoscenza della natura e della storia di passati eventi. Il primo sistema è la tradizione ereditaria di nozioni che riguardano come premunirsi da inconvenienti, pericoli, cataclismi; viene dopo la registrazione anche embrionale di fatti e dati contemporanei e trascorsi. La cronaca nacque dopo la prammatica. Ognuno che formi e possieda progetti, lavora su dati del futuro" (Proprietà e capitale, 1948).
"A Marx, a Lenin, a tutti i marxisti conseguenti e radicali, non è mai piaciuta l'espressione di coscienza di classe. Questa nozione contiene implicita la condizione che la coscienza rivoluzionaria in tutti i componenti della classe sfruttata debba precedere la loro azione rivoluzionaria. Questa nozione è la più conservatrice che possa darsi" (Vulcano della produzione o palude del mercato? 1954).
La tesi che vogliamo sviluppare in sintesi è questa: la controrivoluzione in corso da un secolo ha inchiodato l'umanità in un limbo dal quale sembrerebbe impossibile uscire. Una società che confronta sé stessa unicamente con il suo passato invece che con il futuro è morta. Infatti, il confronto con ciò che è stato invece che con ciò che potrebbe essere impedisce lo stimolo per il cambiamento qualitativo; mentre il consolatorio cambiamento quantitativo (teoricamente non c'è limite alla quantità di merci prodotte ma la qualità della vita non dipende da questo) va in crisi per il venir meno della legge del valore, come previsto da Marx. Ciò ha una portata gigantesca e il non vederlo costringe le classi a un asfittico ballo del mattone, abbracciate, immobili, ignare del micidiale furto di futuro.
Presente ambiguo, realtà paradossale
Già Sant'Agostino considerava filosoficamente problematico ragionare sulla natura del tempo:
"…Né futuro né passato esistono, e solo impropriamente si dice che i tempi sono tre, passato presente e futuro, ma più corretto sarebbe forse dire che i tempi sono tre in questo senso: presente di ciò che è passato, presente di ciò che è presente, e presente di ciò che è futuro." (Confessioni, XI libro).
Il riconoscimento del presente in quanto unica realtà è una considerazione ambigua che ci seguirà nello svolgimento di questo lavoro. Non sarà casuale la nostra critica ai frequentatori dell'agostiniano presente. Nel discorso che stiamo facendo sugli elementi soggettivi delle rivoluzioni il tempo va inquadrato correttamente perché è il fattore più importante. Nella scala dei valori di ogni rivoluzione prima viene il futuro, perché passato e presente fanno parte di obbiettivi già raggiunti. Nessuna rivoluzione che meriti questo nome può fare a meno di incominciare da ciò che sarà realizzato. E se sarà realizzato è perché si sarà adottato il modo per farlo. Quindi il futuro è, nello stesso tempo, un traguardo e un percorso; il passato è l'esperienza che abbiamo di altre, irripetibili situazioni rivoluzionarie (positive o negative che siano state); il presente… dal punto di vista fisico non esiste.
Punto fermo da ribadire: una completa teoria della rivoluzione non consiste tanto nella descrizione dell'obbiettivo quanto dei mezzi necessari per raggiungerlo. L'obbiettivo e il percorso per raggiungerlo non possono essere pensati isolatamente. Considerare unicamente l'obbiettivo significa infatti trattarlo come un'utopia; dedicarsi unicamente al percorso significa abbandonarsi all'attivismo. Il percorso disegnato dall'obbiettivo è la soluzione. Dunque: percorso disegnato dal futuro sulla base delle determinazioni del passato.
Sembra tutto semplice, ma non lo è affatto: tra Passato e Futuro c'è l'indefinibile Presente. Ciò comporta qualche osservazione in rapporto alla natura e in rapporto alla società umana, che pure dovranno passare attraverso un punto per raggiungerne un altro. Si dice che l'eleatico Zenone abbia messo in difficoltà i pitagorici sulla questione del continuo e del discreto ("Tutto è numero", dicevano). Se accettiamo la divisibilità del mondo, dobbiamo superare i famosi paradossi: la freccia ci sembra in movimento ma in realtà ad ogni istante essa occupa soltanto uno spazio uguale alla sua lunghezza; e siccome il tempo che serve alla freccia per muoversi è costituito da singoli istanti, la stessa sarà immobile in ognuno di essi. Lo spazio e il tempo sono nel mondo del continuo, se li discretizziamo per poterli misurare dobbiamo sapere che introduciamo un arbitrio.
Oggi il tempo non è considerato una questione di logica, come dai filosofi antichi, ma di fisica, cioè il tempo sarebbe una realtà diversa rispetto al fluire della nostra vita individuale. Il tempo va considerato relativamente al contesto e ciò comporta differenze importanti nella valutazione dei fenomeni cui si collega.
Ci aiutiamo con un esempio: la nostra corrente pubblicò nel 1952 una importante serie di punti riguardo al programma immediato della rivoluzione (Punti di Forlì). Si trattava di una dichiarata risposta all'atteggiamento dell'allora Partito Comunista Italiano di fronte agli investimenti, un atteggiamento costruttivo rispetto al capitalismo. Atteggiamento opportunista nel presente, ma non differente da quello del suo passato. E neppure da quello del suo futuro. Diciamo che il suo programma era un lungo presente immobile. Un paradosso micidiale. I punti della nostra corrente si fondavano su una dinamica opposta: il capitalismo era già superato, nei fatti, un secolo prima; al tempo di quelle considerazioni già si sarebbe dovuto non solo non investire ma disinvestire, diminuire drasticamente il forsennato ciclo iperproduttivo. Il passato era morto, il presente anche, il futuro… era già nel passato, dato che il capitalismo sopravviveva a sé stesso dal 1848. Il nostro programma era un lungo futuro dinamico. Analizzando i punti del 1952 vediamo che gli stessi criteri che ne avevano richiesto la pubblicazione sono alla base di una relativizzazione importante: considerati come provvedimenti da realizzare attraverso la coercizione dello stato proletario, sono nell'epoca attuale misure che verrebbero attuate quasi automaticamente in caso di vittoria della rivoluzione:
a) Disinvestimento, ossia meno beni strumentali e più beni di consumo.
b) Elevamento della qualità di vita.
c) Drastica riduzione della giornata di lavoro.
d) Piano di sottoproduzione che aumenti il lavoro necessario.
e) Rottura dei limiti d'azienda. Trasferimento di mezzi e non di uomini.
f) Abolizione della previdenza sociale a tipo mercantile.
g) Arresto delle costruzioni e limite al traffico inutile.
h) Decisa lotta contro la divisione tecnica e sociale del lavoro.
i) Controllo del nuovo stato su scuola, stampa, radio, informazione.
Chi leggesse adesso questi punti pensando al tempo della Terza Internazionale e ai compiti che allora potevano essere tipici della "dittatura del proletariato" commetterebbe un errore: sostituirebbe cioè il tempo relativo con quello assoluto dei filosofi idealisti. Allo stesso modo commetterebbe un errore chi immaginasse la rivoluzione come ripetizione di eventi del passato. L'invarianza è un'altra cosa. Il sistema invariante prevede:
1) masse di uomini in lotta per un obiettivo al di fuori di questa società;
2) un partito che riassuma in sé i caratteri dell'obiettivo;
3) uno strato organizzato fra la massa in movimento e il partito.
Questa è l'invarianza entro la quale le rivoluzioni trovano la loro strada trasformando il tempo soggettivo in tempo oggettivo. Le grandi "questioni" tattiche, specie per quanto riguarda i rapporti di forza tra classi e sottoclassi, hanno dimostrato la carenza di elaborazione teorica da parte della Terza Internazionale. Elaborazione perché, come diceva Bordiga, in linea di principio non si può essere contrari ad esempio a un fronte unico, ma bisogna sapere che è una trappola e che quindi va adoperata per intrappolare il nemico, non per aprirgli le porte di casa nostra. La lezione va imparata, altrimenti si rischia di ripetere gli errori.
"Transizione di fase", tempo zero
Il matematico Hermann Minkowski, che diede un contributo alla teoria della relatività di Einstein, poneva così la necessità di una nuova concezione del tempo e dello spazio:
"Le concezioni di spazio e di tempo che desidero esporvi sono sorte dal terreno della fisica sperimentale, e in ciò sta la loro forza. Esse sono fondamentali. D'ora in poi lo spazio di per sé stesso o il tempo di per sé stesso sono condannati a svanire in pure ombre, e solo una specie di unione tra i due concetti conserverà una realtà indipendente."
Einstein, a proposito di ciò che chiamiamo passato, presente o futuro, precisava:
"C'è qualcosa di essenziale riguardo l'attimo presente che è fuori dal regno della scienza. Noi, che crediamo nella fisica, sappiamo che la distinzione tra passato, presente e futuro è solo un'illusione ostinatamente persistente."
Il rifiuto di considerare il presente come parte della scienza è piuttosto curioso, ma ha delle implicazioni importanti: se il presente non fa parte del mondo scientifico, come mai gli uomini agiscono quasi esclusivamente sui presupposti di un presente che reputano facilmente agganciabile al passato ma di difficile collocazione come base per il futuro? In Dialettica della natura Engels fa un'osservazione fondamentale: in tutta la storia umana recente, da quando esistono le classi, sono pochissime le manifestazioni di modifica consapevole del futuro, mentre quelle che si presentano come spontanee, caotiche, non volute secondo un piano, sono la quasi totalità. Eppure, l'uomo ha dimostrato che per i suoi manufatti, dagli oggetti di uso comune alle grandi opere come monumenti, canali, strade, ha saputo progettare, cioè prevedere il risultato finale. Metodi, strumenti, procedure erano presenti in società rimaste organiche per millenni. Ad un certo grado del loro sviluppo, la loro capacità produttiva ha richiesto una grande capacità organizzativa per cui le grandiose realizzazioni sono diventate la base per un potere centrale personalizzato. Così è venuto meno l'assetto sociale "egualitario", come dicono alcuni archeologi, che aveva permesso alle società di conoscere bene sé stesse per indirizzare le proprie energie verso forme ottimizzate in funzione del benessere condiviso. Eppure, paradossalmente, le nuove forme sociali, rispetto a quelle precedenti, avevano più mezzi per organizzare la società che non per costruire un monumentale manufatto: ad esempio avevano "inventato" lo stato, uno strumento efficacissimo di centralizzazione e coordinamento. Gli uomini interagiscono tra di loro, si auto-organizzano, sanno che cosa fare in ogni momento della loro vita produttiva in base al posto loro assegnato, le cose inanimate no: sembrerebbe perciò più semplice organizzare gli uomini che organizzare la produzione di "cose" altamente complesse.
Come abbiamo già scritto (n+1, numero 1, 2000):
"Ce n'è abbastanza per spingere i comunisti verso l'indagine su tutti i fenomeni che anticipano la società nuova, quindi che rappresentano già la separazione ambigua con essa. Fin dal Manifesto, i rivoluzionari non si sentono più realtà separata e non fabbricano più utopie da presentare all'altrui attenzione: anticipano una realtà conosciuta, proprio perché il fine non è scindibile dal percorso per giungervi. Tra l'oggi e il domani, tra le due classi storiche avversarie, vi è una terra di nessuno difficile da esplorare ma che si deve conoscere."
Da Lenin in poi i comunisti interpretano il carattere specifico del moderno capitalismo finanziario come "transizione di fase". Il capitalismo ultimo è il leniniano involucro che non corrisponde più al suo contenuto: non siamo dunque in una "fase di transizione", espressione che dà l'idea di una lenta metamorfosi, bensì in una condizione che ricorda il passaggio dall'acqua al ghiaccio, da una trave caricata alla sua rottura, dalla pressione fra le placche ai terremoti.
Transizione, dunque, come passaggio repentino da uno stato all'altro. Dall'acqua al ghiaccio non esiste uno stato intermedio, il tempo non c'è. Lo stato precedente lo conosciamo, è storia, quello successivo non è una ipotesi, è ricavato con certezza matematica. Purtroppo, di solito la storia si presta ad essere interpretata, bisognerebbe trovare il modo di eliminare questo tipo di approccio, così come si fa ad esempio con l'area del triangolo: a = ½ bh. Vale per tutti gli infiniti triangoli che ci sono nell'universo. Qualcuno afferma perentoriamente che per le cose umane l'osservazione non vale, che la loro complessità e indeterminatezza sono troppo elevate e che l'uomo con il suo libero arbitrio sballa ogni tentato calcolo in ambito sociale. Anche nel campo della fisica complessità e indeterminatezza producono interpretazioni diverse, al momento senza spiegazione. Ciò non impedisce che possano essere raggiunti risultati di estrema precisione con l'interpretazione detta di Copenaghen, molto discussa ma democraticamente vittoriosa per numero di voti ottenuti al parlamento della scienza.
Non è tempo di scoperte, "taci e calcola"
Di fronte alle interpretazioni, i fisici meno influenzati dalle questioni di teoria della conoscenza sbottano: "Taci e calcola".
L'imperativo suggerimento può essere interpretato (siamo sempre lì) in due modi: 1) come appello ad adottare il metodo galileiano (non farti sopraffare dalle tue impressioni, adopera il calcolo per affidarti alla certezza delle leggi di natura); oppure, 2) non farti troppe domande: non sappiamo come, ma funziona, quindi l'ipotesi è valida.
Esso è attribuito a Feynman e rivendicato da Mermin, probabilmente adoperato nella seconda accezione, quella che sarebbe sottoscritta dalla quasi totalità dei fisici. Gli stessi che "votano" per l'interpretazione, proprio ciò che Galileo voleva evitare con il ricorso ai metodi della scienza.
La Scuola di Copenaghen, accusata dai suoi ormai pochi avversari di aver introdotto nella fisica concezioni tipiche della metafisica (una particella si comporterebbe come se sapesse di essere osservata), replica affermando che il meccanicismo newtoniano è superato per sempre e non lo si può porre invece alla base del nostro modo di ragionare. Ricordiamoci di questo passaggio quando parleremo delle patologie marxiste, dato che una delle critiche a noi rivolte è proprio quella di vedere le cose della rivoluzione con metodo scientista, termine che comprende la concezione meccanicista newtoniana. Che ci sia una Scuola di Copenaghen anche in scienza della rivoluzione? Che la realtà sia indeterminata ontologicamente (perché è questo il suo modo di essere) e non solo epistemologicamente (perché abbiamo una carenza di informazione su di essa)? Einstein non era convinto, la natura non poteva rispondere a leggi diverse a seconda che fosse osservata alla scala micro o macroscopica. Fu oggetto di critiche al limite del disprezzo, da parte di alcuni esponenti della scuola suddetta, come Wolfgang Pauli (il quale, coerentemente con le sue venature metafisiche, studiava con Jung i problemi legati alla sincronicità, ovvero ai fenomeni a-causali, come le coincidenze, o pseudo-causali, come l'astrologia). Ne accenniamo in quanto argomento sollevato nell'ambito della discussione, ma è evidente che non possiamo accettare brancolamenti metafisici, che trovano cioè spiegazione solo in sé stessi, proiettandosi così oltre la realtà scientificamente provata.
Ambigua realtà del presente, certezza del divenire
La conoscenza ha carattere cumulativo, si alimenta di conoscenza. Quando Giordano Bruno descrive la rivoluzione che Giove ha intenzione di attuare per sconvolgere un universo di bestie zodiacali, commenta metaforicamente che le rivoluzioni di quel tipo si fanno dopo pranzo, quando gli organi, specie il cervello, sono ben riforniti di energia e possono permettersi giudizi non influenzati da bisogni primari (Spaccio a la bestia trionfante).
Galileo, abbiamo visto, sosterrà analogamente che la realtà si comprende meglio se l'uomo si è nutrito di conoscenza non soggettiva, in grado di fornirgli una chiave di interpretazione univoca per mezzo di leggi trovate, sperimentate e generalizzate (deve cioè imparare la lingua con la quale è scritto il gran libro della natura).
Un mezzo secolo dopo, Newton, nel presentare il suo grande lavoro sulle leggi del moto, dichiara:
"Non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione delle proprietà della gravità, e non invento ipotesi. Qualunque cosa, infatti, non deducibile dai fenomeni va chiamata ipotesi; e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi metafisiche, fisiche, occulte o meccaniche" (Naturalis Principia Mathematica).
Bruno era stato in gioventù frate domenicano anche se in realtà non aveva abbracciato alcuna religione, Galileo fu un fervido credente e Newton scrisse più sull'alchimia e su aspetti esoterici della ricerca che sulle questioni scientifiche per cui è famoso. Le loro credenze non impedirono la lucidità scientifica. Sono, questi, tre casi specifici in cui si invoca il "taci e calcola" per dire che ogni scoperta va sperimentata alla luce di un metodo che non arriva dall'altro mondo ma è una nostra costruzione. Può essere astratta, e sarà tanto più utile quanto più riuscirà a ridurre i fenomeni complessi in modelli semplici. È un fatto: dobbiamo essere alimentati di conoscenza per conoscere ancora di più. E se cerchiamo qualcosa che non sappiamo ancora ma intravediamo nella conoscenza acquisita, ci rivolgiamo al futuro.
"Taci e calcola" può essere dunque invocato sia da scienziati materialisti sia da esponenti delle scuole di metafisica. Nel secondo caso la ricerca è in genere caratterizzata da un ipse dixit. L'ha detto Aristotele, argomentarono gli inquisitori contro Galileo. Ed egli pronto: se Aristotele fosse qui darebbe ragione a me e non a voi; con la sua logica vi dimostro che avete torto.
Nei processi del conoscere adoperiamo metodi e seguiamo protocolli. Possiamo non conoscere a fondo un problema, ma nella nostra sperimentazione e modellizzazione ci siamo imbattuti in costruzioni matematiche ardite che ci offrono soluzioni di enorme precisione. La validità del principio di equivalenza tra campo gravitazionale e accelerazione, ad esempio, è stata misurata con una precisione di 12 cifre dopo la virgola; per giungere a questo risultato si è dovuto comprendere qualcosa in più rispetto alle leggi di natura. Possiamo non sapere il perché di un fenomeno, ma abbiamo inventato procedure di controllo talmente precise da essere diventate vere e proprie macchine per conoscere il come; tanto che non possiamo più far scienza senza questi strumenti anche se non ricordiamo sulla base di quali principi operano. Qualsiasi metodologia noi adottiamo per conoscere il futuro del capitalismo, ogni risultato ne contempla la morte. Affinché il futuro possa essere conosciuto (e realizzato), deve scomparire ciò che rappresenta il passato. Chiunque voglia sapere qualcosa di preciso su ciò che seguirà la morte del capitalismo deve sapere che cosa muore con esso e quindi che cosa non deve riapparire.
Il capitalismo, in quanto sistema dinamico complesso, mette in moto meccanismi con retroazione positiva, ad es. il plusvalore che ritorna nel ciclo produttivo e produce ancora più plusvalore. Questa crescita, che è selvaggia, incontrollabile, ha bisogno di meccanismi con retroazione negativa, cioè di freni, controlli, altrimenti esploderebbe a causa dei suoi eccessi.
La contraddizione suprema del capitalismo è proprio la tendenza ad andare contro la sua stessa natura. Spinge al massimo la forza produttiva sociale e, nello stesso tempo, la soffoca. Tutti gli schemi di Marx, essendo il prodotto di un metodo scientifico, sono inquadrabili con riferimenti alla scienza odierna (l'esempio appena riportato potrebbe ad esempio essere sviluppato, se fosse utile, con riferimenti alla termodinamica). E questo vuol dire freccia del tempo, possibilità di affermare qualcosa di esatto sul futuro. Un sistema che funziona con retroazione positiva ma deve mettere in atto misure di retroazione negativa, checché ne dicano alcuni nostri critici, è un sistema suicida. Prima cerchiamo di capire come mai il suo suicidio è intrinseco, poi vediamo come una rivoluzione potrà agire per toglierlo di mezzo il più in fretta possibile.
Marx: quanto tempo perso per confutare l'ideologia
Qui entriamo subito in contatto con le annunciate patologie marxiste. È un fatto che, mediamente, non c'è corrispondenza tra quanto sostengono coloro che si autodefiniscono marxisti e ciò che ha detto Marx. Ciò è risultato chiaro nell'anno del duecentesimo anniversario della sua nascita. Assumendo filosofie idealistiche come quella di Hegel o quelle nostrane di Croce, chi è infetto dalle suddette patologie si convince, tra le altre, di due cose: 1) che la scienza e la tecnica non sarebbero vere fonti di conoscenza ma "attrezzature" che gli umanisti d'oggi adoperano di supporto alla loro concezione del mondo; 2) che la pretesa di spiegare tutto l'agire umano con la scienza, e l'invasione di quest'ultima nei campi della filosofia, dell'estetica, dell'arte o della psicologia, non sarebbero altro che detestabile scientismo.
Per costoro Marx non sarebbe uno scienziato, ma un filosofo che ha creato un modello astratto di realtà sostenuto da qualche equazione elementare tanto per spiegarsi. Infatti, molta della marxologia corrente affronta il lavoro di Marx come se fosse un prodotto ideologico (vedi ns. articolo sul duecentesimo dalla nascita nel n. 44 di questa rivista). Anche Gramsci era convinto che la scienza fosse una sovrastruttura e che la sua pretesa di fornire un linguaggio univoco per leggere la natura e per spiegarla fosse ideologia. Per noi la scienza è un linguaggio e ogni linguaggio è prima di tutto struttura: senza un linguaggio che permetta di comunicare l'esperienza e la sua riproducibilità non vi è produzione, non vi è modo di produzione. Che il linguaggio vada considerato come struttura è tanto più evidente quanto più è evidente l'estensione e la complessità di una società che poggia sulla conoscenza, sulla sua condivisione, su reti di macchine, sistemi, tecnologia e scienza.
Ora, come succede all'umanità intera, è sicuro che anche coloro che per sintesi chiameremo semplicemente i marxisti "stanno facendo delle cose", ma soprattutto ne faranno, organizzandosi di conseguenza. Nel corso del tempo imparano, memorizzano e applicano. Dunque, la teoria segue la prassi, ma quando si consolida la precede, sopravviene la possibilità di rovesciare la prassi stessa con la potenza del progetto. Lo scientismo, nell'accezione dispregiativa, non esiste. La scienza, man mano che avanza, sussume davvero sotto di sé campi della conoscenza precedentemente autonomi. Lo registra Marx con la celeberrima nota sul metodo (1857, Introduzione a Per la critica dell'economia politica). Chiunque abbia in mente di raggiungere un obbiettivo lo annota in agenda con qualche particolare esplicativo che riguarda tempi, metodi, relazioni con altri, accesso a materiali e strumenti. Chiunque tenga un'agenda, tiene del futuro in tasca. Più precisamente tiene in tasca un flow chart, un diagramma di flusso. Sentiamo già acute lamentazioni levarsi al Cielo: Vedete? Abbassano la rivoluzione al livello di un ciclo di produzione industriale! Vogliono la società-fabbrica! Un momento: a parte il fatto che altri volevano addirittura la società-cooperativa, anche Marx si sentì criticare per lo stesso motivo. La società-fabbrica, che orrore! La società caserma! Scrive Marx nei Manoscritti: l'industria sarà la vera antropologia. E nei Grundrisse: nella fabbrica l'operaio parziale non produce merci. La fabbrica è caserma solo perché raccoglie sotto al suo tetto gli schiavi del lavoro. Ma la fabbrica automatica è un mezzo per liberare dal lavoro: ciò che per il marxista omologato è un problema sindacale, è invece uno dei più grandi risultati della rivoluzione che avanza. Il problema è l'azienda, la fabbrica è la soluzione, noi aggiungiamo. Per il marxista senza aggettivi l'agenda è il futuro, man mano che si girano le pagine cresce l'energia potenziale che si scatenerà nella sua forma cinetica sotto la guida del partito. In ciò consiste il Che fare senza punto interrogativo. E Lenin nel celebre saggio aggiunge: liquidare il passato, ecco che cosa bisogna sognare!
Nemiche filosofie del tempo
Com'è noto, i marxisti sono degli specialisti in scissioni, hanno una enorme pratica di "selezione naturale" che non si è tramutata in esperienza. La separazione ambigua tra epoche produce di continuo separazione fisica e politica tra uomini. Se tale separazione non fosse dovuta a cause materiali, dovremmo concludere che i marxisti sono una massa di imbecilli, incapaci di mettere in pratica il più elementare assunto di ogni lotta: l'unione fa la forza. Macché: oltre a coltivare quella che sembra una tara masochista, i seguaci di Marx assumono come loro missione la funzione del megafono. Lanciano proclami come se stessero guidando milioni di persone all'attacco del capitalismo. E siccome ai milioni di persone non importa nulla di ciò che dicono le loro aspiranti guide, l'impatto dei proclami sulla realtà è nullo e gli effetti materiali della mancata azione sono attribuiti agli errori di qualcuno. Da questa concezione quasi religiosa di colpa nasce la santa critica all'altro, ormai canonizzata nelle procedure e nei contenuti. Critica che, come s'è visto spesso, si arma non solo metaforicamente. Noi siamo deterministicamente convinti che la tendenza alla rottura e alla separazione sia dovuta a forze fisiche in grado di influire sulla psicologia e sul comportamento, piuttosto che a presunte e nefaste influenze degli individui: non ce ne sono di così potenti.
Perciò in fondo non è esatto dire che l'influenza di filosofi come Hegel e Croce rappresenta un pericolo per lo sviluppo della scienza: piuttosto, è un carente sviluppo del metodo scientifico a permettere la diffusione dell'idealismo. Altro che approccio scientista: se la società fosse più permeata di scienza che di metafisica tutto si risolverebbe con una critica facile facile. I due filosofi non commettono solo degli errori: il carente radicamento del metodo scientifico permette loro di parlare senza conoscere l'argomento di cui trattano, sicuri di uscirne indenni. Questo è l'atteggiamento più inquinante e più diffuso. Croce, ad esempio, esclude che la matematica e la logica abbiano un contenuto conoscitivo, mentre in campo biologico è fortemente critico nei confronti dell'evoluzione darwiniana. Hegel, a dispetto della chimica dei suoi tempi, parla ancora della materia con le categorie di Aristotele. Sicuri che nessuno li copra di ridicolo, si permettono il lusso di teorizzare al di fuori del tempo. Nel corso di una chiacchierata con un filosofo di professione siamo stati eruditi sul fatto che la filosofia è superiore alla scienza perché le sue proposizioni sarebbero appunto senza tempo, mentre quelle della scienza sarebbero contingenti. Ciò è senz'altro vero, ma pensiamo un momento a che cosa può significare una simile concezione: togliamo alla nostra conoscenza la freccia del tempo ed essa non avrà più passato, né presente né futuro. Se la conoscenza fosse un fattore non cumulabile nel tempo non ci sarebbe evoluzione, il mondo sarebbe inchiodato a un livello di conoscenza eterno, immutabile. Questa potrebbe essere la spiegazione dell'avversione di Croce per Darwin, ma è senz'altro la spiegazione dell'avversione dei nostri antiscientisti per la scienza adoperata in campo sociale. Infatti, non potendo immaginare l'applicazione di metodologie scientifiche al corso storico della rivoluzione/controrivoluzione in atto, non si discostano dalle categorie politiche della Terza Internazionale (del resto, l'Internazionale medesima funzionava con il bagaglio politico della socialdemocrazia, dal quale la scienza era esclusa, nonostante le pretese). Così trattano il carattere transitorio del capitalismo come se fosse eterno sia dal punto di vista della permanenza sulla scena sia da quello della sua struttura. Ma la struttura partecipa alla freccia nel tempo: non è sempre la stessa perché, come tutti i sistemi evolutivi nasce, grandeggia e muore.
Muore? Non verrà uccisa dal proletariato insorto? Lo sdegnato attivista ha la domanda pronta. Stupida. Se non ci fosse il proletariato ad ucciderlo il capitalismo morirebbe lo stesso. La questione, semplicemente, non va posta così. Dice il cristallino Engels che il comunismo non è una dottrina ma una dinamica. Non è il risultato della vittoria di particolari principi ma dello svolgersi di fatti. Non è una filosofia ma un accumulo di storia. Il comunismo nasce dalla fabbrica, dal rapporto tra la borghesia e il proletariato, quindi dalla lotta di classe che ne deriva. Il comunismo è dunque la teoria espressa da questa dinamica.
"Le nostre concezioni sulle differenze fra la società futura e quella capitalistica presente sono deduzioni esatte basate su fatti storici e su reali processi di sviluppo. Se esse non fossero presentate in stretto legame con questi fatti e questo divenire, non avrebbero nessun valore teoretico né pratico" (Friedrich Engels a Pease, 27 gennnaio 1886).
Divenire. Deduzioni esatte basate sulla storia materiale. Modellazione della realtà e studio del cambiamento nel tempo sono elementi indispensabili per capire quale posizione e ruolo abbia l'uomo all'interno della natura che si muove verso il comunismo. La capacità di comprendere, di trasmettere ciò che si è compreso attraverso il linguaggio formalizzato, di aumentare le competenze man mano aumenta la conoscenza, sono aspetti che non riguardano solo il mondo scientifico ma l'insieme della nostra permanenza su questo pianeta, e naturalmente il succedersi delle forme economico-sociali. Ripetiamo dunque: per modellare il futuro occorre conoscere il passato e il presente; ma nulla si può conoscere e plasmare se non si è in grado di tratteggiare una dinamica del sistema in questione.
Quando si entra in questo campo, occorre avere la forza di capire che stiamo parlando dell'insieme di tutte le cose che si muovono nella biosfera del pianeta. Capire che, se operiamo delle separazioni (ad esempio "noi e voi" oppure "loro e gli altri", "il proletariato e la classe dominante", "l'uomo e la natura", eccetera), lo facciamo per avere uno schema della realtà in grado di farci risolvere dei problemi. Purtroppo, non possiamo fare a meno di interpretare la realtà per mezzo della realtà stessa, un po' come se volessimo misurare un metro con un metro.
In effetti abbiamo costruito un metro campione adoperando una barra di platino-iridio e su quello, fino a sessant'anni fa, abbiamo prodotto tutti i metri del mondo. Abbiamo inventato l'indefinito di precisione: ognuno dei metri del mondo era in teoria un metro campione, anche se ci eravamo accorti che quel tipo di precisione non bastava. A causa di condizioni ambientali la barra campione era soggetta a variazioni più ampie dei gradi di precisione occorrenti in certi casi. La barra originaria era perciò utile solo nella misura in cui non servivano precisioni maggiori.
Dunque, interpretare la realtà per mezzo della realtà non è il massimo, ma non abbiamo altre vie. È necessario quindi mettere il cuore in pace e darsi un metodo per semplificare la realtà in modo che la semplicità diventi un obiettivo da perseguire per una comprensione profonda dei fenomeni.
Ciò si ottiene in due modi: 1) perfezionando gli strumenti di rilevazione e misura, e soprattutto 2) affinando le tecniche di elaborazione dei dati raccolti. Le rivoluzioni non cambiano soltanto il mondo, cambiano anche sé stesse e gli uomini che ne rappresentano il divenire.
Il futuro non si compra dal droghiere
Si tratta di argomenti sollevati da un secolo contro la nostra corrente e che un tempo producevano migliaia di pagine scritte: le rivoluzioni si fanno o si dirigono? Sono un prodotto della volontà di uomini o rappresentano una polarizzazione sociale che il partito rivoluzionario orienta e guida? Il capitalismo dev'essere abbattuto o potrebbe anche crepare da solo? Chi combatte per affossarlo? Chi costituisce il partito? Chi garantisce che quest'ultimo non degeneri? E infine il quesito dei quesiti, la bomba atomica delle domande:
"Ma voi, che cosa fate? Quale contributo date voi per essere in regola con la lotta rivoluzionaria?"
Una volta era necessario ribadire continuamente che queste domande così formulate sono delle sciocchezze. Dopo qualche decennio, perde sostanza anche il proverbiale tentativo di "raddrizzare le gambe ai cani". Tuttavia, non sarà superfluo ribadire qualche chiodo contro questa persistente melassa marxista, questo dolciastro miscuglio di luoghi comuni, sentimentalismo e senso religioso del martirio che caratterizza la militanza terzinternazionalista (anche se, non appena è possibile, tutti i salmi attivistici finiscono nella comoda gloria elettorale).
Parlando del futuro e della necessità di attingere in esso indicazioni per il presente, ci è venuto in mente che su Internet c'è da tempo un vecchio dialogato tra alcuni personaggi che discutono sulla nostra idoneità rivoluzionaria. È materiale prodotto più di dieci anni fa e l'avevamo preso in considerazione solo per la curiosità di capirne la genesi. Ma di fatto è un sempreverde, dato che il suo contenuto è, in realtà, vecchio di un secolo. Dal 1921 rappresenta un argomento sfruttatissimo e, dal 1924, un corollario obbligatorio della bolscevizzazione stalinista. Insomma, ci troviamo di fronte a un paradigma critico, al rifiuto preconcetto, idealistico, del metodo galileiano, il quale metodo pretende che ad ogni indagine sulla natura e le sue leggi si accompagni un metodo di astrazione che permetta di evitare i danni della percezione individuale. Dicono costoro sul nostro folle ricorso al metodo scientifico (la citazione è lunga, ma è utile perché riassume un complesso di critiche ricorrenti):
"[n+1] È un gruppo che si rifà al bordighismo [...] ma mi sembrano dei folli, ad esempio quando sostengono che si può studiare il sociale con le leggi della termodinamica e altre cazzate scientiste/positiviste/meccanicistiche. Si stupiscono che il capitalismo non è finito nel 1975 e sostengono che vive ancora come uno "zombie" [...] e non è necessario sbattersi per fare un partito, perché è matematicamente certo che il capitalismo si trasformerà in comunismo, è solo questione di decenni [...] Ovviamente il tutto è indipendente dalla volontà dell'uomo, che si limita ad assistere [...] Non ho trovato nessun documento di n+1 dove si sostenga che non è inevitabile approdare al comunismo […] sono vittime di un positivismo morto e sepolto […] Degradare il marxismo a fredde formulette matematiche a scimmiottature della fisica è un gioco sporco. Se poi si fa sfoggio di una erudizione fuori del comune, è ancora più sporco […] La verità è invece semplice semplice, con sentimento si sta dalla parte degli sfruttati, con ragione si sta dalla parte del proletariato. Con i muscoli, il cervello, il cuore ogni giorno si combatte per dare quel contributo anche infinitesimo per il quale ci potrà essere la possibilità della rivoluzione comunista."
Che pasticcio. Il lettore potrà dire che il materiale trovato sul forum di un'organizzazione non fa testo perché quello è un luogo dove tutti dicono la loro senza freni. Invece è proprio per questo che lo riteniamo interessante: esso si presta ad accogliere quel che passa per la testa di chi lo frequenta; i freni servono solo a mistificare, se si riesce a toglierli di mezzo è meglio. La lettura del brano è chiara: siamo accusati di un superdeterminismo finalistico su cui poggerebbe un astensionismo intellettualistico dalla lotta quotidiana. Ci sono altre colorite quanto fantasiose sfumature, sulle quali sorvoliamo.
Per provare che ci hanno beccati in fallo sul finalismo, questi nostri interlocutori non cercati fanno un copia-incolla evidenziando il corpo del reato, cioè una citazione presa da un nostro articolo. Le leggi del determinismo, c'è scritto, distruggono il finalismo filosofico e gli sostituiscono un finalismo progettuale… che ovviamente non è più finalismo. L'avevamo scherzosamente chiamato teleodinamica in contrapposizione a teleologia e teleonomia:
"Le leggi del determinismo distruggono l'antico finalismo mistico, ma sono basate su di una formula inesorabile, la quale ci dimostra che il futuro è inscritto nel percorso necessario per giungervi, allo stesso modo in cui il percorso è stabilito dal futuro possibile. Il fine, quindi, a nostro modo c'è" (Patologie dell'investimento, n+1 numero 0).
Ecco che salta fuori di nuovo il tempo: nella citazione c'è semplicemente scritto che, realizzare qualcosa che si è pensato, comporta l'essersi dati un obiettivo e l'aver applicato i mezzi necessari a raggiungerlo. Comanda il futuro; presente e passato sono inessenziali. Tra l'altro, lo "sbattersi per fare un partito" non sembra un metodo granché efficiente: dopo cent'anni di sbattimenti il partito di questi ingenui facitori di eventi non c'è. A dispetto di tutti gli attivisti che vorrebbero creare le condizioni per ottenere qualcosa, se il passato non c'è più, se il presente non c'è, l'unica variabile su cui è possibile agire è il futuro, non perché qualcuno abbia escogitato una teoria futurista, ma perché noi siamo plasmati dal futuro fin da quando eravamo organismi unicellulari sguazzanti nel brodo primordiale.
Quando dovevamo trovare alimento per sopravvivere dovevamo attuare una strategia per realizzare il nostro futuro pasto. Questo è l'elemento essenziale che ha improntato il resto della nostra evoluzione fino a oggi. E oggi le strategie per giungere a uno scopo riguardano ben altro che il solo cibo.
Prima di proseguire bisogna eliminare elementi di disturbo come quelli introdotti dai partecipanti al forum: nel percorso verso il fine da raggiungere l'uso della scienza sarebbe un freddo atteggiamento, mentre avrebbe valore la sensibilità, il cuore più del cervello. Ora, abbiamo sempre detto che la rivoluzione è il prodotto di passione e algebra, abbiamo citato passi memorabili della nostra corrente in cui essa metteva in guardia contro la credenza che "materialismo storico e scientifico" volesse dire raziocinio di masse umane. No, sono i visceri che muovono le masse, e un partito ben attrezzato accoglie il messaggio che da esse arriva per orientarne la forza. Ma i creativi non sentono nemmeno il bisogno di leggere ciò che criticano. Hanno in mente il Che fare? in quanto domanda, mentre Lenin se lo chiedeva provocatoriamente per dare una risposta.
Attivismo come negazione del futuro
Questo tipo di problema l'ha dovuto introdurre per primo proprio Marx, quando fu costretto a dire "io non sono marxista" di fronte al dilagare, già allora, della chiacchiera dilettantesca, delle vuote formule che attribuivano alle politiche degli uomini l'avvenire della rivoluzione. Questi attuali campioni di adattamento darwiniano alle correnti del luogocomunismo sono ricomparsi. Apparentemente molto confusi, si dimostrano infine chiari e determinati. Oggi non possono fare danni, ma ad esempio nel Biennio Rosso i loro antenati attivisti continuavano a proclamare la necessità di scioperi generali, di espropriazioni, di dittatura proletaria, e tutte le volte che gli operai scendevano davvero in sciopero occupando le piazze si tiravano indietro, pugnalandoli alla schiena. E non sarà superfluo ricordare che quella marmellata socialdemocratica e frontista era proprio quella che teorizzava la necessità di una cultura operaia e socialista, perché si sa, la classe proletaria per costoro non è mai pronta per la rivoluzione, mentre per le elezioni pronta lo sarebbe sempre. I critici iscritti nella schiera dello stalinismo (anche quando sono sedicenti antistalinisti) non sono semplici sprovveduti, sono pericolosi.
Non si tratta solo di evitare la fatica di capire il tribolato, immenso percorso tracciato nientemeno che da forme sociali antitetiche in collisione. Insieme con le forze positive che la rivoluzione getta nella battaglia, vi sono residui negativi della vecchia società, rappresentati da tutti coloro che credono utile attingere ancora ai ferrivecchi dell'assetto borghese. Fortunatamente è facile riconoscerli: in un insieme invariante, cioè in un sistema in cui tutte le parti contribuiscono in modo organico al funzionamento del tutto, basta variare un solo elemento dell'intera struttura per farla crollare.
Inserite la democrazia rappresentativa in un sistema organico (ad esempio nel partito), e questo collasserà se pure la democrazia pesasse un millesimo dell'insieme. Concedete l'esistenza del lavoro salariato in una società di transizione e avrete un capitalismo truccato invece del socialismo. Usate il denaro seppure chiamandolo in altro modo (buono lavoro, ecc.) entro una società che credete socialista e avrete in pochissimo tempo l'accumulazione capitalistica.
Quanti sono coloro che, facendo proprio uno dei variegati modi di essere del marxismo, hanno eliminato del tutto ogni rapporto concreto con la società capitalistica e si sentono militi di una società nuova? È difficile valutare una situazione sociale se lo strumento di valutazione è malfunzionante. Ad ogni modo basta poco per documentarsi su che cosa diciamo a proposito di automatismi della rivoluzione:
"Se la critica dell'economia politica è nello stesso tempo affermazione della società futura, e quest'ultima sarà possibile con la fine della pseudoscienza quantitativa delle merci e del denaro, del carattere feticistico della produzione capitalistica, è evidente che non basta aspettarsi il rivoluzionamento sociale solo dal cambiamento di aspetti quantitativi: se al rapporto fra cose corrisponde un rapporto fra persone, fra classi, in ultima analisi sarà proprio l'intreccio fra cose e persone, fra quantità e classi a risultare decisivo." ( Crisi storica del capitale senile, Prefazione, 1985).
Luce in fondo al tunnel, forse è il futuro
Diciamo "forse" perché potrebbe non essere ora, potrebbe essere un altro treno della controrivoluzione che ci viene incontro a tutta velocità con i fari accesi. I tempi della rivoluzione possono non essere quelli dei nostri desideri. Le manifestazioni di piazza che negli ultimi anni hanno mobilitato milioni di persone hanno oggettivamente caratteri diversi rispetto a quelle che le hanno precedute. Hanno cioè incominciato a rappresentare non solo il passato (esperienza) ma anche il futuro (mancanza di rivendicazioni per il presente). Vedremo ancora sollevazioni come quella delle banlieue francesi, della Grecia, della Primavera araba, degli Indignados, di Occupy Wall Street, di Nuit debout, dei Gilets jaunes, degli Anti-Pouvoir d'Algeria. Mentre scriviamo ci sono manifestazioni in Cina, in Algeria, in Francia, in Cile, in Equador, in Bolivia. Rispetto al passato questi movimenti non sono più a chiara composizione classista come quelli sindacali, ma non sono ancora antisistema. Il criterio per individuarne la natura può essere solo quello del tempo: sono tesi a rivendicare un passato che non c'è più o ad aprire la strada a un futuro che non c'è ancora? Fu il criterio adottato dalla nostra corrente per valutare i movimenti anticoloniali. Allora si trattava di capire che non si poteva essere indifferenti di fronte ad essi perché coinvolgevano masse sterminate che, svegliandosi al fragore del macchinismo, scuotevano dalle fondamenta la società dell'epoca. Infatti, si disse che con la loro guerra urbana i popoli colorati esercitavano una pressione classista, moderna, mentre la massa contadina arretrata esercitava nelle campagne, anche di paesi non arretrati, una pressione antica, razziale.
La ventata di incendi delle banlieue francesi era anti-forma, una contrapposizione assoluta ma ancora in veste di rifiuto senza alternativa. Le manifestazioni degli Indignados e del movimento Nuit débout erano in buona parte all'interno della logica democratica; quelle arabe erano contro il governo in carica e non contro il sistema (e tantomeno contro la forma sociale); quelle dei Gilets Jaunes hanno una troppo marcata caratterizzazione interclassista che impedisce loro di essere anti-forma. Negli ultimi quindici anni l'accelerata urbanizzazione di Cina, India e altri importanti paesi ha portato in piazza più di un miliardo di persone. Non si è trattato di moti classisti ma di moti urbani interclassisti, i quali però possedevano una carica classista per il loro estremismo radicale, esattamente come l'avevano i popoli colorati durante la decolonizzazione. Con una differenza importante: fino a poco tempo fa esisteva ancora una massa di manovra notevole costituita dalle classi medie, impaurite dalla prospettiva di essere tagliate fuori dalla divisione della torta capitalistica. Oggi questa condizione si è indebolita drasticamente e le masse piccolo borghesi sono andate definitivamente in rovina. L'aver tolto a cento milioni di persone buona parte della loro capacità di spesa ha dato ad esempio all'America uno scossone gravido di conseguenze, e ha minato le basi stesse di quella che non sarà mai più la potente locomotiva dell'economia mondiale.
L'unica ondata di manifestazioni chiaramente anti-forma e dai connotati fortemente proletari (nell'accezione di senza-riserve) è stata quella americana di Occupy Wall Street. Non ci dilungheremo sugli aspetti specifici, dato che abbiamo sviscerato l'argomento sul n. 30 di questa rivista, ma occorre sottolineare almeno uno di questi aspetti: niente di ciò che professavano i manifestanti poteva essere oggetto di rivendicazione e trattativa. OWS era un movimento prettamente anti-forma anche nelle sue manifestazioni marginali (o meglio, ritenute a torto marginali): tentava di dar vita a comunità tendenzialmente fuori da ogni logica capitalistica. E, quel che più conta, con un pragmatismo prettamente americano, lontanissimo dalla liturgia sinistrorsa europea. Segnando irreversibilmente il futuro di tutte le rivolte che esploderanno da adesso in poi.
Positivismo scientista, meglio di niente
Stiamo viaggiando su percorsi un po' distanti dal luogocomunismo marxista e non perderemo tempo per fare un copia/incolla di qualcuno dei mille esempi che ci mostrano quanto Marx ed Engels tenessero ad elevare "il socialismo dall'utopia alla scienza". Ma è inevitabile un minimo di curiosità. Siamo di fronte a una situazione mondiale che vede perdurare una crisi irrecuperabile, che vede la disoccupazione a livelli mai raggiunti, che vede il rapporto fra profitto e anticipo di capitale a livelli impossibili da sopportare nel tempo, che vede il plusvalore relativo salire enormemente, tanto da configurare una distruzione della legge del valore. C'è informazione sufficiente per capire dove stiamo andando. Quali possono essere le ragioni materiali che invece portano degli individui ad avere un odio particolare per tutto ciò che non è immediatismo, attivismo, primitivismo, tutti gli "ismi" che quel grande rompiscatole di Lenin gettava contro gli improvvisatori?
Cos'è lo scientismo? Perché ogni tanto salta fuori qualcuno che ce lo rinfaccia con toni ed argomenti smaccatamente extrapolitici?
L'enciclopedia Treccani, di impostazione gentil-crociana è particolarmente indicata a fornirci una definizione:
"Il particolare atteggiamento intellettuale di chi ritiene unico sapere valido quello delle scienze fisiche e sperimentali, e svaluta quindi ogni altra forma di sapere che non accetti i metodi propri di queste scienze."
Questa definizione è semplicemente una sciocchezza e stupisce un po' il fatto che chi si autoproclama comunista la possa far propria. Nessuno di coloro che vengono definiti scientisti dagli antiscientifici ritiene che l'unico sapere valido sia quello della scienza (certamente alcune conoscenze proprie delle società considerate primitive sono ad esempio addirittura superiori a quelle scientifiche nostre per – poniamo – condurre a buon fine l'approvvigionamento proteico di una comunità attraverso la caccia). Né svaluta ogni forma di sapere che non accetti i metodi della scienza. Chi sostiene il metodo scientifico ritiene precisamente che tutto il mondo conoscibile possa essere sottoposto al vaglio della scienza, ed effettivamente ritiene mistiche o spiritualistiche le discipline contemporanee – e quindi già affrontabili con metodo scientifico – che non si possano inquadrare in programmi di ricerca scientifica. Chiunque rifiuti tale approccio fa parte di un mondo spiritualistico non materialista e quindi per noi privo di interesse.
La psicologia, ad esempio, è certamente una delle discipline meno "contaminate" dallo scientismo, ma è allo stesso tempo il campo in cui è massimo il ricorso a medicinali come gli psicofarmaci, risultato di complesse ricerche riguardanti l'azione di sostanze chimiche sul cervello.
Può darsi che nelle discipline di frontiera ci siano degli scientisti, ma mentre questi tenderanno a una ricerca condotta su basi materiali, i metafisici non potranno che ricorrere a un approccio idealistico. Oggi il termine "scientismo" è usato esclusivamente in senso negativo e certamente non a causa della scienza, bensì del pasticcio positivista che s'è sposato alla filosofia. Usato dunque per
"indicare l’indebita estensione di metodi scientifici ai più diversi aspetti della realtà" (Treccani)
esso si pone come conservazione. Se l'estensione del metodo scientifico è indebita, diventa giustificata la tendenza a spiegare i fenomeni attraverso le idee, attraverso il pensiero. Ma la tendenza opposta è l'avanzare della spiegazione materialistica dei fenomeni, è la grande conquista "galileiana" che ha rivoluzionato ogni teoria della conoscenza fondando la scienza moderna. È la scoperta di Marx sulla strada della rivoluzione, quando nel 1837, a 19 anni, scrive l'importante e mai abbastanza conosciuta Lettera al padre, un vero e proprio programma di ricerca scientifica nel significato moderno del termine.
A dispetto di ciò che sostengono gli affetti da patologia marxista (hegelo-crocian-gentiliana), scorrazzeremo provocatoriamente fra le proposizioni scientifiche anche là dove non sempre è ritenuto indispensabile neppure dai seguaci del materialismo scientifico (l'aggettivo qui sarebbe superfluo). Ma di fronte all'accusa di scientismo (accusa resa infamante dagli avversari della scienza) possiamo negare di essere scientisti? Evidentemente no. Se leggiamo la Treccani con il nostro occhiale, lo scientismo non è altro che la scienza nell'atto di guadagnare terreno in tutti i campi.
Chiunque di noi può definirsi scientista se usa la scienza come chiave per aprire nuovi mondi alla conoscenza. Prima di Galileo non esisteva la scienza così come la intendiamo oggi. Man mano che il metodo scientifico si affermava, invadeva campi nuovi, proprio come dice la voce della Treccani. Indebitamente, perché fino a quel momento tali campi erano esenti dall'obbligo scientifico di trovare le leggi soggiacenti ai fenomeni, di elaborare una teoria e di sottoporla alla verifica sperimentale, cioè alla prova di esperimenti ripetitivi. Perciò, se prendiamo per buona la definizione ufficiale, ci saranno scientisti finché ci sarà qualcosa di nuovo da conoscere nell'ottica della scienza.
Possiamo quindi definirci scientisti non perché saremmo convinti che la scienza sia il libro sacro di una religione che consenta di spiegare e giustificare tutto, ma perché pensiamo che faccia parte della realtà solo ciò di cui la scienza prova l'esistenza materiale. Pretendere che esista una qualche parte di universo, una qualche realtà, di natura diversa rispetto a quella provata dalla scienza, non serve che a coltivare delle chiacchiere.
Solo dopo aver fatto queste precisazioni si può passare alla critica della scienza nell'età capitalistica. Per criticare qualunque cosa, vuoi la religione, vuoi la scienza, occorre mettersi almeno alla sua altezza.
Marx diceva che i risultati raggiunti in ogni paese sono immediatamente patrimonio per tutti gli altri. Sembra che non sia così per i risultati della teoria rivoluzionaria, a proposito della quale ognuno dice e fa quello che vuole, azzerando ogni possibilità di condivisione.
La scienza non è un martello
Si dice a volte: la scienza è come uno strumento, la sua funzione dipende da chi lo usa. Ciò può essere propagandisticamente efficace, ma è una banalità non proprio corretta. Se diciamo che la scienza è un martello, allora è vero: lo posso usare per picchettare un terreno, oppure per spaccare la testa a un nemico. Ma si tratta di una generalizzazione un po' grossolana che cade di fronte ad esempi appena più complessi. Ad esempio, la teoria della gravitazione di Newton è una legge di natura, se si pensasse al suo utilizzo come strumento bisognerebbe ricorrere alle parabole balistiche di un proiettile o a una guerra spaziale con traiettorie di astronavi gravitanti fra corpi celesti e cose del genere. La legge in quanto tale rimane patrimonio di conoscenza della specie in qualsiasi contesto. Il martello non c'entra con le leggi di natura, a meno di non pensare alla complicatissima descrizione fisico-matematica del suo utilizzo, dall'effetto leva al calore dissipato piantando chiodi.
Il vero guaio, per la nostra specie, della persistenza al potere di una classe così nefasta come la borghesia, è il pregiudizio ideologico che ci impedisce di avanzare nella comprensione del mondo. Galileo e Newton non potevano immaginare una Terra piatta attorno alla quale orbita il Sole perché la loro concezione materialistica dei corpi celesti, suffragata da calcoli ed esperimenti, lo impediva.
Forse si può dire, senza scandalizzare nessuno, che l'opposizione della nostra corrente alla vecchia politica terzinternazionalista era dettata dal fatto che eravamo stati costretti, a causa dei limiti teorici dell'ambiente, a ribadire una concezione materialista "forte", a prendere atto che non si trattava semplicemente di persone che "sbagliavano" ma di un qualcosa di più profondo, ad esempio una transizione.
Non ci siamo mai dedicati a un'esposizione di ricordi con cui celebrare la "nostra" peculiarità perché la vera peculiarità è quella della Sinistra. Eppure, qualche minimalista osservazione la dobbiamo fare. Quando si mette in discussione qualche bastione terzinternazionalista si scatena immediatamente un accanimento sproporzionato, un'ondata isterica sommerge ogni tentativo di riferimento al futuro e prende il sopravvento l'ingombrantissimo e impresentabile passato. Non è evidentemente una questione di estetica: proviamo a chiederci se un ventenne d'oggi potrebbe essere attratto da una lotta per ciò che era in ballo negli anni '20 del secolo scorso, chiediamoci se rischierebbe una fucilata per ottenere la Russia stalinista come sfondo per la sua esistenza. Un ventenne d'inizio '900 non sapeva che lo stalinismo avrebbe preso il sopravvento, il ventenne di oggi sa che ciò è successo. Anche se non razionalizza il fenomeno, ha respirato le opposte propagande da guerra fredda, ha vissuto in un clima di falsità ideologica che l'ha intossicato. Non ha un passato esemplare cui riferirsi, neanche per inventarsi qualche mito artificiale. Se fosse attratto dal cambiamento potrebbe riferirsi solo al futuro. Quel futuro a cui tendere se visto in un quadro di demolizione del presente, quello da cui fuggire se prevale il quadro di conservazione. Ma fuggire dove?
Il predominio del futuro
Una specie di bolscevizzazione generalizzata ha cancellato ogni ricordo delle poche voci fuori dal coro. Come se nel dopoguerra non fosse esistita una corrente in grado di riprendere il "filo spezzato" e rimettere in piedi la dottrina. Soltanto la perdita di lucidità derivante dall'immedesimazione patologica nei confronti degli eventi passati può spiegare la clamorosa "dimenticanza" di ciò che era stato elaborato per gli eventi futuri. Ovviamente tanto oblio ha cause anche endogene. La corrente che, unica al mondo, ha rappresentato il divenire organico della nostra specie attraverso l'azione del Partito coerentemente organico, ha sfiorato l'estinzione finendo per omologarsi all'ambiente marxista. Ormai non c'è più nessuno che osa argomentare sul socialismo "dall'utopia alla scienza", mentre si possono scrivere pagine e pagine per giustificare qualche briciola di azione sindacale a fianco di un mini-sindacato piuttosto che di un altro. Il tutto scambiando una spaventosa mancanza di competenza per una sana presa di distanza dallo scientismo. Che la scienza "borghese" sia inquinata da ideologia e interesse lo sanno anche i sassi; lo sanno anche i borghesi, naturalmente. Il matematico René Thom, in polemica con altri scienziati critici verso la sua "teoria delle catastrofi", annota che la scienza d'oggi mostra carenze enormi, ma non per questo bisogna rinunciare a una concezione scientifica del mondo:
"Non serve una grande cultura scientifica per comprendere come le nostre attuali conoscenze della fisiologia umana siano ridicolmente rudimentali; e basta consultare un trattato sulla resistenza dei materiali per convincersi che le basi teoriche della corrosione e del cosiddetto invecchiamento delle strutture sono spaventosamente carenti. Un individuo che nutrisse qualche scrupolo di rigore teorico eviterebbe di consultare un medico o di salire a bordo di un Concorde".
In ambiente rivoluzionario si dovrebbe argomentare intorno al problema della salute nella società futura, di produzione per le necessità umane e di tecnica salva energia contro lo sciupio intrinseco del capitalismo: scoprire che la scienza borghese è… borghese sembra un esercizio poco utile.
Cerchiamo di visualizzare un modello che rappresenti lo scontro: all'inizio abbiamo un ambiente abbastanza omogeneo che mantiene inevitabilmente legami con il passato e su questa base si dimostra distruttivo nei confronti di sé stesso: dovendo difendere l'URSS e tutto il sistema stalinista, crollerà miseramente con quest'ultimo.
Ma non c'è opposizione, quindi viene a mancare la dialettica delle transizioni, quando il vecchio muore e il futuro incalza. Purtroppo, il futuro incalza in modo assai relativo: il modo di produzione non è solo maturo per cadere, è marcio; mentre il proletariato non si è ancora sollevato dalla batosta degli anni '20. Infatti, anche ciò che resta della corrente originaria del comunismo "di sinistra" sembra essere tragicamente travolto dalla dissoluzione generale. Mentre nel secondo dopoguerra era stato possibile contrapporre al pestilenziale passato qualche vivificante iniezione di futuro, oggi i rigurgiti di terzinternazionalismo democratico non hanno più chi li possa arginare. Anche se erano state tutto sommato ininfluenti, le sinistre del marxismo avevano svolto complessivamente un compito di salvaguardia del patrimonio teorico (o meglio: della possibilità che in futuro fosse riscoperto tale patrimonio). Ma dall'inizio degli anni '60 l'assedio della nuova forma di opportunismo che si mostrava apparentemente critica nei confronti di quella vecchia l'andava sostituendo.
La storia purtroppo non perdona: l'accumulo stratificato dei marxismi si caricava nuovamente di contenuti mutuati dalla maledetta controrivoluzione. All'inizio degli anni '70 il terzinternazionalismo prendeva piede. L'opportunismo non si presentava più monolitico intorno al modello socialdemocratico stalinista, ma variegato e apparentemente nuovo. Per le correnti marxiste era un disastro: la struttura organica, già messa duramente alla prova da tante defezioni, crollava, aprendo la strada all'influenza del nuovo opportunismo. Il quale, in genere, tolte alcune varianti che tentavano di introdurre un discorso sull'antiforma, non era troppo diverso da quello vecchio.
L'invarianza proiettata: il futuro degli aggiornatori
La critica nei confronti dei marxismi potrebbe far pensare alle solite "questioni" (nazionale, agraria, sindacale, tattica, militare, ecc.) che da un secolo offrono materiale per dibattiti. Qualcosa sta cambiando. La dialettica fra conservazione e rivoluzione ha per così dire assegnato posti che nessuno degli attori sulla scena ha occupato coscientemente. Perciò, la grande suddivisione individuata settant'anni fa dalla nostra corrente fra negatori, falsificatori e aggiornatori della dottrina non va interpretata come una scelta di campo dei soggetti ma come una materiale distribuzione di probabilità, così come avviene tra i fenomeni sociali che comportano il movimento di tanti individui, trattabili come molecole di un gas riscaldato. La domanda non verte quindi su "quale scelta di campo" abbia interessato un soggetto ma "in quale campo" la rivoluzione lo ha scaraventato nella selezione darwiniana in corso. Le aree da occupare si sono ridotte, così la storia ha riservato per il futuro della rivoluzione un solo grande campo avverso. Come abbiamo notato più volte, la freccia del tempo comporta una semplificazione dei rapporti e dei compiti.
All'inizio furono i negatori della dottrina originale "di Marx". Erano i nemici aperti, appartenenti alla borghesia e visceralmente legati alla sua ideologia. Sono ormai statisticamente ininfluenti, dato che la maturazione del capitalismo ha comportato capitolazioni teoretiche fondamentali da parte loro. Capitolazioni evidenti, anche se non ammesse, ma capaci di cambiare l'ambiente sociale, vere e proprie "disfatte", come le definisce la nostra corrente, rispetto al futuro del capitalismo.
La seconda schiera, quella dei falsificatori, fu quella storicamente più florida, pericolosa e mistificante. Era la sentina sociale in cui si raccoglievano gli opportunisti di tutte le risme, da quelli della socialdemocrazia della Seconda Internazionale a quelli del revisionismo controrivoluzionario. Furono definiti dalla nostra corrente attraverso le sottrazioni che avevano operato sul corpo generale della dottrina rivoluzionaria: essi assumevano che fosse possibile eliminare da quest'ultima l'andamento storico catastrofico, la necessità del partito politico organico, il compito di distruggere i vecchi rapporti, l'antiparlamentarismo, l'antigradualismo, l'inevitabilità dello scontro violento classe contro classe. Il nucleo originario dei falsificatori non avrebbe retto sotto i colpi della rivoluzione se un altro fenomeno, parallelo, non avesse portato acqua a quel mulino: la sconfitta della rivoluzione aveva spinto alla ribalta una corrente falsificatrice con ampio potere statale, influente a causa dell'avvenuta conquista del potere in Russia, capace di minare dall'interno l'edificio invariante della teoria rivoluzionaria. Lo stalinismo è stato un potente sottoinsieme del complesso falsificatore.
Anche in questo caso, il movimento storico irreversibile, la freccia del tempo, ha prodotto un indebolimento dei presupposti su cui si fondava tale corrente. Tolto dall'orizzonte futuro lo stalinismo con la sua patria russa, la controrivoluzione avrebbe dovuto, e dovrebbe, avere difficoltà a trovare alternative altrettanto micidiali, anche se già nei primi anni del secondo dopoguerra la nostra corrente, con una certa preveggenza, individuava la terza ondata di avversari:
"Infine nel terzo settore degli aggiornatori noi collochiamo quei gruppi che, pur considerando lo stalinismo di cui sopra come una nuova forma del classico opportunismo battuto da Lenin, attribuiscono questo pauroso rovescio del movimento rivoluzionario operaio a forme difettose ed insufficienti contenute nella prima costruzione di Marx, e si assumono di rettificarla pretendendo di poterlo fare sui dati della evoluzione storica successiva alla formazione della teoria; evoluzione che, a loro dire, l'ha contraddetta" (I fondamenti del comunismo rivoluzionario).
Lo spontaneismo neostalinista dei gruppi attivisti conviveva con le forme veterostaliniste del maoismo e con quelle operaiste sbocciate nella sinistra del PSI. In estrema sintesi, se intendiamo per stalinismo l'enorme influenza negativa della Russia sul movimento operaio internazionale, per neostalinismo possiamo intendere l'enorme influenza negativa della stessa forma opportunistica ma senza la Russia, quindi con un travestimento in grado di farla sopravvivere.
Il modello sociale era chiaro: di fronte alla forma di stalinismo degli anni '70, la corrente ultraminoritaria che aveva conservato come poteva il patrimonio teorico ha dovuto soccombere, morire, perché era l'unico modo di rompere con l'influenza del passato e poter rinascere sotto l'influenza del futuro. Negli anni successivi, diventò particolarmente visibile un fermento sociale inerente al passaggio da un'epoca all'altra e non da un gruppo di individui che sbagliano a un altro. Oggi sappiamo che in questo caso dire "da un'epoca all'altra" significa "dal passato al futuro". Era prevedibile tutto ciò? Rispondere affermativamente sarebbe poco aderente alla realtà. La crisi fu talmente profonda che spinse gli individui a inutili battaglie di retroguardia. La scomparsa di quella corrente storica fu però in un certo senso da noi vista in anticipo: contro coloro che prevedevano una eternizzazione dell'opportunismo vincente, facemmo notare che era in corso un'evidente auto-cannibalizzazione e che solo quando fosse terminato il ciclo di eliminazione sarebbe potuto scaturire qualcosa di nuovo.
Fu una decisione filotempista
Qualcosa di nuovo stava maturando nella società, altrimenti non saremmo stati in grado di decidere alcunché. Ma, per quanto ci riguarda, fu una decisione resa possibile prima di tutto dal cambiamento in corso della struttura industriale nei maggiori paesi capitalistici. Per quanto la nostra micro-realtà fosse invisibile e ci sembrasse inspiegabile la refrattarietà dell'ambiente alle determinazioni così ben chiarite dalla Sinistra Comunista, era per noi evidente che c'era un salto tra il primo e il secondo dopoguerra e che rimanere ancorati ai testi del primo trascurando quelli del secondo fosse un errore grave, non solo una preferenza. Solo sul filo del tempo si sarebbe potuta inquadrare un'attività quotidiana coerente con il futuro. Il suddetto cambiamento stava avvenendo con il radicale ricorso allo sfruttamento intensivo, vale a dire con macchine che andavano a variare drasticamente la produzione di plusvalore relativo. C'è documentazione sufficiente su questo problema e la inseriamo in bibliografia. Ancora una volta il futuro dettava legge sul passato: una volta innescata la tendenza, ogni capitalista cercò di salvaguardare il proprio profitto individuale, rimanendo come sempre insensibile alla caduta generale del saggio. Scrivemmo un libro sulla irreversibile senilità del capitalismo. Irreversibile significa che non si concedeva a questo modo di produzione ulteriore capacità di sopravvivenza. A meno che non mettesse in atto misure per abbassare la composizione organica del capitale. Come previsto da Marx. Doveva assumere grande importanza lo strato proletario dei senza riserve, una forma intermedia fra la condizione dei proletari e quella degli schiavi.
Il ciclo che rese possibile un aggancio con il futuro si può riassumere in poche righe. Il grande sciopero a oltranza che bloccò la Fiat per 35 giorni nel 1980, rappresentò una svolta. O meglio: la svolta che si stava verificando nella società e nella struttura produttiva prese la forma di uno sciopero a oltranza. Sembrò in quei giorni che la cappa del controllo sindacale e politico potesse essere spezzata, ed effettivamente qualche segnale in questo senso poteva essere colto. Nonostante la sconfitta, per qualche anno sembrò ci fosse la possibilità di riprendere un discorso critico. Questa illusione durò poco, e a metà degli anni '80 fummo assai vicini all'estinzione di quel barlume: dominava ancora l'antica concezione secondo la quale esisteva un movimento, non importa quanto consistente, in grado di dire alle masse che cosa avrebbero dovuto fare. Una specie di auto-ipnosi che produceva più che altro un certo numero di punti esclamativi sulla stampa periodica (sport molto praticato anche adesso). Come fu possibile? La risposta è abbastanza semplice: non si era capito, in generale, che stava cambiando epoca all'interno del modo di produzione capitalistico. La senilità di quest'ultimo non era (non è) un optional della storia ma un passaggio obbligato che costringe chi guarda al futuro ad adottare un patrimonio teorico adeguato. Questo patrimonio c'è, basta riuscire a vederlo.
Non è che sul nostro versante le cose andassero meglio, anzi. Eravamo al solito punto: quando era morto Bordiga, nel 1970, era apparsa su Programma comunista una rimembranza composta da una ventina di articoli tra i quali solo un paio erano lavori del dopoguerra. Fra poco la Fondazione Bordiga terminerà la raccolta e la pubblicazione delle opere in nove grossi volumi, dal 1912 al 1926. Non è prevista una continuazione che raccolga anche gli scritti del dopoguerra. Noi, dal 1990 avevamo dedicato la maggior parte del nostro impegno alla copiatura e poi alla digitalizzazione del materiale del dopoguerra che qualche anno dopo cominciammo a diffondere anche tramite Internet. Il prevalere altrove del materiale sulla o contro la Terza Internazionale si era ad ogni modo riflesso sul lavoro in generale: il passato aveva di nuovo vinto, il futuro era sistematicamente ignorato.
C'era un qualcosa di inesorabile e di tragico nel procedere alla cancellazione della Sinistra per mano dei suoi stessi seguaci. Ma c'era anche una logica. Non dice forse Marx che la rivoluzione avanza prima di tutto eliminando gli orpelli inutili della rivoluzione precedente ( Lotte di classe in Francia)? Poteva essere un momento favorevole per selezionare (indebitamente, secondo i metafisici) le forze attaccando il campo delle chiacchiere attivistiche per procedere alle demolizioni. Ma quel che era rimasto della diaspora internazionalista perse dieci anni a disquisire sulle grandi "questioni" aperte del Novecento.
Zero è un numero pari
In uno spazio vuoto il tempo non esiste. Se ragioniamo sul filo dello spazio-tempo dobbiamo per forza avere un modello che preveda un qualcosa che si muove nello spazio. Aristotele definiva il tempo come un intervallo fra il prima e il dopo di un corpo in movimento, oggi s'è precisato che per descrivere lo scenario aristotelico ci vogliono almeno quattro dimensioni dello spazio-tempo e due oggetti immersi in esso, dato che il movimento di un corpo è definibile soltanto relativamente a uno o più punti. Si può immaginare che il presente sia il tempo zero, ma non esiste la possibilità di utilizzare matematicamente questa osservazione: il tempo scorre, e zero più sia pure un miliardesimo di secondo non è più zero. Se discretizziamo il tempo vediamo che la serie infinita dei numeri si divide a metà, con lo zero che fa da separatore fra -1 e 1. E siccome un numero pari è quello che sta fra due numeri dispari, lo zero è pari. Se consideriamo i numeri ordinali lo zero non esiste, la serie inizia con il primo numero, che è uno (Bartali non avrebbe potuto dire "sono contento di essere arrivato zero"). Dunque, il tempo è l'intervallo fra un evento e l'altro misurato con la precisone sufficiente allo scopo che ci siamo dati, e che non potrà mai essere zero. Insomma, non c'è verso di combinare un presente in matematica.
Quindi prima di tutto: se in uno spazio vuoto il tempo non può essere immaginato, perché in uno spazio con oggetti lo può?
In effetti, l'osservazione che in uno spazio vuoto il tempo non c'è, si riflette nello spazio con oggetti: se fossimo chiusi in una capsula spaziale in assenza di gravità, il principio di equivalenza di Einstein ci impedirebbe di sapere se 1) siamo in caduta libera verso un grave, 2) siamo in orbita attorno ad esso, 3) siamo in moto rettilineo costante nello spazio. Aggiungiamo un altro caso: 4) la capsula in accelerazione percorre uno spazio crescente in unità di tempo costanti e noi, chiusi in essa, non potremmo sapere se il "peso" che avvertiamo è dovuto all'accelerazione o alla massa di un pianeta sul quale appoggiamo. Spazio e tempo non possono essere trattati separatamente. E questo vale anche per le rivoluzioni.
Con Minkowski abbiamo visto che il tempo assoluto dei filosofi sparisce e viene sostituito dallo spazio-tempo. La nostra corrente ha detto che basare un qualsiasi programma d'azione solo sul presente è "vero esistenzialismo di partito." La nostra nascita non fu caratterizzata da tesi o prese di posizione sulla situazione del momento ma da un programma di lavoro per il futuro. Non la scaletta dei compiti in classe ma un'esposizione sulla prospettiva di lavoro, l'unico modo per dire ciò che volevamo essere. Un piccolo rovesciamento della prassi, senza pretese, come si conviene a chi non crede di far saltare il mondo da solo, soprattutto in una fase storica segnata dalla controrivoluzione.
Nelle teorie del continuo, c'è sempre un flusso (di materia, energia, informazione), mai una separazione. Se faccio calcoli su oggetti dalle dimensioni cui siamo abituati nella vita quotidiana e molto al di sotto della velocità della luce, non mi accorgo delle piccole differenze fra due eventi consecutivi. Ma se i due eventi si manifestano contemporaneamente uno sulla Terra e l'altro su Marte non avrò la possibilità di sapere se sono davvero contemporanei o sono invece sfasati nel tempo. Anche perché gli orologi segnano tempi diversi a seconda della velocità a cui si muovono.
La teoria della relatività ha dunque eliminato tempo e spazio "in sé", assestando, tra l'altro, un colpo tremendo alle teorie "esistenzialiste" della rivoluzione, che hanno come obiettivo il raggiungere un risultato basandosi sul presente. Ma il fatto che il tempo sociale, a differenza di quanto succede a quello fisico, scorra in una sola direzione, comporta delle conseguenze. Una riprova della differenza nella natura dei tempi ce la dà anche la termodinamica: se non ci fosse dissipazione di energia, ogni fenomeno fisico sarebbe perfettamente reversibile, basterebbe cambiare di segno il tempo, come si farebbe montando un film al contrario su un proiettore. Ma la dissipazione c'è e quindi il tempo ha una direzione, gli eventi hanno una direzione, di conseguenza anche le rivoluzioni hanno una direzione.
Introspezione scientista minimalista
I nostri critici saranno contenti: finalmente abbiamo confessato. Per loro, infatti, è impossibile dare un senso a quello che reputano un pastrocchio tra fisica a quattro dimensioni, termodinamica e marcia della rivoluzione verso il suo sbocco; e che comunque sarebbe un pastrocchio che non serve a niente, non avrebbe nessuna influenza sulla disposizione delle armate proletarie nella guerra di classe.
Concediamo per un momento che ciò sia vero. In effetti le grandi questioni sociali si possono affrontare come si è sempre fatto. Il programma, l'organizzazione e l'azione materiale non sono minimamente influenzati dai risultati di uno studio su di essi. Al massimo possiamo ipotizzare una maggiore chiarezza teorica negli organi che dirigono la rivoluzione (beh, questo non sarebbe un risultato da poco).
Le osservazioni sembrano persino ragionevoli ma sono sbagliate. Si continua infatti a ragionare come se la rivoluzione fosse una questione di volontà, organizzazione, tattica e politica. Come se fosse un evento pilotato da forze che ne hanno il controllo. Ma le rivoluzioni non sono niente di tutto questo. Sono terremoti, tsunami, eruzioni, forze immense della natura che travolgono le miserevoli forze dell'umanità organizzata nelle sue categorie e azioni, ordinate secondo criteri da tempo di pace, quando il terremoto non c'è. La chiarezza sulla direzione da prendere alle biforcazioni della storia non deriva dall'auto-maturazione dei singoli cervelli, ma è un prodotto del movimento sociale. La settimana che Lenin non voleva lasciar passare era la "finestra" storica che si apre alla biforcazione, ma non sarebbe servito a niente scoprirlo al momento: il partito e l'ambiente della rivoluzione dovevano esistere prima. È la finestra futura che proietta la propria influenza sul presente: il futuro è un potenziale anticipato. Per questo avevamo inventato il termine "teleodinamica".
Non è la giusta politica che fa la buona rivoluzione, è la buona rivoluzione che fa la giusta politica (e il buon partito). La rivoluzione deve poter permeare di sé tutta la società, la teoria è arma di vittoria solo se conquista masse di uomini; non nel senso che queste masse debbano andare a scuola per poter acquistare una coscienza, come pretendevano i nostri avversari socialisti culturalisti, bensì nel senso che le conquiste teoretiche devono andare a modificare il codice genetico di queste benedette masse. Dev'esserci una sintesi teoretica tradotta in proposizioni che vengono memorizzate e registrate dal cervello sociale. E questa sintesi non può che venire dal partito. La famosapolarizzazione non è una condizione organizzativistica ma ambientale. La controrivoluzione non ha vinto perché ha eliminato la vecchia guardia della rivoluzione con i plotoni di esecuzione, ma è arrivata ai plotoni di esecuzione perché ha vinto. Questa vittoria ci ha fatto perdere un secolo di storia. Una smisurata cappa di piombo tutto ha ingessato, paralizzato, ridotto a luogo comune, imponendo anche un suo linguaggio affatto inadeguato a comunicare una seria concezione del comunismo. Naturalmente la salvezza non risiede in un nuovo vocabolario o in una nuova raccolta di tesi. Guardando al futuro, è indispensabile vedere quali ostacoli bloccano la strada. Alcuni impediscono persino di individuare la meta e dovranno essere i primi bersagli delle artiglierie rivoluzionarie. Sono quelli stessi che hanno congelato un secolo adottando al completo la controrivoluzione. La quale, efficientissima nello svolgere il proprio compito, ha prima di tutto coperto la meta, poi ha disseminato la strada di cartelli indicatori fuorvianti: democrazia proletaria, guerra patriottica, partigianesimo, socialismo nazionale, profitto socialista, coesistenza pacifica. Infine, ha preso in affitto una opposizione democratica facendole recitare la parte dell'avversario, offrendole in appalto il compito di scrivere le parole sui cartelli indicatori.
Altro che scientismo, non siamo ancora arrivati neanche al suo livello, bisogna riscoprire nella spazzatura di un secolo le tracce del programma rivoluzionario, il resto è affabulazione, insomma, chiacchiera.
Individuare il percorso e il suo tempo
Bordiga diceva che non è marxismo quello che perviene a "posizioni scettiche, agnostiche ed elastiche circa l'itinerario preciso dell'avvenire rivoluzionario".
Il futuro partito rivoluzionario, quindi, risponderà a criteri scientifici, il che vuol dire a leggi della fisica, non a leggi inventate dagli uomini. Non potrà essere basato su di un sistema rivelato da forze sovrannaturali, da profeti, da capi o individui pieni di volontà, sapienza e forza. Non potrà accontentarsi di scrutare il futuro, il che sarebbe poco, né di volere il futuro, il che sarebbe troppo, ma dovrà
"Conservare la linea del futuro della propria classe... Il movimento comunista non è questione di pura dottrina; non è questione di pura volontà; tuttavia il difetto di dottrina lo paralizza, il difetto di volontà lo paralizza. E difetto vuol dire assorbimento di altrui dottrine, di altrui volontà" (Proprietà e capitale).
Se in fisica esiste una "freccia del tempo" per quanto riguarda i fenomeni dissipativi, allora occorre vederla agire anche quando si parla di rivoluzione, fenomeno che si manifesta proprio quando la dissipazione sociale si oppone all'ulteriore sviluppo della forza produttiva sociale. Bisogna aggiungere che in natura esistono forme di auto-organizzazione in grado di rovesciare localmente le tendenze dissipative. Gli esseri viventi, ad esempio, possono aggiungere ordine al loro ambiente, rovesciando quindi la tendenza naturale (l'ordine per un pesce non è lo stesso di quello per un castoro che gli sbarra un fiume).
Al tempo di Marx, due forze si contendevano la direzione dei movimenti rivoluzionari: l'anarchia e la socialdemocrazia. Il "marxismo" era la risposta scientifica alla inadeguatezza di entrambe. Quando fra il 1917 e i primi anni '20 esplose la rivoluzione in Europa infiammando parte dell'Asia, metà dell'umanità era proiettata verso il futuro sull'ipotesi di un socialismo nato vecchio. Il fatto che la rivoluzione avesse dato vita a un Marx in rappresentanza del "socialismo scientifico" non aveva modificato i rapporti di forza, e la rivoluzione, scartata l'anarchia, aveva inesorabilmente marciato sotto le bandiere dispiegate della socialdemocrazia. Abbiamo ricordato altrove che il manifesto della rivoluzione terzinternazionalista, L'ABC del comunismo, era stranamente povero in confronto a un programma basato sui risultati delle ricerche di Marx (il comunismo vi era presentato come fosse una specie di governo particolare e vi si paragonava la società futura ad una grande cooperativa).
Oggi l'umanità intera è proiettata verso il futuro sull'ipotesi di un mondo nuovo, derivato dalla simbiosi fra il "nato" e il "prodotto" (cfr. Kevin Kelly), tanto nuovo che non ha ancora fatto in tempo a riconoscere sé stesso come avanguardia del mondo in subbuglio. Il cosiddetto opportunismo potrà risorgere anche più virulento che in passato, ma non potrà più, materialmente, combinare i disastri che ha combinato in passato: il criterio scientifico potrà essere perdente in qualche anfratto della società, ma ormai la permea come nessun'altra forza materiale può fare.
I marxisti sembrano non accorgersi che la borghesia è costretta a rivoluzionare continuamente il proprio modo di produzione (Il Manifesto). Nella loro stampa non emerge nemmeno la consapevolezza che hanno alcuni borghesi rispetto ai problemi di accumulazione della loro classe. Così come è stato ipotizzato un oltre-uomo transumanista, qualcuno avrà senz'altro inventato utopie simil-comunistiche, un cybermarxismo, un astrocomunismo, una Lega di Andromeda, una fratellanza marziana o qualcosa di simile, anzi, è deterministicamente impossibile che, con altri nomi, non sia stato fatto, ma a quanto si può leggere non c'è stata una evoluzione parallela e incompatibile tra il capitalismo e i suoi nemici. La reazione primitivista, la decrescita, l'ambientalismo, l'anticonsumismo e persino la pratica collettivistica delle comuni nascono e si sviluppano alla scuola della borghesia, che fa valere il proprio dominio ideologico senza nemmeno il bisogno di programmarlo. Ovviamente non ci troviamo solo di fronte a un'opera della borghesia in senso antirivoluzionario, e nemmeno a insofferenze (ben imbrigliate) che vengono da un futuro che preoccupa alquanto. Mentre la borghesia si lancia in un futuro hard fatto di oltre-uomini cyborg e di un miglioramento della specie (dicono), i "marxisti" si dichiarano seguaci delle dottrine soft della stessa borghesia. Qualcuno non ci crederà, ma è uscito mentre scriviamo un periodico "comunista" con una dichiarazione di solidarietà al movimento rappresentato da Greta Thunberg. Naturalmente è una solidarietà condizionata, lo sciopero generale dovrebbe essere alla Luxemburg, l'obbiettivo non dovrebbe essere solo l'ecologia ma il rovesciamento del capitalismo, bisognerebbe trasformare un movimento piccolo borghese in un movimento proletario, ecc. Bisognerebbe. Intanto si prefigura un fronte unico, una unità di intenti, un obbiettivo comune. Niente futuro, tutto presente.
Ciò che è spaventoso è che presso questi raggruppamenti che si dichiarano comunisti sparisca il futuro. Come se nel loro codice genetico fosse stata inserita una molecola che proibisse di parlarne.
Sfogliando la raccolta completa della rivista teorica di un partito che si dichiara marxista, non abbiamo trovato nemmeno un articolo sulla prospettiva del capitalismo, di analisi sulla sua dinamica verso la propria negazione, di commento a qualche libro o articolo orientato al futuro, di studio sulle conseguenze della robotizzazione sull'assetto del proletariato, sulla caduta della legge del valore e le sue conseguenze. Niente, per quarant'anni si è fatto quello che si può considerare un minuzioso lavoro di archivio, utile, per carità! Ma non un lavoro sulla marcia del capitalismo verso la propria negazione. Una compilazione di temi canonici. La stessa mancanza di vitalità si nota nei giornali, appena un po' smorzata dalla presenza di articoli di attualità, in genere sindacale.
Paradossalmente è più vivo l'approccio al futuro di una rivista borghese come The Economist, settimanale della borghesia conservatrice liberale. Mentre sul settimanale inglese si offre una descrizione dinamica del mondo, e si apre al lettore una prospettiva su ciò che la redazione intende dimostrare oggi (e in qualche caso anche domani), i periodici marxisti si dedicano a quello che la giurisprudenza chiama "interpretazione autentica" voluta dal legislatore in presenza di divergenze, su episodi accaduti o discussioni in corso, nelle quali il senso del discorso va completamente perduto per un lettore "normale", perché vi imperversa un continuo autoriferimento a testi che sono conosciuti solo nell'ambiente.
I redattori del periodico inglese (che non si firmano perché solidali a una linea editoriale) sono attenti a delineare tendenze del sistema economico cui appartengono. Non è solo un problema di professionalità. La loro critica alle tendenze non liberiste all'interno della borghesia, cioè ai loro avversari, è condotta sul filo delle previsioni, sugli andamenti sempre illustrati da grafici con i valori sulle ordinate e il tempo sulle ascisse. Appunto, il tempo. Se si traccia un diagramma sulla variazione di un qualche valore nel tempo significa che si vuole vedere quale potrà essere la proiezione della curva nel futuro. In ambiente marxista non si usa. Vi sono abili maneggiatori di formule e di schemi ricavati da Marx, in genere isolati, ma il futuro rimane nell'ombra. Gratta gratta per il normomarxista il comunismo è sempre un regime politico, non una vera forma sociale in totale antitesi rispetto alla presente.
Rispunta il tempo
Eppure, si ammette l'uso di calcoli e modelli per fabbricare automobili, edifici, missili, chissà perché le cose umane devono sfuggire alla scienza. Sorge il sospetto che non si voglia contaminare il mondo animato. Che vuol dire "con anima". Alle cose il calcolo, al Re del creato… il pensiero. Già sentito, vero?
A dispetto di coloro che vogliono la rivoluzione senza numeretti e schemini, proprio le coordinate cartesiane ci danno la visione immediata di un modello sociale. La variazione di un certo valore nel tempo è la sintesi di moltissime situazioni dinamiche. Possiamo non sapere quali dati sono rappresentati dal "valore", ma possiamo comunque raffigurarci tali dinamiche. Se immaginiamo una serie di parametri che ci suggeriscono l'intensità rivoluzionaria, un valore che inventiamo lì per lì, possiamo raffigurare quest'ultima con un sistema cartesiano. "Intensità di una rivoluzione" non vuol dire nulla finché non specifichiamo quali sono i criteri e le quantità che abbiamo chiamato "valore", ma abbiamo un potenziale strumento per esplorare quella strada. Quando Lenin registrava minuziosamente il variare del numero delle giornate di sciopero nel tempo non faceva altro che formalizzare la variazione d'intensità della lotta di classe, che può essere un aspetto particolare, frattale, dell'intensità rivoluzionaria. La nostra corrente, negli anni '50 del secolo scorso, raffigurò un indice della mineralizzazione della produzione, rapportandolo alla disumanizzazione dell'economia. E tracciò un grande e precisissimo grafico su cui era rappresentato il corso storico del capitalismo attraverso la diminuzione degli incrementi produttivi della produzione industriale anno su anno. Questi lavori sono stati commentati o ripubblicati, ma è sistematicamente carente l'elaborazione sulle dinamiche.
Quando ormai non fu più possibile fare a meno di Internet, due partitini annunciarono ai loro aderenti, tramite stampa, che avevano un sito: lo annunciarono scusandosi di dover usare questi strumenti borghesi dai quali peraltro non si aspettavano chissà quali risultati. Senza aver nemmeno colto, nelle loro "letture", che per Lenin la rete di informazioni e di comunicazione non era soltanto uno strumento del partito, era il partito (Lettera a un compagno…).
Le mistificazioni e anche gli insulti di qualche milite approssimativo al servizio di una controrivoluzione da cui pesca gli argomenti, possono stupire o far rabbrividire, ma il dato di fatto innegabile è che persino nell'invettiva si sente puzza di cadavere: l'attivismo non ha altro sostegno che la credenza nella capacità miracolosa degli individui di risolvere grandi problemi sociali. Dal punto di vista del tempo è come se il passato, che non ha mai dato ragione agli attivisti e anzi li ha portati al massacro, venisse preso a modello per il futuro. Un futuro che non sarebbe una tendenza storica materiale ma un'invenzione, un artefatto raffazzonato con pezzi delle sconfitte che furono.
Ma è vero che il futuro c'è?
Rispetto all'opportunismo, oggi si sono diffuse forme sostitutive praticamente slegate dalla tensione principale, che è quella dello scontro fra modi di produzione, fra forme sociali. Con i marxismi in via di estinzione, scompare il gigantesco "dibattito" di una volta sulla natura del comunismo sovietico e di tutti gli altri rami aggettivabili più o meno coerentemente. Al suo posto prende piede un disagio epidermico, nutrito al momento con una violenza di basso impatto sociale, un odio civile che ha i suoi picchi in un atteggiamento razzista, nazionalista, alimentato tramite i network.
Hanno un impatto sociale completamente diverso, invece, le ondate di protesta che da quindici anni serpeggiano nel mondo. Nelle quali si sente a livello epidermico che una buona parte delle popolazioni coinvolte non ne può più della "vita senza senso" che sono costrette a condurre.
Anticipiamo che dall'assetto generale delle forze in campo non ricaviamo nessun ottimismo immediato, dato che è fin troppo evidente il divario di potenza fra i due poli che rappresentano le classi che contano della società. Ma non ricaviamo neppure il senso di disfatta che alcuni provano nell'analizzare "la situazione".
Come il citato conservatore The Economist mostra con chiarezza, se si vuole salvaguardare la produzione di plusvalore, il tempo scandito dal capitale pretende un interessamento nei confronti del futuro. Il capitalismo funziona solo con anticipi di capitale su ogni ciclo produttivo. Ciò significa che ogni capitalista è costretto a lavorare sulla previsione di dati futuri. Persino la speculazione si indirizza verso dati futuri della produzione di grano o petrolio. Anche la rivoluzione costringe a lavorare su dati futuri. Se ciò non avviene… beh, uno sguardo sul panorama sociale d'oggi mostra chiaramente che cosa ci aspetta.
L'operazione di confrontare un periodico liberista con qualche periodico "marxista" non ha evidentemente lo scopo di fare paralleli impossibili. Vogliamo solo rilevare che un qualsiasi periodico borghese ha bisogno di fare affidamento su di una realtà dinamica mentre la tradizione dell'ambiente marxista pretende che le famigerate "questioni" (che già furono in discussione al tempo della Terza Internazionale, nella migliore delle ipotesi prima che degenerasse) siano affrontate di volta in volta nel maledetto presente. Per accorgersi che qualcosa non va basterebbe prendere un articolo dei "marxisti" e provare a togliere i riferimenti attuali: rimarrebbe un testo universale utilizzabile come "template", un modello compilabile valido per decenni. Come semplice espediente mnemonico potrebbe andare; ma ora, se è vero che "è meglio ripetere come pappagalli" piuttosto che aggiornare creativamente, non esageriamo. In fisica il tempo non esiste, ma lo spazio-tempo sì.
Nel nostro lavoro di accostamento fra politica e scienza, definito "gioco sporco" nelle righe che abbiamo citato, vogliamo dimostrare, e non con affabulazioni filosofico-letterarie, che la freccia del tempo rivoluzionaria non è una sciocchezza inventata da Marx ma una costante universale: la troviamo in tutta la fisica.
Se è così, dev'essere possibile individuare le linee guida che obbligatoriamente portano sia all'opportunismo nuovo, sia alle espressioni (leggi prese di posizione programmatiche) necessarie a neutralizzarlo.
Nello spazio-tempo i sindacati – tutti – sono enti integrati nella società corporativa d'oggi, non avrebbe senso tentare di prenderne la guida o costituirne di nuovi: in entrambi i casi non sarebbe possibile farli diventare ciò che non sono. Il processo di cui sono stati spettatori-artefici è oggi irreversibile come un'entropica tazza di caffè che si raffredda. Ciò non significa che si debba essere indifferenti verso l'organizzazione e quel poco di conflittualità residua; il lavoro sindacale è ancora il migliore campo di Marte per il proletariato. Il discorso cambia in caso di situazione rivoluzionaria, ma lì entrano in gioco altri fattori.
La questione del partito era già superata negli anni '20 quando la nostra corrente incominciò a parlare di centralismo organico facendo riferimento a un funzionamento da organismo biologico.
Un tempo la questione agraria era questione contadina, oggi è più che altro rendita immobiliare in immense metropoli e, ovviamente, energia e materie prime.
La questione nazionale intesa come formazione degli stati nazionali non esiste più. Rimane un nazionalismo con il quale non abbiamo nulla a che fare, talmente stupido che non dovrebbe suscitare neppure curiosità di cronaca se non avesse conseguenze tragiche.
La tattica, che un tempo era strettamente legata al fronte unico, è già diventata altra cosa dopo le prove fornite da quest'ultimo.
La Silicon Valley e le realtà analoghe di altri paesi che oggi dominano il mondo dall'alto di capitalizzazioni inverosimili sono isole tecnoscientifiche in grado di influenzare l'intero capitalismo. Il retaggio sindacale ancora presente non ha più valore di fronte a queste realtà non solo per quanto abbiamo appena detto, ma anche per l'assetto sociale che deriva dagli enormi disequilibri dovuti alla crescita dell'esercito industriale di… riserva, secondo la vecchia definizione: la "classe" dei senza-reddito prima o poi sarà costretta a soppesare la propria forza in un contesto in cui, se non viaggiano i camion per tre giorni, le immense metropoli incominciano a collassare per mancanza di cibo.
Isole di passato in un mare di futuro
Isole tecnoscientifiche? Se guardiamo ai colossi tecnologici con l'occhio sulla trama industriale si percepiscono isole di futuro in un mare di passato. In fondo occupano in tutto poche migliaia di salariati in confronto ai milioni che lavorano ancora per l'industria tradizionale, specie nei paesi di più recente industrializzazione.
Il capitale non smette di mimetizzarsi neanche quando precipita nelle crisi più profonde. In realtà la continua rivoluzione tecnoscientifica ha effetti evolutivi sugli umani; solo che, in mancanza di rovesciamento della prassi, la percezione del cambiamento è sfasata rispetto alla realtà. La sensazione che Apple o Google siano isole di futuro si basa su dati concreti ma, a ben guardare, l'assetto produttivo dei maggiori paesi mostra una situazione invertita: l'industria tipica non è quella della Silicon Valley bensì, statisticamente, un più tradizionale insieme che occupa ancora due miliardi di salariati. Quello che conta non è il dato numerico nudo e crudo ma il coefficiente, l'impronta che questi giganti trasmettono al resto dell'industria o comunque alle attività produttive. È da questo punto di vista che sopravvivono grosse isole di passato in un mare di futuro. Se ne sta accorgendo la borghesia e non se ne accorgono i "rivoluzionari". Gli stessi rappresentanti di quanto resta della rivoluzione scorsa si alimentano di passato, non prendono nemmeno in considerazione l'ipotesi di "riparametrare" la massa di dati disponibili per andare ad affinare la ricerca e orientarla con i criteri appena esposti, per appropriarsi di strumenti teoretici atti a osservare in direzione della freccia del tempo.
"La nostra scuola dinanzi ad ogni problema si ripiega anzitutto sulla ricerca della chiave del processo storico. E solo allora perviene a stabilire che le pretese leggi eterne sono invece solo leggi proprie di un dato e temporaneo modo di produzione, in ispecie di quello capitalistico… In ogni trattazione i marxisti procedono in tal modo: essi non descrivono, come in una fredda relazione burocratico-statistica, quello che intorno si scorge, ma vanno alla derivazione, allo svolgimento, allo sviluppo nel tempo, alle origini anche lontane, in modo da stabilire quanto vi è di transeunte e caduco, in quello che al comune studioso appare eterno e stabile" (Mai la merce sfamerà l'uomo).
Chiediamoci con Marx che cosa sarebbe oggi il mitico dio Vulcano di fronte alle acciaierie moderne. Che cosa sarebbe oggi la Comune di Parigi, dopo l'ondata di Occupy Wall Street? Come funzionerebbero i soviet dopo il fallimento dei parlamentini di Nuit Débout? Nasceranno ancora discussioni internazionali sul Governo Operaio e Contadino? Sarebbe ancora sensata una discussione sulla tattica del Fronte Unico? Che tipo di partito sarebbe quello che sorgesse dalle forze in campo oggi? Come si manifesterebbe la dittatura del proletariato in un'epoca in cui lo stato è in evidente sfacelo?
Che cosa è presente e che cosa è già futuro
Con un punto interrogativo è il titolo di un articolo uscito con il primo numero di questa rivista. Può sembrare banale ma per noi il futuro è semplicemente n+1 rispetto a n. Essendo già presente la dinamica del movimento reale verso il futuro, i comunisti non inventano nulla, ma anticipano un qualcosa di materiale.
Quel "qualcosa di materiale" dipende dallo sviluppo della forza produttiva e dai campi di forza della società, nonché dalla condizione dei proletari, piuttosto che dalla concezione "politica" che i raggruppamenti sociali hanno di sé stessi. Dove si collocano coloro che, pur vivendo in un'epoca fortemente caratterizzata da n+1, ragionano sulla "presa del potere" esclusivamente in termini di n-1?
Bisogna fare attenzione: ci sono trappole semantiche.
Nel 1948 Bordiga (in occasione del congresso costitutivo del PCInt.) afferma senza mezzi termini che il programma del partito non può essere basato unicamente sulla negazione: dite sempre no, siete degli immobilisti. Bisogna andare avanti. La dinamica storica ha un futuro e il percorso per arrivarci è affermazione. E intanto i suoi interlocutori, per essere concreti, si agitavano spingendo avanti il passato. Bordiga reagisce: abbiamo un patrimonio che ci consente di andare oltre i risultati già raggiunti. Non si può affrontare il futuro proiettando in esso le categorie del passato: si può invece con un bilancio delle vittorie e delle sconfitte, erigere la base su cui sviluppare la conoscenza del processo che porta al futuro.
Ricordiamo che la profonda rottura con il passato è imposta dal confronto tra rendimenti dei modi di produzione e non dalle pensate di individui o gruppi. Il rendimento di un modo di produzione è in via di principio calcolabile, com'è calcolabile, di conseguenza, il confronto fra due modi di produzione. Il futuro non è trattabile sulla base di opinioni ma sulla base di certezze matematiche. Ciò non ci dà la soluzione perfetta ma ci aiuta in una "sottoproduzione di fesserie".
Marx a 19 anni aveva individuato il problema e fondò la sua analisi dei fenomeni sociali sui metodi utilizzati dalla scienza della natura fisica. Noi non possiamo tornare indietro e basare la nostra azione sulle interpretazioni soggettive della realtà. Se parliamo di rivoluzione, di movimenti sociali, dobbiamo adottare gli stessi processi di astrazione adottati dalla matematica, dalla fisica, dalla scienza dell'informazione, dalla cibernetica.
Napoli, 13 giugno 1948: non "fate" il partito!
I militanti del Partito Comunista d'Italia, ripresi i contatti dopo la fine della guerra, avevano mostrato segni di impazienza. Senza meditare troppo sulle differenze tra la nuova situazione e la vecchia non ne avevano desunto che se il fascismo era militarmente sconfitto, la borghesia liberaldemocratica, antifascista e filoamericana ne aveva ereditato teorie e metodi. Il riferimento alle rivoluzioni del passato (Russia in particolare) serviva come ancoraggio di sicurezza. Meglio un pappagallo che un "creativo", aveva sentenziato Bordiga, ma in una lettera del 13 giugno 1948 deve riprendere il tema, constatando che persino il livello del pappagallo era lontano. Se non si era più che sicuri del risultato, perché tenere il congresso costitutivo del partito, contro il parere contrario di molti compagni? Il partito non si costituisce a tavolino in margine a un congresso. Senza che vi sia una forte pressione di classe, e soprattutto senza che il programma della rivoluzione sia ben delineato e accettato, il partito rimane un'entità virtuale, senza radici, appeso a una nuvola, senza fondamento materiale. Solo la possibilità di realizzare un futuro ha dato a ogni partito di ogni rivoluzione la possibilità di non essere un mero prodotto del presente. Era scritto nel 1921 su Rassegna Comunista, nel 1922 sulle Tesi di Roma e nel 1924-25 sulla stampa di partito in critica all'opportunismo nell'Internazionale. Perché questa grave mancanza di continuità?
Bordiga insiste. I compagni sapevano che la discriminante contro i centristi riuniti sotto la sigla del PCI era l'accettazione del programma borghese e la partecipazione attiva per tradurlo in realtà; sapevano che la partecipazione alle elezioni significava capitolare di fronte allo stato borghese e ai suoi nuovi servitori; sapevano che l'accettazione del meccanismo democratico entro il partito l'avrebbe snaturato. Sapevano, ma non avevano materialmente investito il costituendo partito di una responsabilità, non avevano messo in discussione la fase che stava attraversando il mondo capitalistico, e soprattutto non si erano soffermati sulla lezione che veniva dalla degenerazione stalinista. I grandi problemi posti dalla storia erano ipotesi di lavoro che avrebbero consentito un preliminare riordinamento teorico, la costituzione formale del partito sarebbe venuta dopo, quando sarebbe stato chiaro che non si trattava di ripristinare il passato ma di rappresentare il futuro.
O, se i compagni erano tutti d'accordo sulle ipotesi di costituzione del partito, aggiunge, allora un centro omogeneo avrebbe dovuto imporre ai delegati un insieme programmatico coerente con le necessarie direttive. Se invece vi fossero stati dubbi e contraddizioni, si sarebbe dovuto trovare il modo di fare chiarezza, anche a costo di una spaccatura.
In ogni caso, il tentativo di risolvere i problemi a tavolino avrebbe assunto un carattere democratico elettorale non dissimile nella sostanza da quello in uso nei congressi dei partiti borghesi. Imporre un programma con un colpo di mano o farlo emergere da un confronto selettivo di posizioni non sarebbe stata comunque una soluzione.
"Evidentemente sia l'una cosa che l'altra vi è mancata, e la giusta soluzione per l'attività del partito non è nemmeno in una di queste due strade, abusate e vecchie entrambe. Come si sia potuto passare da un ottimismo errato a un non meno esagerato pessimismo non lo posso capire."
Abusate e vecchie entrambe: nel 1948, chi avesse ben interpretato la situazione sociale del mondo avrebbe capito che il partito rivoluzionario non avrebbe più potuto assomigliare a niente che facesse parte di questa società. Bordiga lo mise nero su bianco nelle Tesi del dopoguerra, in Tracciato d'impostazione, in Natura funzione e tattica del partito, ecc. Più tardi, quando il partito ormai costituito esisteva da qualche anno, nelle sue tesi sarà precisato che non sarebbe stato un partito fra gli altri, intento a lottare in rappresentanza di una parte sociale, ma un organo della specie umana, intermediario rispetto al resto della natura.
La mancanza di una comprensione del futuro stava permettendo la permanenza nel partito di elementi spuri, cosa che in tutta la sua storia, fino alla scomparsa, non fece che provocare continue crisi, sempre causate dal fatto che il partito era ancora parte di questa società e non di quella in divenire. Non era servito a niente mettere in guardia i compagni sulla realtà mondiale e sulla necessità di ragionare e agire sul filo del tempo, cioè sulla dinamica che portava oltre il presente: la valutazione del momento storico, diceva Bordiga nella lettera citata, "non è un ammennicolo come la moda delle gonne corte o lunghe, ma è sostanza di dottrina".
Non essendo chiaro che la questione del tempo non riguardava la situazione contingente ma il corso storico, i compagni erano stati sorpresi che alla caduta del fascismo fosse seguito il successo enorme del partito stalinista, alleato dei paesi imperialisti nella guerra. Di qui una sfiducia indebita nelle possibilità del proletariato che sembrava non esistere più come classe e che anzi era considerato da qualcuno come un elemento cardine della ricostruzione capitalistica. Se c'era qualche sprazzo di verità in queste osservazioni, ciò significava che era ancora più necessaria una "estrema prudenza scientifica nella valutazione." Il presente si mostrava il peggiore possibile, ma non era certo una soluzione rifugiarsi nella difesa del passato, cioè nella gloriosa lotta contro le esuberanti forze avversarie all'interno dell'Internazionale. Occorreva uscire da questa trappola: se il presente sembrava non permettesse alcuna azione, non si sarebbe risolto niente rifiutando tutto. Assumere una posizione di indifferenza o di rifiuto rispetto a un mondo ostile che aveva stravinto non era una soluzione, dato che "chi è indifferente tace e non si proietta nessuna luce facendo ombra da tutti i lati."
In realtà, come sarebbe stato messo in evidenza con l'articolo "Attivismo" (1952), non era preclusa l'iscrizione ai sindacati e la partecipazione alle lotte immediate, ma il compito più importante era quello di salvaguardare il partito. Senza di esso, qualsiasi contesto sociale sarebbe stato controrivoluzionario. Ma salvaguardare il partito voleva dire abbandonare completamente le liturgie della propaganda, del proselitismo, della ricerca del successo immediato, della democrazia interna e della delega ai capi, liturgie identiche a quelle dell'avversario.
Quando si parla del partito l'alternativa posta dagli sfavorevoli rapporti di forza non è mai assente. Come abbiamo detto, nel presente l'alternativa è inesistente, nel passato è stata, solo per il futuro ha senso. Nel 1949 inizia la pubblicazione degli articoli della serie "Sul filo del tempo". Hanno una partizione Ieri-Oggi che stimola anche l'aggiunta di un futuro (per questo, sviluppando la serie di Forlì sopra citata, abbiamo adottato la partizione Oggi-Domani).
Il posto della scienza. Di nuovo il tempo
Chiunque abbia avuto a che fare con il mondo tecnico-scientifico, anche solo attraverso i libri, ha toccato con mano quanto siano vuoti e banali i suoi esponenti. Non tutti, naturalmente: la società futura non riconosce confini quando cerca i propri sostenitori. Normalmente, però, anche gli Einstein non sfuggono a una deprimente omologazione sociale. Non sembri dunque strano che nei confronti della scienza e della tecnologia ci siano molti che si lanciano nell'apologia sfrenata o nella critica radicale delle realizzazioni più spettacolari. È sempre successo: Francesco Bacone metteva in guardia contro l'uso dei risultati scientifici al fine di suscitare meraviglia e stupore, mentre Hegel sosteneva che la scienza, specialmente la matematica, non erano vere forme di conoscenza. C'è dunque una strada lastricata male e piena di buche nel percorso verso la descrizione della realtà. Oggi, proprio perché la scienza è stata contaminata dal positivismo filosofico, c'è chi può parlare di scientismo nel senso di invasione indebita di campo; e questa contaminazione ha provocato a sua volta la reazione metafisica vitalista. Leggiamo sul sito di alcuni marxisti di sinistra:
"Lo scientismo è una corrente di pensiero che nasce dal seguente equivoco: ovvero (sic) la scienza, o almeno una sua componente minoritaria, perseguirebbe il sapere per il sapere, e in questa ricerca disinteressata convergerebbe di volta in volta con le scoperte tipiche del marxismo" (sinistracomunistainternazionale.com).
È chiaro che, se s'inventa l'oggetto della critica, si può poi travisare la realtà senza scrupoli. Lo scientismo non è una corrente di pensiero e non c'entra con la ricerca del sapere per il sapere. Lo scientista è definito tale dalle correnti filosofiche avversarie al positivismo scientifico. Queste correnti, come dice bene la Treccani, considerano indebita la penetrazione della scienza in campi che le sarebbero estranei e chiamano scientismo in senso spregiativo tale penetrazione. È del tutto evidente che considerazioni del genere sono un artificio ridicolo: in realtà la borghesia è ben lontana dall'aver abbracciato la scienza fino a quel punto, semmai ha difficoltà a staccarsi dall'idealismo. Infatti, come reazione al positivismo ha sfornato filosofie vitalistiche in tutti i campi, dalla teoria della conoscenza alla natura dei fenomeni evolutivi, dall'economia politica allo studio della mente e della coscienza. Ben lungi dall'essere scientista, la borghesia è ancora molto legata al bergsoniano slancio vitale, alla natura specifica dell'uomo come re della natura. È perciò del tutto puerile l'indignazione per i risvolti sovrastrutturali che comportano l'agire per gli interessi di classe, come se la borghesia potesse fare altrimenti:
"Questo equivoco/credenza – si continua sul sito citato – si fonda a sua volta sul misconoscimento della procedura che sovraintende il finanziamento (interessato) della ricerca scientifica, sia in campo industriale, sia in campo militare. Inoltre, tale credenza non considera neppure lo stretto collegamento fra questi due campi e la stessa ricerca accademica. La scienza e le sue scoperte sono funzionali, in questa società, al gioco della concorrenza che si svolge nella struttura economica, e alla potenza del complesso militare industriale che consente a una determinata sovrastruttura statale di difendere gli interessi della propria borghesia nazionale."
Questa raccolta di parole non arriva nemmeno all'altezza di un Eisenhower che, da presidente degli Stati Uniti, denunciava la strapotenza del complesso industrial-militare. La borghesia adopera la scienza per i propri interessi e influenza ideologicamente la ricerca. È veramente una gran rivelazione! Ma la scoperta delle leggi di natura non è appannaggio di una classe, altrimenti dovremmo contrapporre alla "scienza borghese" una "scienza proletaria", sciocchezza che Lenin aveva già duramente stroncato al tempo della "cultura proletaria".
Macchine che costruiscono macchine
Scienza e tecnologia non sono elementi separati della (e anche dalla) rivoluzione. Il sistema di macchine è parte dell'evoluzione di Homo sapiens, e quando si parla di evoluzione della nostra specie ormai non è più in questione la storia di un passato durato milioni di anni ma un futuro che si misura a decenni, tanto è avanzata l'influenza della scienza, della tecnologia e delle macchine automatiche sulla vita dell'uomo. La natura ci ha condotti al capitalismo che riteniamo sia una parentesi transitoria da cancellare al più presto. Quella di chi è in regola con la società futura è in un certo senso una lotta contro la spontaneità della natura a favore della capacità di progetto dell'uomo. Quando si parla di comunismo, quindi, non si parla affatto di una forma di governo o di qualche banalità analoga, si parla di un rovesciamento totale non solo della società, della produzione, del modo di vivere, ma di tutto l'universo della conoscenza, della pratica tecnica, del rapporto fra uomini e fra uomini e natura.
"Nella futura economia, risolta in una razionale difesa della specie contro la natura, la vittoria contro questa matrigna potrà arrivare a tal punto che tutto venga da lei… Se la faticosa coltivazione del grano fa sì che il nostro corpo sia alimentato grazie al trasferimento in esso, dopo cicli chiusi di chimismo in bilancio pari, di una piccola quota dell'energia che il sole irraggia nello spazio… Se potremo sostituire il bue con la macchina; se a questa macchina addurremo quella energia idroelettrica che ci viene annualmente da un tributo regolare pagatoci sempre dal grande astro, allora... Resterà, direte, all'uomo l'opera organizzativa, direttiva, il girare le chiavette interruttrici" ( Mai la merce sfamerà l'uomo, 1953).
Segue una osservazione che sembra tratta dal lavoro di von Neumann sulla teoria della riproducibilità tecnica delle macchine per mezzo di macchine:
"Ma una macchina della macchina sostituirà l'uomo alle manopole di questa, dopo aver registrato con processi elettronici il comportarsi effettivo dell'uomo, il trucco che lo distingue, per ritrasmetterlo identico. Allora sarà invero la natura che ci darà tutto, cominciando dal vassoio della prima colazione che arriverà senza che lo porti nessuno" (idem).
Persino il linguaggio si deve piegare alla forza del futuro: se prendiamo qualcosa che non è nostro senza pagarlo, in questa società siamo dei ladri. Finché non cambierà il linguaggio, se adopereremo l'energia del sole senza pagarla, commetteremo un furto vivendo di rendita. Ma la rendita è furto resa possibile solo dalla proprietà:
"Quando nessuno lavorerà sarà raggiunto lo scopo di godere tutti di rendita. Allora vivremo rubando a madre natura. Oggi non esiste rendita per un solo individuo che non sia rubata al lavoro dell'uomo. Neghiamo ai ladri l'alibi di scienza economica: il corpo del reato non l'ho sottratto a nessuno, è dono divino della natura, raggio partito col mio indirizzo dalla Stella di fuoco" (idem).
"Dono divino della natura". Notare come si utilizzi, per estensione, l'aggettivo nel senso di sublime. Notare soprattutto come si critichi la scienza nello stesso momento in cui la si adopera come fattore del rivoluzionario superamento del lavoro.
Alla fine degli anni '40 del secolo scorso, John von Neumann progettò una macchina ideale che riusciva a replicare sé stessa. Lo scienziato morì e non fece in tempo a terminare il suo libro sull'argomento, e che fu stampato una ventina di anni dopo. La macchina replicante era ipotetica, come la macchina di Alan Turing, ed entrambe anticipavano una realtà: quindi le ricerche di quegli anni non esploravano utopisticamente nel campo dell'impossibile ma in quello del progetto realizzabile. L'architettura dei computer attuali fu prevista proprio da von Neumann e realizzata; quella della macchina replicante era un esperimento realistico rispetto alla esistente capacità di astrazione e di progetto.
Bordiga non avrebbe mai potuto scrivere un testo come Mai la merce sfamerà l'uomo con la langue de bois della Terza Internazionale. Occorreva essere proiettati nel futuro, non sepolti nel passato. E questo lo si poteva fare mantenendo al cento per cento l'ortodossia marxista più salda e meno inquinata che ci fosse. Coloro che vanno blaterando di rivoluzioni che si "fanno" senza teoria e senza numeretti, senza partito organico, senza capire che il capitalismo d'oggi è la proiezione di quello di ieri, e quello di domani è la proiezione di quello di oggi, sono destinati a schierarsi con la controrivoluzione. Se avessero mai la possibilità di "guidare le masse" le porterebbero dove le hanno portate gli stalinisti, pur proclamando di essere antistalinisti. È la smania idealista romantica che ci ha sempre messo i bastoni fra le ruote, non l'eccesso di raziocinio.
Parliamo di futuro, nonostante l'avversione generalizzata a farlo. Gli automi industriali hanno a che fare con il plusvalore relativo e quindi con la riproduzione del capitale. Al tempo di Marx gli automi industriali erano già diffusi e alcuni telai funzionavano come macchine di Turing, anticipando i computer. Dal punto di vista tecnico il loro utilizzo non cambia nulla al funzionamento del capitalismo, e Marx scrisse pagine importanti sul macchinismo. Un bellissimo esempio di come si guarda al futuro studiando i potenziali anticipati di esso. Ma il passaggio all'elettronica produce un cambiamento sociale importante. L'elettronica sta arrivando a forme di intelligenza che la borghesia, commettendo un errore epistemologico grave, chiama "artificiale". La simbiosi fra macchina e organo biologico è un fatto. Ma è parte della natura, non viene dal cielo dei metafisici. Questa simbiosi ancora grossolana sta cambiando il mondo sotto al nostro naso senza sollevare eccessiva attenzione da parte di coloro che dovrebbero già avere un piede nella società futura. È che non siamo abituati a questi tempi ristrettissimi. Di fatto, però, tutta la società si sta adeguando. La produzione di macchine che simulano il pensiero produce a sua volta degli effetti a cascata. Tutto ciò ha a che fare con il capitale (sia il modo di produzione che il libro di Marx) e con l'erosione delle basi su cui si fonda la legge del valore-lavoro:
"Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a una nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere la condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana" (Frammento sulle macchine, Grundrisse).
Grazie alla scienza e alla tecnica che hanno reso possibile il sistema della grande industria, e perciò il distacco dell'uomo dalla legge che impone la suddivisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e pluslavoro, possiamo oggi vedere nella condizione materiale in cui si trova la società l'anticipazione di un futuro non-miserabile, liberatorio, in cui cessa il lavoro dis-umano, sostituito da un'attività umana:
"Con [l'avvento del macchinismo] la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. Subentra il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società a un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro" (idem).
Quando si è giunti come oggi a una così grande produzione di plusvalore relativo non è più possibile assorbire la sovrappopolazione che ne deriva. La popolazione operaia è sempre stata relativa ai cicli economici: è aumentata nei periodi di boom, è diminuita nei periodi di crisi. Ma oggi la qualità delle macchine blocca il ciclo economico intaccando il capitalismo nella sua essenza, cioè nella produzione di plusvalore o, meglio, nella coerenza della legge del valore in quanto tale. La sovrappopolazione operaia non è più relativa ma diventa assoluta. Chi non vede in questo una rivoluzione, nega a sé stesso la possibilità di capire che il futuro del capitalismo e di ciò che verrà dopo è determinato. Senza quel futuro, il marxista pigro e pasticcione si ferma alla "base miserabile" che nel frattempo lo stesso capitalismo ha superato.
Nella misura in cui l'industria si concentra, centralizza e potenzia attraverso l'uso di macchine automatiche sempre più sofisticate, il calcolo del numero di operai che vengono sostituiti dai sistemi produttivi non si può più fare semplicemente registrando che un robot sostituisce un certo numero di operai: la fabbrica moderna nasce già con i robot operativi, essi non "sostituiscono" operai, semplicemente li rendono superflui. Oggi un giovane che si affaccia alla società non è un "disoccupato", è un elemento della sovrappopolazione di cui il capitale non ha più bisogno nemmeno come "esercito industriale di riserva".
Secondo la legge del valore, in Marx, il valore di una merce è dato dalla quantità di lavoro che essa contiene. Siccome la giornata lavorativa è suddivisa in tempo di lavoro necessario a riprodurre l'operaio e tempo di pluslavoro, il valore delle merci prodotte in una giornata è in ultima analisi il valore del lavoro di una giornata.
In questo schema (il lavoro è attività media astratta di un operaio medio ecc.) è semplice aumentare il plusvalore a parità di valore delle merci prodotte: basta aumentare il pluslavoro e abbassare il lavoro necessario, a parità di tempo di lavoro. Si aumenta cioè il numero di ore lavorate per operaio. È semplice anche aumentare il plusvalore per altra via: si intensificano i ritmi o/e si aumentano le macchine automatiche. Plusvalore assoluto nel primo caso, plusvalore relativo nel secondo.
Fin qui è tutto abbastanza semplice. Ma sentiamo cosa dice Marx con un singolare accenno all'unità spazio-tempo (Grundrisse):
"Se si considera la giornata lavorativa dal punto di vista spaziale — se si considera cioè il tempo stesso spazialmente — essa è una giustapposizione di molte giornate lavorative. Più numerose sono le giornate lavorative con cui il capitale può procedere allo scambio di lavoro oggettivato con lavoro vivo, tanto maggiore è la sua valorizzazione simultanea. Esso può superare il limite naturale costituito dalla giornata di lavoro vivo di un individuo… solo in quanto esso, accanto ad una giornata lavorativa, ne crea simultaneamente un’altra, ossia attraverso l’aggiunta spaziale di più giornate lavorative simultanee."
Se il capitalista produce e vende abbastanza da permettersi un allargamento delle attività produttive, può assumere operai; invece di un tempo supplementare ha quello che Marx chiama "spazio" supplementare. Se un operaio lavora 12 ore al giorno (6 per sé e 6 per il padrone) è difficile aumentare il tempo di plus-lavoro; ma se il padrone può assumere un altro operaio disporrà di 12 ore di plus-lavoro invece che di 6. Percentualmente non cambia nulla, ma in pratica l'estensione spaziale della fabbrica fa aumentare la massa del plus-lavoro.
È per questo che il capitalista, a occhio, senza troppa teoria, non è contrario all'aumento della popolazione operaia.
"È il vero e proprio processo di riduzione del lavoro necessario che rende possibile mettere in azione nuovo lavoro necessario (e quindi pluslavoro). Insomma, la produzione di operai diventa più a buon mercato; in un medesimo tempo è possibile produrre più operai, nella stessa misura in cui diminuisce relativamente il tempo di lavoro necessario o si riduce relativamente il tempo richiesto per la produzione della forza-lavoro viva."
Marx aveva già espresso considerazioni sull'ambiguità del tempo parlando dell'introduzione di ferrovie e telegrafi: l'aumento della velocità di comunicazione (cioè la diminuzione del tempo che occorre per collegare un luogo all'altro) rende lo spazio meno esteso. Considerazioni sullo spazio-tempo sono presenti anche nel Capitale, dove ad esempio si spiega come la legge del valore sia indipendente dal momento in cui si produce una merce e dal luogo dove si produce (il cotone si produce, poniamo, in India d'estate, il refe in Inghilterra d'inverno e la tela nelle Fiandre d'autunno). Tornando alla quantità di operai, è meno esteso lo spazio occorrente alla produzione se si ammassano razionalmente (razionalmente per la produzione stessa, certo) più operai. Ma l'effetto di maggiore contrazione dello spazio-tempo si ha quando cresce la produttività: con l'aumento del plusvalore relativo sono le macchine che decretano l'attacco finale alla legge del valore. L'estendersi spaziale dei fattori della produzione diventa superfluo quando le macchine sostituiscono gli operai. Giunti a questo punto, la produttività si incarica di contrarre enormemente, nella giornata lavorativa tipo, il lavoro necessario, per cui non è più possibile estrarre da un operaio tanto plusvalore quanto se ne estraeva da quattro. Se in un primo tempo l'espandersi del plusvalore assoluto produceva un abbassamento generale del valore della forza-lavoro, per cui quest'ultima aumentava di numero, in un secondo tempo l'affermarsi della tecnologia produceva una riduzione della forza lavoro senza tuttavia provocare un aumento del suo valore.
La produzione di valore, che è tempo di lavoro, dipende in misura decrescente dalle ore lavorate, dalla quantità di lavoro erogato, e in misura crescente dalla potenza del sistema di macchine automatiche cui fa da sfondo la ricerca scientifica. L'efficacia di questo sistema non è comparabile con l'aumento della produttività che si otteneva un tempo mediante l'organizzazione del lavoro, il vecchio taylorismo, che comportava l'intervento sul binomio uomo-macchina. L'alto rendimento dei nuovi sistemi in ordine alla produttività non ha più alcun rapporto con il lavoro vivo, dipende completamente da fattori estranei alla produzione, vale a dire dal progresso generale di scienza e tecnologia.
Questo impulso alla meccanizzazione si era imposto per esigenze belliche in parallelo all'utilizzo di molta manodopera tradizionale, e questo doppio binario di sviluppo non scomparve dopo la guerra grazie alle esigenze della ricostruzione. Ma non poteva durare a lungo. La crescita della forza produttiva sociale aveva già prodotto in quegli anni tutta la teoria necessaria a ridurre il proletariato a sovrappopolazione relativa, infine assoluta.
Come abbiamo detto, dopo la guerra von Neumann aveva già descritto la configurazione del computer che usiamo ancora oggi e, nel 1948, si era proposto di progettare una macchina astratta che, una volta accesa, avrebbe fatto tutti i passi necessari per replicare sé stessa. Prima di tutto la macchina avrebbe ricavato un modello dalla propria struttura, poi avrebbe sviluppato la capacità di leggere questo modello in modo finalizzato alla realizzazione. Siccome lo stato di ogni cellula dipende dallo stato della cellula adiacente, il sistema autoreplicante assume informazione da sé stesso e la trasmette all'interno dei meccanismi di auto-replicazione come in una simulazione della materia vivente. Von Neumann inventò per questo processo il termine "cellular automata".
Oggi le macchine automatiche sono limitatamente autoreplicanti, ma, già oggi, non esiste alcun limite teorico alla costruzione di stabilimenti in cui le macchine costruiscano sé stesse.
L'imprenditore visionario Elon Musk ha tentato un esperimento pratico di automazione totale (Gigafactory) che sembra non riuscito. Nella produzione normale non sono ancora superate, di fatto, alcune carenze cui solo la pratica umana può ovviare. Per esempio, il processo che sta all'origine di una decisione, che la fa maturare fino a renderla compatibile (comprensibile) entro l'area di applicazione, non è ancora un processo sufficientemente affidabile per permettere al sistema di macchine di appropriarsene e adoperarlo come guida per l'azione. Per diventare affidabile deve superare delle prove, come in un programma iniziatico. Queste prove sono inevitabilmente inadeguate: la loro esigenza è scaturita dall'esperienza, e quest'ultima rappresenta lo stato dell'arte del sistema pronto a certificare sé stesso mediante conoscenze del passato che nessuno più adotta acriticamente.
La società nel suo insieme conserverà la conoscenza del sistema al tempo x, conoscenza che avrà dei limiti, come abbiamo visto, ma che è l'unica a nostra disposizione. Se la si adopera per raggiungere degli scopi, questa conoscenza amplia i propri orizzonti e può rappresentare un feedback utile allo sviluppo del lavoro. L'automazione totale nel capitalismo è impossibile, ma ci interessano molto i suoi sviluppi anticapitalistici. Ribadiamo che questa non è una fantasia nostra ma il succo dell'opera di Marx, sintetizzato nella prefazione a Per la critica dell'economia politica: lo sviluppo della forza produttiva sociale produce condizioni che da forme della crescita esponenziale si traducono in catene per la stessa crescita. Lo sviluppo del macchinismo invalida la legge del valore e assolutizza quella della caduta del saggio di profitto. Quest'ultima rimane tendenziale solo perché non è virtualmente impossibile invertire la freccia del tempo e ritornare a forme di sfruttamento da rivoluzione industriale ottocentesca.
Alla luce di queste ultime considerazioni, il concetto "lotta contro la natura" che abbiamo incontrato nel corso di questa esposizione assume un'importanza primaria: l'uomo, prodotto della natura, lotta contro di essa per affermare la possibilità di liberarsi dal lavoro. Questo, una volta diventato attività veramente umana, si svolgerà secondo quanto ricordato da Engels: nel passaggio dal regno della necessità a quello della libertà, cresceranno le attività progettate e diminuiranno quelle spontanee. Il capitalismo è incompatibile con questo rovesciamento. Se dovesse riuscire a progettare più di quanto non faccia oggi, metterebbe in atto un suicidio immediato. Il passaggio dello stesso compito alla società comunista sarebbe invece il processo escogitato dalla natura per armonizzarsi a un livello superiore. Il necessario rovesciamento della prassi non sarebbe altro che la conferma del comunismo dalla forma teoretica a quella modale.
È terminato il lungo percorso attraverso i decenni, percorso che non esitiamo a definire organico. Chi è sintonizzato su questa lunghezza d'onda? Temiamo pochi, per adesso. La situazione dei marxisti è al momento quella descritta da Engels a proposito della diaspora seguita alla sconfitta della Comune, solo a una scala incomparabilmente vasta:
"Dopo ogni rivoluzione naufragata od ogni controrivoluzione, si sviluppa tra i profughi scampati all'estero una attività febbrile. Le diverse gradazioni di partiti si raggruppano, si accusano reciprocamente di aver condotto il carro nel fango, si incolpano gli uni e gli altri di tradimenti e di tutti i possibili peccati mortali. Si rimane così in istretto legame con la patria, si organizza, si cospira, si stampano fogli volanti e giornali, si giura che in ventiquattro ore si tornerà a ricominciare, che la vittoria è certa e si distribuiscono nell'attesa di già gli uffici governativi. Naturalmente i disinganni seguono ai disinganni, e poiché questi non si vogliono ascrivere alle condizioni storiche ineluttabili, che non si vogliono capire, ma ai fortuiti errori dei singoli, così si accumulano le reciproche accuse e tutto finisce in una baruffa generale" (Engels, citato nell'articolo Attivismo).
Questo disastro potrebbe essere interpretato positivamente. Per ribadire in linguaggio attuale l'assunto di Marx a proposito del '48 in Francia: si sta preparando nel computer della rivoluzione un gigantesco reset.
LETTURE CONSIGLIATE
- - n+1, La crisi storica del capitale senile, Quaderni di n+1, 1985.
- - n+1, Rivoluzione e sindacati, Quaderno di n+1, 1986.
- - n+1, Dinamica dei processi storici, Quaderno di n+1, 1987.
- - n+1, art. 200° anniversario dalla nascita di Marx, rivista n+1 numero 45.
- - Marx Karl, "Introduzione" e "Prefazione" a Per la critica dell'economia politica.
- - PCInt, Mai la merce sfamerà l'uomo, edizione Quaderni di n+1.
- - PCInt, "Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica nella classica e monolitica costruzione teorica del marxismo", Il Programma Comunista n. 19 del 1957.
- - PCInt., Proprietà e capitale, edizione Quaderni di n+1.
- - PCInt., I fondamenti del comunismo rivoluzionario, edizione Quaderni di n+1.
- - PCInt., Vulcano della produzione o palude del mercato? edizione Quaderni di n+1.
- - n+1, "L'autonomizzarsi del Capitale e le sue conseguenze pratiche", n+1 n. 17.
- - PCInt. "Tesi di Napoli", Il programma comunista n. 14 del 1965 e n. 7 del 1966.
- - Marx Karl, Grundrisse, La Nuova Italia.
- - Engels Friedrich, Dialettica della natura, Opere, vol. XXV, Editori Riuniti.
- - Kelly Kevin, Out of control. La nuova biologia delle macchine, dei sistemi sociali e del mondo dell’economia. Ed. Urra.