"Diritto al lavoro" o liberta' dal lavoro salariato?

20 marzo 1997

Quella del "diritto al lavoro" non è mai stata parola d'ordine dei proletari comunisti, ma essa si rivela una vera stupidaggine nell'epoca in cui una massa consistente di ore di lavoro vengono eliminate per sempre dallo stesso capitalismo. Se siamo al punto in cui il Capitale dimostra di fare a meno dei lavoratori è evidente che risulta dimostrato anche l'inverso: i lavoratori possono benissimo fare a meno del Capitale.

Ogni piagnisteo sul "diritto al lavoro", nell'epoca della massima introduzione degli automi e dell'informatica è una pura idiozia.

Nella storia dell'umanità niente è stato più insensato dell'odierno culto del lavoro: abbiamo finalmente a disposizione i mezzi per essere liberi dalla necessità e invece questi mezzi ci dominano, ci abbrutiscono di lavoro, ci offrono una produttività così alta che la stragrande maggioranza della popolazione è "in esubero" rispetto alle esigenze della produzione. E non lavora affatto.

Chiunque non sia intossicato dall'ideologia capitalistica capisce benissimo che la liberazione di lavoro umano operata dalle macchine, dalla scienza e dall'organizzazione potrebbe essere un vantaggio per tutta l'umanità, la quale non sarebbe certo schifata se potesse dedicarsi ad attività vitali o anche semplicemente belle e divertenti invece di essere schiavizzata dalla necessità di accumulare sempre più Capitale.

Sembra immensamente lontano il tempo in cui gli operai scendevano in piazza organizzando manifestazioni contro il lavoro, quando cioè pretendevano una forte riduzione dell'orario e un salario decente per i disoccupati con le loro famiglie; quando avevano il coraggio di sfidare l'avversario sul suo terreno, quello preparato dallo sviluppo generale della produttività. Lo sviluppo sociale e produttivo ci libera dal lavoro, e quindi la nostra parola d'ordine umana e non capitalista dovrebbe essere ancora la stessa. Macchine? Computers? Robots? Nuova organizzazione? La nostra risposta dovrebbe essere: "Non aspettavamo di meglio; la liberazione dal tempo di lavoro è tempo di vita guadagnato. Se il capitalismo sfrutta sempre di più un numero sempre minore di lavoratori, gettando gli altri nella disoccupazione, ebbene, liberiamoci del capitalismo".

Governanti, capitalisti, sindacalisti e finti comunisti di ogni specie hanno un bel gridare a gran voce che il lavoro è sacro, che è un diritto sancito dalla Costituzione, che nobilita l'uomo. Quando il lavoro viene eliminato dal moderno sistema di produzione esso non è né sacro né maledetto, è semplicemente superfluo. Di fronte all'operaio che si chiude nel capannone fatiscente, o che si mura nella miniera esaurita e mortale, o che si ammazza per dodici ore al giorno con salario tagliato per salvare la "sua" fabbrica dalla concorrenza, c'è un mondo di milioni di persone che non lavorano più. I sacerdoti del lavoro si commuovono e benedicono il sacrificio, ma le fabbriche-galere chiudono comunque, ed essi, per scongiurare il pericolo che ci s'accorga che è matura l'ora di lavorare tutti due o tre ore al giorno, s'inventano assurdi "lavori socialmente utili" per un tozzo di pane. Che bravi, questo sì che è progresso.

Una cosa simile l'inventò Enrico VIII in Inghilterra nel '500 e fece impiccare chiunque non accettasse di sottomettervisi. Nel 1834, sempre in Inghilterra, fu introdotta una variante con la legge sulle "Case di lavoro", dove dall'alba al tramonto i disoccupati venivano impiegati con metodi identici a quelli in uso per i delinquenti condannati ai lavori forzati. Che modernità questi inglesi. La logica dei cosiddetti lavori socialmente utili è la stessa dei lavori forzati perché, come in quel caso, l'operaio sarebbe subordinato all'autorità pubblica, che è l'unica a poter decidere come, dove e quando sono "socialmente utili" tali lavori e quanto pagarli. Hanno già persino ventilato la cifra indicativa: da sei a ottocentomila lire mensili.

Paul Lafargue, collaboratore di Marx ed Engels, nel 1880 non andava tanto per il sottile:

"E' così difficile per gli operai capire che, sovraccaricandosi di lavoro, esauriscono le loro forze e quelle della progenie, che uccidono in sé stessi tutte le belle facoltà per lasciarvi unicamente intatta, debordante, la pazzia furibonda del lavoro? Ah! Come pappagalli ripetono la lezione degli economisti: lavoriamo per accrescere la ricchezza nazionale! Ignavi! E' proprio perché voi lavorate troppo che l'attrezzatura industriale si sviluppa lentamente. Smettetela di fare i somari e ascoltate un economista [il quale dice che] finché la mano d'opera fornisce i suoi servizi a basso prezzo, la si utilizza senza pensarci".

E la si spreca anche, prendendola e buttandola quando pare e piace, come una delle merci più dozzinali, a disposizione illimitata. Che gioco è mai questo? Gli industriali vogliono che si lasci libera azione al mercato affinché riduca tale merce a basso prezzo e a disponibilità illimitata; i sindacati la vogliono a basso prezzo e a disponibilità illimitata per l'azione di decreti governativi concordati con le cosiddette parti sociali. Anche quelli che osano ancora definirsi comunisti firmano senza battere ciglio decreti sullo sfruttamento intensivo ed estensivo del lavoro. Si sa, le esigenze dei mercati debbono essere soddisfatte.

Parlano e agiscono così solo a causa della tronfia sicurezza offerta loro da una classe proletaria che, pur se provvisoriamente corrotta con false sicurezze e ideologie del nulla, conserva intatto il potenziale per schiacciarli.

Eccoli perciò organizzare processioni e innalzare preghiere al dio lavoro, facendosi preti di una religione che lo stesso capitalismo si incarica di distruggere nei fatti.

Da parte nostra, difendiamo caparbiamente

"la situazione futura di un ridotto tempo di lavoro a fini utili alla vita e lavoriamo in funzione di quel risultato dell'avvenire, facendo leva su tutti gli sviluppi reali. Quella conquista, che sembra miseramente espressa in ore e ridotta ad un conteggio di tipo sindacale, rappresenta una gigantesca vittoria, la massima possibile, rispetto alla necessità di lavoro che tutti schiavizza e trascina" (da un testo della Sinistra comunista, 1953).

Volantini