La Sinistra al VI Esecutivo Allargato dell'Internazionale comunista (17 febbraio – 15 marzo 1926)
V seduta, 23 febbraio 1926
Rapporto in sede di discussione sul rapporto dell'Esecutivo
Bordiga: - Compagni, abbiamo davanti a noi un progetto di Tesi ed un rapporto dell'Esecutivo, ma io credo che sia assolutamente impossibile limitare ad essi la nostra discussione.
In anni precedenti, nelle diverse sessioni dell'I.C., ho avuto occasione di appoggiare tesi e dichiarazioni che erano, all'epoca, ottime, soddisfacenti; ma non sempre, nello sviluppo dell'attività dell'Internazionale, i fatti hanno corrisposto alle speranze che queste dichiarazioni avevano suscitate in noi. Perciò è necessario discutere e sottoporre a esame critico lo sviluppo dell'Internazionale dal punto di vista degli avvenimenti che si sono verificati dopo l'ultimo congresso, delle prospettive dell'I.C. e dei compiti che essa deve porsi.
Devo dichiarare che la situazione in cui l'Internazionale si trova non può essere ritenuta soddisfacente. In un certo senso ci troviamo di fronte ad una crisi. Questa crisi non ha avuto inizio oggi, ma esiste da molto tempo. Questa affermazione non viene soltanto da noi e da alcuni gruppi di compagni di estrema sinistra. I fatti provano che l'esistenza di questa crisi è riconosciuta da tutti. Molto spesso – specialmente nei momenti critici della nostra attività generale – vengono lanciate parole d'ordine nelle quali è in fondo contenuta l'ammissione che un mutamento radicale dei nostri metodi di lavoro è necessario. È vero che, in questo momento, si dichiara che non si tratta di procedere ad una revisione, che nulla ha bisogno di essere cambiato. Ma v'è in ciò una evidente contraddizione. E, per mostrare che l'esistenza di deviazioni e di una crisi nell'Internazionale è qui riconosciuta da tutti e non solo dagli scontenti ultra sinistri, vogliamo ripercorrere a volo d'uccello la storia della nostra Internazionale e delle sue diverse tappe.
La fondazione dell'I.C. dopo la sfacelo della II Internazionale avvenne in base alla parola d'ordine che il proletariato doveva crearsi dei partiti comunisti. Tutti allora erano d'accordo che i rapporti di forza oggettivi favorivano la lotta rivoluzionaria finale, ma che ci mancava l'organo per questa lotta. Si diceva: le premesse rivoluzionarie obiettive esistono e, se avessimo dei partiti comunisti veramente capaci di sviluppare un'attività rivoluzionaria, tutte le condizioni necessarie per una vittoria completa sarebbero presenti.
Al III Congresso l'Internazionale – in base alla esperienza di numerosi avvenimenti ma soprattutto in base all'esperienza dell'azione di marzo 1921 in Germania – fu costretta a constatare che la formazione di partiti comunisti da sola non è sufficiente. In quasi tutti i paesi importanti erano sorte sezioni abbastanza forti dell'I.C.; ma il problema dell'azione rivoluzionaria non era tuttavia stato risolto. Il partito tedesco aveva creduto possibile scendere in lotta e aprire un'offensiva contro il nemico, ma aveva subito una sconfitta. Il III Congresso, posto di fronte a questo problema, dovette constatare che la presenza di partiti comunisti non basta quando mancano le condizioni obiettive per la lotta. Non si era tenuto conto che, quando si passa ad una tale offensiva, bisogna essersi prima assicurati grandi masse. Neppure il più forte partito comunista è in grado, in una situazione in generale rivoluzionaria, di creare per un puro atto di volontà le condizioni e i fattori necessari per una insurrezione, se non ha saputo raccogliere delle grandi masse intorno a sé.
Fu questa, dunque, una tappa in cui l'Internazionale riconobbe che molto doveva essere cambiato. Si sostiene sempre che nei discorsi del III Congresso era già contenuta l'idea della tattica del fronte unico alla quale fu data poi formulazione nelle sedute del successivo Esecutivo Allargato in base alla situazione politica illustrata da Lenin al III Congresso. La cosa non è del tutto esatta, perché nel frattempo la situazione era cambiata. Nel periodo in cui esisteva una situazione obiettiva favorevole, noi non abbiamo saputo utilizzare al modo giusto il buon metodo dell'offensiva contro il capitalismo. Dopo il III Congresso non si trattava più di lanciare semplicemente una seconda offensiva dopo di avere preventivamente conquistato le masse. La borghesia ci aveva preceduti; era stata essa ad aprire nei paesi più importanti l'offensiva contro le organizzazioni operaie e i partiti comunisti; e questa tattica della conquista delle masse per l'offensiva, di cui si era parlato al III Congresso, si trasformò in una tattica difensiva contro l'azione scatenata dalla borghesia capitalistica. Questa tattica viene elaborata, insieme al programma da attuare, studiando il carattere dell'offensiva nemica e realizzando quel concentramento del proletariato che solo può permetterci la conquista delle masse attraverso i nostri partiti e il passaggio, in un avvenire non lontano, alla controffensiva. In questo senso fu allora concepita la tattica del fronte unico.
Non occorre dire che io non ho nulla da obiettare contro le tesi del III Congresso sulla necessità della solidarietà delle masse: se cito questa questione, è solo per mostrare che l'Internazionale fu ancora una volta costretta a riconoscere di non essere ancora abbastanza matura per dirigere la lotta del proletariato mondiale.
L'applicazione della tattica del fronte unico portò ad errori di destra, e questi errori divennero sempre più chiari dopo il III Congresso e soprattutto dopo il IV. Questa tattica, che può essere applicata solo in un periodo di difensiva, cioè in un'epoca in cui la crisi di decomposizione del capitalismo non è più così acuta, questa tattica da noi impiegata degenerò gravemente. A nostro avviso, essa è stata accettata senza volerne chiarire esattamente il significato. Non si è saputo assicurare il mantenimento del carattere specifico del partito comunista. Non intendo ripetere qui la critica che noi abbiamo svolto della tattica del fronte unico come era applicata dalla maggioranza dell'Internazionale comunista. Noi non avevamo nulla da eccepire finché si trattava di mettere alla base della nostra azione le rivendicazioni economiche immediate del proletariato, perfino quelle più elementari, che l'offensiva del nemico sollevava. Ma quando, sotto il pretesto che si trattava soltanto di un ponte per il proseguimento del nostro cammino verso la dittatura proletaria, si misero a base del fronte unico nuovi principi, che riguardavano direttamente il potere centrale dello Stato e il Governo operaio, noi ci siamo opposti e abbiamo detto: qui noi varchiamo i confini della buona tattica rivoluzionaria.
Noi comunisti sappiamo molto bene che lo sviluppo storico della classe operaia deve portare alla dittatura del proletariato; ma si tratta di un'azione che deve influenzare le grandi masse, e per raggiungere queste non basta una pura e semplice propaganda ideologica. Nei limiti in cui possiamo contribuire alla formazione della coscienza rivoluzionaria delle masse, noi vi riusciremo mediante la forza della nostra concezione e del nostro comportamento in ogni fase dello sviluppo degli eventi. Ne segue che questo comportamento non può essere in contraddizione con la nostra posizione di fronte alla lotta finale, cioè allo scopo per il quale il nostro partito è specificamente creato. Un'agitazione sulla base di una parola d'ordine come quella del governo operaio, non può non produrre confusione nella coscienza delle masse; e perfino del partito e del suo stato maggiore.
Noi abbiamo criticato a priori tutto ciò, e qui mi limito soltanto a ricordare nelle sue linee generali il giudizio che allora formulammo. Quando poi ci trovammo di fronte agli errori ai quali questa tattica aveva portato, quando soprattutto intervenne la sconfitta dell'ottobre 1923 in Germania, l'Internazionale riconobbe di essersi sbagliata. Non si trattava di un piccolo accidente; si trattava di un errore che noi dovemmo pagare con la speranza di conquistare, dopo il primo paese acquisito alla rivoluzione proletaria, un altro grande paese, cosa che, dal punto di vista della rivoluzione mondiale, avrebbe avuto un'importanza enorme.
Purtroppo, ci si limitò a dire: non si tratta di rivedere in modo radicale i deliberati del IV Congresso, è solo necessario allontanare certi compagni che si sono sbagliati nell'applicazione della tattica del fronte unico; è necessario trovare i responsabili. Li si trovò nell'ala destra del partito tedesco, non si volle ammettere che la responsabilità ricadeva su tutta l'Internazionale. Comunque, si sottoposero le tesi ad una revisione e si diede una formulazione affatto diversa del governo operaio.
Perché noi non siamo d'accordo con le tesi del V Congresso? Perché, a nostro parere, la revisione non basta; si sarebbero dovute chiarire meglio le singole formule: ma, se noi fummo contro le decisioni del V Congresso è soprattutto perché esse non eliminavano i gravi errori e perché, a nostro avviso, non è bene limitare la questione ad un processo contro persone singole mentre quello che è necessario è un cambiamento nella stessa Internazionale. Non si volle prendere questa via sana e coraggiosa. Noi abbiamo ripetutamente criticato il fatto che in noi, nell'ambiente in cui lavoriamo, si alimenti uno spirito parlamentare e diplomatico. Le Tesi sono molto a sinistra, i discorsi sono molto a sinistra, perfino coloro contro i quali essi sono diretti li votano, perché credono, in tal modo, di immunizzarsi. Ma noi non ci siamo tenuti unicamente alla lettera; noi abbiamo previsto ciò che sarebbe avvenuto dopo il V Congresso, non potevamo quindi esserne soddisfatti.
Vorrei qui constatare che si è stati più volte costretti a riconoscere che la linea doveva essere radicalmente cambiata. La prima volta, non si era capita la questione della conquista delle masse. La seconda volta, si trattava della questione della tattica del fronte unico, ed al III Congresso fu fatta una revisione completa della linea seguita fino ad allora. Ma non è tutto, al V Congresso ed all'E.A. del marzo 1925 si constata nuovamente che tutto va male; si dice: dalla fondazione dell'Internazionale sono trascorsi sei anni, ma nessuno dei suoi partiti è riuscito a fare la rivoluzione. La situazione, è vero è divenuta più sfavorevole: ci troviamo ora di fronte ad una certa stabilizzazione del capitalismo. Ciò malgrado si dichiara che, nell'attività dell'Internazionale, molte cose devono essere cambiate. Non si è ancora capito che cosa di deve fare, e si lancia la parola d'ordine della bolscevizzazione. Incredibile ma vero: dalla vittoria dei bolscevichi russi sono passati 8 anni, ed ora si deve constatare che gli altri partiti non sono bolscevichi! Che è necessario un cambiamento radicale per portarli all'altezza dei partiti bolscevichi! Nessuno, dunque, se ne era accorto prima?
Ci si obietta: Perché non avete, immediatamente al V Congresso, protestato contro la parola d'ordine della bolscevizzazione? Perché, quando di diceva che gli altri partiti devono acquisire la capacità rivoluzionaria che ha permesso la vittoria al partito bolscevico, nessuno poteva avere nulla da eccepire. Ma ora non si tratta più di una semplice parola d'ordine, di un semplice slogan. Ora ci troviamo di fronte a fatti ed esperienze. Ora è necessario fare il bilancio della bolscevizzazione e vedere in che cosa essa è consistita.
Io sostengo che questo bilancio è negativo sotto diversi punti di vista. Non si è risolto il problema che si trattava di risolvere, nessun progresso è stato fatto con l'applicazione dei metodi di bolscevizzazione a tutti i partiti.
Devo affrontare il problema da diversi punti di vista e, prima di tutto, dal punto di vista storico.
C'è un solo partito che abbia ottenuto la vittoria rivoluzionaria: il partito bolscevico russo. È per noi d'importanza capitale seguire la stessa via che il partito russo ha scelto per giungere alla vittoria. È verissimo: ma non basta. È innegabile che la via storica scelta dal partito russo non può mostrare tutti gli aspetti dello sviluppo storico che sta dinanzi agli altri partiti. Il partito russo lottava in un paese in cui la rivoluzione liberale borghese non era ancora compiuta; il partito russo – è un fatto – combatteva in condizioni particolari, cioè in un paese in cui l'autocrazia feudale non era ancora stata abbattuta dalla borghesia capitalistica. Fra l'abbattimento dell'autocrazia feudale e la conquista del potere da parte del proletariato vi fu un periodo troppo breve perché questo sviluppo potesse essere paragonato a quello che la rivoluzione proletaria dovrà percorrere nei rimanenti paesi. Non ci fu il tempo sufficiente per fare sorgere sulle rovine dell'apparato statale zarista e feudale un apparato statale borghese. Lo sviluppo in Russia non ci dà quindi l'esperienza di importanza fondamentale sul modo in cui il proletariato dovrà abbattere il moderno Stato capitalista, liberale, parlamentare, che esiste da molti e molti anni e possiede la capacità di difendersi.
Date queste differenze, il fatto che la rivoluzione russa abbia confermato la nostra dottrina, il nostro programma, la nostra concezione del ruolo della classe lavoratrice nello sviluppo storico, è dal punto di vista teorico tanto più importante, in quanto la rivoluzione russa, pur in queste condizioni particolari, ha portato alla conquista del potere e alla dittatura del proletariato realizzata dal partito comunista. In ciò la teoria del marxismo rivoluzionario ha trovato la sua più grandiosa conferma storica.
Dal punto di vista ideologico, ciò è di un'importanza decisiva; ma, per quanto riguarda la tattica non è sufficiente. Noi dobbiamo sapere come si attacca e si conquista il moderno Stato borghese, uno Stato che nella lotta armata si difende ancor più efficacemente di quanto non abbia saputo difendersi l'autocrazia zarista e che, per giunta, si difende anche con l'aiuto della mobilitazione ideologica e l'educazione in senso disfattista del proletariato ad opera della borghesia. Questo problema, nella storia del partito comunista russo, non si presenta, e se si interpreta la bolscevizzazione nel senso che si possa chiedere alla rivoluzione del partito russo la soluzione di tutti i problemi di strategia della lotta rivoluzionaria, un simile concetto della bolscevizzazione è insufficiente. L'Internazionale deve costruirsi una concezione più vasta, deve trovare per i problemi strategici delle soluzioni che stanno fuori dal raggio dell'esperienza russa. Questa deve essere utilizzata in pieno, nulla in essa va respinto, bisogna sempre tenerla davanti agli occhi; ma noi abbiamo anche bisogno di elementi integrativi, tratti dall'esperienza che la classe operaia fa nell'Occidente. È questo che si deve dire, dal punto di vista storico e tattico, sulla bolscevizzazione. L'esperienza della tattica in Russia non ci ha mostrato come dobbiamo procedere nella lotta contro la democrazia borghese: essa non ci dà nessuna idea delle difficoltà e dei compiti che lo sviluppo della lotta proletaria nei nostri paesi porterà in luce.
Un altro lato del problema della bolscevizzazione è la questione della riorganizzazione del partito. Nel 1925, improvvisamente, si dichiara: L'intera organizzazione delle sezioni dell'Internazionale è sbagliata. Non si è ancora applicato l'ABC dell'organizzazione. Ci si è posti già tutti i problemi, ma non si è ancora fatto l'essenziale, cioè non si è risolto il problema della nostra organizzazione interna. Si riconosce dunque che si è marciato in una direzione completamente sbagliata. Ora io so molto bene che non si vuole limitare la parola d'ordine della bolscevizzazione ad un problema di organizzazione. Ma questo problema ha un lato organizzativo, e qui si è sottolineato il fatto che questo è il più importante. I partiti non sono organizzati come era ed è organizzato il partito bolscevico russo, perché la loro organizzazione non si basa sul principio del posto di lavoro, perché essi conservano il tipo dell'organizzazione territoriale, che sarebbe assolutamente inconciliabile con i compiti di un partito rivoluzionario, che sarebbe un tipo caratteristico dei partiti parlamentari socialdemocratici. Se si ritiene necessario trasformare in questo senso l'organizzazione dei nostri partiti, e se questa trasformazione viene presentata non come misura pratica adatta per diversi paesi in date condizioni, ma come misura fondamentale per tutta l'Internazionale, come correzione di un errore di fondo, come premessa necessaria allo sviluppo dei nostri partiti in partiti veramente comunisti – allora noi non possiamo essere d'accordo. È ben strano, dopo tutto, che non se ne abbia avuto coscienza fino ad ora. Si sostiene che il passaggio alle cellule d'azienda era già contenuto nelle tesi del III Congresso. Ma allora è ben strano che si sia aspettato dal 1921 al 1925 per passare all'esecuzione.
La tesi che un partito comunista debba essere incondizionatamente costruito sulla base del posto di lavoro è teoricamente sbagliata. Secondo Marx e Lenin, in forza di un principio noto e formulato in modo ben preciso, la rivoluzione non è una questione di forma di organizzazione. Per risolvere il problema della rivoluzione non basta trovare una formula organizzativa. I problemi che ci stanno dinanzi sono problemi di forza, non di forma. I marxisti hanno sempre combattuto le scuole sindacaliste e semiutopistiche che dicevano: si raggruppi la classe in una certa organizzazione, sindacato, cooperativa ecc., e la rivoluzione sarà fatta. Oggi si dice, o almeno si conduce una campagna in questo senso: si deve erigere l'organizzazione sulla base delle cellule di azienda, e tutti i problemi della rivoluzione saranno risolti. Si aggiunge: il partito russo ha potuto fare la rivoluzione, perché era costruito su questa base.
Si dirà certo che io esagero; ma diversi compagni potranno confermare che la campagna è stata condotta in base a tesi simili. Quello che ci interessa è l'impressione che queste parole d'ordine lasciano nella classe operaia e negli iscritti al nostro partito. Per quanto riguarda il lavoro di cellula, si è suscitata l'impressione che questa sia la ricetta infallibile del vero comunismo e della rivoluzione. Ora io contesto che il partito comunista debba necessariamente essere costruito sulla base delle cellule di azienda. Nelle stesse tesi sulla organizzazione presentate da Lenin al III Congresso, è ripetutamente sottolineato il fatto che, nelle questioni di organizzazione, non può esistere una soluzione di principio valida per tutti i paesi e per tutti i tempi. Noi non contestiamo che le cellule d'azienda come base dell'organizzazione di partito abbiano dato buoni risultati nella situazione della Russia. Non voglio soffermarmi troppo a lungo su questa questione; nell'esauriente discussione prima del Congresso italiano, abbiamo già detto che in Russia, esistevano diverse cause storiche che militavano a favore dell'organizzazione su questa base.
Perché siamo del parere che la cellula di azienda in altri paesi comporti degli svantaggi in confronto alla situazione in Russia? Prima di tutto, perché gli operai organizzati nella cellula non sono mai in condizione di discutere tutte le questioni politiche. Nello stesso rapporto dell'Esecutivo dell'I.C. a questo Plenum si constata che in quasi nessun paese le cellule di azienda sono riuscite ad occuparsi di problemi politici. Si dice che si è esagerato, che si è proceduto frettolosamente nella riorganizzazione dei partiti; ma che si tratta solo di un errore pratico, secondario. Non si potrà tuttavia contestare che non è soltanto una piccolezza il fatto che il partito sia stato privato della sua organizzazione fondamentale, una organizzazione capace di discutere i problemi politici, e che la nuova organizzazione, dopo un anno di esistenza, non assolva ancora a questa sua funzione vitale. Se si arriva ad un risultato simile, non ci si trova di fronte a singoli errori, ma ad una impostazione sbagliata dell'intero problema. E questa non è una cosa da prendersi alla leggera. La questione è molto importante. Secondo noi, non è un caso che le cellule d'azienda non discutano i problemi politici, perché in un paese capitalista gli operai raggruppati nella piccola e ristretta cerchia della loro azienda non hanno la possibilità di porsi di fronte a problemi generali e di collegare le rivendicazioni immediate col fine ultimo del comunismo. In una assemblea di operai interessati agli stessi piccoli problemi immediati e non appartenenti a diverse categorie professionali, si possono bensì discutere i problemi di queste rivendicazioni immediate, ma in questa assemblea non si può trovare alcuna base per una discussione sui problemi generali, sui problemi che riguardano l'intera classe lavoratrice, cioè non vi si può svolgere un lavoro politico di classe come si addice ad un partito comunista.
Ci si dirà: quello che voi chiedete, lo chiedono tutti gli elementi di destra; voi volete le organizzazioni territoriali nelle cui assemblee gli intellettuali dominano con i loro lunghi discorsi l'intera discussione. Ma questo pericolo della demagogia e dell'inganno da parte dei capi esisterà sempre, esiste da quando esiste un partito proletario; eppure né Marx néLenin, che si sono occupati a fondo di questo problema, hanno mai pensato di risolverlo mediante un boicottaggio degli intellettuali o dei non-proletari. Hanno anzi sottolineato ripetutamente il ruolo storicamente necessario dei disertori della classe dominante nella rivoluzione. È noto che, in generale, l'opportunismo e il tradimento penetrano nel partito e nelle masse attraverso certi capi; ma la lotta contro questo pericolo deve essere condotta in altro modo. Se anche la classe operaia potesse fare a meno di intellettuali ex borghesi, non potrebbe tuttavia fare a meno dei capi, agitatori, giornalisti, ecc., e non le resterebbe altro che andarli a cercare nelle file degli operai. Ma il pericolo della corruzione e della demagogia di questi operai divenuti capi non si distingue da quello della corruzione e della demagogia degli intellettuali. In certi casi, sono stati proprio degli ex operai che hanno recitato il ruolo più sporco nel movimento operaio, è un fatto universalmente noto. E infine, il ruolo degli intellettuali è forse eliminato dall'organizzazione per cellule d'azienda come è praticata oggi? È vero il contrario. Sono gli intellettuali che, insieme con ex operai, compongono l'apparato di partito. Il ruolo di questi elementi sociali non è cambiato; anzi, è divenuto ancora più pericoloso. Se ammettiamo che questi elementi possano essere corrotti dalla loro posizione di funzionari, questa difficoltà sussiste, perché abbiamo conferito loro una posizione di gran lunga più responsabile che in passato: infatti, nelle piccole riunioni di cellula di azienda, gli operai non hanno in pratica alcuna libertà di movimento, non hanno una base sufficiente per influire sul partito con il loro istinto di classe.
Il pericolo contro il quale noi mettiamo in guardia risiede dunque non nella diminuzione dell'influenza degli intellettuali, ma, al contrario nel fatto che gli operai non si interessano che dei bisogni immediati della loro azienda e non vedono i grandi problemi dello sviluppo rivoluzionario generale della loro classe. La nuova forma di organizzazione è quindi meno adatta per la lotta di classe proletaria nel significato più serio e più vasto del termine.
In Russia, i grandi problemi generali dello sviluppo rivoluzionario, il problema dello Stato, della conquista del potere, erano in ogni momento all'ordine del giorno, perché l'apparato statale feudale e zarista era irrimediabilmente condannato e perché ogni singolo gruppo di operai era posto in ogni momento, dalla sua posizione nella vita sociale e dalla pressione amministrativa, di fronte a questi problemi. Le deviazioni opportunistiche non costituivano in Russia un problema particolare, perché mancavano le basi per una corruzione del movimento proletario, ad opera dello Stato capitalista, abile come esso è nell'esercizio dell'arma delle concessioni democratiche e delle illusioni collaborazioniste.
V'è inoltre una differenza di natura pratica.
Naturalmente noi dobbiamo dare all'organizzazione del nostro partito la forma che meglio si presta a opporre resistenza alle rappresaglie. Dobbiamo proteggerci contro i tentativi della polizia di disgregare il nostro partito. In Russia, l'organizzazione per cellule di azienda era la forma più adatta a questo scopo, perché nelle strade, nelle città, nella vita pubblica, il movimento operaio era reso impossibile da misure poliziesche estremamente severe. Era quindi materialmente impossibile organizzarsi fuori dell'azienda. Solo nell'azienda gli operai potevano riunirsi per discutere, senza essere sorvegliati, i loro problemi. Inoltre, era solo nell'azienda che i problemi di classe erano posti sul terreno dell'antagonismo fra capitale e lavoro. Le piccole questioni economiche riguardanti l'azienda, per esempio il problema sollevato da Lenin delle multe, rappresentavano dal punto di vista storico, in confronto alle rivendicazioni liberali che i lavoratori e la borghesia agitavano insieme contro l'autocrazia, delle rivendicazioni progressiste; ma, in rapporto alla questione della presa del potere nella lotta contro la democrazia borghese come nuova forma di Stato, le rivendicazioni immediate proletarie sono problemi di importanza subordinata. Poiché questa questione della presa del potere poteva essere posta soltanto dopo la caduta dello zarismo, era necessario spostare il centro della lotta nell'azienda poiché l'azienda era l'unico terreno sul quale il partito proletario autonomo poteva manifestarsi.
Se in Russia la borghesia e i capitalisti erano gli alleati dello zar, erano però nello stesso tempo quelli che dovevano abbatterlo, quelli che rappresentavano la premessa della caduta del potere autocratico. Perciò non vi è stata in Russia una solidarietà così completa fra gli industriali e lo Stato, come nei moderni paesi capitalistici. In questi paesi esiste una solidarietà assoluta fra l'apparato statale e gli imprenditori; esso è il loro Stato, il loro apparato politico. Ed è l'apparato statale che si dimostra storicamente strumento del capitalismo e che crea gli organi adatti e li mette a disposizione dei datori di lavoro . Se un operaio tenta di organizzare nell'azienda altri operai, l'imprenditore ricorre alla polizia, allo spionaggio, ecc. Perciò negli Stati capitalistici moderni il lavoro di partito nelle fabbriche è molto più pericoloso. È facile alla borghesia scoprire il lavoro di partito nelle aziende. Ed è per questa ragione che noi proponiamo di spostare l'organizzazione fondamentale del partito non nelle aziende, ma fuori. Voglio qui citare solo un fatterello. In Italia, vengono oggi arruolati nuovi agenti di polizia. Le condizioni di ammissione sono molto severe. Ma a coloro che hanno una professione e possono lavorare in fabbrica è facilitato l'accesso. Ciò dimostra che la polizia cerca persone capaci di lavorare nelle diverse industrie per potersene servire allo scopo di scoprire il lavoro rivoluzionario nelle aziende.
Inoltre, abbiamo appreso che una associazione internazionale antibolscevica ha deciso di organizzarsi sulla base delle cellule per fare contrappeso al movimento comunista.
Un altro argomento. Qui è stato detto che si è manifestato un altro pericolo, il pericolo dell'aristocrazia operaia. È chiaro che questo pericolo è caratteristico di periodi in cui siamo minacciati dall'opportunismo e dal ruolo che esso mira ad esercitare nella corruzione del movimento operaio. Ma la via più semplice per l'infiltrazione dell'influenza della aristocrazia operaia nelle nostre file è senza dubbio quella dell'organizzazione basata sulle cellule di azienda, perché nell'azienda è inevitabile che predomini l'influsso dell'operaio che occupa un posto più alto nella gerarchia tecnica del lavoro.
Per tutte queste ragioni, e senza farne una questione di principio, noi chiediamo che l'organizzazione-base del partito, per ragioni politiche e tecniche, rimanga l'organizzazione territoriale.
Vogliamo forse, per questo, trascurare il lavoro di partito nelle aziende? Neghiamo noi forse che il lavoro comunista nelle aziende sia una base importante per il collegamento con le masse? assolutamente no. Il partito deve avere nella fabbrica una sua organizzazione, ma questa organizzazione non deve costituire la base del partito. Devono esserci nelle fabbriche delle organizzazioni di partito che soggiacciono alla direzione politica del partito. È impossibile ottenere un collegamento con la classe operaia, se non si ha un'organizzazione nell'azienda; ma questa organizzazione deve essere la frazione comunista. Per rafforzare la mia tesi, dirò quanto segue. In Italia, ai tempi in cui non esisteva ancora il fascismo, noi abbiamo creato una tale rete di frazioni, e abbiamo considerato questa attività come la più importante per noi. In pratica, sono le frazioni comuniste nelle aziende e nei sindacati, quelle che hanno sempre risposto al compito specifico di avvicinarci alle masse. Il legame con il partito fornisce a questi organi di lavoro gli elementi politici e di classe nel senso più vasto della parola, che ricevono il loro impulso non soltanto dalla cerchia angusta della professione e della fabbrica. Siamo quindi per una rete di organizzazioni comuniste nella fabbriche; ma, a nostro avviso, il lavoro politico deve essere svolto in organizzazioni territoriali.
Non posso qui trattenermi sulle deduzioni che, durante la discussione in Italia, si sono tratte dal nostro comportamento in questa questione. Al congresso e nelle nostre tesi, noi abbiamo svolto in modo esauriente la questione teorica della natura del partito. Si è sostenuto che il nostro punto di vista non è un punto di vista di classe; noi avremmo preteso che il partito lasciasse sviluppare ad elementi eterogenei, come per esempio gli intellettuali, una maggiore attività. Non è vero. Noi non combattiamo l'organizzazione basata esclusivamente sulle cellule di azienda perché in tal modo il partito risulterebbe composto esclusivamente di operai. Ciò che ci spaventa è il pericolo del laburismo e dell'operaismo, che è il peggiore pericolo antimarxista. Il partito è proletario perché si trova sul cammino storico della rivoluzione, della lotta per i fini ultimi ai quali soltanto la classe lavoratrice aspira. È questo che fa di un partito un partito proletario, non il criterio automatico della sua composizione sociale.
Il carattere del partito non è compromesso dalla partecipazione attiva di tutti coloro che partecipano al suo lavoro, che accettano la sua dottrina e vogliono lottare per i fini della classe.
Tutto ciò che si può dire su questo terreno a favore delle cellule di azienda è volgare demagogia, che poggia bensì sulla parola d'ordine della bolscevizzazione, ma ci porta direttamente a rinnegare la lotta del marxismo e del leninismo contro le banali concezioni meccaniche e disfattiste dell'opportunismo e del menscevismo.
[Contro il terrorismo ideologico all'interno del Partito]
E vengo a un altro aspetto della bolscevizzazione: quello del regime interno vigente nel partito e nell'Internazionale comunista.
Si è fatta qui una nuova scoperta: quello che manca a tutte le sezioni è la ferrea disciplina bolscevica, di cui ci dà esempio il partito russo. Si emana un divieto assoluto delle frazioni e si statuisce l'obbligo per tutti i militanti, qualunque sia la loro opinione, di partecipare al lavoro comune. Io sono dell'avviso che, anche in questo campo, la questione della bolscevizzazione sia stata posta in modo molto demagogico.
Quando si pone il problema nella forma: Si può concedere a x o y di costituire una frazione?, ogni comunista risponderà di no. Ma il problema non può essere posto in questa forma. Esistono già dei risultati che provano come i metodi ai quali si è ricorsi non giovano né al partito né all'Internazionale. Questa questione della disciplina interna e delle frazioni va posta, dal punto di vista marxista, in un modo molto diverso e molto più complesso. Ci si chiede: Che cosa volete? Forse che il partito assomigli a un parlamento in cui ciascuno ha il diritto democratico di lottare per il potere e di conquistare la maggioranza? Ma porre così la questione è sbagliato; posta così, non è possibile che una risposta: Naturalmente, noi siamo contro un sistema così ridicolo, è un fatto che noi dobbiamo avere un partito assolutamente omogeneo, senza divergenze di idee e senza raggruppamenti diversi nel suo seno. Ma questo non è un dogma, non è un principio a priori; è un fine per il quale si deve e si può combattere nel corso dello sviluppo che porta alla formazione di un vero partito comunista, alla condizione che tutte le questioni ideologiche, tattiche ed organizzative siano poste e risolte correttamente.
All'interno della classe operaia, le azioni e le iniziative nella lotta di classe sono determinate dai rapporti economici in cui i diversi raggruppamenti vivono. Al partito politico spetta il compito di affasciare e unificare tutto ciò che queste azioni hanno di comune dal punto di vista degli obiettivi rivoluzionari del proletariato in tutto il mondo. L'unità al suo interno, la cessazione delle divergenze, la scomparsa delle lotte di frazione, dimostreranno che esso è sulla via migliore per assolvere il suo compito nel modo giusto. Ma quando delle divergenze insorgono, ciò significa che la politica del partito è caduta in errori, che esso non possiede la capacità di combattere vittoriosamente quelle tendenze deviazionistiche del movimento operaio che, in dati svolti della situazione generale, sogliono prodursi. Quando si verificano casi di indisciplina, essi rappresentano un sintomo che il partito non ha ancora raggiunto tale capacità. La disciplina è quindi un punto di arrivo, non un punto di partenza, non una piattaforma che si possa ritenere incrollabile. Ciò si ricollega, del resto, al carattere volontario della adesione alla nostra organizzazione di partito. Non è dunque in una specie di codice penale del partito che si può cercare un rimedio ai casi frequenti di indisciplina.
Ora, negli ultimi tempi si è instaurato nei nostri partiti un regime di terrore, una specie di sport che consiste nell'intervenire, punire, reprimere, annientare, e questo con un gusto tutto particolare come se si trattasse dell'ideale di vita del partito. Gli eroi di queste brillanti operazioni sembrano addirittura credere che esse siano una prova di capacità ed energia rivoluzionaria. Io invece ritengo che i veri, i buoni rivoluzionari siano, in generale, quei compagni che di tali misure di eccezione formano oggetto e che sopportano pazientemente per non buttare all'aria di partito. Penso che questo dispendio di energie, questo sport, questa lotta all'interno del partito, non abbiano nulla a che vedere col lavoro rivoluzionario che dobbiamo compiere. Verrà giorno che si tratterà di colpire e annientare il capitalismo: è su questo terreno che il nostro partito darà la prova della sua energia rivoluzionaria. Non vogliamo nel partito nessuna anarchia, ma non vogliamo neppure un regime di rappresaglie permanenti, che non è se non la negazione della sua unità e compattezza.
Oggi il punto di vista ufficiale è il seguente: la Centrale attuale è eterna, essa può fare tutto ciò che vuole perché, quando prende provvedimenti contro chi le resiste, quando sventa intrighi e sbaraglia opposizioni, ha sempre ragione. Ma il merito non consiste nello schiacciare le rivolte; l'importante è che non si verifichino rivolte. L'unità del partito si riconosce dai risultati ottenuti, non da un regime di minacce e di terrore. Che nei nostri statuti siano necessarie delle sanzioni, è chiaro: ma esse vanno applicate solo in casi eccezionali e non devono assurgere a procedimenti normali e permanenti all'interno del partito. Quando vi sono elementi che lasciano palesemente il cammino comune, è chiaro che bisogna prendere delle misure contro di essi. Ma, quando in una società il ricorso al codice penale diventa la regola ciò significa che quella società non è delle più perfette. Le sanzioni devono colpire i casi di eccezione, non diventare la norma, un genere di sport, l'ideale dei dirigenti del partito. Ecco che cosa bisogna cambiare se vogliamo costruire un blocco solido nel vero senso del termine.
Le tesi qui presentate contengono dei buoni spunti in materia. Ci si propone di concedere un po' più di libertà. Forse è un po' tardi. Forse si pensa di poter concedere un po' più di libertà ai "vinti" che non possono più rialzarsi.
Ma lasciamo le tesi e consideriamo i fatti. Si è sempre detto che i nostri partiti devono essere costruiti sulla base del centralismo democratico. Forse sarebbe bene cercare, al posto di democrazia, un'altra espressione; comunque, tale è la formula di Lenin. Come si realizza il centralismo democratico? Mediante l'eleggibilità dei compagni, la consultazione della massa del partito per la soluzione di determinati problemi. Naturalmente, per un partito rivoluzionario, una regola simile può comportare delle eccezioni. È opportuno per il regime di partito che, a volte, una Centrale dica: Compagni, di norma il partito dovrebbe consultarvi; ma poiché la lotta contro il nemico attraversa un momento pericoloso, poiché non c'è un momento da perdere, noi agiamo senza consultarvi. Ma quello che è pericoloso è di suscitare l'apparenza di una consultazione quando invece si tratta di procedere dall'alto; di sfruttare la circostanza che la Centrale tiene in pugno l'intero apparato e la stampa del partito. In Italia abbiamo detto che riconosciamo la dittatura, ma odiamo questi metodi alla Giolitti. Non è infatti la democrazia borghese un mezzo d'inganno? Ed è forse questa la democrazia che vi proponete di concederci e di realizzare nel partito? Sarebbe allora preferibile una dittatura che avesse il coraggio di non mettersi una maschera ipocrita. O si introduce nel partito una vera forma democratica, cioè una democrazia che permetta alla Centrale di utilizzare al modo giusto l'apparato, o sarà inevitabile che, soprattutto fra gli operai, si diffondano stati d'animo di insoddisfazione e di malessere.
Abbiamo bisogno di un regime interno più sano. È assolutamente necessario dare al partito la possibilità di formarsi un'opinione e di esprimerla e sostenerla con franchezza. Al congresso del partito italiano ho detto che l'errore è stato di non fare, all'interno del partito, una chiara distinzione fra agitazione e propaganda. L'agitazione viene condotta fra una grande massa di persone per chiarire un certo numero di idee molto semplici; la propaganda invece, tocca uno strato relativamente ristretto di compagni ai quali si illustra un numero maggiore di idee complesse. L'errore in cui si è incorsi è di limitarsi all'agitazione entro il partito; di considerare la massa degli iscritti come, in principio, dei minorati; di trattarli come elementi che si possono mettere in moto, non come un fattore operante di lavoro comune. Un'agitazione in base a formule imparate a memoria è fino a un certo punto concepibile quando si tratta di ottenere i più grandi effetti con il minimo dispendio di forza, quando si vuole mettere in movimento grandi masse dove il fattore della volontà e della coscienza gioca solo un ruolo secondario. Ma, nel partito, le cose stanno in tutt'altro modo. Noi chiediamo che, nel suo seno, questi metodi di agitazione abbiano fine. Il partito deve riunire intorno a sé quella parte della classe operaia che possiede e in cui prevale la coscienza di classe – a meno che voi non propugniate appunto quella teoria degli eletti che un tempo servì di accusa (e accusa infondata) contro di noi. Bisogna che la massa degli iscritti al partito elabori una coscienza politica collettiva, che studi a fondo i problemi di fronte ai quali il partito comunista si trova. In questo senso, è della massima urgenza cambiare il regime interno del partito.
E vengo alle frazioni. A mio parere, la questione delle frazioni non va posta dal punto di vista della morale, dal punto di vista del codice penale. V'è nella storia un solo esempio che un compagno abbia organizzato una frazione per divertirsi? No, un caso simile non è mai avvenuto. V'è un solo esempio nella storia che l'opportunismo si sia infiltrato nel partito per via di una frazione, che l'organizzazione di frazioni sia servita di base alla mobilitazione della classe operaia e il partito rivoluzionario si sia salvato grazie all'intervento degli uccisori delle frazioni? No, l'esperienza prova che l'opportunismo penetra nelle nostre file sempre dietro la maschera dell'unità. È nel suo interesse di influenzare la massa più grande possibile, ed è quindi dietro lo schermo dell'unità che esso avanza le sue proposte insidiose. La storia delle frazioni mostra, in generale, che esse non fanno onore ai partiti entro i quali esse si formano, ma fanno onore ai compagni che le creano. La storia delle frazioni è la storia di Lenin; è la storia non degli attentati all'esistenza dei partiti rivoluzionari, ma della loro cristallizzazione e della loro difesa contro le influenze opportunistiche.
Quando si cerca di organizzare una frazione, per poter dire che si tratta, direttamente o indirettamente, di una manovra borghese per infiltrarsi nel partito bisogna avere le prove. Io non credo che, in generale, questa manovra prenda una simile forma. Al congresso del partito italiano, la questione è stata posta da noi in rapporto alla sinistra del nostro partito. Tutti conosciamo la storia dell'opportunismo. Quando un gruppo diventa il rappresentante di influenze borghesi in seno a un partito proletario? In genere, gruppi simili hanno trovato un fertile terreno tra i funzionari sindacali o i rappresentanti del partito in parlamento, ovvero fra compagni che, nelle questioni di strategia e di tattica del partito, si facevano i portavoce della collaborazione di classe, dell'alleanza con altri schieramenti sociali e politici. Prima di parlare di frazioni che devono essere schiacciate, bisognerebbe almeno poter fornire la prova che esse sono in collegamento con la borghesia o con circoli e ambienti borghesi o che poggiano sulla base di rapporti personali con essi. Se questa analisi non è possibile, allora bisogna cercare le cause storiche dell'origine della frazione, invece di condannarla a priori.
La genesi di una frazione indica che c'è nel partito qualcosa che non va. Per rimediare al male bisogna risalire alle cause storiche che l'hanno prodotto, che hanno determinato la nascita della frazione o alla tendenza a costituirla; e queste cause risiedono in errori ideologici e politici del partito. Le frazioni non sono la malattia, sono un sintomo e, se si vuole combattere l'organismo malato, bisogna non già combattere i sintomi, ma cercare di stabilire le cause del male. D'altronde, nella maggioranza dei casi, ci si trova di fronte a gruppi di compagni che non hanno affatto cercato di creare un'organizzazione a se stante o che di simile; a punti di vista, a tendenze, che cercavano di farsi strada per la via del normale, regolare e collettivo lavoro di partito. Col metodo della caccia alle frazioni, delle campagne scandalistiche, della sorveglianza poliziesca e della diffidenza verso i compagni – metodo che costituisce in realtà il peggior frazionismo dilagante negli strati superiori del partito – si sono soltanto peggiorate le condizioni del nostro movimento e si è spinto ogni critica obiettiva sulla via del frazionismo.
Non è con questi metodi che si può creare l'unità nel partito: con essi si instaura soltanto un regime che lo rende inetto ed impotente. È assolutamente necessaria una trasformazione radicale nei metodi di lavoro. Le conseguenze, in caso contrario, saranno di una gravità estrema.
Ce ne offre un esempio la crisi del partito francese. Come si è proceduto, nel partito francese, contro le frazioni? Malissimo – per esempio nella questione della nascente frazione sindacalista. Compagni espulsi dal partito sono tornati ai loro antichi amori, e pubblicano un giornale in cui svolgono le loro idee. Che sbaglino è chiaro. Ma le cause di questa grave deviazione ideologica non vanno cercate nei capricci dei ragazzacci Rosmer e Monatte: sono piuttosto da cercare negli errori del partito francese e di tutta l'Internazionale.
Scesi in lotta sul terreno ideologico contro gli errori sindacalisti, noi siamo riusciti a strappare larghi strati operai all'influsso di elementi sindacalisti e anarchici. Ora queste concezioni riaffiorano. Perché? Anche perché il regime interno del partito, il suo esagerato machiavellismo, ha fatto alla classe operaia una cattiva impressione e reso possibile il risorgere di quelle teorie, come pure del preconcetto che il partito politico sia in sé qualcosa di sporco e che solo la lotta economica possa salvare la classe proletaria. Questi errori di fondo minacciano di riapparire nel proletariato perché l'Internazionale e i partiti comunisti non hanno saputo dimostrare coi fatti, e con dichiarazioni teoriche semplici, quale differenza essenziale esista fra una politica in senso rivoluzionario e leninista e la politica dei vecchi partiti socialdemocratici, la cui degenerazione prima della guerra aveva provocato come reazione il sindacalismo.
Se nel proletariato francese le vecchie teorie dell'azione economica e dell'opposizione ad ogni attività politica hanno potuto registrare alcuni successi, lo si deve al fatto che, nella linea politica del partito comunista, si è lasciato che si commettesse tutta una serie di errori.
Semard: - Voi dite che le frazioni hanno le loro cause negli errori della direzione del partito. Ma la frazione di destra in Francia si è formata proprio nel momento in cui la Centrale riconosceva e correggeva i suoi errori.
Relatore: - Compagno Semard, se volete presentarvi al buon dio con il solo merito di aver riconosciuto i vostri errori, avrete fatto troppo poco per la salvezza della vostra anima.
Io credo, compagni, che sia necessario dimostrare, con la nostra strategia e con la nostra tattica proletaria, gli errori che questi elementi anarco-sindacalisti commettono. Nella classe operaia si è ora creata l'impressione che nel partito comunista vi siano le stesse deficienze che negli altri partiti politici, ed è perciò che essa nutre una certa diffidenza verso il nostro partito. Questa diffidenza ha origine nei metodi e nelle manovre che trovano impiego nelle nostre file. Si direbbe che noi agiamo non solo verso il mondo esterno, ma anche nella vita politica interna di partito come se la buona "politica" fosse un'arte, una tecnica comune a tutti i partiti. Come se si lavorasse avendo in tasca un prontuario machiavellico di abilità politica. Ma il partito della classe operaia ha il compito di introdurre una nuova forma di politica, che non ha nulla in comune con i metodi bassi ed insidiosi del parlamentarismo borghese. Se non si dimostra questo al proletariato, non riusciremo mai a guadagnare su di esso un'influenza utile e vigorosa e gli anarco-sindacalisti avranno partita vinta.
Quanto alla frazione di destra in Francia, non esito a dire che la considero in generale come un fenomeno sano e non come una prova di infiltrazione nel partito di elementi piccolo-borghesi. La teoria e la tattica che essa propugna sono sbagliate, ma essa è in parte un'utilissima reazione agli errori politici e al cattivo regime della direzione del partito. Ma la responsabilità di questi errori non ricade unicamente sulla centrale del partito francese. È la linea generale dell'Internazionale che provoca la costituzione di frazioni. Certo, nella questione del fronte unico, io sono in antitesi completa con il punto di vista della destra francese, ma ritengo che sia giusto quando si dice che i deliberati del V Congresso non sono affatto chiari, che sono del tutto insoddisfacenti. Da un lato, in molti casi si ammette il fronte unico dall'alto; dall'altro si aggiunge che la socialdemocrazia è l'ala sinistra della borghesia e che bisogna porsi l'obiettivo di smascherarne i capi. È questa, una posizione insostenibile. Gli operai francesi sono stanchi di un'applicazione del fronte unico quale è stata praticata in Francia. Naturalmente, diversi capi dell'opposizione francese sono su una strada sbagliata e diametralmente opposta alla via veramente rivoluzionaria quando tirano le loro conclusioni nel senso di un fronte unico "leale" e di una coalizione con la socialdemocrazia.
E' ovvio che, se si limita il problema delle destre alla domanda se sia lecito collaborare ad una rivista che è fuori del controllo del partito, la risposta non può essere che una. Ma non è questo il modo di uscirne. Bisogna cercare di correggere gli errori e di sottoporre ad esame coscienzioso la linea politica del partito francese e, in molte questioni, anche dell'Internazionale. Non si risolve il problema applicando contro l'opposizione, contro Lariot ecc., le regole di un piccolo catechismo sul comportamento personale. Per correggere gli errori non basta tagliar delle teste; bisogna anche cercar si scoprire gli errori di partenza che causano e favoriscono la formazione delle frazioni.
Ci si dice: per trovare gli errori nella nostra macchina della bolscevizzazione c'è l'Internazionale; è la maggioranza dell'Internazionale che deve intervenire quando una centrale di partito incorre in gravi errori; è questa la garanzia contro le deviazioni in seno alle sezioni nazionali. Ma, nella pratica, questo sistema è fallito. La Germania ci offre un esempio di questo genere di intervento dell'Internazionale. La centrale del KPD era diventata onnipotente e rendeva impossibile ogni opposizione nel partito: eppure c'è stato qualcuno al di sopra di essa che, ad un certo punto, ha condannato tutti i delitti e gli errori commessi da questa centrale: l'Esecutivo di Mosca con la sua Lettera aperta. È un buon metodo, questo? No, certo che non lo è. Quali riflessi ha una simile azione? Ne abbiamo avuto un esempio noi, in Italia, durante la discussione per il congresso del partito. Un buon compagno, letteralmente ortodosso, viene delegato al congresso del partito tedesco. Vede che tutto va a meraviglia, che la schiacciante maggioranza vota per le tesi dell'Internazionale, e che la nuova centrale è eletta in pieno accordo con l'eccezione di una minoranza trascurabile. Il delegato italiano torna e presenta un rapporto molto favorevole al partito tedesco. Scrive un articolo in cui lo raffigura, agli occhi dei compagni italiani della sinistra, come un modello di partito bolscevico. Può darsi che, in seguito a ciò, diversi compagni della nostra opposizione siano divenuti partigiani della bolscevizzazione. Senonchè, due settimane dopo, arriva la Lettera aperta dell'Esecutivo... Vi si dichiara che la vita interna del partito tedesco è pessima, che vi esiste una dittatura, che l'intera tattica è completamente sbagliata, che si sono commessi gravi errori, che sono avvenute forti deviazioni, che l'ideologia non è leninista. Si dimentica che, al V Congresso, la sinistra tedesca era stata proclamata come la Centrale più completamente bolscevica, e la si ribalta senza pietà applicando ad essa gli stessi metodi che prima si erano usati nei confronti della destra. Al V Congresso la parola d'ordine era: "È tutta colpa di Brandler!"; ora si dice: "È tutta colpa di Ruth Fischer!". Io sostengo che in questo modo non ci si può attirare la simpatia della classe operaia. Non si può dire che la colpa degli errori commessi sia di un paio di compagni. L'Internazionale era pur lì a seguire lo sviluppo degli avvenimenti, ed essa non poteva né doveva ignorare sia le capacità dei dirigenti, sia le loro azioni politiche. Adesso si dirà che io difendo la sinistra tedesca come, al V Congresso, si disse che difendevo la destra. Ma io non solidarizzo politicamente né con l'una né con l'altra; sono soltanto dell'avviso che, in entrambi i casi, l'Internazionale deve assumersi la responsabilità degli errori commessi; l'Internazionale che aveva pienamente solidarizzato con questi gruppi, che li aveva presentati come la direzione migliore, che aveva affidato loro il partito.
L'intervento dell'Esecutivo dell'I.C. contro le centrali di partito è stato dunque, in vario modo, poco felice. La questione è: Come lavora l'Internazionale, quali sono i suoi rapporti con le sezioni nazionali, e come vengono eletti i suoi organi direttivi?
Già nell'ultimo Congresso ho criticato i nostri metodi di lavoro. Nei nostri organi superiori e nei nostri congressi manca una collaborazione collettiva. L'organo supremo sembra qualcosa di estraneo alle sezioni, che discute con esse e sceglie in mezzo a ciascuna una frazione cui dà il suo appoggio. Questo centro è, in ogni questione, appoggiato da tutte le sezioni rimanenti, che sperano così di assicurarsi un trattamento migliore quando verrà il loro turno. A volte quelli che si mettono sul piano di questo "mercato delle vacche" sono addirittura dei gruppi puramente personali di leader.
Ci si dice: la direzione internazionale ci è fornita dall'egemonia del partito russo, perché è esso che ha fatto la rivoluzione, perché è in questo partito che si trova la sede dell'Internazionale; è quindi giusto che si attribuisca un'importanza determinante alle risoluzioni ispirate dal partito russo. Ma qui sorge il problema: come vengono risolte dal partito russo le questioni internazionali? È la domanda che tutti abbiamo il diritto di fare.
Dopo gli ultimi avvenimenti, dopo l'ultima discussione, questo punto di appoggio dell'intero sistema non è più sufficiente. Nell'ultima discussione del partito russo, abbiamo visto compagni che si appellavano alla stessa conoscenza del leninismo, che avevano lo stesso indiscutibile diritto di parlare in nome della tradizione rivoluzionaria bolscevica, discutere fra loro, e in questo processo servirsi l'uno contro l'altro di citazioni da Lenin e interpretare a suo favore l'esperienza russa. Senza entrare nel merito della discussione, voglio stabilire questo fatto incontrovertibile.
Chi, in questa situazione, deciderà in ultima istanza sui problemi internazionali? Non si può rispondere: la vecchia guardia bolscevica, perché in pratica questa risposta lascia insolute le questioni. È questo il primo punto di appoggio del sistema che si sottrae alla nostra indagine obiettiva. Ma ne consegue che la soluzione dev'essere completamente diversa. Noi possiamo paragonare la nostra organizzazione internazionale ad una piramide. Questa piramide deve avere un vertice, e linee rette che tendano verso questo vertice. È così che si producono l'unità e la necessaria centralizzazione. Ma oggi, a causa della nostra tattica, questa piramide poggia pericolosamente sul suo vertice. Bisogna quindi capovolgerla; ciò che ora è sotto deve diventare sopra, bisogna mettere la piramide sulla sua base affinché stia in equilibrio. La conclusione ultima alla quale giungiamo nella questione della bolscevizzazione è dunque che non si tratta di introdurre semplici modificazioni d'ordine secondario, ma che l'intero sistema va modificato da cima a fondo.
Fatto così il bilancio dell'azione passata dell'Internazionale, passo all'esame della situazione attuale e dei compiti del futuro. Noi siamo tutti d'accordo su ciò che è stato detto in generale circa la stabilizzazione; non è dunque necessario ritornarvi sopra. La decomposizione del capitalismo si trova ora in una fase meno acuta. La congiuntura ha subito, nel quadro della crisi generale del capitalismo, alcune oscillazioni. Abbiamo sempre davanti a noi la prospettiva del crollo finale del capitalismo, ma nel porre la questione della prospettiva, si commette, a mio parere, un errore di valutazione. Ci sono diversi modi di affrontare il problema della prospettiva. Il compagno Zinoviev ci ha ricordato qui delle cose molto utili quando ha parlato della doppia prospettiva di Lenin.
Se noi fossimo una società scientifica per lo studio degli avvenimenti sociali, potremmo giungere a conclusioni più o meno ottimistiche senza approfondire ulteriormente i dati di fatto. Ma una prospettiva puramente scientifica non basta per un partito rivoluzionario che partecipa a tutti gli avvenimenti, che è esso stesso uno dei loro fattori e che non può esprimere in modo metafisico la sua funzione: da un lato nella conoscenza esatta della sua funzione, dall'altro nella volontà e nell'azione. Perciò il nostro partito deve sempre rimanere legato direttamente ai suoi fini ultimi. Anche quando il giudizio scientifico ci costringe a trarre conclusioni pessimistiche è necessario per noi avere sempre davanti agli occhi la prospettiva rivoluzionaria. Non è una banale questione di errore scientifico il fatto che Marx si aspettò la rivoluzione nel 1848, 1859 e 1870, e che Lenin, dopo il 1901, la profetizzò per il 1907, cioè dieci anni prima del suo trionfo. Ciò prova al contrario, l'acume di visione rivoluzionaria di questi grandi capi. Non si tratta neppure della esagerazione infantile per cui si sente sempre battere la rivoluzione alla porta; si tratta della vera capacità rivoluzionaria, che rimane intatta malgrado tutte le difficoltà dello sviluppo storico. La questione della prospettiva riveste per i nostri partiti un interesse enorme; bisognerebbe sapere andarle a fondo. Ora ritengo insufficiente che si dica: la congiuntura si è modificata in un certo senso a noi sfavorevole; non abbiamo più la situazione del 1920, e ciò spiega e giustifica la crisi interna in diverse sezioni e nell'Internazionale. No, questo può aiutarci a spiegare le cause di certi errori ma non li giustifica. Dal punto di vista politico, esso non ci basta. Noi non possiamo, non dobbiamo rassegnarci a considerare immodificabile l'attuale regime difettoso nei nostri partiti perché la congiuntura esterna ci è sfavorevole. La questione, così è posta male. È chiaro che, se il nostro partito è un fattore degli avvenimenti, è però nello stesso tempo un loro prodotto; anche se ci riesce di realizzare un partito mondiale veramente rivoluzionario. Ora, in quale senso gli avvenimenti si riflettono in questo partito? Nel senso che il numero dei nostri iscritti aumenta e la nostra influenza sulle masse cresce quando la crisi del capitalismo genera una situazione a noi favorevole. Se invece, in un certo momento, la congiuntura ci diventa sfavorevole, è possibile che le nostre forze si riducano numericamente; ma noi non dobbiamo permettere che la nostra ideologia ne soffra; non solo la nostra tradizione e la nostra organizzazione, ma anche la nostra linea politica deve rimanere intatta.
Se noi crediamo che, per preparare i partiti al loro compito rivoluzionario, dobbiamo sfruttare la situazione di crisi progrediente del capitalismo, ci creiamo uno schema di prospettive completamente sbagliate, perché allora riterremmo necessario per il consolidamento del nostro partito un periodo di lunga e progressiva crisi, e in questo caso la situazione economica dovrebbe farci il piacere di rimanere ulteriormente rivoluzionaria affinché noi possiamo passare all'azione. Se, dopo un periodo di congiuntura incerta, la crisi improvvisamente si acuisce, noi saremo incapaci di sfruttarla, perché, a causa di questo modo sbagliato di vedere le cose, i nostri partiti si troveranno inevitabilmente, in uno stato di smarrimento e di impotenza. Ciò prova che non si sa mettere a profitto l'esperienza dell'opportunismo nella II Internazionale. Non si può negare che, prima della guerra mondiale, vi è stato un periodo di fioritura del capitalismo e che questo godeva di una congiuntura favorevole. Ma, se ciò spiega in un certo senso la decomposizione opportunistica della II Internazionale non giustifica l'opportunismo. Noi abbiamo combattuto questa idea e ci siamo rifiutati di credere che l'opportunismo fosse un fatto necessario e storicamente imposto dagli avvenimenti. Abbiamo sostenuto la tesi che il movimento doveva resistervi, e la sinistra marxista ha combattuto l'opportunismo ancora prima del 1914 invocando la costituzione di partiti proletari sani e rivoluzionari.
La questione va dunque posta in altro modo. Anche se la congiuntura e le prospettive ci sono sfavorevoli o relativamente sfavorevoli, non si devono accettare rassegnatamente le deviazioni opportunistiche e giustificarle con il pretesto che le loro cause vanno cercate nella situazione obiettiva. E se, malgrado tutto, una crisi interna si verifica, le sue cause e i mezzi per sanarla devono essere cercati altrove, cioè nel lavoro e nella linea politica del partito, che non sono state oggi quali avrebbero dovuto essere. Ciò si riferisce anche alla questione dei capi, che il compagno Trotzki solleva nella prefazione al suo libro "1917", nella sua analisi delle cause delle nostre sconfitte e con la cui soluzione io solidarizzo pienamente. Trotzki non parla dei capi nel senso che noi abbiamo bisogno di uomini delegati a questo scopo dal cielo. No, egli pone il problema ben diversamente. Anche i capi sono un prodotto dell'attività del partito, dei metodi di lavoro del partito e della fiducia che il partito ha saputo attirarsi. Se il partito, malgrado la situazione variabile e spesso sfavorevole, segue la linea rivoluzionaria e combatte le deviazioni opportunistiche, la selezione dei capi, la formazione di uno stato maggiore avvengono in modo favorevole, e nel periodo della lotta finale noi riusciremo non certo ad avere sempre un Lenin, ma una direzione solida e coraggiosa – cosa che oggi, nello stato attuale delle nostre organizzazioni, si può ben poco sperare.
[Contro il fronte unico con la sinistra borghese]
Vi è pure un altro schema di prospettive che va combattuto e di cui dobbiamo occuparci nel passaggio da un'analisi puramente economica all'analisi delle forze sociali e politiche. In generale, si è dell'avviso che si debba ritenere favorevole per la nostra lotta la situazione data da un governo di sinistra piccolo borghese. Questo schema errato è prima di tutto in contraddizione col primo, perché generalmente, in un periodo di crisi economica la borghesia sceglie un governo di partiti di destra per poter condurre un'offensiva reazionaria, cioè le condizioni oggettive ridiventano per noi sfavorevoli. Per giungere ad una soluzione marxista del problema, è necessario abbandonare questi luoghi comuni.
Non è giusto, in generale, che un governo della sinistra borghese ci sia favorevole; casomai può essere il contrario. Gli esempi storici ci mostrano come sia stolto immaginarsi che, per facilitarci il compito, debba costituirsi un governo delle cosiddette classi medie, con un programma liberale che ci permetta di organizzare la lotta contro un apparato statale indebolito.
Anche qui ci troviamo di fronte all'influenza di un'interpretazione sbagliata dell'esperienza russa. Nella rivoluzione di febbraio 1917, caduto l'apparato statale precedente, si è costituito un governo poggiante sui partiti della borghesia e piccola borghesia liberale. Ma non è sorto un solido apparato statale che sostituisse alla autocrazia zarista il dominio economico del capitale e una moderna rappresentanza parlamentare. Prima che un tale apparato potesse organizzarsi, il proletariato diretto dal partito comunista è riuscito ad attaccare il governo con successo e prendere il potere. Ora, si potrebbe credere che le cose seguiranno in altri paesi lo stesso corso, che un bel giorno, il governo passerà dalle mani dei partiti borghesi in quelle dei partiti intermedi, che in tale modo l'apparato statale si indebolisca e che, di conseguenza, debba riuscire facile al proletariato di abbatterlo. Ma questa prospettiva semplificata è completamente falsa. Come si presenta la situazione negli altri paesi? Si può paragonare un cambiamento di governo, mediante il quale un governo di sinistra prenda il posto di un governo di destra (per esempio il cartello delle sinistre in Francia invece del blocco nazionale), con un cambiamento storico delle fondamenta dello Stato? È possibile che il proletariato sfrutti questo periodo per rafforzare le sue posizioni. Ma, se abbiamo a che fare col puro e semplice passaggio da un governo di destra ad un governo di sinistra, allora la situazione, favorevole al comunismo, di uno sfacelo generale dell'apparato statale non è presente. Disponiamo di esempi storici concreti a riprova del preteso sviluppo in base al quale un governo di sinistra spianerebbe la strada alla rivoluzione proletaria? No, non ne disponiamo.
Nel 1919, in Germania, una sinistra borghese salì al governo. Vi fu anzi un'epoca in cui era al potere la socialdemocrazia. Malgrado la sconfitta militare della Germania, malgrado una gravissima crisi, l'apparato statale non subì nessuna trasformazione sostanziale che facilitasse al proletariato la vittoria, e non solo la rivoluzione comunista è fallita, ma i socialdemocratici si sono dimostrati i suoi carnefici.
Se con la nostra tattica avremo contribuito alla ascesa al potere di un governo di sinistra, si avrà allora una situazione a noi favorevole? No, assolutamente no. È una concezione menscevica quella secondo cui le classi medie possono creare un apparato statale diverso da quello della borghesia, e che si possa considerare questo periodo come una fase di trapasso verso la conquista del potere ad opera del proletariato.
Certi partiti della borghesia hanno un programma e pongono rivendicazioni che mirano allo scopo di conquistare le classi medie. In generale, ci troviamo qui di fronte non al passaggio del potere da un gruppo sociale all'altro ma solo ad un nuovo metodo di lotta della borghesia contro di noi; e quando un simile cambiamento avviene noi non possiamo dire che esso sia il momento più favorevole per in nostro intervento. Noi possiamo sfruttarlo, certo, ma solo alla condizione che le nostre prese di posizione precedenti siano state assolutamente chiare e che non abbiamo invocato un governo di sinistra.
Per esempio: in Italia, il fascismo deve essere considerato come una vittoria della destra borghese sulla sinistra borghese? NO, il fascismo è qualcosa di più: è la sintesi di due mezzi di difesa della classe borghese. Gli ultimi provvedimenti del governo fascista hanno provato che la composizione sociale piccolo-borghese e semi-borghese del fascismo non lo rende meno un agente diretto del capitalismo. Come organizzazione di massa (l'organizzazione fascista conta un milione di iscritti) esso cerca – mentre nello stesso tempo regna la più rabbiosa reazione contro tutti gli avversari che osano attaccare l'apparato statale – di realizzare la mobilitazione di grandi masse con l'aiuto di metodi socialdemocratici.
Il fascismo, ha, su questo terreno subito delle sconfitte. Ciò conferma la nostra visione della lotta fra le classi. Ma ciò che ne risulta in piena luce è l'assoluta impotenza delle classi medie. Negli ultimi anni esse hanno compiuto tre evoluzioni: nel 1919/20, affluivano in massa alle nostre riunioni e comizi rivoluzionari; nel 1921-22, fornivano i quadri delle camicie nere; nel 1924, dopo il delitto Matteotti, passarono all'opposizione, oggi si schierano di nuovo con il fascismo. Esse stanno sempre dalla parte del più forte.
Va segnalato un altro fatto. Nei programmi di quasi tutti i partiti e i governi di sinistra si trova il principio che, sebbene si debbano dare a tutti le fondamentali "garanzie" liberali, è necessario fare un'eccezione per quei partiti che perseguono lo scopo di abbattere le istituzioni statali, cioè per i partiti comunisti.
La falsa prospettiva dei vantaggi che può dare a noi un governo di sinistra corrisponde alla supposizione che le classi medie siano capaci di trovare una soluzione indipendente del problema del potere. A mio avviso, la cosiddetta nuova tattica che si è impiegata in Germania e in Francia, e in base alla quale in Italia il partito comunista ha fatto all'opposizione antifascista dell'Aventino la proposta dell'antiparlamento, poggia su un grave errore. Non posso capire come un partito così ricco di tradizioni rivoluzionarie come il nostro partito tedesco possa prendere sul serio il rimprovero socialdemocratico che, avanzando una candidatura propria, esso faccia il gioco di Hindenburg. In generale, il piano della borghesia per la mobilitazione controrivoluzionaria delle masse consiste nel mettere un dualismo politico e storico al posto del contrasto di classe fra borghesia e proletariato, mentre il partito comunista insiste appunto su questo dualismo di classe non perché esso sia l'unico dualismo possibile nella prospettiva sociale e sul terreno dei cambiamenti di potere parlamentare, ma perché è l'unico dualismo storicamente capace di portare all'abbattimento rivoluzionario dell'apparato statale di classe e alla formazione di un nuovo Stato. Ora, questo dualismo noi possiamo portarlo alla coscienza delle grandi masse non con dichiarazioni ideologiche e con una propaganda astratta, ma con il linguaggio dei nostri atti e con la chiarezza della nostra concezione politica. Quando in Italia si propose agli antifascisti borghesi di costituirsi in un antiparlamento al quale partecipassero i comunisti, anche se nella nostra stampa si scriveva che non si poteva avere assolutamente alcuna fiducia in quei partiti, anche se si pretendeva con questo mezzo di smascherarli, si è contribuito in pratica a far sì che le grandi masse si attendessero il crollo del fascismo dai partiti dell'Aventino, e credessero possibile una lotta rivoluzionaria e la formazione di un anti-Stato non su una base di classe, ma sulla base della collaborazione con elementi piccolo-borghesi e perfino con gruppi capitalistici. Con questa manovra, non si è riusciti a riunire grandi masse sul fronte di classe. L'intera "nuova tattica" non solo non si basa sui deliberati del V Congresso, ma, a mio parere, è in contraddizione con i principi e il programma del comunismo.
[La degenerazione incombente]
Quali sono i nostri compiti per l'avvenire? Questa assemblea non potrebbe occuparsi seriamente di questo problema senza porsi il problema fondamentale dei rapporti storici fra la Russia sovietica e il mondo capitalista in tutta la sia ampiezza e gravità. Accanto al problema della strategia rivoluzionaria del proletariato, del movimento internazionale dei contadini e dei popoli coloniali e oppressi, la questione della politica statale del partito comunista in Russia è oggi per noi la questione più importate. Si tratta di dare una buona soluzione al problema dei rapporti interni di classe in Russia, si tratta di applicare le necessarie misure in relazione all'influenza dei contadini e degli strati piccolo-borghesi che vanno sorgendo, si tratta di lottare contro la pressione esterna, che oggi è puramente economica e diplomatica e che forse domani sarà militare. Poiché negli altri paesi non si sono ancora verificati sommovimenti rivoluzionari, è necessario collegare nel modo più stretto l'intera politica russa alla politica generale rivoluzionaria del proletariato. Non intendo approfondire qui tale questione, ma affermo che il punto di appoggio per questa lotta si trova certo in prima linea nella classe lavoratrice russa e nel suo partito comunista, ma che è d'importanza fondamentale basarsi anche sul proletariato degli Stati capitalisti. Il problema della politica russa non può essere risolto entro il perimetro chiuso del movimento russo: è anche assolutamente necessaria la collaborazione diretta di tutta l'Internazionale comunista.
Senza questa vera collaborazione sorgeranno pericoli non soltanto per la strategia rivoluzionaria in Russia, ma anche per la nostra politica negli Stati capitalisti. Potrebbero sorgere tendenze orientate verso un indebolimento del ruolo dei partiti comunisti. Su questo terreno noi siamo già attaccati, naturalmente non dall'interno delle nostre file, ma dai socialdemocratici e dagli opportunisti in genere, in rapporto alle nostre manovre a favore dell'unità sindacale internazionale e al nostro atteggiamento verso la II Internazionale. Noi qui siamo tutti d'accordo che i partiti comunisti debbono incondizionatamente mantenere la loro indipendenza rivoluzionaria; ma è necessario mettere in guardia contro la possibilità di una tendenza che vorrebbe sostituire i partiti comunisti con organi di un carattere meno chiaro ed esplicito, non poggianti sul terreno della lotta di classe ed esercitanti una funzione di indebolimento e di neutralizzazione politica. Nella situazione attuale, la difesa del carattere della nostra organizzazione internazionale e comunista di partito contro qualunque tendenza liquidatrice è indiscutibile compito comune.
Possiamo, dopo la critica da noi rivolta alla linea generale, considerare l'Internazionale, così come è oggi, sufficientemente preparata a questo doppio compito della strategia in Russia e negli altri paesi? Possiamo noi esigere l'immediata discussione di tutti i problemi russi da parte di questa assemblea? Purtroppo, a questa domanda si deve rispondere: no! Una seria revisione del nostro regime interno è assolutamente necessaria; è inoltre necessario porre all'ordine del giorno dei nostri partiti i problemi della tattica in tutto il mondo e i problemi della politica dello Stato russo; ma ciò deve avvenire mediante un nuovo corso e metodi completamente cambiati.
Nel rapporto e nelle Tesi proposte noi non troviamo alcuna garanzia sufficiente a tale fine. Non di un ottimismo ufficiale abbiamo bisogno. Dobbiamo capire che non è con metodi così meschini come quelli che vediamo troppo spesso impiegati qui che possiamo prepararci ad assolvere i compiti importanti di fronte ai quali lo Stato maggiore della rivoluzione mondiale si trova.
(Protocollo tedesco, pp. 122-144).
Comunismo e fascismo (1921-1926)
Quaderni di n+1 dall'archivio storico.
Organica presentazione di testi della Sinistra sul Fascismo che anticipano la classica posizione comunista: "Il peggior prodotto del Fascismo è stato l'Antifascismo".