Prefazione

Testi indispensabili, questi, per rinfrescare la memoria intorno alle cause e agli effetti delle ricorrenti sbandate all'interno del movimento rivoluzionario.

"Indubbiamente se oggi le avanguardie anche sparute e disperse della corrente proletaria rivoluzionaria traversano un periodo di indiscutibile smarrimento, e mostrano troppo spesso di non sapere più da che parte è il Sud del capitalismo e il Nord del comunismo, l'Occidente della reazione e l'Oriente della rivoluzione, va detto che siamo in una 'tempesta magnetica' della storia, nella quale è molto facile smarrire ogni orientamento...". Bussole impazzite a causa della tempesta magnetica della controrivoluzione, primo titolo che troviamo nella raccolta.

Uno degli argomenti più ostici nella continua discussione che i rivoluzionari devono condurre non solo nella propaganda fra i proletari contro l'avversario, ma anche all'interno del movimento, è quello dell'indifferentismo.

Se io ho due nemici non posso dire: per me pari sono, tanto entrambi mi vogliono morto. Devo capire quale grado di pericolo rappresentano per me, insieme e separati. Devo capire di che armi dispongono, quale maturità industriale gli permette di usare al meglio le risorse tecniche contro di me eccetera.

Ancora meno è giustificata l'indifferenza se questi due nemici sono in guerra tra loro. È in ogni modo preferibile che soccomba il più forte, o almeno il più pericoloso per me, dato che dovrò affrontare il superstite.

Sembrerebbe un errore, una carenza di materialismo: se uno dei due contendenti è più forte, più attrezzato, più numeroso, è logico che vincerà. Logico ma non dialettico. Ogni guerra si dispone su un terreno che non scelgono i contendenti e non si scatena fino a che questi non possono farne a meno. Attorno alla guerra crescono alleanze e nemici, ma anche forze sotterranee che possono esplodere durante la battaglia stessa e che prima non erano previste o prevedibili. Se l'organizzazione, le armi e la forza tecnologica fossero gli unici elementi determinanti, nessuna rivoluzione sarebbe mai stata possibile né lo sarebbe mai.

L'indifferentismo non si manifesta soltanto a proposito della guerra: è classica posizione indifferentista quella che schematizza e accomuna le più diverse situazioni storiche aspettandosi da esse soluzioni predefinite dallo schema. Si può per esempio affermare, sbagliando, che siccome è terminato il ciclo delle lotte di liberazione coloniale, allora l'unica rivoluzione possibile è quella proletaria pura. Ma che succederebbe per esempio in Cina o in India se scoppiasse una rivolta contro i rispettivi Stati? È ovvio che ben difficilmente, in mancanza di una ripresa di classe nelle aree tradizionalmente proletarie delle metropoli imperialistiche, si potrebbe assistere a una rivoluzione comunista. Ma sono miliardi di uomini che hanno la potenzialità sociale di sconvolgere il mondo, lo stato di cose presente, i rapporti dell'intero pianeta.

Ogni forza che si ponga nella direzione del cambiamento dello statu quo è oggettivamente rivoluzionaria, anche se può assumere contingentemente aspetti "arretrati". Se per esempio tutto l'Islam, come paventa qualche borghese esagerando, si rivoltasse contro l'imperialismo scombinandone i piani, poco importerebbe ciò che al momento tale rivoluzione dicesse di sé stessa.

Se il movimento liberaleggiante e democratico degli studenti e poi degli operai che per settimane hanno inscenato dimostrazioni in piazza Tien an Men a Pechino avesse sfondato il muro dei carri armati e dell'esercito invece di essere sopraffatto e schiacciato, il cambiamento, qualunque fosse, avrebbe significato un abbattimento delle residue barriere che si oppongono ancora all'industrializzazione della Cina. Si sarebbe accelerata la creazione di un mercato capitalistico moderno, la conseguente crescita del proletariato urbano, e anche la spontanea distruzione delle illusioni libertarie e antitotalitarie.

Ogni ostacolo che si frappone allo sviluppo delle forze produttive e della struttura veramente capitalistica è un ostacolo al socialismo ed è antimarxista rimanere indifferenti di fronte a movimenti che sono spinti da condizioni materiali verso il futuro solo perché si ammantano di ideologie arretrate.

La questione si fa più delicata, ma non più oscura per i marxisti, quando si tratti di valutare gli effetti delle guerre fra imperialismi. È noto che Marx criticò ferocemente l'Inghilterra imperialista per la sua incongruenza nel combattere quel bastione reazionario che era la Russia zarista. È meno noto, ma non meno coerente con il marxismo, che la Sinistra se ne infischiò altamente delle critiche patriottiche quanto moraleggianti e affermò che sarebbe stato meglio se gli eserciti tedeschi avessero sfondato a Caporetto e in Francia nel 1917, travolgendo l'imperialismo francese e soprattutto quello inglese: la rivoluzione, invece che nella sola Russia, sarebbe divampata nell'intera Europa, "specialmente a Berlino".

Naturalmente, non concedendo che il nazismo fosse una forma specifica tedesca, ma un portato del capitalismo giunto alle sue estreme conseguenze, come era stato dimostrato prima di esso dalla violenza contro i popoli colonizzati e fu più ancora dimostrato dopo la Seconda Guerra Mondiale dagli imperialismi vincitori, il ragionamento si applicava anche agli avvenimenti bellici che punteggiarono questo secondo massacro globale: l'avanzata germanica oltre Dunkerque, l'invasione dell'Inghilterra e il coordinamento con l'avanzata della marina giapponese invece dell'avventura russa, avrebbero probabilmente scatenato il proletariato in una trasformazione della guerra in rivoluzione, arrestando la corsa americana al predominio, ed evitando al mondo un nuovo e più terribile bastione reazionario. E fu proprio per questo, per il timore di scatenare la rivoluzione proletaria, che il comando tedesco, consciamente o meno, fermò i generali avanzanti con decisioni militari incomprensibili altrimenti, e lasciò il tempo all'avversario di prepararsi in una controffensiva che sarebbe stata senza quartiere, fino all'annientamento dei concorrenti.

Come sarebbe stato possibile, si nota nel secondo testo, Neutralità, conclusa la guerra con i vincitori occupanti militarmente il suolo dei vinti, parlare di equidistanza tra i massimi imperialismi vincitori se si era, appunto, occupati? E quale neutralità sarebbe stata coerente se i partiti che si rifacevano al movimento operaio parteggiavano manifestamente per l'imperialismo moscovita e avrebbero lasciato cadere tale posizione se la Russia fosse stata attaccata? Il contrario di indifferentismo per costoro era partigianismo: invece di mantenere la parola d'ordine rivoluzionaria disfattista contro tutti gli stati, primo fra tutti quello che domina la società in cui si vive e si lotta, si chiamava il proletariato a difendere uno degli imperialismi, travestito da "socialismo in un paese solo", sostituendo la chiamata di classe alle armi con una disponibilità a prestarsi come carne da cannone in una guerra qualunque.

Difficile, come si vede, mantenere la bussola marxista. Di fronte al problema della guerra, o ai problemi posti dalla sua conclusione, la tattica ondivaga dei sedicenti partiti operai non solo la perdeva, ma faceva proprie le parole d'ordine della borghesia stessa. Intendendo la presa del potere come vittoria elettorale, l'opportunismo poteva anche accettare di far sua la parola d'ordine sugli Stati Uniti d'Europa, dato che nella federazione di stati potevano convivere patrie borghesi e patrie socialiste. Peggio che mai se la grande federazione di stati europei vagheggiata dal Movimento Federalista fosse stata intesa come baluardo neutrale contro le velleità militari americane nei confronti della Russia. Eravamo sempre fermi al partigianismo, questa volta visto attraverso un espediente politico.

"I marxisti non posseggono, per quanto ansiosamente attendano la tempesta sociale, ricette per muovere in ogni storica congiuntura le acque quando sono stagnanti", si dice nel testo. Tantomeno possono accettare di far proprie ricette altrui col pretesto di rafforzare il movimento contro la guerra. Non si può fermare la guerra quando queste stesse ricette non servono ad altro che a rafforzare il dominio del più forte. Gli Stati Uniti d'Europa nascerebbero sotto tutela americana. Il federalismo come garanzia di libertà è una fantasia: la tendenza storica è quella di accentrare i poteri dello Stato, quella di rafforzare i grandi mostri statali che dominano incontrastati rendendo del tutto impotenti i piccoli.

"Alla vigilia della seconda guerra generale era già chiaro, sia per l'ulteriore evoluzione monopolistica del grande capitalismo, sia per quella della tecnica militare che sempre più richiedeva masse di mezzi economici formidabili, che ogni Stato avente pochi milioni di abitanti non poteva esercitare alcuna autonomia economica diplomatica o militare e doveva porsi nell'orbita e nella soggezione di uno più grande".

Ricorriamo dunque nuovamente alla bussola non smagnetizzata: non si può pensare di proporre in campo nazionale intese programmatiche fra partiti "proletari" e borghesi e in campo internazionale collaborazione fra stati "socialisti" e capitalisti senza con questo seppellire il marxismo. Tutto ciò sembra ovvio, ma non si può criticare questa politica e nello stesso tempo, come marxisti critici, propugnare neutralità e non belligeranza.

I comunisti rivoluzionari non hanno mai paventato la guerra, massimo elemento di trasformazione e connessa al permanere del capitalismo sulla scena, bensì hanno sempre cercato di trasformarla in rivoluzione. La parola d'ordine della pace è rivoluzionaria quando la guerra c'è, perché il disfattismo si trasforma automaticamente in necessità della rivoluzione. La polemica non era soltanto verso l'opportunismo classico, ma anche verso ambienti vicini ai nostri ranghi. Certo non ci saremmo battuti con tanta passione solo per "contestare" per iscritto i partiti traditori. La ricostruzione della teoria era salvaguardia delle nostre forze, più che guerra efficace contro un nemico che era soverchiante perché aveva un'intera fase storica dalla sua. La bussola serviva a tutta la nostra corrente per ritrovare, dopo la parentesi bellica, la strada giusta che aiutasse a scaricare tutta la zavorra delle vecchie concezioni stratificatesi con lo stalinismo anche presso di noi.

La Prima Guerra Mondiale ridusse le grandi potenze da otto a cinque e questo fu un vantaggio storico per il proletariato. La Seconda Guerra Mondiale lanciò l'America al posto di unica potenza veramente globale. Pose il proletariato sotto il tallone di uno Stato formidabile e superarmato, ma lo pose anche di fronte ad un unico nemico internazionale. La bussola ci aiuta a capire la differenza tra i vecchi imperialismi e il nuovo, ma anche fra la potenza globale americana e i tentativi di coesione fra gli altri imperialismi tuttora dipendenti dal dollaro.

La Sinistra ebbe a lavorare di bussola anche con il giustificazionismo nei confronti della Russia, da qualcuno intesa come seconda potenza mondiale, se non socialista, almeno "operaia degenerata" che avrebbe dovuto rappresentare il bastione di contenimento della prima, quella americana, per impedirle il dominio del mondo. In "Arciboiata..." si risponde direttamente al trotzkismo dell'epoca e a tutte quelle frange che avrebbero visto, come nel 1926, una unificazione di tutto il movimento antistalinista, ma che non avevano capito quale era la vera essenza dello stalinismo, la sua oggettiva natura controrivoluzionaria. Erano antistalinisti, ma più ancora antiamericani e soprattutto democratici, quindi pronti a saltare il fosso e decidere che in caso di scontro era corretto tapparsi il naso ma stare dalla parte dello "Stato operaio". Eravamo di nuovo alle prese con l'altra faccia dell'indifferentismo, il suo contrario-omologo, il partigianismo per quel campo che, nemico in tempo di pace, poteva ritrovarsi amico in tempo di guerra, in una ennesima versione di Fronte Unico. Vedete un po' oggi lo spettacolo edificante, stalinisti (assassini) e trotzkisti (vittime) a braccetto in quel coacervo di eterni ondivaghi che si chiama Rifondazione Comunista, dove tra l'altro sono di nuovo in cerca di seggio gli ex pentiti del Manifesto.

I peggiori di tutti (ma almeno all'epoca si erano tolti dai piedi) erano anche allora quegli stalinisti che oggi si direbbero, appunto, "pentiti" e che erano passati al campo avverso facendo un tal fracasso di penne e inchiostro da sollecitare gli strumenti più consueti della propaganda antirussa. Si trattava di alcuni intellettuali che gravitavano intorno agli autori (Koestler, Silone, Wright, Gide, Fisher e Spender) di un libro, Il Dio che è fallito, all'epoca diventato famoso per le attenzioni riservategli dalla macchina propagandistica americana: testo illuminante sul percorso a ritroso che certi cervelli intraprendono giunti alla massima incomprensione del mondo reale, e che un compagno della vecchia guardia del '21 donò ad un giovane proletario con questa dedica: "antibiotico per il proletario comunista contro l'intellettualismo evirato".

"Non conosciamo comunisti espulsi", dice il nostro testo in questione. "Vi sono degli stalinisti espulsi che non sono nulla di meglio di quelli tesserati, abbiano scelto la libertà o il dollaro, due monete che presso noi non hanno corso. Noi conosciamo solo dei comunisti schifati. Schifati dei traditori".

La Guerra di Corea è il pretesto per le mazzate all'opportunismo contenute in Battaglia nella pappa, requisitoria − ironica e feroce − contro i fronti statali che sono i naturali figli dei fronti unici interclassisti. In ogni caso mai e poi mai vi sarà da parte dei rivoluzionari comunisti condanna morale della guerra, tanto più quella moderna imperialista, condita da tutte le propagande e da ogni tipo di contorsione tattica, dall'accordo con Hitler per spartirsi la Polonia alla trappola di Monaco con la quale si fece credere ai tedeschi che li si lasciava espandere verso il loro naturale "spazio vitale" (trucco ripetuto in Corea e, più vicino a noi, in Iraq); dalla successiva alleanza militare con l'America alla guerra guerreggiata con la stessa America in Corea: "Vana speranza, far capire agli stalinisti che battono il grugno contro le portaerei giganti e i carri armati ultrapesanti, che hanno essi costruito tutto ciò imponendo al proletariato che li seguiva il blocco con l'America.

Non meno vana quella di far intendere quali sono state le conseguenze della politica dei comitati di liberazione nazionale, oggi evidentissime: il sistema fascista, proprio del capitalismo moderno, è da noi del tutto in piedi, sebbene il "monopartitismo" sembri non esserci. Nella economia sociale tutto il sistema di brache mantenute al capitale, costruito nel ventennio (e prima) non fa che dilagare. La polizia è più forte di quella di Mussolini almeno nel rapporto in cui quella di Mussolini era più forte di quella di Giolitti. Siamo già alla milizia politica contro gli antinazionali. Le portaerei, i tank e le milizie di sicurezza nazionale, le avete fatte voi, signori del Cominform, colla vostra supervantata 'manovra'".

Il sistema fascista, caratteristica del capitalismo moderno, è più in piedi che mai e ad esso non si risponde con ondeggiamenti pacifisti ma con la guerra di classe: se per ipotesi la Russia fosse uno Stato proletario e scoppiasse la guerra contro di essa, non la pace bisognerebbe invocare, ma la rottura dell'unità di classe interna e la guerra del proletariato contro le borghesie avversarie al fianco della Russia. Se, com'è in realtà, si trattasse di guerra imperialista, non ha nessuna importanza stabilire chi sia l'eventuale aggressore, ma occorrerebbe approfittare della guerra per "sgarrottare" la borghesia di casa propria.

Con "Chioccia russa e Cuculo capitalista" la polemica è rivolta di nuovo principalmente all'interno dei ranghi della Sinistra, dove la discussione sulla natura dello Stato russo era accesa. Il cuculo avrebbe l'abitudine di deporre le uova nei nidi altrui per farsele covare a sbafo. La Russia sarebbe la chioccia (immaginata come un'incubatrice meccanica staliniana) che cova le uova capitaliste. La polemica è vecchia e venne ripresa ancora in articoli successivi. Costruire il socialismo era formula staliniana antimarxista, ma costruire le basi del socialismo, cioè il capitalismo, era, dialetticamente, opera rivoluzionaria del controrivoluzionario Stalin. Dalla vecchia società autocratica semi-asiatica russa al capitalismo vi era salto rivoluzionario, premessa per il comunismo, ma "costruire il socialismo" ammettendo che ciò si facesse con tutte le categorie capitalistiche era imbroglio e fregatura per il proletariato mondiale.

Nella polemica con Damen sulla questione della Russia, Bordiga incalzava in una corrispondenza: "In atmosfera mercantile non vi può essere prelievo sociale (plusvalore) senza sfruttamento di classe. Ma il fatto è questo: il tanto di plusvalore che la minoranza capitalista pappa materialmente non è il fenomeno preponderante. È il prelievo a preteso fine sociale che diventa abnorme, sbagliato, sperequativo, distruttivo. Sia dieci ore la media giornata del lavoratore nel mondo. I capitalisti pappano mezz'ora. Il capitalismo pappa sei ore e mezza. Il lavoratore pappa tre ore, se va bene. Nel capitalismo di Stato, e più in apparenza che altro, si è tolta via la mezz'ora. Roba da poco. Si sono però concentrate le condizioni per cui è tremendamente difficile riscattare le altre sei ore diventate sette o più. Sarebbe più socialismo legare tutti i capitalisti e mandarli a Tahiti a papparsi un'ora, e amministrare poi le altre nove ore: dopo poco basterebbe lavorare poche ore al giorno".

Negli ultimi due "Fili del tempo" si ritorna specificamente sul problema dell'indifferentismo con riferimenti più che espliciti alle difficoltà di far digerire a una parte del movimento questioni all'apparenza così elementari. Citando Marx e Lenin insieme con molti altri testi di partito pubblicati nel corso di otto anni, si affrontano per l'ennesima volta i due temi cardine: Russia e guerra. Attraverso una polemica questa volta esplicitamente rivolta verso l'interno delle nostre forze, emerge la constatazione della potenza dell'ambiente dominante sulla stessa compagine dei militanti rivoluzionari: non è mai stato usuale nell'attività di partito, né prima né dopo questi articoli, far emergere la rabbia personale attraverso uno scritto o una riunione, essendo le pulsioni soggettive bandite per quanto possibile dal lavoro comune. Ma qui l'esasperazione per la forza della prassi dominante quasi esplode rivelatrice sulla mai scomparsa manìa di attribuire le "idee" ai vari personaggi, capi o gregari che fossero, valorizzandole o meno a seconda se questi personaggi avessero al loro attivo punteggi più o meno alti in rapporto alla storia che rappresentavano, fossero più o meno riconosciuti come marescialli. Siamo al 1952, anno della scissione fra le forze internazionaliste: evidentemente gli otto anni precedenti non erano bastati, per qualcuno, ad apprendere la lezione della controrivoluzione, a capire che non vi sono scorciatoie per la rivoluzione, che il presenzialismo politico e il bisogno di "battilocchi" poteva andar bene per i partiti opportunisti ed elettorali, per i Nenni e i Togliatti, ma era la negazione della faticosa restaurazione della dottrina, unica strada per garantire un'attività pratica e un atteggiamento organizzativo esente da macroscopiche deviazioni dai principii.

Torino, novembre 1992

Prima di copertina
Bussole impazzite

Quaderni di n+1 dall'archivio storico.

Testo indispensabile per rinfrescare la memoria intorno alle cause e agli effetti delle ricorrenti sbandate all'interno del movimento rivoluzionario.

Indice del volume

Bussole impazzite