La riduzione dell'orario di lavoro non è più un tabù

"Il partito comunista difende la situazione futura di un ridotto tempo di lavoro a fini utili alla vita, e lavora in funzione di quel risultato dell'avvenire, facendo leva su tutti gli sviluppi reali. Quella conquista che sembra miseramente espressa in ore e ridotta a un conteggio materiale, rappresenta una gigantesca vittoria, la massima possibile, rispetto alla necessità che tutti ci schiavizza e trascina".

La rivoluzione anticapitalistica occidentale, PCInt., 1953

I nostri antenati politici consideravano la riduzione dell'orario di lavoro una delle massime conquiste raggiungibili all'interno di questa società e un trampolino di lancio verso quella futura. Ne troviamo menzione negli scritti di Marx, e in quelli della Sinistra Comunista, ad esempio nel punto "c" del programma di Forlì del 1952: "Drastica riduzione della giornata di lavoro almeno alla metà delle ore attuali, assorbendo disoccupazione e attività antisociali" .

Abbiamo sviluppato questo argomento nell'articolo "Tempo di lavoro, tempo di vita", pubblicato sul numero 2 di questa rivista. Da allora sono trascorsi più di vent'anni e di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia; oggi i sintomi di società futura sono sempre più evidenti e anche le forze che si fanno portatrici di indirizzi sociali conservatori sono costrette a misurarsi con essi, arrivando a capitolare ideologicamente di fronte al marxismo.

È il caso del capo della Chiesa cattolica, che, in un videomessaggio diffuso in occasione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (16 ottobre 2021), richiamandosi ai principi stabiliti nella Dottrina sociale della Chiesa, ha esortato tutti ad agire e a lottare per "il salario universale e la riduzione della giornata lavorativa."

"Salario ai disoccupati e drastica riduzione dell'orario di lavoro" è da sempre una parola d'ordine dei comunisti, tesa a tenere insieme occupati e disoccupati nella prospettiva di una lotta unitaria (fronte unico del lavoro o fronte unico dal basso), per migliorare le condizioni generali del proletariato, al di là di ogni considerazione sulla sostenibilità rispetto al sistema. Di fronte all'aggravarsi e all'estendersi della miseria, la Chiesa stessa, per bocca del suo massimo rappresentante, lancia un messaggio chiaro ai governanti, chiedendo misure economiche più coraggiose: "Un reddito minimo o salario universale, affinché ogni persona in questo mondo possa accedere ai beni più elementari della vita"; "la riduzione della giornata lavorativa […] Non ci possono essere tante persone che soffrono per l'eccesso di lavoro e tante altre che soffrono per la mancanza di lavoro."

Secondo il Pontefice, ovviamente, tali rivendicazioni dovrebbero trovare applicazione tenendo in considerazione le compatibilità capitalistiche, così da non danneggiare l'attuale sistema; mentre i fondi necessari per attuare le riforme andrebbero reperiti senza colpire economicamente la piccola borghesia (la classe che per i marxisti rappresenta il cuscinetto che attutisce lo scontro tra la borghesia e il proletariato, e che ultimamente ha dato segni di irrequietezza).

Lo slogan "lavorare meno per lavorare tutti" nasce e si diffonde in ambienti vicini alla Chiesa; rimanda a quanto elaborato nella CISL nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, quando il sindacato bianco era attraversato da una spinta dal basso volta all'ottenimento di miglioramenti reali, e puntava a far leva sulla riduzione degli orari di lavoro per affrontare il problema, già allora scottante, della disoccupazione. Qualche anno fa l'ex segretario generale della CISL Pierre Carniti ha ripreso questa formula nel libro La risacca. Il lavoro senza lavoro.

Se non è certo il caso di farsi affascinare dal riformismo della Chiesa, è interessante prestare attenzione alle dichiarazioni contenute nel messaggio papale, poiché esse sono la presa d'atto implicita di una potenzialità già data dallo sviluppo della forza produttiva sociale nella fase capitalistica, ovvero del fatto che la maggior parte delle mansioni oggi svolte da uomini potrebbe essere eseguita da macchine. Nell'industria sono già molti i processi produttivi che avvengono in automazione totale, e ciò comporta un cambiamento qualitativo che un modo di produzione come quello capitalistico non può sopportare a lungo.

L'odierna massa di disoccupati non è più l'esercito industriale di riserva di novecentesca memoria, che entrava nel ciclo produttivo nei periodi di boom e veniva sbattuto fuori in quelli di crisi; è sovrappopolazione assoluta, forza-lavoro eccedente, alla quale in qualche modo si deve dare la possibilità di sopravvivere.

Dal punto di vista dell'umanità futura, è positivo che le attività lavorative un tempo compiute da uomini siano oggi svolte da macchine: il processo che conduce all'eliminazione di tempo di lavoro è, potenzialmente, tempo di vita guadagnato. Nella società di domani, questo tempo potrà essere impiegato in attività utili o semplicemente piacevoli, visto che la produzione sarà orientata verso i bisogni di specie.

Nel mondo sono già milioni gli individui che hanno deciso di abbandonare il lavoro per dedicare più tempo a sé stessi, ai propri interessi e ai propri affetti. La pagina del social network Reddit "Antiwork: Unemployment for all, not just the rich!" ("Antilavoro: disoccupazione per tutti, non solo per i ricchi!") è nata nel 2013 attestandosi per alcuni anni su circa 100mila iscritti, ma nel settembre-ottobre del 2021, in parallelo alla grande ondata di scioperi negli Usa denominata "Striketober", ha visto svettare verso l'alto il numero dei sostenitori, che ha toccato i 2,3 milioni. Nello stesso periodo, in Cina è emersa la tendenza "Tang Ping" ("stiamo sdraiati"), e in Russia da qualche anno è attivo il portale anarchico Antijob.net che, come dice il nome stesso, è contro il lavoro.

Quello che sta prendendo piede a livello mondiale è un atteggiamento antiformista, non conformista. Si tratta di un processo spontaneo, che parte dal basso, che non sembra orientato ideologicamente, e che proprio per questo va seguito con particolare attenzione.

Il fatto che il Papa senta la necessità di spingersi sul terreno delle rivendicazioni classiche di un movimento operaio non ancora obnubilato dall'opportunismo è l'ennesima dimostrazione che il processo di dissoluzione del culto del lavoro sta arrivando al termine. E rende inoltre manifesto quanto i partiti di sinistra e i sindacati siano fermi su parole d'ordine passatiste, prive di futuro, come quella, appunto, del "diritto al lavoro" (che è un po' come rivendicare la perpetuazione della schiavitù salariata).

A dire il vero, anche in ambito sindacale qualcosa, timidamente, si sta muovendo, quantomeno per cercare di arginare la perdita di iscritti e di consenso tra i lavoratori. Al congresso della UIL tenutosi a metà ottobre di quest'anno, il segretario Pierpaolo Bombardieri ha proposto quale linea guida dell'organizzazione la lotta per ridurre le ore di lavoro a parità di salario. E il leader della CGIL Maurizio Landini ha speso parole favorevoli alla diminuzione dell'orario di lavoro a fronte di salari equivalenti.

Frazioni della stessa borghesia e della burocrazia sindacale sono arrivate alla conclusione che bisogna agire sulla "propensione marginale al consumo" (teoria secondo la quale l'aumento di un reddito basso si traduce comunque in consumo, mentre l'aumento di un reddito alto si traduce tendenzialmente in tesaurizzazione, risparmio o speculazione), anche perché si sta profilando all'orizzonte una recessione globale e nel mondo le rivolte per il carovita sono ormai all'ordine del giorno.

La settimana lavorativa corta è stata già introdotta in molte imprese in Nuova Zelanda, Belgio, Emirati Arabi, Canada, Islanda, Inghilterra e Usa, e recentemente è stata oggetto di discussione anche in Giappone. È in corso la campagna 4 Day Week Global, che ha come obiettivo di arrivare alla settimana lavorativa di quattro giorni in tutto il mondo, e alla quale hanno aderito partiti, sindacati, economisti, e grandi aziende (Panasonic, Microsoft, Canon, ecc.). Sta suscitando interesse l'iniziativa sostenuta dalla rete internazionale Basic Income Earth Network, che attraverso convegni, manifestazioni e pubblicazioni persegue l'obiettivo dell'introduzione di un reddito di base universale. Vi sono, non per caso, partiti che hanno fatto la loro fortuna politica perorando la causa del reddito di cittadinanza: in Italia il M5S ha cavalcato e blandito, su questo obiettivo, un movimento esistente, smorzandone comunque le aspirazioni e cercando di inserirlo all'interno delle istituzioni.

La presente forma sociale, per ritardare la propria scomparsa, è costretta ad anticipare elementi di quella futura. Il capitale, per riprodursi, è costretto a negare sé stesso.

La rivendicazione "salario ai disoccupati e drastica riduzione dell'orario di lavoro", un tempo "rivoluzionaria", in quanto ritenuta inconcepibile e inaccettabile dalla società borghese, sta per essere realizzata dallo stesso capitalismo (anche se con molta titubanza e continui stop and go). Questo è un segno tangibile della maturità della rivoluzione, la quale è una dinamica e non un atto isolato. Per essere efficace, la controrivoluzione deve realizzare, almeno in parte, le istanze storiche del proletariato, ma ciò non basta a risolvere le contraddizioni del Capitale: dal tempo di Marx sappiamo che l'aumento della forza produttiva del lavoro porta alla caduta generale del saggio di profitto e quindi all'inceppamento dei meccanismi di accumulazione. Già più di un decennio fa, come il sociologo Luciano Gallino riportava in un suo saggio, il costo del salario corrispondeva a circa l'8% del prezzo di vendita di un'automobile. Oggi è sicuramente meno.

Di fronte alla crisi della legge del valore (non si può estrarre da pochi operai sfruttati al massimo lo stesso plusvalore che si ricava da tanti sfruttati meno), la sovrastruttura politica borghese è costretta ad intervenire. Possiamo paragonarla ad un meccanismo cibernetico regolato da sensori, che polarizzano il sistema affinché rimanga stabile, ovvero omeostatico. Se nella società aumenta la povertà, se cresce la miseria, allora lo Stato aziona meccanismi di redistribuzione del reddito, almeno fino a quando gli è possibile (Marx: guai a quella società che invece di sfruttare i propri schiavi è costretta a mantenerli). Superata una determinata soglia, i parametri si sballano e il sistema va fuori controllo, che poi è quello che sta succedendo.

Rivista n. 52