Lavoratori dei trasporti solidali con quelli di Melfi
Noi siamo nei trasporti, loro sono metalmeccanici, ma la loro vittoria in così difficili condizioni, pur se parziale, è di tutti i lavoratori, occupati e disoccupati. Non si tratta di enfatizzare quanto è accaduto, ma di rilevare che quei lavoratori hanno fatto semplicemente ciò che si doveva fare. E oggi è già tanto, così come è tanto quel che abbiamo fatto come autoferrotranviari (soprattutto nelle regioni del Nord) dal 1 Dicembre 2003 al 30 Gennaio 2004 di fronte al “furto” sull'adeguamento salariale già stabilito nell'ultimo contratto rinnovato.
Oggi uno sciopero fatto come si deve sembra addirittura mitico, ma non è sempre stato così. Questo Primo Maggio ad esempio ricorda l’assassinio di lavoratori che avevano organizzato uno sciopero, in tempi ben lontani da questi, dove ormai la giornata mondiale di lotta è diventata occasione di concerti o di scampagnate a fave, pecorino e frascati. E la cosiddetta festa della donna, appena passata, che ricorda un eccidio in fabbrica fra le tessitrici.
Lo sciopero non è un rito formale, un sostegno a dibattiti intorno a “diritti” fra padroni e sindacati, ma un’esigenza vitale. L'operaio lavora per portare a casa a fine mese il salario per poter vivere con la propria famiglia. Sono le condizioni materiali che portano i lavoratori a contrapporsi alle aziende, al sistema capitalistico in generale. Rispetto alla situazione cui siamo arrivati il lavoratore non può che reagire. Altrimenti viene relegato a elemento superfluo della società. Se si accettasse la resa incondizionata non servirà a niente fare il piagnisteo o le suppliche con frasi del tipo: "ce stanno a `mmazza'!", "datece li sordi!", "uccideno li diritti!", "è morta la democrazia!" e via dicendo.
In una fase in cui il capitalismo non riesce più a viaggiare con il vento in poppa, la guerra preventiva e permanente è la realtà. E’ questo scenario che spiega lotte dure come quella dei metalmeccanici di Melfi o di alcune regioni del Nord contro l'accordo separato del loro contratto o come quella dei tranvieri. Sono lotte che, per il loro carattere combattivo e ad oltranza, ci riportano agli anni migliori dello scontro di classe. A Melfi gli scioperi non riuscivano, e anche quando li si faceva l’adesione era scarsa. Lo scorso anno durante la vertenza Fiat, pochi avevano appoggiato la lotta degli altri stabilimenti, tant'è vero che erano venuti gli operai di Termini Imerese a fare i picchetti per 2 giorni e 2 notti. Quindi la lotta di Melfi è il risultato della pressione che aumenta. Può sembrare inaspettata, ma non lo è, perché la situazione è diventata insostenibile per tutti. Non per niente la Fiat di Melfi era il modello produttivo del capitalismo italiano, con salari molto bassi e in una zona del meridione dove funzionava alla grande un sistema di ricatti e clientelismo.
21 giorni di lotta a Melfi, 11 di blocco totale e 10 di sciopero, hanno messo in crisi questo modello. Per la prima volta dopo 25 anni si giunge in Fiat ad un accordo più favorevole agli operai che all'azienda. Questa, con tutto il sistema statale sindacale, ha tentato di tutto per depotenziare la lotta e farla terminare. Ha fomentato la divisione con incontri separati con la FIM-CISL, UILMUIL, il FISMIC e il SIDA, un sindacato creato dalla Fiat a Torino negli anni; ha favorito una manifestazione di lavoratori crumiri stile quella famosa “dei 40.000” a Torino (Settembre 1980); ha utiliizzato lo schieramento dei partiti parlamentari (s’è defilata solo Rifondazione Comunista) e l’apparato mediatico contro i lavoratori; ha sollecitato l’intervento dello Stato per sciogliere i presidi con la forza (10 operai feriti) senza peraltro riuscirvi.
Dopo 11 giorni i lavoratori hanno deciso in assemblea all'unanimità di sospendere i blocchi ma continuare lo sciopero. Quello che era sembrato un cedimento è invece servito a consolidare la lotta, perché la riuscita dello sciopero fuori dalla fabbrica ha messo la Fiat in condizione di non poter resistere. La direzione infatti credeva che finiti i presidi la produzione avrebbe ripreso come ai vecchi tempi, invece la partecipazione è stata ltissima e la produzione è stata completamente bloccata. Anche se l'accordo ha qualche difetto tipicamente “sindacale“ (ad es. la diluizione in 2 anni dei 105 euro di aumento e la revisione dei procedimenti disciplinari solo dell'ultimo anno), l'importanza di questa lotta sta nel fatto che i lavoratori di Melfi hanno resistito più di quanto potesse fare il padrone, con tutto il suo apparato sindacale, statale e - diciamo così - di connivenza locale. Lotta dura, come è stata dura la nostra nei mesi scorsi.
Marzo 2004
(Testo pubblicato in un primo tempo su un giornaletto interno dei lavoratori dei trasporti di Roma e fatto circolare da nostri compagni in forma modificata)