Guerra in Iraq: nullismi pacifisti e rigurgiti "resistenziali"
Gli Stati Uniti rappresentano l'unica possibilità concreta di salvezza del modo di produzione capitalistico in crisi. Sono la spina dorsale di un sistema che, senza la loro azione, precipiterebbe nella catastrofe finale. In quanto potenza attiva a favore delle nuove esigenze globali del Capitale, sono soprattutto nemici del vecchio imperialismo ormai passivo d'Europa. Per questo la guerra all'Iraq non è che un episodio della guerra al mondo.
Di fronte a questa realtà, il pacifismo – che può essere solo di segno borghese – ha ancora una volta dato prova di sé invocando l'intervento dell'ONU o di Stati concorrenti degli USA, appellandosi a costituzioni fatte solo per essere aggirate, coltivando in ultimo la speranza che almeno questa guerra "finisca in fretta". Ma quale guerra deve "finire" se si è chiamata "pace" una guerra continua con centinaia di milioni di morti lungo mezzo secolo? Ci sono stati assai meno morti nell'intera campagna irachena che durante un normale giorno di "pace" nel mondo. Persino la Chiesa ha ricordato di non essere pacifista, considerando "giuste" le guerre contro l'aggressore, seppellendo così il nullismo esistenziale sia dei pacifisti cristiani che dei loro emuli "di sinistra".
Intanto gli USA hanno aperto l'ennesima campagna di reclutamento, rivolta sia verso gli Stati che verso frange sociali all'interno di essi, utili in caso di eventuali balcanizzazioni. Il partigianismo dei "signori della guerra" afghani contro i russi e contro i taliban è un esempio. E così quello attuale dei curdi, che forniscono carne da cannone illudendosi di ricavare qualche briciola dalla pax americana.
Questa guerra evidenzia ancora una volta la validità del programma marxista, che vede nell'imperialismo non la volontà prevaricatrice di particolari nazioni ma la reale natura del capitalismo maturo che tutto coinvolge. Nei moti anti-imperialisti vede perciò un corso storico complesso e non una formuletta da mandare a memoria. Finito il ciclo coloniale, ogni irredentismo o questione nazionale rientra nei calcoli dei paesi più importanti e si può risolvere solo con la rivoluzione proletaria. Il partigianismo attuale promosso sia dagli Stati Uniti che dai loro avversari, è della stessa natura di quello che si è potuto vedere ovunque e ormai da decenni.
Eppure c'è chi auspica la "resistenza" del "popolo iracheno" contro lo strapotente invasore, come se a Baghdad ci fosse la proletaria Comune di Parigi da difendere. Altri fanno il paragone con Stalingrado, dove il macello avvenne nell'ambito di una guerra imperialista che vide la Russia porre a disposizione della vittoria americana venti milioni di morti in cambio della spartizione di Yalta.
È molto più coerente il pragmatico movimento americano contro la guerra, che ha già dato storicamente prova di disfattismo durante quella del Vietnam, quando decine di migliaia di renitenti alla leva e 10.000 disertori contribuirono alla fine dei combattimenti. E questa volta, a differenza di allora, le grandi manifestazioni sono state organizzate prima che scoppiasse la guerra, dimostrando la positiva accelerazione di tutti i processi storici.
A Baghdad le truppe americane sono arrivate al centro della città facendo terra bruciata, con atti di terrore anche contro i giornalisti filo-occidentali. Si prepara un bagno di sangue tale da turbare addirittura i coriacei ex colonialisti inglesi. Di fronte a questa prospettiva noi non auspichiamo affatto una "resistenza" suicida, ma un disfattismo attivo dei proletari-soldati iracheni, che non hanno certo la forza, da soli, di muovere guerra sia alla propria borghesia che agli Stati Uniti ma che possono ribellarsi, anche rispondendo con le armi agli ufficiali borghesi. Altro che le idiozie sulla Stalingrado mesopotamica.
Finora i soldati iracheni hanno combattuto coraggiosamente contro forze incommensurabili. Uomini dotati di armamento primitivo hanno messo in difficoltà il più spaventoso apparato tecnologico-militare che sia mai esistito. Hanno dimostrato che l'onnipotenza non esiste. A loro il nemico dovrebbe certamente l'onore delle armi se non fosse che gli Stati Uniti nelle proprie guerre non contemplano la resa condizionata. Le hanno sempre condotte con la prospettiva di annientare semplicemente il nemico. Non è questo l'esito che attendiamo per i proletari nell'esercito iracheno. Essi sono i più numerosi e meglio organizzati dell'area, è bene quindi che risparmino le proprie forze per future battaglie classiste.
Ma da soli non potranno fare molto a guerra finita. È qui, nelle metropoli occidentali, dove si decide da sempre il futuro della guerra di classe, che dovrà profilarsi la saldatura tra i proletari e le popolazioni affamate dall'imperialismo. Purtroppo c'è il pericolo che si ripeta una tragedia storica. Se a causa di una delle guerre secondarie dell'imperialismo vediamo già l'infiltrarsi dell'ideologia partigianesca nelle file del proletariato, figuriamoci cosa non potrà succedere quando la "guerra infinita" degli USA giungerà a investire i suoi obiettivi primari, i veri concorrenti, cioè l'Europa, il Giappone, la Cina.
n + 1 Rivista sul movimento reale che abolisce lo stato di cose presente (www.ica-net.it/quinterna)
Fotocopiato in proprio, 11 aprile 2003. Supplemento al n. 10 della rivista n+1, Registrazione al Tribunale di Torino n. 5401 del 14 giugno 2000.