Rapporto diretto
Da quando è uscito il numero scorso di questa rivista, milioni di persone hanno manifestato nelle piazze di molti paesi del mondo. Si tratta di un movimento globale non coordinato, che per adesso non esce dai confini dei paesi coinvolti, ma è evidente che c'è una qualche ragione oggettiva per una tale persistenza e determinazione. Sono ondate che si ripetono in alcuni casi per decine di volte in giorni stabiliti, come a Hong Kong, Algeria, Francia, Cile, Bolivia. Mentre scriviamo i Gilets Jaunes francesi sono alla 54ma settimana di agitazione. In molti casi questi enormi incendi sociali appaiono del tutto sproporzionati rispetto alla scintilla che li fa esplodere, come l'aumento del prezzo delle uova in Iran, la corruzione politica in Bulgaria o la modifica della legge sull'estradizione a Hong Kong. In generale non vi sono risvolti sindacali, e se ci sono scioperi e manifestazioni dell'industria o del pubblico impiego, sono proclamati o suscitati dal movimento interclassista generale. Sempre più spesso, in margine alle manifestazioni, si ha notizia di assalti a negozi e supermercati.
È un fenomeno che ha senza dubbio le sue radici nella crisi mondiale iniziata nel 2008 e nelle tecnologie di rete che facilitano la comunicazione. La "miseria relativa crescente", tipica del capitalismo nella sua fase aurea (l'ammontare dei redditi bassi cresce meno di quello dei redditi alti), si è da tempo trasformata in "miseria crescente" senza il primo aggettivo (l'ammontare dei redditi bassi diminuisce mentre cresce quello dei redditi alti). La condizione di intere popolazioni peggiora con l'ampliarsi del divario fra i minimi e i massimi. Aumenta quindi la povertà assoluta e tendono a scomparire le mezze classi, quelle più sensibili alle variazioni di reddito e che hanno qualcosa da perdere. Le mezze classi proletarizzate sono dunque il nerbo di questa ondata senza precedenti, la base irriducibile di quelle che si configurano sempre più spesso come ribellioni radicali. È un fatto che il proletariato, per adesso in coda, non riesce a dare la propria impronta.
Il riconoscimento della composizione di classe in situazioni date è un problema solo se non si riesce a capire che la scienza sociale non si basa mai su dati "puri" come succede invece in laboratorio. È una fisima democratica immaginare che un movimento qualsiasi possa essere definito attraverso il computo della maggioranza dei suoi partecipanti. La nostra corrente definì "pressione classista dei popoli colorati" quella che veniva dai paesi in lotta contro il colonialismo. Classista non perché alla testa dei movimenti nazionali vi fosse una classe precisa ma perché l'obbiettivo della rivoluzione nazionale borghese era perseguito quasi ovunque, senza compromessi, da borghesi, intellettuali delle mezze classi, contadini, operai.
Le condizioni che ci permettono di definire classista in senso proletario un movimento di massa sono il suo obiettivo e i suoi metodi, non la percentuale di appartenenti a una stessa classe effettivamente in lotta. Dal punto di vista materiale, basato sull'esperienza storica, tutti coloro che "non hanno altro da perdere che le loro catene", cioè che non hanno riserve in caso di crisi o cambiamento epocale, sono candidati alla condizione proletaria. Le odierne eruzioni sociali di massa non sono nemmeno "movimenti", e non possono riflettere altro se non il motivo contingente che porta in piazza milioni di persone. Matura, in questo contesto di miseria assoluta crescente, un senso di disagio profondo che sta mobilitando sia coloro che hanno già perso qualcosa, sia coloro che di perdere qualcosa hanno paura