La guerra del golfo continua... ma quando è incominciata?
19 dicembre 1998
Noi non siamo affatto d'accordo con quanto si va affermando da varie parti sulla strana guerra condotta dagli Stati Uniti contro l'Iraq.
La storia di una "Guerra del Golfo" può essere scritta in diversi modi a seconda degli interessi in gioco, ma dal punto di vista marxista si può tener conto di tali interessi solo per una analisi, non certo per uno schieramento. Nella cronaca di questi giorni si fa normalmente riferimento a due Guerre del Golfo: quella lunghissima e poco ricordata fra Iraq e Iran, e quella che vide la coalizione internazionale attaccare l'Iraq dopo il suo tentativo di annessione del Kuwait; questa in corso sarebbe la terza. Ma la questione non è così semplice, poiché investe tutto il Medio Oriente, ovvero un'area con problemi diversi a seconda dei paesi, ma strettamente connessi e inseparabili.
Dal tempo dell'espansione dell'Egitto Antico fino alle due Guerre Mondiali e al travagliato ultimo dopoguerra, da quasi quattromila anni quel cruciale territorio rappresenta il campo su cui si danno battaglia forze decisive. Se vogliamo andare alla radice materiale degli scontri odierni su quello scacchiere geopolitico, la storia marxista di una Guerra del Golfo deve almeno comprendere la caduta dell'Impero Ottomano, la Prima Guerra Mondiale e le scorribande filo-inglesi delle truppe nazionaliste arabe comandate da Lawrence d'Arabia e, soprattutto, il cambio della guardia tra il colonialismo classico e l'imperialismo americano moderno.
A partire dal periodo a cavallo dei due secoli fino alla Seconda guerra Mondiale, l'antico problema sfociò in un intreccio di scontri fra gli imperialismi coloniali europei su quel territorio, fra questi e l'Impero Ottomano e, in seguito, fra tutti e l'Egitto di Mehemet Alì che, dopo una serie di fulminanti conquiste con uno Stato e un esercito organizzati modernamente alla francese, inglobò un'area immensa, comprendente il Sudan, il Mar Rosso, l'Arabia con i luoghi santi dell'Islam, Creta, spingendosi fino ad occupare e pretendere la Palestina, la Siria e la Giordania. Sarebbe stato un vantaggio immenso per la rivoluzione in quell'area, ma le potenze imperialistiche non permisero l'unificazione di un territorio vasto quasi quanto l'Europa intera. Nell'ultimo mezzo secolo, infine, il tramonto delle potenze coloniali inglese e francese, messe a tacere soprattutto dall'esuberanza economica e militare degli Stati Uniti, ha lasciato a questi ultimi il controllo dell'intero scenario.
Di fatto, però, nonostante l'artificiosissima rete di frontiere tracciate dal vecchio imperialismo e sfruttata al meglio da quello nuovo, le antiche determinanti di guerra non sono scomparse, anzi, si sono acuite a causa di un fattore nuovo di enorme importanza: il petrolio. Questa essenziale fonte di energia, che sta alla base dell'accumulazione capitalistica dei maggiori paesi, esaspera le antiche determinazioni oscillanti fra il separatismo nazionale borghese e l'espansionismo unificatore arabo-islamico. La presenza di almeno quattro paesi importanti (Turchia, Iran, Iraq ed Egitto) come popolazione e storia, tendenti ognuno all'egemonia dell'area, spiega anche le difficoltà di balcanizzazione classica, cioè la difficoltà di assecondare dall'esterno in modo permanente le spinte interne alla divisione.
L'importanza del petrolio è presto dimostrata: il consumo annuale mondiale assomma a circa 15 miliardi di barili di grezzo, concentrato quasi totalmente in pochi paesi ad alta industrializzazione. E' chiaro che in questi paesi ogni variazione, anche solo di un paio di dollari al barile, influisce pesantemente sull'anticipo di capitale per la produzione. Tenendo conto degli effetti moltiplicatori nel processo di distribuzione e raffinazione, si calcola che un aumento del genere possa far diminuire fino a un punto percentuale il prodotto interno lordo di un paese sviluppato e senza petrolio (in assenza ovviamente di contromisure). Inoltre, tramite i prezzi petroliferi, c'è un obiettivo trasferimento di capitali dai paesi senza petrolio (specie da Germania, Giappone, Francia e Italia) verso i paesi petroliferi rentiers, e da questi al sistema finanziario anglo-americano, che ne amministra le rendite. Siccome l'Inghilterra e gli Stati Uniti commercializzano a diversi livelli la quasi totalità del petrolio mondiale tramite gigantesche società, che sono private ma rappresentano interessi strategici nazionali, ecco che il vantaggio di questi due paesi contro lo svantaggio degli altri è una formidabile arma per la concorrenza, specie in un'epoca dove la crescita economica si misura in pochi punti percentuali all'anno.
Ma proprio gli inesorabili meccanismi dell'imperialismo (che è solo capitalismo nella sua forma matura e non qualcosa di diverso) ci obbligano, come comunisti, a distinguerci rispetto agli svariati commenti troppo in sintonia con il trattamento virtuale moderno della guerra vista in televisione. Dobbiamo dunque parlare di petrolio in modo del tutto contro corrente, cioè senza dimenticare che esso è un elemento strategico dell'economia mondiale, ma non è l'unico elemento della situazione, perché la sua importanza si innesca sui fatti sociali che scaturiscono dall'intera storia mediorientale.
La reiterata Guerra del Golfo non è compatibile con la banale e abusata osservazione sugli interessi petroliferi trattati alla stregua di affari tra ladri, o alla stregua di un qualche "diritto" alla proprietà, nazionale o popolare che sia. Non ci possiamo neppure mettere sul piano del diritto borghese e discutere su quale sia l'aggressore o l'aggredito, dato che nella teoria marxista queste categorie morali non esistono. La teoria dell'aggressione per il petrolio, poi, è ancora più risibile. Gli idrocarburi combustibili, come qualsiasi altro prodotto della terra, hanno valore solo in relazione al loro utilizzo. Finché rimangono sotto i magri cespugli brucati dalle pecore dei pastori, essi non valgono niente. Il diritto al loro sfruttamento è il diritto dell'industria, perché la rendita petrolifera, secondo la legge economica marxista, non è altro che plusvalore ripartito nella società, e tale plusvalore nasce solo dallo sfruttamento del lavoro proletario nella produzione.
Il diritto al petrolio e al gas da parte di chi li possiede ma non li usa vale dunque contro il diritto di chi non li possiede ma sviluppa l'industria che li usa. Il semplice possessore li deve alienare in cambio di una quantità di denaro non certo stabilita da lui ma dal mercato. E quando anche il semplice possessore incominciasse un giorno ad usare gas e petrolio per conto suo, minacciando il diritto all'esistenza di chi non ne ha, la questione non cambierebbe di una virgola: quando c'è diritto contro diritto, dicono da sempre i marxisti per demolire lo stesso concetto di diritto, allora entra in gioco la forza.
Quando negli anni '50, in quell'area, il nazionalista imbelle Mossadeq accampò diritti sul sottosuolo iraniano contro le compagnie inglesi, come comunisti non riconoscemmo nessun valore alle sue argomentazioni. Da borghese incongruente mescolava patria, democrazia, libertà di traffici, proprietà del sottosuolo. Non poteva buttar fuori gli inglesi dalla porta per il semplice motivo che sarebbero rientrati dalla finestra: erano loro che compravano il petrolio, e l'Iran non poteva berselo. Reza Pahlavi non raggiunse risultati migliori con gli americani, ma nel frattempo nasceva un'industria locale, una rete di traffici capitalistici che faceva sparire l'antico pastore. E nei paesi limitrofi, specialmente in Iraq e in Egitto, stava succedendo la stessa cosa. L'industria nuova faceva nascere il proletariato locale e non è un caso che le guerre del Medio Oriente moderno siano state tutte anticipate da grandi agitazioni proletarie.
Allora, la guerra non è tanto una questione di ladri di petrolio arabi o americani, di satrapi orientali, di fanatismi religiosi, di imperialismi cattivi, di impulsi aggressivi, di diritti calpestati, di nazionalità oppresse e così via coi luoghi comuni. E' una questione di sviluppo capitalistico locale che innesca sia la concorrenza fra stati che l'intervento armato dell'imperialismo per evitare il sopravvento di uno degli stati stessi, qualunque esso sia, e fare in modo che esso non diventi una potenza regionale insediata sui campi petroliferi. Ma soprattutto è una questione di lotta di classe.
Agli Stati Uniti non sarebbe importato niente se il Kuwait, che oltretutto non è neppure una nazione, fosse stato invaso da quell'altrettanto non-nazione inoffensiva, reazionaria e ben controllata che è l'Arabia Saudita. Ma essi non potevano permettere che i campi petroliferi fossero invasi invece da un paese come l'Iraq, che ha una borghesia vera, intraprendente e feroce né più né meno di quelle che l'hanno preceduta nella storia, in grado di utilizzare il petrolio per l'ulteriore sviluppo e l'ulteriore potenza della nazione. Un miliardo di islamici, coinvolti nel rivoluzionario sviluppo capitalistico, entrarono in sintonia con l'abile parola d'ordine della borghesia irachena: petrolio per il popolo islamico! Le borghesie vicine tremarono nel vedere le piazze dei loro paesi riempirsi di manifestanti. Avevano mille ragioni per spaventarsi, e inviarono le loro truppe.
Gli americani non sono certo stupidi: sanno bene che con la metà delle riserve mondiali di petrolio sotto i piedi, con una unità di razza, lingua, cultura, religione e storia, gli arabi del Medio Oriente sono una bomba che bisogna tener d'occhio giorno dopo giorno senza mai far avvicinare spolette di nessun genere all'esplosivo. E' invece stupida l'accusa di aggressione, perché ogni parte capitalistica in lotta per il suo spazio vitale non può fare diversamente. Il guaio dell'Iraq e degli altri paesi è che lo spazio vitale americano fa il giro del globo. Ma l'attivismo degli Stati Uniti non servirà a nulla: nel lungo periodo, per loro le guerre come quelle del Medio Oriente sono perse.
La strana Santa Alleanza del '91 funzionò perché nessuno poteva permettersi che, dopo il Kuwait, cadessero sotto controllo iracheno altri territori, com'era del resto possibile. Noi stessi auspicammo l'evolversi di una situazione che potesse permettere il crollo del sistema di sicurezza impiantato dall'imperialismo in quella zona. In quanto marxisti, non siamo sospettabili di simpatia per la borghesia, tantomeno quella irachena, ma sarebbe stato un bel colpo contro la reazione mondiale se i luoghi santi dell'Islam fossero caduti nelle mani di un esercito borghese moderno come ai tempi dell'Egitto di Mehemet Alì. E comunque, piuttosto del finale ibrido che fu inflitto a tutta l'area, sarebbe stato preferibile che gli Stati Uniti avessero invaso tutto il territorio, portando sconquasso nelle millenarie immobilità saudite con l'esuberante forza che avevano catapultato in loco e con la micidiale mercificazione con cui si abbattono tutte le barriere reazionarie antiche.
Per questo disprezzammo sia il pacifismo che l'anti-imperialismo di maniera, resuscitato dai tempi dell'antiamericanismo contro la guerra del Vietnam e ormai fuori fase, così come disprezzammo sempre tutte le manifestazioni contro le guerre che non partissero dal presupposto di rovesciare la borghesia in casa propria. E oggi additiamo al disprezzo soprattutto i pacifisti che, come loro storica abitudine, trovano la giustificazione a tutte le guerre della propria borghesia non appena questa fornisca una "spiegazione" qualsiasi.
Prima c'era il Kuwait, poi il pretesto dell'armamento nucleare, adesso quello dell'armamento chimico e biologico. E chi mai oggi ne fa a meno. Queste sono fesserie per i gonzi da televisione. Mentre si sta bombardando il territorio iracheno, con una tecnica che dimostra come si stia procedendo alla demolizione sistematica dell'infrastruttura industriale e delle comunicazioni per bloccare il processo di accumulazione che l'embargo non era riuscito a bloccare, il contesto già dimostra che le cose sono cambiate in questi anni, che le conseguenze delle precedenti guerre sono gravide di sviluppi incontrollabili. No, non è una guerra fra la superpotenza americana e il presunto piccolo dittatore pazzo da sceneggiato televisivo che hanno creato in studio. Non è Saddam l'aggressore. E nemmeno lo Zio Sam. Nuovi paesi avanzano verso i risultati dell'accumulazione capitalistica e il proletariato si ingrandisce. Il capitalismo americano, paradossalmente, ha ragione nel sentirsi aggredito. Lo sviluppo degli altri capitalismi muove forze borghesi nuove contro forze altrettanto borghesi ma vecchie, e ciò è buono per i rivoluzionari comunisti, perché la forza della rivoluzione proletaria si innesca sia sul terreno del capitalismo fresco, aggressivo, che su quello del capitalismo vecchio, che si difende con violenza inaudita.
Perché ormai è chiaro, dalla ritirata di Saigon del 1975, le guerre americane non sono per nulla aggressive, sono guerre di angosciosa difesa. In quanto tali sono terribili e porranno sempre più l'alternativa: guerra generale o rivoluzione.