Sommessa rimembranza

Quasi non se n'è parlato, eppure l'evento era di quelli che si ricordano. La cosa più semplice e più corretta che si potesse scrivere sull'11 settembre di vent'anni fa è che quella (questa) guerra non era (è) una guerra tra civiltà, tra modi di vedere diversi, o tra ricchi e poveri, ma è una guerra le cui motivazioni non sono lontane da tante altre guerre, o dalle stesse motivazioni che muovono le teste dei borghesi occidentali.

Il problema risiede nel carattere di merce del petrolio, e dunque nel suo controllo. Il Corano, la Bibbia, l'Islam non c'entrano. Si tratta solo di una classe che, con il turbante o la cravatta svolge la stessa funzione storica. È una banale verità. La parola d'ordine che allora fu dell'estrema sinistra parlamentare (qualcuno si ricorda di Bertinotti?): "né con l'uno né con l'altro" era ridicola, perché significava affermare che fosse guerra fra nemici diversi, accettare l'impostazione ideologica della propaganda borghese occidentale contro quella della borghesia orientale. Il ritornello odierno, stranamente sommesso e ammantato di spiritualità, è altrettanto ridicolo. L'unica cosa da fare è quella di riconoscere somiglianze e differenze tra i belligeranti. Va da sé che ciò porta a riconoscere, dietro all'azione e alla reazione, una stessa classe impegnata in una guerra tutta sua.

In questo periodo sono a Berlino per ragioni di studio e vedo che anche in Germania non c'è quella gran fanfara che ci si aspetterebbe. Qui l'analisi dei media è forse un po' più "filosofica", con qualche riflessione in più rispetto a quello che vedo in Italia e in Francia. Comunque, a sinistra (dove ci sono solo i verdi e i pacifisti) sotto sotto spunta anche qui il "né con l'uno, né con l'altro". Come se fosse una cosa seria far sapere al mondo che si è equidistanti dal terrorismo e dall'americanismo. Ovviamente non è dato di sentire un punto di vista universale che sarebbe proprio della classe operaia.

È estremamente interessante vedere come l'opinione che nasce dai mezzi d'informazione sia effettivamente una media dei media. Questa capacità di omologazione è contrapposta all'universalità che sarebbe conseguente se esistesse una classe "altra", ma non esiste, tutto rientra nel gran calderone del pensiero medio. Che è poi quello della piccola borghesia europea, poco sensibile al moralismo quacchero americano e tutto sommato indifferente anche di fronte all'inusitato crollo e ai tremila morti. Un 11 settembre in sordina ci parla dei rapporti USA-UE più di un trattato di sociologia dei rapporti internazionali. Anche l'informazione è merce e, come tutte le merci, ha un valore di scambio e un valore d'uso. Come il petrolio, dice qualche raro giornalista fuori dal coro.

 

Il petrolio è certamente al centro della politica estera americana almeno da quando l'Inghilterra ha lasciato il posto agli Stati Uniti come maggiore paese imperialista. Tuttavia, ci sembra che la questione sia un po' più complessa da come la descrive "qualche giornalista fuori dal coro".

Il petrolio fornisce rendita e quest'ultima è plusvalore che viene sottratto al capitalista; mettere le mani sul petrolio significa riappropriarsi del plusvalore che era passato al monopolista dei pozzi. Ma finché gli Stati Uniti erano il paese maggior destinatario dei petroldollari (nel senso che i paesi petroliferi mettevano la rendita nelle banche americane) riuscivano a prendere tre piccioni con una fava: lucravano sui capitali depositati investendoli in giro per il mondo; con la decuplicazione dei prezzi lucravano sulla commercializzazione del petrolio e derivati (sono meno petroldipendenti dei loro concorrenti); sottraevano plusvalore ai concorrenti europei e giapponesi tramite l'aumento del prezzo del capitale costante (energia).

Oltre al più stretto controllo del petrolio da parte dei paesi produttori, si era formato un mercato finanziario parallelo, quello delle "banche islamiche". Un sistema chiuso che all'epoca accumulava "soltanto" poche centinaia di miliardi di dollari, ma il cui trend era in grado di sottrarre al circuito finanziario una somma crescente di capitali, a favore di un mondo islamico che nel suo insieme era (ed è) percepito come avversario. L'Afghanistan rischiava di essere un ricettacolo di una parte di questi capitali, pilotati nientemeno che dai principi della famiglia reale saudita e dai capi delle tribù saudite più influenti. Bin Laden e la religione non c'entravano in quanto islamici, ma in quanto miliardari, sì. Il contesto li reclamava come ingredienti utili alla guerra, dato che di guerra si tratta.

Siamo perfettamente d'accordo sul fatto che le sue radici non sono diverse da quelle delle altre guerre imperialistiche; infatti, e l'abbiamo citato fin dal giorno dopo l'attacco agli USA, essa non è che la continuazione di tutte le altre che sono servite all'affermazione degli Stati Uniti come potenza egemone alla quale tutte le altre devono sottostare, per adesso guadagnandoci pure, visto che esportano più che altro proprio negli Stati Uniti.

C'era in più l'importanza strategica dell'Afghanistan in vista della potenza cinese crescente e del contenzioso fra India e Pakistan, il tutto alle porte della Russia. Quattro potenze nucleari, di cui una (Cina) che ha il secondo PIL del mondo dopo gli USA, tre miliardi di abitanti in tutto, gomito a gomito. Bin Laden, Omar, i principi sauditi e altre forze avevano forse un progetto grandioso, come traspare dalla documentazione autografa di Bin Laden pubblicata dai servizi USA, ma la loro pazzia è stata credere che li lasciassero fare senza una guerra preventiva. Col tempo e con una valanga di dollari l'Afghanistan disabitato, enorme, desertico ma con notevoli possibilità agricole (terra vergine, capitale satiro) poteva diventare un faro per masse senza nulla da perdere, un attrattore dell'esercito di disperati islamici provenienti da tutti i paesi confinanti: tutta la fascia musulmana ex sovietica, più l'Iran, il Pakistan, l'India, l'Indonesia, la Palestina, ecc. Persino la Cina ha il suo Islam oppresso.

Con o senza attacco al Pentagono e a Manhattan gli Stati Uniti dovevano muoversi e in fretta, come pure dovranno muoversi senza aspettare che la Cina diventi un colosso industriale e finanziario.

Come vedi il teatro della guerra planetaria che si va radicando è già tremendo anche se riusciamo appena appena ad abbozzarlo, ad intravvederne le implicazioni. E siamo sicuri che quello che vediamo noi e anche i governi è assai poco rispetto a ciò che è già maturato effettivamente nella società globalizzata.

Può darsi che sia la consapevolezza della gravità della crisi economico-politica che annichilisce l'Europa, in primo luogo la Germania, incapace di avere un'iniziativa qualsiasi, non diciamo univoca continentale. Questo stupisce addirittura, e qui sarebbe interessante se tu potessi dare a questa redazione qualche elemento di prima mano dal tuo osservatorio berlinese.

È vero che la prospettiva tedesca non è rosea, data la rigidità del sistema teutonico di fronte alla flessibilità richiesta dalla mondializzazione dei rapporti di scambio, ma uno straccio di politica estera un colosso come la Germania dovrebbe pure averla contro lo strapotere americano. Può darsi che qui non giungano i dati effettivi della politica estera tedesca, ma l'impressione è che semplicemente non esista.

Adesso gli americani si sono sganciati dall'Afghanistan senza spiegare le ragioni geopolitiche della decisione. I tedeschi, come la maggior parte della popolazione terrestre, non afferrano la portata di eventi che non è esagerato considerare da cambiamento epocale. Forse è per questo che il 20° anniversario è trascorso in sordina: si tratta di un passato spettacolare ma poco influente sul futuro. Il nostro presente lo è di più.

Rivista n. 50