Ricca finanza verde

Com'era facilmente prevedibile, il vertice di Glasgow sugli impegni per limitare le emissioni di carbonio è miseramente fallito. L'aspettativa per le misure da parte dei paesi in via di sviluppo che avrebbero dovuto approfittare di impianti nuovi e più efficienti era solo speranza senza una base plausibile: l'industria pulita esiste solo in ragione del profitto. Questi paesi saranno emergenti, come si dice, ma continuano a produrre la maggior parte dei gas serra del mondo. Cina, India e Brasile, paesi sotto osservazione speciale, hanno presentato risultati peggiori di altri allo stesso livello di sviluppo. È come se i maggiori paesi industriali, alimentando il mercato delle quote di inquinamento, sovvenzionassero l'uso dei combustibili fossili.

L'unico settore che abbia presentato risultati postivi e piani realistici per il futuro del clima è, paradossalmente, quello finanziario. Istituzioni che rappresentano quasi 9.000 miliardi di dollari in impegni finanziari si sono ripromesse di eliminare dai loro investimenti tutte le attività legate alla deforestazione. La Glasgow Financial Alliance for Net Zero, un consorzio nato ad hoc che include proprietari di beni, gestori patrimoniali, banche e assicurazioni per un valore di circa 130.000 miliardi di dollari, si propone di ridurre a zero i suoi prestiti e investimenti alle attività inquinanti entro il 2050 (il PIL della Cina, tanto per fare un confronto, è 14.000 miliardi di dollari).

La feroce "industria finanziaria" al salvataggio del mondo?

Diciamo che le attività legate al super sfruttamento della natura non sono più molto appetibili per gli investimenti, un po' per via della legge della rendita che fa prevalere la proprietà sul profitto, dal quale questa vuole ritagliare la sua tangente in crescita storica, un po' per via del limite fisico allo sfruttamento della natura: se si continua così, l'Amazzonia non avrà più alberi per legno da industria ben prima del 2050. L'impegno ecologico è anche un buon argomento pubblicitario: non costa niente e produce effetto la promessa di non tagliare alberi quando non ce ne saranno più. Negli anni '80 una famosa fabbrica di mobili mostrava come pubblicità il raccapricciante filmato dell'abbattimento di un gigante della foresta. Oggi non sarebbe più pensabile una pubblicità del genere… per mancanza di giganti da abbattere.

Da un punto di vista teoretico anche le più avanzate tecnologie antinquinamento non possono risolvere il problema se non cambia radicalmente il bisogno di energia della società, vale a dire il suo rapporto con il Sole, la fonte primaria di energia per il nostro pianeta. Stiamo bruciando in attimi di tempo geologico i prodotti dell'energia solare accumulati in milioni di anni e non siamo affatto sicuri che i cicli idroelettrico e fotovoltaico nell'attuale società siano a rendimento positivo. Ogni metodologia di calcolo per valutare lo stato del sistema mondo è inquinata dal profitto e finché dura il capitalismo non sapremo mai quanta energia potenziale occorra captare dalla natura per ottenere una data quantità di energia cinetica: cioè se una tonnellata di carbone o un barile di petrolio sviluppano più o meno energia di quanta ne richiedano per essere prodotti, raffinati, trasportati. Oggi non sappiamo calcolare il rendimento globale di una centrale elettrica e ci accontentiamo di stime, ma il sistema di macchine e uomini è talmente complesso che piccole perturbazioni locali potrebbero innescare eventi catastrofici globali incontrollabili.

In linea di principio gli apparati ecologistici potrebbero avere un ruolo importante da svolgere. Ma dovrebbero essere in grado di spostare l'economia dai combustibili fossili alle fonti di energia pulite, cosa che richiederebbe una riallocazione dei capitali così vasta che solo uno Stato sarebbe capace di controllarla. La spontanea anarchia del capitale l'ha sempre spuntata nella lotta contro la regolamentazione. Tutti sanno che la spesa per i combustibili fossili deve diminuire, ma nessuno vuole muoversi per primo, con la conseguenza di indebitarsi invece di intascare un sovrapprofitto. La rivista The Economist afferma che

"in un mondo capitalistico ideale l'incentivo al profitto privato degli investitori istituzionali in campo ecologico sarebbe agganciato alla riduzione delle emissioni, e questi operatori finanziari controllerebbero le attività globali che le creano. I proprietari di beni finanziari avrebbero i mezzi e quindi le motivazioni per reinventare l'economia. La realtà degli investimenti verdi non è all'altezza di questo ideale."

Le aziende controllate dallo stato sono responsabili di circa l'80% delle emissioni nocive mondiali. Coal India o Saudi Aramco, rispettivamente i più grandi produttori mondiali di carbone e di petrolio, sono un esempio lampante: sono gigantesche aziende pubbliche ma non sono controllate dallo Stato; si comportano come aziende private ma non sono controllate da gestori di fondi istituzionali o da banche del settore privato. Data la concentrazione di interessi legati alla gestione dei beni delle aziende, non c'è ancora modo di valutare con precisione chi inquina e come; così il conteggio o è evitato o è contestato. Le metodologie per l'attribuzione delle emissioni in base ai flussi finanziari sono ancora più approssimative. Così come stanno le cose la concessione di incentivi è più che problematica. Il periodico liberista vorrebbe privatizzare i responsabili di quell'80% di inquinamento per farli poi controllare dallo Stato. Sappiamo dove si va a parare: profitti ai privati, perdite alla società.

Le società finanziarie private tendono a massimizzare i profitti diversificando il portafoglio dei loro clienti. Ciò non è funzionale al controllo delle emissioni di ogni singolo settore. Si finirebbe nella generalizzazione di un altro tipo di portafoglio composito, quello per attività sporche e quello per attività pulite. Si fa l'esempio delle solite cinque maggiori aziende tecnologiche, responsabili, nonostante la gigantesca capitalizzazione, del 3% delle emissioni contabilizzate alla "borsa delle emissioni" (commercio degli incentivi tra aziende pulite e sporche).

Ci sono molte proposte, ma si capisce bene che in qualunque modo si rigiri la frittata, per cucinarla bisogna rompere le uova. Vano è sempre stato tentare di costringere il capitale alla rinuncia delle proprie prerogative. Non c'è altra via, nel capitalismo, che legare l'ecologia al profitto. E naturalmente il capitale comanda anche lo Stato più forte: con la borsa della sporcizia ben funzionante, l'acciaieria indiana venderà la sua sporcizia in giro per il mondo per comprare pulizia in America tramite quote di Apple o Microsoft. Questo per una ragione semplicissima: negli Stati Uniti le acciaierie non ci sono quasi più (produzione USA 86 milioni di tonnellate, India 106 milioni, Cina 928 milioni).

Rivista n. 50