Guerra di macchine
La battaglia delle Midway, 4-7 giugno 1942
All'inizio del 1942, analizzando il conflitto mondiale con i criteri di oggi, era chiaro che la guerra sarebbe stata vinta dall'industria. Come dire che era già vinta dagli Alleati prima che incominciasse. Gli Stati Uniti schierarono 42 milioni di soldati e l'insieme dei paesi coinvolti fece altrettanto, senza contare che parte della popolazione civile fu chiamata a combattere nelle varie partigianerie. Nasceva il "soldato politico", protagonista della guerra tecnica. Gli Stati Uniti entrarono in guerra con 5.200 aerei già fabbricati, la Russia produsse in tutto 35.000 carri armati, il Giappone non aveva neppure un'aviazione come arma autonoma, però di un solo modello di aereo produsse 11.000 esemplari. In Giappone l'aereo era considerato un sussidio sia dall'Esercito che dalla Marina; quindi, ricadeva sotto il loro comando separato. La guerra è lo specchio della società che la esprime. Più macchine dovrebbero comportare sempre meno uomini, ma dalla Seconda Guerra Mondiale in poi non è più così.
L'ipotesi della blitzkrieg generalizzata al mondo stava crollando. Se le forze dell'Asse non fossero riuscite a spezzare la resistenza degli Alleati e a consolidare le proprie raggiunte posizioni, sarebbero dovute passare dall'offensiva alla difensiva. Paradossalmente, proprio questa soluzione era contemplata dalla strategia sia tedesca che giapponese, ma si trattava di una variante rispetto all'assioma di von Clausewitz: "A parità di ogni altro parametro, la difesa è più forte dell'attacco". A condizione di rispettare la tabella di marcia: se ci si arrocca troppo presto ne soffre la preparazione, se troppo tardi ne guadagna l'avversario.
La blitzkrieg, secondo la dottrina, avrebbe dovuto portare le forze dell'Asse ad occupare posizioni talmente forti da obbligare gli alleati a subire un costo inaccettabile se avessero voluto scalzarle, e quindi obbligarli alla trattativa di pace sulla base del nuovo assetto.
Qualcuno ha visto una dose di follia in questa concezione, ma è facile ricostruire gli eventi dopo che sono avvenuti: mentre la battaglia si svolge l'interpretazione dei fatti è assai più difficile. Soltanto nel corso della guerra gli eserciti compirono definitivamente il salto dallo scontro di masse contrapposte alla mobilità e dispersione di mezzi di distruzione coordinati tra loro. La guerra lampo era una risposta coerente con i fini, ma comportava un grande pericolo per chi l'adottava: la sorpresa, l'estrema mobilità, i tempi ridotti, la penetrazione in profondità per sconvolgere le retrovie del nemico senza attendere il dispiegamento delle proprie, erano tutti fattori favorevoli in una guerra come prevista dall'Asse. E infatti nella prima parte della guerra gli alleati si erano trovati in difficoltà: l'attacco alla Russia dimostrava che con fronti aperti e subito chiusi in Europa la Germania si permetteva il lusso di rivolgersi a Est, verso un nemico forse debole dal punto di vista industriale ma fortemente motivato dall'essere con le spalle al muro, e rafforzato nella difesa da un ambiente storicamente e materialmente ostile verso gli invasori.
Insomma, la guerra lampo aveva dimostrato che poteva essere teorizzata e adoperata con successo, si trattava di constatare se le conseguenze sarebbero state coerenti o meno con le premesse, cioè se effettivamente un'aggressione come quella in atto sarebbe stata abbastanza veloce e robusta da permettere, "come da dottrina" applicata, l'arroccamento su posizioni imprendibili.
Se è vero che qualsiasi arma o sistema d'arma è il prolungamento del concetto di lancia e di scudo (o proiettile e corazza), è anche vero che l'uso delle armi moderne non è più in mano all'individuo, ma ad organizzazioni complesse, vaste quanto le società di tutti i paesi che entrano in conflitto. Sul piano terrestre le divisioni corazzate germaniche l'avevano già dimostrato: sul piano aeronavale si stava preparando uno scontro la cui caratteristica "tecnologica" sarebbe andata ben oltre la capacità di comprensione dei capi. Del resto dopo Pearl Harbor era entrata in lizza una potenza, quella americana, che non poteva certo concepire, data la sua struttura, non solo le cariche di cavalleria viste ancora sul fronte europeo orientale, ma nemmeno l'idea di "fronte" così com'era inteso nella precedente guerra.
Da parte giapponese, l'ammiraglio Yamamoto aveva sempre insistito per sfruttare la temporanea superiorità aeronavale del suo paese nel settore del Pacifico. Bisognava distruggere la potenza americana finché si era in tempo. La logica di Pearl Harbor doveva essere allargata a tutta la guerra. Ciò significava andare fino in fondo con uno schema di attacco se non si voleva che la capacità produttiva degli Stati Uniti rovesciasse prima o poi la situazione. E già a Pearl Harbor era successo un fatto significativo che influenzò la battaglia conclusa nel crocevia oceanico di Midway: gli americani rimasero senza corazzate, mentre la flotta giapponese ne poté allineare ben sette, con in testa la Yamato di 67.000 tonnellate, la più potente nave da battaglia mai costruita. Esse non servirono a nulla in una guerra che le aveva rese obsolete prima che incominciasse, ma influenzarono l'analisi dei giapponesi sui rapporti di forza e quindi la loro condotta. La spettacolare avanzata giapponese nell'Asia orientale verso le fonti di materie prime e la spinta verso l'Oceano Indiano allarmarono gli alleati che videro minacciate le vie di rifornimento del Medio Oriente, i porti petroliferi di Abadan, i collegamenti con il fianco meridionale della Russia. Se vi fosse stata una saldatura tra le forze dell'Asse nessuno avrebbe potuto fermare il passaggio verso il Mar Nero e impedire il crollo sovietico nel Caucaso con tutto ciò che ne sarebbe seguito.
Queste preoccupazioni, alimentate da un noto dispaccio del generale Marshall, sarebbero state fondate solo supponendo completa libertà d'azione per la Flotta Combinata giapponese. In effetti non vi fu coordinamento con i progetti italo-tedeschi per il Mediterraneo, né il Giappone tendeva deliberatamente verso quel risultato; vi era piuttosto un'azione navale indipendente mentre l'esercito vi si opponeva per l'inadeguatezza dei mezzi disponibili. Sembra che solo il grand'Ammiraglio Raeder vi pensasse, ma non fece mai proposte operative, mentre dai documenti non risultano che generiche "speranze" tedesche in una avanzata giapponese verso occidente.
Le preoccupazioni di Yamamoto scaturivano da una situazione reale, e la strada che avrebbe portato a Midway era già un vicolo cieco; ma i protagonisti non se ne erano ancora resi conto, e la ragione va ricercata nel fatto che non sapevano ancora valutare appieno la vera natura del macchinismo di guerra reso possibile dai moderni sistemi di macchine. Mentre la Flotta Combinata giapponese stava realizzando la sua marcia verso occidente sancita senza troppo entusiasmo dallo Stato Maggiore dell'Ammiragliato, al quartier generale dell'imperatore i capi militari riuniti presero coscienza ben presto della limitatezza delle risorse disponibili per condurre la guerra su di un teatro così vasto. Il piano per l'invasione di Ceylon e per la conquista della supremazia aerea nell'Oceano Indiano promosso dalla Flotta Combinata fu ridimensionato perché l'esercito, impegnato già su un'area vastissima, si oppose. In tutta l'immensa area vi erano basi da conquistare e luoghi adatti per costruirne, ma la dispersione delle forze avrebbe rovesciato la situazione a meno che non si distruggesse una volta per tutte la minaccia avversaria per poi arroccare nei punti ritenuti imprendibili.
In marzo a Ceylon i giapponesi attaccarono secondo un piano che anticipava la logica di Midway. Abbandonati i propositi irrealistici di conquista, la flotta si volse verso un obiettivo limitato per agganciare al combattimento la British Eastern Fleet e annientarla; ma gli inglesi, comandati dall'ammiraglio Somerville, si sottrassero alla battaglia. Subirono gravi colpi, tuttavia salvarono la flotta nel porto africano di Kilindini. Fu una battaglia condotta alla vecchia maniera anche se vi parteciparono le portaerei; questo contribuì a rafforzare la fiducia giapponese nelle proprie forze perché la flotta inglese ebbe ingenti perdite e non si sarebbe più arrischiata, almeno per il momento, in acque controllate dall'apparentemente invincibile flotta nemica.
Nel frattempo, l'incubo di Yamamoto, rappresentato dall'industria che la flotta americana aveva alle spalle, si fece più tetro. In poco più di un mese le portaerei americane avevano attaccato le isole Gilbert, le Marshall, Wake e Marcus. In aprile vi fu il celebre episodio passato alla storia come "azione Doolittle", dal nome dell'ufficiale che la diresse. Principale attore fu nuovamente il binomio aereo-nave, e le conseguenze andarono ben al di là degli effetti immediati. Riti propiziatori di sapore arcaico si mescolarono all'efficienza degli apparati. Gli americani non avevano digerito l'attacco "proditorio" di Pearl Harbor e volevano colpire direttamente il suolo giapponese pur sapendo benissimo di poter mettere in atto solo un attacco simbolico. Due portaerei si incontrarono con le loro scorte in pieno oceano. Una, la Hornet arrivava da S. Francisco allineando sul ponte sedici bombardieri praticamente costruiti per l'occasione; l'altra, l'Enterprise, doveva provvedere alla copertura aerea dell'intera formazione. I militari passarono giorni a dipingere le grosse bombe con le frasi più ingiuriose ed oscene, a ornarle con ghirlande di medagliette giapponesi, a improvvisare piccole cerimonie della superstizione, ma la pianificazione della ripicca procedeva con inesorabile precisione. A 700 miglia dalla costa giapponese le navi americane furono avvistate dai Giapponesi, i quali calcolarono che l'immediato allarme avrebbe comportato l'intercettazione dei segnali radio. Si persero minuti preziosi e la Hornet, dopo essere riuscita a lanciare i bombardieri da 668 miglia, tornò indietro con le sue navi di scorta. I bombardieri erano i B25 Mitchell e volarono a pelo d'acqua per non farsi intercettare. Normalmente decollavano a 165 km orari in 900 metro, ma sulla Hornet i piloti furono allenati a decollare in meno di 250 metri quando con bombe e doppi serbatoi gli aerei non avevano ancora raggiunto i 90 km orari. Fu necessario sincronizzare il decollo con l'impennata dovuta alle onde del mare mosso per avere un supplemento di portanza e se ne andarono a bombardare Tokyo, Kobe e Nagoya cabrando fuori dal ponte al limite dello stallo, i motori al massimo. Osservando un rigoroso silenzio radio giunsero sull'obiettivo dove la prima ondata sganciò bombe incendiarie all'imbrunire come faro per la seconda. All'alba scesero in un aeroporto della Cina nazionalista.
L'esercito giapponese fu costretto a coprire le città con propri aerei distogliendoli dalle zone di operazioni, e il corpo di spedizione in Cina dovette impegnare due intere armate in duri scontri per conquistare gli aeroporti e le basi che potevano servire a ripetere l'incursione.
Yamamoto riusciva così a rompere indugi e opposizioni. Fu ripreso un piano di massima elaborato in marzo per l'intervento ad oriente nel Pacifico centrale. Si trattava di prendere le Midway per interrompere le rotte americane verso l'Australia e la zona occidentale su cui era venuto meno il controllo inglese. Questo piano prevedeva lo sbarco di 5.000 fanti di marina mentre nel contrastare le contromosse americane il nucleo della flotta doveva distruggere quella avversaria. Si contava sulla sorpresa e sulla grande superiorità navale. A bordo della Yamato i comandanti erano sicuri di vincere e incominciarono a cullarsi in quella sicurezza. Yamamoto approvò il piano e dovette apprezzare finalmente la realizzazione delle sue proposte. Le temibili portaerei americane sarebbero incappate nel blocco dei sommergibili predisposti sulla loro rotta, poi ci sarebbe stato lo scontro navale con un rapporto di almeno 2 a 1, infine i terribili cannoni da 457 mm delle corazzate avrebbero risolto definitivamente il problema del controllo del Pacifico contro i sottili fianchi delle navi avversarie, dato che dall'altra parte, dopo Pearl Harbor, di corazzate non ne esistevano più.
Dal punto di vista della dottrina gli Americani avrebbero dovuto proteggere le navi piuttosto di esporle a una sconfitta con una probabilità così alta che si verificasse. Il servizio informazioni americano ricorse ad uno stratagemma. Si diramò a tutti i possibili obiettivi l'ordine di trasmettere notizie dettagliate su immaginarie disfunzioni, e poco dopo una stazione d'ascolto intercettò nel traffico radio un messaggio giapponese, il quale riferiva che da parte americana erano sorte difficoltà di approvvigionamento idrico sull'"obiettivo". P0iché Midway aveva trasmesso, secondo gli ordini, di avere guastato l'impianto di distillazione dell'acqua marina, fu subito fatto il collegamento. Tale grande attività di ascolto e decrittazione che praticamente mise gli alleati a conoscenza delle mosse principali dell'Asse per quasi tutta la guerra, era il risultato di un enorme apparato di elaborazione dati esteso e collegato su tutti i teatri operativi e oltre. La guerra cambiava così radicalmente rispetto al passato, che i risultati autentici non potevano più derivare dall'iniziativa dei comandanti, per quanto abili, ma da una pianificazione di tipo industriale. Questo fu il grande vantaggio degli Alleati in quel momento critico. La guerra invisibile divenne importante quanto quella visibile.
Il piano giapponese prevedeva uno sbarco a Port Moresby sulla costa meridionale della Nuova Guinea sia per conquistare una testa di ponte verso l'Australia, che per sviare l'attenzione da Midway. L'ammiraglio Nimitz, comandante americano del settore del Pacifico, informato del fatto che due portaerei giapponesi con relativa scorta e una forza da sbarco puntavano sul Mar dei Coralli, tentò di ottenere una superiorità locale e dirottò quattro portaerei con le loro scorte per dare battaglia. Vi fu un ritardo, e il 5 maggio tanto gli americani che i giapponesi entrarono da est nel Mar dei Coralli con due portaerei ciascuno. Due squadre quasi perfettamente equilibrate nelle forze arrivarono dunque all'appuntamento cercandosi a vicenda e senza riuscire a realizzare un contatto. Per due giorni incrociarono, arrivando fino ad una settantina di miglia di distanza, scambiando scaramucce che rivelavano a ciascuno la presenza dell'altro. Ma il primo combattimento avvenne solo il 7 maggio. Fu una confusione tremenda. Gli uomini e i comandanti non avevano ancora dimestichezza con una guerra di quelle dimensioni. Era la prima volta che due flotte si combattevano senza vedersi: si era passati dal massimo di trenta chilometri del combattimento a vista con le artiglierie navali, a un massimo definito soltanto dal raggio d'azione e dall'autonomia degli aerei imbarcati. Il tempo era pessimo, la ricognizione aerea lasciava ancora troppi varchi: rilevata e trasmessa una posizione, i bombardieri o gli aerosiluranti arrivavano quando le navi non c'erano già più perché avevano cambiato rotta dato che si accorgevano di essere scoperte. Per due giorni ci furono attacchi a vuoto o furono colpiti obiettivi secondari, e quando infine, il terzo giorno, le due squadre d'attacco furono rilevate contemporaneamente dalle rispettive ricognizioni, si diedero battaglia da circa 90 miglia di distanza. Il combattimento "a occhio" si rivelò del tutto infruttuoso. Le squadriglie americane sbagliarono quasi sempre la formazione d'attacco e le navi giapponesi manovrarono continuamente perdendo tempo. Vi fu un gran consumo di aerei da entrambe le parti ed entrambi i contendenti pensarono di aver vinto. Gli Americani perché avevano evitato lo sbarco dei giapponesi a Port Moresby, e i Giapponesi perché erano convinti di aver affondato due portaerei di squadra americane perdendo soltanto una piccola portaerei e subendo danni non gravi su una portaerei di squadra. In effetti gli americani persero solo una portaerei, perché l'altra, pur gravemente danneggiata, riuscì ad allontanarsi. Anche se a Midway la flotta di Yamamoto arrivò con due portaerei in meno sulle sei previste, trovandovi tre portaerei americane invece di due, essa disponeva pur sempre, sulla carta, di una bella superiorità. Era successo che, mentre una portaerei colpita nel Mar dei Coralli non era ancora riparata e l'altra, illesa, era rimasta senza aerei e quindi inutile, la cantieristica americana aveva dato un notevole saggio di efficienza riparando la portaerei danneggiata in tre giorni anziché nei 90 previsti. Questo episodio, passato alla storia come amore patriottico delle squadre di riparazione, dimostrava semplicemente e meno epicamente la superiorità di un'organizzazione industriale che si rifletteva ovviamente sulla condotta militare. Da parte giapponese, alla volta di Midway partirono in ritardo a causa della battaglia del Mar dei Coralli 6 portaerei di squadra, 7 corazzate tra cui l'ammiraglia Yamato, 14 incrociatori, 317 aerei, 42 caccia torpediniere e 15 sommergibili. Una parte delle forze si sarebbe distaccata verso le isole Aleutine a Nord con due portaerei, forse con l'intenzione di minacciare il contrattacco americano da due direzioni.
Occorre aprire una parentesi. Analizzando a posteriori l'andamento della battaglia, il dato di gran lunga più evidente è la carenza di informazione. Gran parte delle decisioni, soprattutto nei momenti cruciali del combattimento, fu presa sulla base di informazioni non sicure, quindi attendendo un risultato dalla probabilità che avvenissero determinati fatti. La ricognizione aerea era quasi tutta basata sulla ricerca a vista effettuata con aerei da caccia e non con ricognitori specializzati. Da parte americana l'interdizione dello spazio aereo era demandata allo scontro a vista con mitraglieri che, alloggiati in carlinga dietro al pilota, coprivano i fianchi e lo spazio posteriore, mentre il pilota si occupava dello spazio anteriore. I Giapponesi con il caccia Zero avevano privilegiato la maneggevolezza e la grande produzione seriale a scapito della specializzazione, così si trovarono con un caccia leggero estremamente versatile, poco costoso, facilmente integrabile nella flotta, ma poco versatile per il combattimento organizzato. Gli americani avevano presto capito che la nuova guerra non era più uno scontro di eroici combattenti ma uno scontro di pianificazione e studio dei sistemi di combattimento. I piloti americani furono addestrati ad agire con gli aerei in formazione, due contro uno. Naturalmente i piloti giapponesi si adeguarono subito, e la battaglia aeronavale divenne sempre più uno scontro di macchine in quanto parti di un sistema collettivo.
La flotta americana, allertata dal servizio informazioni, riuscì a passare nel luogo in cui era previsto lo sbarramento di sottomarini quando questi non erano ancora arrivati e si dispose a nord di Midway fuori dal raggio d'azione dei ricognitori giapponesi, mentre i ricognitori americani di base sull'isola avvistarono per tempo la flotta di Yamamoto proveniente da sud-est. Da parte americana furono schierati 3 portaerei, 8 incrociatori, 233 aerei, 17 cacciatorpediniere, 19 sommergibili e nessuna corazzata; in più si poteva contare su un certo numero di aerei di base sull'isola.
Verso le sei del mattino i radar della base avvistarono i bombardieri inviati a preparare lo sbarco con la distruzione di piste ed installazioni. Durante il bombardamento vi fu un accanito duello tra caccia. La ricognizione rilevò che sarebbe stato necessario un secondo bombardamento, tanto più che non aveva ancora rilevato la presenza di portaerei americane. Gli aerei tornarono sui ponti delle navi e stavano già agganciando le bombe per il secondo raid quando le navi americane furono avvistate. Venne dato l'ordine di agganciare i siluri in luogo delle bombe e si perdette del tempo prezioso perché nel frattempo bisognò sgombrare i ponti per far posto agli aerei in rientro dalle missioni. La maggior parte dei caccia era in perlustrazione.
Intanto, sulla base dei tempi rilevati dalla ricognizione sia dalle portaerei che da Midway, gli Americani avevano calcolato che intorno alle 9 le portaerei avversarie si sarebbero trovate nel momento critico dei rientri e dei rifornimenti. Le portaerei americane erano ancora troppo distanti, ma lanciarono ugualmente gli aerei anche a costo di perderne un certo numero per mancanza di carburante. Le navi giapponesi, sotto attacco da Midway, cambiarono rotta e non furono trovate al posto segnalato. Nel frattempo, dovettero sottrarsi al bombardamento a tappeto di 15 fortezze volanti. È vero che in guerra si usa qualsiasi mezzo per ottenere risultati, ma il bombardamento a tappeto è una modalità tecnica adatta a distruggere grandi obiettivi fissi, come stabilimenti industriali, città, aeroporti. Usare velivoli enormi, lenti e imprecisi per scaricare grappoli di bombe su obiettivi mobili non è il massimo dell'efficacia. L'episodio prova il carattere sperimentale di molte decisioni prese in mancanza di una conoscenza specifica di sistemi complessi, e l'andamento della battaglia mostra chiaramente che le decisioni furono influenzate da elementi casuali. Due squadriglie americane con circa sessanta aerei in tutto incrociarono nella zona dov'era probabile che si trovasse la flotta nemica e infine trovarono tre portaerei poco prima che queste fossero pronte per l'attacco. Successive ondate di caccia bombardieri sganciarono il loro carico. Le prime bombe furono evitate con abili manovre, ma in mattinata, ancora assente la reazione dei caccia imbarcati fatti decollare per l'inseguimento di altre squadriglie nemiche, le tre portaerei furono colpite gravemente. Vi fu un inferno di scoppi e di incendi. La Kaga, la Akagi, la Soryu, ridotte a rottami incandescenti, i ponti sfondati dalle bombe da 1.000 libbre, affondarono. Molti aerei di ritorno dalle varie missioni, non potendo atterrare, caddero in mare. In cinque minuti si risolse la guerra nel Pacifico. Più tardi furono affondate anche la Hiryu e la Yorktown.
Fu presto notato che in nessuna battaglia di grande ampiezza era mai successo che una così piccola frazione delle forze totali impiegate portasse alla decisione della battaglia stessa, anzi, nel caso specifico, della guerra in un vastissimo settore. E mai in una frazione di tempo così piccola rispetto alla durata complessiva del combattimento.
Alcuni sostengono la tesi secondo cui il disastro giapponese fu dovuto a errori di pianificazione e comando, altri la tesi secondo cui fu il "caso" ad avere una funzione preponderante. Naturalmente da parte degli americani si punta sull'abilità di comando e sull'eroismo dei soldati. Il Giappone aveva in grande quantità buone macchine che incutevano timore; aveva buoni equipaggi e buoni piloti, come dimostrano i resoconti di guerra anche di parte avversaria. Ma la singola macchina e il singolo operatore possono offrire il buon risultato tattico, non il risultato strategico che è dato dal sistema di macchine e di servizi, integrati e coordinati in modo centralizzato. Agli americani non occorreva inventarsi un modo particolare per combattere la guerra tra macchine. Le carenze registrate a proposito del difetto di organizzazione per difetto di informazione furono superate grazie allo spontaneo funzionamento del sistema. In un'area vasta quanto mezzo mondo, bastava che gli Americani facessero come a casa loro in tempo di pace, perché in fondo la guerra andava condotta con gli stessi metodi di direzione del mondo industriale sviluppato. Naturalmente i protagonisti della guerra non potevano razionalizzare l'insieme degli eventi mentre questi si susseguivano, ma all'apparenza la vittoria americana fu dovuta a una padronanza della situazione da parte della catena di comando, mentre da parte giapponese la sconfitta fu invece il risultato apparente degli errori umani, di un mancato controllo delle personalità individuali.
In effetti possiamo concludere, analizzando a posteriori gli eventi, che da parte americana vi fu un'aderenza naturale alle caratteristiche di un sistema complesso di macchine, nel quale l'uomo obbedisce al general intellect; da parte giapponese vi fu un'aderenza ormai innaturale alla tradizione eroica del guerriero, dal comandante in capo al pilota del leggendario caccia Zero, capace di prestazioni acrobatiche notevoli ma utilizzato come la katana di un samurai.
L'ammiraglio Nimitz, il super comandante delle forze americane del Pacifico consultava spesso i sottoposti che avevano esperienza in qualche settore, specialmente quando si trattava di valutare le informazioni frammentarie che arrivavano dalla decodifica dei messaggi cifrati. Ma al culmine della preparazione per la battaglia, non si sapeva ancora quali fossero i piani giapponesi. Gli specialisti consultati e ascoltati avevano individuato le Midway come fulcro di un'azione di guerra, ma non erano riusciti ad avere dati sulle forze, sulla loro dislocazione e sui tempi. Nimitz partì dal presupposto che comandassero le macchine e fondò il piano di battaglia come avrebbe fatto un abile manager con un piano macchinizzato per la produzione. Attrezzò per questo scopo una struttura di comando a Pearl Harbor, cioè a migliaia di chilometri di distanza dalle Midway. Se il tempo e lo spazio non esistono autonomamente, lo spazio-tempo che risulta dalla loro fusione è dinamico, produce risultati.
L'ammiraglio Yamamoto conduceva personalmente la battaglia da bordo della Yamato, mentre il suo antagonista ammiraglio Nimitz la conduceva dalle sale operative della marina. Nell'epoca della radio e del radar non ha più senso il comando basato sull'intuizione personale e sulla conoscenza diretta della situazione, il campo dello scontro è troppo vasto. Certe deformazioni romantiche vedono in ogni combattente giapponese della Seconda Guerra Mondiale una specie di samurai e questo è certamente eccessivo, ma effettivamente c'era una differenza vitale tra i modi di combattere delle due parti. La stessa sproporzione tra le perdite, che sarà una costante per tutta la guerra in tutti i settori, lo dimostra: trecento morti americani, tremila giapponesi. Sia nel Mar dei Coralli che a Midway gli attacchi giapponesi in situazioni tattiche ravvicinate dimostrarono una superiorità indiscutibile fino a quando gli americani non agirono in formazione; il duello aereo, che allora lasciava molto margine al comportamento individuale, si dimostrò un'arma micidiale in mano giapponese e non solo per la maneggevolezza e velocità dei caccia Zero. A Midway, per esempio, durante un attacco americano con 41 aerosiluranti, i caccia giapponesi ne abbatterono 35 senza che neanche uno dei siluri americani colpisse le navi. Anche in manovra di difesa i giapponesi dimostrarono una grande abilità tattica: famoso l'episodio di un cacciatorpediniere rimasto isolato che si difese contro 58 caccia-bombardieri in picchiata che lo attaccarono per oltre due ore senza centrarlo neppure una volta e anzi subendo due perdite. Per affondare uno dei due incrociatori danneggiati che si allontanavano lentamente dalla zona di combattimento, ci vollero tre attacchi con 112 aerei anche se ormai la contraerea reagiva pochissimo perché stava esaurendo le munizioni.
Nonostante tutto, il comportamento complessivo della flotta americana rispondeva meglio di quello giapponese alle nuove esigenze della guerra aeronavale. Era un sistema.
Visto retrospettivamente, il piano di Yamamoto sembra abbondare di lacune mentre le decisioni di Nimitz appaiono audaci ma ben calcolate. In realtà i fattori determinanti in quella battaglia e nella guerra vanno ricercati al di là dell'abilità degli ammiragli e dei capi in genere. Ricordiamo ad esempio che in quell'epoca non era affatto scontato che le corazzate avessero concluso la loro funzione, e il rapporto era di sette a nessuna per il Sol Levante. Yamamoto si ritirò sperando ancora di attirare le unità americane verso le corazzate e le portaerei superstiti, ma Nimitz schierò la sua flotta a difesa di Midway coprendosi con uno sbarramento di sommergibili. Le potenti bocche da fuoco della Yamato da quel momento contarono ben poco, dovendosi ridurre a navigare sotto la copertura aerea delle basi terrestri. Non c'era più nulla da fare.