Dallo scontro fra borghesie vendute non verrà pace in Palestina
10 novembre 2000
Con la Guerra del Golfo l'assetto geopolitico del Medio Oriente è cambiato. Lo sbarco di truppe americane e il loro stabilirsi in Arabia Saudita ha coronato una lunga marcia di mezzo secolo. Gli Stati Uniti appoggiarono la costituzione di Israele nel '48 contro la politica dell'Inghilterra, che nel '39 aveva proposto la costituzione di uno Stato arabo palestinese; nel '56 e nel '58 sbarcarono in Egitto e in Libano eliminando definitivamente dalla scena i vecchi imperialismi inglese e francese; sfruttarono a loro vantaggio le guerre tra Israele ed Egitto, legando quest'ultimo alla propria politica medio-orientale, più dello stesso Israele, e negandone nei fatti l'indipendenza; infine, caduto lo scià Pahlevi, (l'unico alleato in zona che avesse una reale forza militare) assecondarono la guerra fra l'Iraq e l'Iran, entrambi in corsa per subentrare alla funzione storica perduta dall'Egitto. Tutto ciò per impedire lo sviluppo di potenze locali indipendenti, in grado di polarizzare il mondo islamico. Oggi gli Stati Uniti, godendo in politica estera della forzata alleanza di tutti gli imperialismi minori, controllano direttamente la situazione con un proprio esercito e non hanno più bisogno di costosi alleati da foraggiare. Perciò il ruolo di Israele come alleato strategico si è molto ridimensionato fino quasi ad annullarsi, e gli israeliani lo sanno.
Di qui due contradittorie tendenze: da una parte, il famigerato "processo di pace", ben simboleggiato dalla foto del presidente americano che, con le braccia allargate, benedice le due piccole, insignificanti figure dei contendenti medio-orientali; dall'altra, una tensione interna portata all’estremo (spesso artificiosamente) per dimostrare la necessità della protezione americana. Ma non può esservi pace fra la borghesia israeliana e quella palestinese, costrette a contendersi il territorio sotto la protezione altrui. Né potrà esservi pace in tutto il Medio Oriente, finché l'imperialismo maggiore continuerà ad alimentare interessi borghesi nella forma di cruenti nazionalismi.
La dinamica di crescita economica, demografica e politica delle popolazioni può essere frenata e controllata per qualche tempo, ma non annullata. La balcanizzazione, per operante che sia, non può eliminare le spinte delle borghesie locali (in concorrenza l'una con l'altra e contro gli Stati Uniti) a una politica indipendente, come è già successo in Iran. Mentre gli altri paesi mediorientali, pur frenati nello sviluppo, crescono, Israele non supera i 5,8 milioni di abitanti e ha un prodotto lordo derivante per il 2% dall'agricoltura, per il 13% dall'industria e per l'85% dai "servizi": paragonabile a quello di una regione come la Campania. Al di là delle fantomatiche gesta militari, Israele non dispone di un’economia in grado di sostenere la complessa logistica di una guerra che duri più di qualche giorno e non ha estensione territoriale, popolazione e risorse sufficienti per rispondere autonomamente alle sollecitazioni che la storia sta mettendo sul tappeto. E' vero che il mondo islamico ha irresolubili problemi storici di unità, ma rappresenta pur sempre una massa di un miliardo di uomini, in massima parte già coinvolti nell'accumulazione capitalistica, che è aggressiva per sua natura. Non è vero che la tragedia palestinese ha le sue radici unicamente nel processo di fondazione dello Stato d'Israele: la nazione palestinese è stata soprattutto negata dai giochi fra gli imperialismi maggiori e dalle rivalità fra le borghesie arabe, che hanno massacrato - e sfruttato - più palestinesi di quanto abbia fatto quella israeliana.
All'interno di Israele si sta sviluppando un intellighenzia "post-sionista" che considera la sicurezza di Israele una questione globale, geopolitica, cerca di esercitare un peso sugli instabili governi ebraici e afferma: è bene che la Tomba di Giuseppe sia stata distrutta, il Muro del Pianto non è che un cumulo di pietre trimillenarie, tutti i luoghi santi non valgono le vite che costano. Prende piede la necessità di una soluzione interna, nella consapevolezza che quella esterna è funzionale a tutto meno che alle popolazioni interessate. Forse il ritiro improvviso e non spiegato delle truppe dal Libano ha già questa origine.
La borghesia palestinese è altrettanto disorientata: i suoi rappresentanti ufficiali cercano un’intesa con le potenze imperialiste, principali responsabili della situazione odierna (chiedono l'invio di duemila soldati dell'ONU) e la sua ala radicale, il "fronte del rifiuto", accetterebbe delle soluzioni di compromesso, sulla base delle risoluzioni dell'ONU. Una soluzione interna resa possibile dal contesto geopolitico è pura utopia, ma è interessante che fatti materiali facciano emergere tale necessità. Ogni prospettiva di pace capitalistica in realtà è semplicemente inesistente. Finché su quel terreno si giocheranno i rapporti fra gli Stati Uniti e il resto del mondo sviluppato, la Palestina sarà campo di battaglia, non può che essere così quando due incancrenite "questioni nazionali" cozzano, specie in un contesto rovente come quello medio-orientale.
Dal punto di vista comunista, non sono affatto in gioco due nazioni, dato che esse esistono solo per effetto di fattori esterni ad ognuna. In tutte le balcanizzazioni del mondo le divisioni e gli odi nazionali sono fomentati dall'imperialismo e generano situazioni reazionarie. Quello che è veramente in gioco in Palestina è la maturazione di un capitalismo locale e conseguentemente di una forza proletaria che superi le suicide "intifade" e scateni la lotta sul piano di classe e non su quello di assurde patrie. Questa è una soluzione cui erano giunte anche alcune componenti marxisteggianti del movimento palestinese, prima che l'alleanza con Mosca ne distruggesse la vitalità facendole diventare pedine nazionaliste fra le altre.
Oggi i palestinesi sono di fatto i proletari dell’intero Medio Oriente, lavorano nelle fabbriche e nei cantieri di ogni paese arabo, sono sradicati dalle tradizioni e dalla terra, non parlano neppure più la loro lingua (la sola Guerra del Golfo provocò cinque milioni di profughi, di cui un milione di palestinesi, altrettanti curdi e 800.000 yemeniti, tutti candidati alla internazionalizzazione). D'altra parte una massa enorme di ebrei immigrati, tra cui un milione di russi, ha occupazioni fittizie e potrebbe un giorno saldarsi al proletariato palestinese mandando all'aria ebraismo e arabismo. In definitiva, ogni soluzione nazionale significherebbe un peggioramento delle condizioni dei proletari palestinesi e israeliani che sarebbero costretti a vivere, con le armi a portata di mano, in isole territoriali senza sbocco, non dissimili, per i palestinesi, dai famigerati "campi profughi", aperti solo ad ogni facile massacro. Una mostruosità, una sub balcanizzazione in un'area già di per sé abbondantemente balcanizzata, che solo borghesie vendute potevano accettare. Non ci può essere guerra rivoluzionaria nazionale senza borghesia rivoluzionaria. Per i palestinesi la prospettiva delle "intifade" è il massacro e la prigionia in uno Stato-ghetto, mentre la prospettiva proletaria libera dallo stadio del nazionalismo e proietta verso quello superiore dell'internazionalismo.