Lenin nel cammino della rivoluzione (1)
Amadeo Bordiga
(Conferenza tenuta alla Casa del Popolo, Roma, 24 febbraio 1924)
Il restauratore teorico del marxismo
Devo premettere due avvertenze: Non mi propongo di seguire la falsariga delle commemorazioni ufficiali, e non farò una biografia di Lenin né racconterò una collana di aneddoti intorno a lui. Tenterò di tracciare da un punto di vista storico e critico marxista la figura e il compito di Lenin nel movimento di emancipazione rivoluzionaria della classe lavoratrice mondiale: queste sintesi sono possibili solo guardando i fatti con ampia prospettiva di insieme, e non scendendo al particolare di carattere analitico, giornalistico, spesso pettegolo e insignificante. Non credo che mi dia diritto a parlare su Lenin per mandato del mio partito il fatto di essere "l'uomo che ha visto Lenin" o che ha avuto la fortuna di parlare con lui, ma quello di aver partecipato, da quando sono uno dei militanti della causa proletaria, alla lotta per gli stessi principi che Lenin personifica. Il materiale biografico di dettaglio del resto è stato messo a disposizione dei compagni da tutta la stampa nostra.
In secondo luogo, data la vastità del tema propostomi, oltre a essere necessariamente incompleto, dovrò passare velocemente anche su questioni di primaria importanza, e fare assegnamento che i termini di esse siano già noti ai compagni che mi ascoltano: non vi è campo nei problemi del movimento rivoluzionario che non abbia rapporto all'opera di Lenin. Senza dunque pretendere menomamente di esaurire l'argomento, dovrò essere, nello stesso tempo, non breve, e forse eccessivamente sintetico.
Non ho bisogno di esporre la storia delle falsificazioni, manipolare negli anni che precedettero la grande guerra, della dottrina rivoluzionaria marxista, quale fu mirabilmente tracciata da Engels e da Marx in tutte le sue parti, di cui la sintesi classica rimane il Manifesto dei comunisti del 1847. E neppure posso qui svolgere, parallelamente, la storia della lotta, che mai non tacque, della sinistra marxista contro quelle falsificazioni e degenerazioni. A questa lotta Lenin dà un contributo di primissimo ordine.
Consideriamo anzitutto l'opera di Lenin come restauratore della dottrina filosofica del marxismo, o, per esprimerci meglio, della concezione generale della natura e della società, propria del sistema di conoscenze teoriche della classe operaia rivoluzionaria, alla quale non occorre soltanto una opinione circa i problemi della economia e della politica, ma una presa di posizione su tutto il quadro più vasto di questioni ora indicato.
A un certo momento della complessa storia del movimento marxista russo, a cui dovrò ancora accennare, sorge una scuola, capeggiata dal filosofo Bogdanov, che vorrebbe sottoporre a una revisione la concezione materialista e dialettica marxista, per dare al movimento operaio una base filosofica a carattere idealistico e quasi mistico. Questa scuola vorrebbe far riconoscere ai marxisti il preteso superamento della filosofia materialista e scientifica da parte di moderne scuole filosofiche neo-idealistiche. Lenin risponde a essa in modo definitivo con un'opera (Materialismo ed empiriocriticismo) disgraziatamente poco tradotta e poco nota, apparsa in russo nel 1908, nella quale, dopo un poderoso lavoro di preparazione, svolge una critica dei sistemi filosofici idealistici antichi e moderni, difende la concezione del realismo dialettico di Marx ed Engels nella sua brillante integrità, superatrice delle astruserie in cui si imbottigliano i filosofi ufficiali, dimostra infine come le scuole idealistiche moderne siano espressione di uno stato d'animo recente della classe borghese, e una loro penetrazione nel pensiero del partito proletario non corrisponda che a uno stato psicologico di impotenza, di smarrimento, non è che il derivato ideologico della situazione effettiva di disfatta del proletariato russo dopo il 1905. Lenin stabilisce, in modo che per noi esclude ulteriori dubbi, che "non vi può essere una dottrina socialista e proletaria su basi spiritualiste, idealiste, mistiche, morali".
Lenin difende l'insieme della dottrina marxista su di un altro fronte, quello delle valutazioni economiche e della critica al capitalismo. Marx ha lasciata incompleta la sua opera monumentale, Il Capitale, ma ha lasciato al proletariato un metodo di studio e di interpretazione dei fatti economici che si tratta di applicare ai nuovi dati forniti dal recente sviluppo del capitalismo, senza però travisarne la potenzialità rivoluzionaria. Il revisionismo, soprattutto tedesco, cerca di barare su questo terreno, elaborando "nuove" dottrine che costituiscono rettifiche, in apparenza secondarie, ma in realtà sostanziali, a quelle del maestro. E diciamo "barare" in quanto è dimostrato (da Lenin meglio che da ogni altro) come si trattasse non solo di oggettivi risultati scientifici a cui si riteneva di esser pervenuti, ma di un processo di opportunismo politico e di corruzione dei capi del proletariato, giunto ad avvalersi anche dell'espediente di sottrarre dalla circolazione importanti scritti di Marx ed Engels di cui si tentava in parte di falsare, in parte di rettificare il pensiero.
Contribuendo con altri economisti, tra cui Rosa Luxemburg e Kautsky degli anni migliori, al proseguimento della critica economica di Marx, con innumeri lavori Lenin sostiene che i fenomeni moderni del capitalismo: i monopoli economici, la lotta imperialista per i mercati coloniali, sono perfettamente interpretabili per la scienza economica marxista, senza dover modificare nessuna delle sue teoriche fondamentali sulla natura del capitalismo, sulla accumulazione dei suoi profitti a mezzo dello sfruttamento dei salariati. Nel 1915 Lenin riassume questi risultati nel suo libro di volgarizzazione sull'Imperialismo, che rimane un testo fondamentale della letteratura comunista: questa attitudine teorica consente gli sviluppi politici, di cui dovremo parlare, della lotta contro l'opportunismo e la bancarotta dei vecchi capi nella guerra mondiale.
Una lotta teorica, nel campo più ristretto della Russia, conduce anche Lenin contro i falsificatori borghesi del marxismo, che pretendono di accettarne, non il contenuto politico e rivoluzionario, ma il sistema e il metodo economico e storico, per servirsene alla dimostrazione che in Russia il capitalismo deve averla vinta sul feudalismo, mal celando sotto questa adesione alle tesi marxiste sullo sviluppo storico i propositi di repressione della ulteriore avanzata del proletariato.
Lenin, ci sia dato osservare, si presenta dunque, nell'opera di teorico, come il difensore della inseparabilità delle parti di cui si compone la concezione marxista. Egli non fa questo per dogmatismo fanatico (nessuno meno di lui merita questa accusa) ma poggiando le sue dimostrazioni sull'esame di una quantità enorme di dati di fatto e di esperienze, forniti dalla sua eccezionale cultura di studioso e di militante e illuminati dalla sua incomparabile genialità. Alla maniera di Lenin noi dobbiamo considerare tutti i premurosi accoglitori di una sola delle "parti", arbitrariamente tra loro separate, del marxismo: siano essi economisti borghesi a cui fa comodo il metodo del materialismo storico, come avveniva alcuni decenni fa, e non solo in Russia, sibbene anche in Italia (altro paese di capitalismo arretrato); siano intellettuali legati alle scuole filosofiche del neo-idealismo, che pretendono di conciliarle con l'accettazione delle tesi sociali e politiche comuniste; siano compagni che scrivono libri per affermare di condividere la parte "storico-politica" del marxismo, ma poi proclamano caduca tutta la parte economica, ossia le dottrine fondamentali per la interpretazione del capitalismo. Lenin in varie occasioni ha analizzate, ha criticate attitudini analoghe, ne ha brillantemente e marxisticamente trovate le vere origini al di fuori e contro l'interesse del processo vero di emancipazione proletaria, e non meno brillantemente ne ha preveduto a tempo i pericolosi sviluppi opportunistici sboccanti nella dedizione alla causa nemica, per via più o meno diretta, e salvo, si capisce, la fedeltà alla nostra bandiera di questo o quel compagno individualmente considerato. Sulla traccia di Lenin noi dobbiamo rispondere a costoro che si "degnano" di accettare le nostre opinioni con simili benefici di inventario, e con arbitrarie distinzioni, con partizioni cervellotiche, che essi in realtà ci faranno più piacere risparmiandosi di accettare il "resto" del marxismo, perché la maggiore potenza di questo sta nell'essere una prospettiva di insieme di tutto il riflesso, nella coscienza di una classe rivoluzionaria, dei problemi del mondo naturale e umano, dei fatti politici e sociali ed economici a un tempo.
L'opera restauratrice di Lenin è più grandiosa, o almeno più nota universalmente, in quella che è la parte "politica" della dottrina marxista, intendendo per tal modo la teoria dello stato, del partito, del processo rivoluzionario, senza escludere che questa parte, che meglio diremmo "programmatica", contempli anche tutto il processo "economico" che si apre colla vittoria rivoluzionaria del proletariato. La dispersione trionfale degli equivoci, degli inganni, delle meschinità, dei pregiudizi di opportunisti, revisionisti, piccolo borghesi, anarco-sindacalisti, si fa per questa parte in modo ancor più palpitante e suggestivo. Dopo Lenin, le armi polemiche su tale terreno sono spezzate nelle mani di tutti i nostri contraddittori vicini e lontani: quelli che ancora le raccattano non dimostrano che la loro ignoranza, cioè la loro assenza dal vivo processo che assume la lotta del proletariato anelante alla sua liberazione. Percorriamo per grandi tratti questa serie di tesi che sono altrettanti frammenti di realtà inchiodati nei termini di una dottrina insuperabilmente vera e vitale. Non dobbiamo che seguire Lenin: siano le tesi dei primi congressi della nuova Internazionale, siano i discorsi, siano i problemi, siano i programmi e i proclami del partito bolscevico sulla via della grande vittoria, sia infine il paziente e geniale esposto di Stato e Rivoluzione in cui si dimostra come le tesi di cui si tratta non abbiano mai cessato di essere quelle di Marx e di Engels, nella vera interpretazione dei testi classici e nel vero intendimento del metodo e del pensiero dei maestri, dalla prima formulazione del Manifesto fino alla valutazione dei fatti del periodo successivo e soprattutto delle rivoluzioni del '48, di '52, della Comune di Parigi: opera di fiancheggiamento della avanzata storica del proletariato mondiale che Lenin riprende e ricollega alle battaglie rivoluzionarie in Russia: la disfatta del 1905, la schiacciante rivincita di dodici anni dopo.
Il problema della interpretazione dello stato viene risolto nel quadro della dottrina storica della lotta di classe: lo stato è la organizzazione della forza della classe dominante, nata rivoluzionaria, divenuta conservatrice delle sue posizioni. Come per tutti gli altri problemi: non vi è lo stato, immanente e metafisica entità che attende la definizione e il giudizio del filosofastro reazionario o anarchicheggiante, ma lo stato borghese, espressione della potenza capitalistica, come vi sarà dopo lo stato operaio, come si renderà in seguito alla sparizione dello stato politico. Tutte queste fasi si situano nel processo storico, come la nostra analisi scientifica ci consente di tracciarlo, in una successione dialettica, ognuna nascendo dalla precedente e costituendone la negazione. Che cosa le separa? Fra lo stato della borghesia e quello del proletariato non può che collocarsi il culminare di una lotta rivoluzionaria, alla quale la classe operaia è guidata dal partito politico comunista, che vince nel rovesciare colla forza armata il potere borghese, col costituire il nuovo potere rivoluzionario: e questo attua anzitutto la demolizione della vecchia macchina statale in tutte le sue parti, e organizza la repressione, con i mezzi più energici, dei tentativi di controrivoluzione.
Si risponde agli anarchici: il proletariato non può immediatamente sopprimere ogni forma di potere, ma deve assicurare il "suo" potere. Si risponde ai socialdemocratici che la via per il potere non è quella pacifica della democrazia borghese, ma quella della guerra di classe: e quella soltanto. Lenin è il capo di tutti noi nella lunga difesa di questa posizione tanto falsificata del marxismo: la critica della democrazia borghese, la demolizione della menzogna legalitaria e parlamentare, la derisione, nel vigore sarcastico e corrosivo della polemica insegnato da Marx e da Engels, del suffragio universale e di tutte le panacee simili come armi del proletariato e dei partiti che stanno su questo terreno.
Ricollegandosi in modo magistrale alle basi della dottrina, Lenin risolve tutti i problemi del regime proletario e del programma della rivoluzione. "Non basta la semplice presa di possesso dell'apparato statale" dicono Marx ed Engels commentando a molti anni di distanza il Manifesto, e dopo la esperienza della Comune di Parigi. Deve l'economia capitalistica evolversi lentamente al socialismo, mentre legalitariamente si prepara il potere operaio, concludono arbitrariamente gli opportunisti, con una "truffa" teoretica che resterà classica. E invece viene Lenin a chiarire: occorre, "oltre" a prendere possesso dell'apparato statale vecchio, spezzarlo in frantumi e porre al suo posto la dittatura proletaria. A questa non si va per le vie democratiche, ed essa non si basa sui "principi" immortali (per il filisteo) della democrazia. Essa esclude dalla nuova libertà, dalla nuova eguaglianza politica, dalla nuova "democrazia proletaria" (come piacque a Lenin stesso di dire, dando della democrazia una interpretazione più etimologica che storica) i membri della debellata borghesia. Come solo così si ponga su basi realistiche la libertà per il proletariato di vivere e di governare, è stato chiarito da Lenin con proposizioni di cristallina evidenza non meno che di magnifica conseguenzialità teoretica. Piatisca chi vuole sulla conculcata libertà di associazione e di stampa dei turpi arnesi, prezzolati o incoscienti che siano, di una restaurazione anti-proletaria. Nella polemica egli è, dopo Lenin, clamorosamente battuto; nella pratica noi speriamo che troverà sempre abbastanza piombo della guardia rivoluzionaria, per superare la sua poca accessibilità agli argomenti teoretici.
E circa il compito economico del nuovo regime, Lenin ne spiega - non solo per quel che concerne la Russia, di cui dovremo dire più oltre, ma in linea generale - così la necessaria gradualità evolutiva, come la vera natura delle distinzioni che lo contrappongono all'assetto della economia privata borghese, nel campo della produzione, della distribuzione, di tutte le attività collettive.
Anche qui vi è il legame luminoso, rettilineo, colle fonti più autentiche della dottrina marxista; colle risposte di Carlo Marx alle mille banali confusioni così di avversari borghesi, come di seguaci di Proudhon, di Bakunin, di Lassalle; colla migliore polemica della sinistra marxista contro il sindacalismo soreliano. L'apparente contraddizione: dopo la conquista del potere vi sarà ancora una borghesia da reprimere coll'armatura dittatoriale, vi saranno ancora elementi restii del proletariato e più del semi-proletariato da piegare con una disciplina legale, vi sarà l'intervento "dispotico" (Marx), con i decreti del nuovo potere, nei fatti economici, come il riconoscimento da parte di esso di dover "aspettare" a sopprimere certe forme capitaliste in dati campi dell'economia? - viene risolta in modo logico, esauriente, meraviglioso, nella costruzione di un programma rivoluzionario che non teme la realtà: perché non ha paura di aderire a essa; perché non ha paura di agguantarla e stritolarla in quelle parti per cui è giunto il momento di passare tra le cose, le forme morte, nel processo implacabile della evoluzione e delle rivoluzioni.
Come fattore necessario in tutta questa lotta rinnovatrice, contro le degenerazioni del laburismo e del sindacalismo, Lenin ritraccia il compito del partito politico di classe, marxista e centralizzato, quasi militarizzato nella disciplina dei supremi momenti di battaglia, e agli opportunisti rinfaccia come la politica della classe rivoluzionaria non sia bassa manovra parlamentare, ma strategia di guerra civile, mobilitazione per l'insorgimento supremo, preparazione a gestire l'ordine nuovo.
E a coronamento del magistrale edifizio, dopo gli sforzi, i dolori del parto di un nuovo regime preveduti nel classico passo di Engels, le esigenze necessarie della regola di sacrificio per le milizie di avanguardia, si erge la previsione sicura e scientifica, a ben altro affidata che alle mistiche impazienze di pensatori impotenti, della società senza stato e senza costrizioni, della economia fondata sul soddisfacimento al limite dei bisogni di ciascuno dei suoi componenti, della completa libertà dell'uomo non come individuo, ma come specie vivente in solidarietà nell'assoggettamento completo e razionale delle forze e delle risorse della natura.
A Lenin si deve dunque la ricostruzione del nostro programma, oltre a quella della nostra critica del mondo in generale e del regime borghese in particolare, che nel loro insieme completano la elaborazione teoretica della ideologia propria del proletariato moderno.
Il realizzatore della politica marxista
L'opera teoretica di Lenin non può essere considerata separatamente dalla sua opera politica: le due cose si intrecciano continuamente e noi le abbiamo divise solo per formale comodità di esposizione. Mentre ristabilisce la concezione e il programma rivoluzionario del proletariato, Lenin ne diviene uno dei più grandi capi politici, e attua nella pratica della lotta di classe i principii che difende sul terreno della critica dottrinaria. Il campo di questa sua grandiosa attività negli anni della non lunga sua vita è non solo la Russia, ma tutto il movimento proletario internazionale.
Consideriamo dapprima l'opera di Lenin in oltre trent'anni di lotta politica in Russia, fino al momento in cui egli ci appare il capo del primo stato operaio. Avversari di tutte le rive hanno voluto negare la continuità e la unità tra questo compito della grande figura storica di Lenin e la sua dottrina marxista. Non si tratterebbe di una realizzazione del programma politico del proletariato dell'occidente capitalistico e "civile", di una effettiva vittoria del socialismo quale esso appare nei paesi modernamente sviluppati, ma di un fenomeno storico spurio, proprio di un paese arretrato come la Russia, di un movimento, di una rivoluzione, di un governo "asiatici" che non hanno il diritto di collegarsi al compito storico del proletariato mondiale, che questo non ha il diritto di considerare come una sua prima vittoria, come la prova storica della realizzabilità dei suoi ideali rivoluzionari. Il borghese occidentale dice questo per rassicurarsi circa la possibilità del "contagio" bolscevico, l'opportunista socialdemocratico per non essere costretto ad ammettere la liquidazione delle sue prospettive programmatiche di collaborazione di classe e di evoluzionismo pacifico e legale, che egli spudoratamente pretende essere proprie del proletariato progredito dei paesi più "civili", l'anarchico per attribuire alla natura del popolo russo e alle tradizioni dell'assolutismo le forme coercitive della rivoluzione, e ostinarsi a non vedere la prova evidente, à créver les yeux, della necessità ineluttabile di esse.
Nulla di più balordo di questa tesi. Lenin significa il contenuto internazionale, mondiale e addirittura occidentale (se per occidente intendiamo l'insieme dei paesi popolati dalla razza bianca e infestati dalle più moderne delizie del capitalismo industriale) della rivoluzione russa. I dati di fatto dimostrano questo all'evidenza, al di fuori di tutti gli argomenti che militano per la valutazione marxista e comunista del divenire proletario di tutti i paesi.
Vladimiro Ilijc Ulianov nasce nel 1870: è venti anni dopo che egli prende posto nella lotta politica in Russia. Che cosa significa questa data, 1890, oltre al momento delle prime armi del futuro grande capo proletario? Prima di quest'epoca, già per vari decenni, è esistito in Russia un movimento rivoluzionario notevole e multiforme. Alla sopravvivenza dell'assolutismo e del feudalismo rovesciati nel resto dell'Europa dalle rivoluzioni borghesi democratiche, si accompagna un movimento che tende ad abbattere il regime zarista, e che cerca affannosamente di precisare il contenuto positivo di questa sua opposizione.
La nascente borghesia capitalistica, la media borghesia coi suoi intellettuali, tutti gli altri ceti oppressi dal peso intollerabile dei privilegi della aristocrazia, del clero, degli alti funzionari e ufficiali, partecipano a questo caotico movimento, che pure ha pagine bellissime di lotta e di eroismo, mai piegando dinanzi alle feroci repressioni del governo degli zar. Diciamo subito che i bolscevichi russi non rinnegano le loro filiazioni dalle tradizioni migliori di questo movimento degli anni 1860, '70, '80; ma Lenin e il bolscevismo rappresentano, in mezzo a questo vasto quadro, l'apporto di un coefficiente particolare e originale, destinato a prevalere su tutti gli altri fattori. Perché la data 1890, esordio di Lenin nell'agone politico, coincide semplicemente con questo: la comparsa in Russia della classe operaia. I capitali, le macchine, la tecnica industriale dell'occidente hanno varcato i confini della Santa Russia zarista, che sembrano separare due mondi, ma non possono arginare le prepotenti forze di espansione del capitalismo moderno. Col loro ingresso, col sorgere delle grandi fabbriche, sorge, dapprima in pochi importanti centri urbani, un vero proletariato industriale.
Già prima di Lenin e degli altri marxisti socialdemocratici russi, i capi intellettuali del movimento di opposizione allo zarismo hanno ansiosamente attinto alle ideologie e alla letteratura dei movimenti rivoluzionari occidentali, per servirsene nell'elaborare i loro programmi e le loro rivendicazioni. Questa importazione ideologica è resa più attiva dal fatto della continua emigrazione dei perseguitati nei centri intellettuali dell'estero, oltre che dalle qualità di facile assimilazione della razza slava. Ma non si tratta solo di una importazione di ideologie, bensì di trovare quella che corrisponda al divenire effettivo delle condizioni sociali in Russia e abbia in esse una concreta base di classe. Lo stesso marxismo penetra in Russia, come teoria, con qualcuno che cronologicamente precede Lenin, che nei suoi tempi buoni ci si presenta come uno dei migliori marxisti, che di Lenin medesimo è il maestro: Plekhanov.
Ma è Lenin, che al tempo stesso si arma dell'insieme di dottrine già elaborate per il movimento operaio avanzato dell'occidente e svolge la sua attività politica in mezzo alla nascente classe operaia seguendo le questioni concrete della sua vita nelle fabbriche ed elaborando la sua funzione originale nel quadro della vita russa. Da allora per Lenin la classe operaia, ultima arrivata, statisticamente quasi trascurabile nella immensa popolazione dell'impero degli zar, si presenta come la protagonista della immancabile rivoluzione. Ciò non può significare una funzione, un apporto "specificamente russo", ma riesce in tanto possibile, in quanto l'arrivo dall'occidente dei mezzi e delle condizioni di una economia di grande capitalismo può essere accompagnato dall'arrivo fecondatore della critica già elaborata dei caratteri essenziali di ogni capitalismo, e di un metodo, particolare alla classe proletaria, di interpretazione dei più vari ambienti sociali e momenti storici : il materialismo storico e la critica della economia borghese dei marxisti di occidente.
Se i cretinoidi della polemica giornalistica vogliono ora servirci, dopo un mistico Lenin mongolico, un Lenin professore tedesco e agente pangermanista, non abbiamo che a ricordare loro che Carlo Marx, dal quale Lenin trovò preparata la mentalità che gli occorreva, fu detto dagli ignoranti agente tedesco, mentre trasse i materiali della sua dottrina in gran parte dal paese dove il capitalismo era giunto prima nel suo sviluppo economico, l'Inghilterra, come tenne conto dei dati dalla più caratteristica delle rivoluzioni borghesi, quella di Francia, in maniera preminente. L'uno e l'altro, Marx e Lenin, vissero a lungo fuori del loro paese di origine; l'uno e l'altro, come altri grandi rivoluzionari, anche personalmente ebbero i lineamenti psicologici opposti a quelli caratteristici della razza. Al pedante universitario tedesco non si potrebbe meglio trovare un contrapposto che nel tipo mentale brillante e vibrante rappresentato da Carlo Marx, senza che questi nulla avesse a quello da invidiare in fatto di tenace laboriosità e di completa preparazione: all'inerzia contemplativa e mistica del russo si oppone in modo tagliente il realismo di pensiero e la precisione e la intensità nel lavoro della formidabile macchina umana a intenso rendimento che fu Lenin. Marx era, è vero, un ebreo: se fosse vero che questo è un difetto, nemmeno si potrebbe imputarlo a Lenin! Ma questi non sono che gli ultimi argomenti che ci permettono di definire nei due colossi i due più importanti esponenti di un movimento a cui nessun altro può contendere, nemmeno da molto lungi, la non retorica qualifica di mondiale.
Non mi è certo possibile fare la storia della funzione politica di Lenin in Russia: si tratterebbe di esporre la complessa storia del partito bolscevico e della più grande rivoluzione che la storia conosca, e i dati di tutto questo non possono, nella parte sostanziale, non esservi noti.
Lenin ci appare dapprima in modo suggestivo nella critica di tutte le posizioni teoriche e politiche degli altri movimenti di opposizione allo zarismo, e soprattutto di quelli che fabbricano teorie spurie per l'azione delle classi lavoratrici. In questa lotta contro tutte le forme di opportunismo egli è implacabile e non esita dinanzi alle più gravi conseguenze.
Lenin contrappone una ideologia della classe proletaria al liberalismo politico borghese che, attraverso gli intellettuali spinti necessariamente a essere ribelli, tende a diffondersi nel proletariato. Uno dei capi dei "narodniki" aveva dichiarato che "la classe operaia era di una grande importanza per la rivoluzione ". In questa frase si traduceva il proposito della borghesia di "servirsi" delle masse proletarie per rovesciare l'assolutismo, per poi, come in Francia un secolo prima, stabilire il suo proprio dominio anche e soprattutto contro il proletariato. Ma Lenin rappresenta la risposta: non è la classe operaia che servirà per la rivoluzione dei borghesi: ma è la rivoluzione che sarà fatta in Russia dalla classe operaia, e per se stessa.
Forte di questa geniale intuizione storica, formidabilmente corredata da studi completi sulla natura e il grado di sviluppo della economia russa, Lenin può lottare contro tutte le falsificazioni del programma rivoluzionario e i vari partiti e gruppi opportunisti. Come egli combatte quel marxismo borghese a cui abbiamo accennato, così lotta contro l' "economismo", che pretende che si debba lasciare alla borghesia la lotta politica contro lo zarismo e mantenere l'attività del proletariato sul terreno del miglioramento economico, rinviando il sorgere di un partito politico operaio a quando la borghesia avrà conquistato il potere e le "libertà politiche". In questa lotta teoretica, che si svolge verso il 1900, si mostra il contenuto della campagna contro il revisionismo bernsteiniano internazionale di prima della guerra, l'opportunismo socialnazionalista degli anni di guerra, il menscevismo del dopoguerra. Nel 1903 Lenin giunge alla scissione del partito operaio socialdemocratico russo, proclamata al congresso di Londra sebbene la formale divisione organizzativa avvenisse dopo. Apparentemente il dissidio verte su quistioni di tecnica organizzativa interna: importantissime tuttavia per un partito che lotta con mezzi illegali in un ambiente di feroce reazione. Ma il contenuto della divisione, come gli anni successivi dovevano dimostrare, è sostanziale e profondo. La scissione è voluta e preparata implacabilmente da Lenin: e allora egli pronunzia la frase: "prima di unirsi bisogna dividersi", in cui si compendia uno dei più grandi suoi insegnamenti: quello che giammai il proletariato potrà vincere senza liberarsi prima dei traditori, degli inetti, degli esitanti; che, nel recidere le parti malsane dal corpo del partito rivoluzionario. non si sarà mai abbastanza coraggiosi. Naturalmente Lenin fu detto dissolvitore, disgregatore, settario, accentratore, autocrate, e tutto quello che volete: egli si limitò a ridere di tutto questo frasario di cui fanno immancabile impiego gli opportunisti quando vedono sventate le loro manovre, come di tutta la vuota retorica per l'unità, che, fuori dalla condizione della omogeneità e della chiarezza delle direttive, non è per i marxisti che parola vuota di senso. Altri dissidi si delineano prima di arrivare a quello finale e clamoroso degli anni di guerra: l'opera chiarificatrice, a lunga mira nell'avvenire, di Lenin seguita a esplicarsi accumulando le vere condizioni della futura vittoria rivoluzionaria. In certi momenti Lenin, esule all'estero, non raccoglie che poche adesioni di semplici operai intorno a sé e al suo gruppetto di fedeli: ma egli non dubita mai dell'esito finale della lotta. L'avvenire deve dargli ragione: i piccoli gruppi diventeranno le migliaia e migliaia di proletari che nel 1917 sconfiggono lo zarismo e il capitalismo, i milioni di uomini che sfileranno in corteo interminabile intorno alla salma del loro capo sette anni dopo.
Non abbiamo modo di occuparci più addentro della critica dei bolscevichi ai "liquidatori", che dopo il 1905 volevano rinunziare alle forme illegali del partito allegando la pretesa costituzione concessa dall'imperatore; né di quella al partito socialista rivoluzionario, al suo programma che poneva in prima linea la classe contadina pretendendo che in Russia la rivoluzione proletaria non avrebbe avuto come questione centrale l'abolizione del capitalismo privato, e ai suoi metodi piccolo-borghesi; né via via di quella gli anarchici, ai sindacalisti, a tante altre scuole politiche di varia importanza agitantisi nel caleidoscopio del periodo pre-rivoluzionario.
Lenin propugna il partito che deve rispondere in modo brillantissimo alle esigenze rivoluzionarie, magnifico strumento di azione e di lotta. E viene l'ora del passaggio dalla critica polemica e dalla paziente organizzazione preparatoria alla battaglia aperta: attorno ai secessionisti di tanti episodi si comincia a formare il concentramento delle forze rivoluzionarie: nell'orbita del partito dell'avanguardia operaia vengono a collocarsi i soldati stanchi della guerra, i contadini poveri; i soviet, apparsi nel 1905 nella prima grande lotta rivoluzionaria in cui il bolscevismo si è provato e affermato vigorosamente, nel '17 si orientano a poco a poco verso il partito di Lenin. In questo periodo dell'azione le qualità di Lenin emergono in modo fantastico, e si presterebbero a qualunque forma di amplificazione mistica, se quello che avveniva non fosse per noi marxisti il necessario coronamento di una così completa ed esauriente preparazione delle condizioni rivoluzionarie in ogni campo. Nella insurrezione del luglio Lenin, malgrado la tentazione di un momento, dice risolutamente che non è ancora il momento di giocare il tutto per il tutto: ma nelle giornate di ottobre, solo o quasi solo, capisce che si è giunti al momento che non occorre lasciar passare e vibra con mano infallibile il colpo decisivo, inquadra nella magnifica manovra politica di un partito la crisi formidabile della lotta delle opposte forze sociali da cui la classe lavoratrice deve uscire trionfante.
La critica teoretica della democrazia e del liberalismo borghese culmina nell'azione, colla cacciata a viva forza da parte degli operai armati di quell' "ammasso di farabutti" che è l'assemblea costituente, democraticamente eletta!
La parola di Lenin: il potere ai soviet, ha vinto; la dittatura del proletariato teorizzata da Marx fa il suo ingresso tremendo nella realtà della storia. La controrivoluzione nei suoi sforzi molteplici non vincerà più: dinanzi alla implacabilità del terrore rivoluzionario essa dovrà indietreggiare, come non riuscirà a sfruttare contro il successo dell'opera di governo, alla cui testa sta Lenin, l'accumularsi delle difficoltà interne della economia russa e gli insuccessi del proletariato negli altri paesi del mondo. Lenin e il suo partito continuano nella nuova fase la loro opera, diversa ma non meno ardua, costruendo sempre più la loro forza e la loro esperienza.
Non abbiamo detto che poco di Lenin realizzatore di una politica marxista in Russia: ci resta ancora tutta la sua attività internazionale. Anche qui la lotta contro le deviazioni dal marxismo non è solo teoretica, ma politica e organizzativa. Non ancora abbastanza noto alle grandi folle come i leader tradizionali dei partiti della II Internazionale, Lenin anima nel seno di questa la corrente di sinistra e la lotta di essa contro il revisionismo. A lui si deve se al congresso di Stoccarda passa la mozione che preconizza lo sciopero generale in caso di guerra.
La guerra sopravviene, ed è Lenin il primo a intendere che la II Internazionale è finita per sempre nel fallimento vergognoso del 4 agosto 1914. Nel seno della opposizione socialista alla guerra, che si raduna a Zimmerwald e a Kienthal, una sinistra si polarizza sulla formula di Lenin: volgere la guerra imperialista in guerra di classe. E si va verso la fondazione della nuova Internazionale, che può sorgere nel 1919 nella capitale del primo stato proletario, avendo ormai costituita su solide basi la sua dottrina marxista, avendo dato il saggio grandioso della politica proletaria che essa attua, nella vittoria del partito comunista russo.
Dopo la restaurazione della teoria proletaria, l'opera della III Internazionale grandeggia nella applicazione concreta della divisione dagli opportunisti di tutti i paesi, nella messa al bando dalle file dell'avanguardia operaia mondiale di riformisti, socialdemocratici, centristi di ogni categoria. La palingenesi si svolge in tutti i vecchi partiti, e si costituiscono le basi dei nuovi partiti rivoluzionari del proletariato. Lenin guida con mano ferrea la difficile operazione fugando incertezze e debolezze possibili.
E' più oltre che avremo modo di dire qualcosa delle ragioni per le quali alla gigantesca battaglia non ancora è arriso in tutti i paesi il successo definitivo, e il più grande stratega del proletariato ci lascia in un momento in cui su molti fronti la lotta non volge a noi favorevole.
L'opera politica della nuova Internazionale contiene alcuni altri aspetti essenziali di cui vogliamo dire poche cose. La restaurazione teorica marxista conduceva senz'altro alle conclusioni fondamentali del primo congresso costitutivo in materia programmatica, e a buona parte delle dottrine meglio elaborate nel secondo, quello del 1920, il migliore congresso della Internazionale. Così per le questioni sulle condizioni di ammissione, sul compito del partito comunista, sulla significazione dei consigli degli operai e contadini, sul lavoro nei sindacati. Ma altre questioni sono trattate, con non minore fedeltà al metodo marxista nelle linee generali, ma con più accentuato carattere di originalità rispetto alle lacune più gravi del movimento socialista tradizionale.
Così avviene per la questione nazionale e coloniale. Ribadita sul terreno teorico e pratico senza possibilità di equivoco la condanna del socialnazionalismo coi suoi sofismi sulla difesa nazionale, la guerra per la democrazia e la libertà, la restaurazione del principio giuridico borghese di nazionalità, viene marxisticamente e dialetticamente valutata la importanza delle forze sociali e politiche che si contrappongono alla potenza dei principali stati borghesi imperialistici là dove non esiste ancora un proletariato modernamente sviluppato, ossia nelle colonie e nei piccoli paesi soggiogati dalle grandi metropoli capitalistiche. Viene così costruita una sintesi politica geniale della lotta del proletariato europeo e degli altri paesi più moderni contro le grandi cittadelle borghesi, su piattaforma squisitamente classista, e dei movimenti di ribellione delle popolazioni di oriente e di tutti i paesi coloniali, allo scopo di scuotere col concorso di tutte queste forze le basi mondiali della fortificazione difensiva del sistema capitalistico. Il proletariato comunista mondiale serba in questa posizione una attitudine di dirigenza e di avanguardia, e nulla toglie alle sue tesi ideologiche come all'obbiettivo delle sue realizzazioni, che resta la sua dittatura di classe, come nulla concede alle premesse teoriche e politiche effimere ed errate dei nazionalrivoluzionari semi-borghesi dei paesi di cui si tratta, ai quali, appena possibile, i partiti proletari comunisti dovranno togliere ogni direzione del movimento. Questa delicata questione storica non esce dal quadro della dialettica rivoluzionaria, a condizione di essere affidata a forze politiche marxisticamente mature: mentre non è da escludersi che possa condurre a qualche pericolo ove soprattutto la si volesse presentare come una "nuova" parola che differenzi l'attitudine della Internazionale da quella troppo rigida della classica sinistra marxista; il che potrebbe esser fatto solo da qualche opportunista che non rinunzia a vivere, chi sa per quali prospettive, ai margini della Internazionale. Nei termini teorici dati da Lenin alla questione, e sotto la sua direzione politica, il pericolo non era a temersi, e nessuna attenuazione, bensì una intensificazione della efficace azione rivoluzionaria mondiale, doveva considerarsi verificata.
Della questione "agraria" potremo dire tra breve poche cose. Ma anche nella presa di posizione del Secondo Congresso su tale questione, ben guardando al fondo delle cose, non si tratta che di una analisi fatta rimettendo in luce il vero punto di vista marxistico del problema della economia agricola. Anche in questo campo Lenin ci aveva dato notevoli lavori teoretici. Politicamente l'Internazionale risolve finalmente questo problema, che faceva comodo agli opportunisti di non affrontare in quanto questi eseguivano un'abile manovra spostandosi truffaldinamente dalla tesi rivoluzionaria, che il proletariato industriale sarà il primo motore della rivoluzione, alla loro attitudine opportunista di corteggiatori di interessi e privilegi di categoria di una pretesa aristocrazia operaia, che volevano trascinare a una alleanza col capitale. La dottrina agraria della III Internazionale si fonda sull'ABC del marxismo, ponendo in chiaro che cosa sia azienda agraria moderna e industriale, piccola azienda tradizionale, e soprattutto regime della piccola azienda economica collegato alla unità puramente giuridica di grandi latifondi sotto un unico proprietario, sfruttatore di più famiglie di lavoratori della terra. La gradualità di costruzione economica del socialismo, già rivendicata e giustificata nella teoria generale della Internazionale Comunista, reca come evidente conseguenza che la dittatura proletaria deve apportare a questi vari stadi agricoli diverse soluzioni: solo per il primo vi e una coincidenza col programma socializzatore della grande industria, mentre per il terzo il programma immediato non può essere che la eliminazione del latifondista e la consegna della terra alle singole famiglie contadine, fino a quando non maturino in un secondo stadio storico le condizioni tecniche di una coltura accentrata e a tipo industriale. Da questa chiara analisi teoretica di un problema che agli opportunisti ha fatto sempre comodo di non vedere, risultano in modo incontroverso i rapporti politici tra il proletariato industriale e le varie classi contadine: parallelismo completo coi salariati della terra nelle tenute industrializzate, alleanza coi contadini poveri lavoranti direttamente il terreno, rapporti da valutarsi contingentemente coi contadini semi-poveri. Dai secondi si ottiene per questa via un contributo fondamentale alla rivoluzione, senza mai dimenticare la preminenza che in essa ha il grande proletariato urbano: preminenza sancita dalla stessa costituzione della repubblica soviettista col dare peso di gran lunga maggiore alla rappresentanza degli operai rispetto a quella delle masse contadine, e dal fatto che è la prima a dare alla nuova macchina dello stato operaio il suo personale.
Anche qui esagerazioni ed equivoci sono più che possibili, ove questa preminenza di compiti rivoluzionari sia per poco dimenticata. Notevolissime sono a questo proposito le rampogne del compagno Trotskij alle tendenze "contadinistiche" che figliano l'opportunismo nel partito francese, e ci pare essenziale non dimenticare anche qui che non è il caso, non essendo ciò necessario per ingrandire l'opera dell'Internazionale che non ne ha bisogno, di affermare che si tratta di soluzioni nuove e imprevedute rispetto alla linea fondamentale marxista, quasi per gettare un'esca a certe dubbie attitudini. Né ci pare il caso, se anche non si cela sotto questo nessun sostanziale dissenso, di presentare, come sembra voglia fare il compagno Zinoviev, il bolscevismo o il leninismo come una dottrina a sé, che consista nella ideologia rivoluzionaria del proletariato in alleanza coi contadini. Questa (non diciamo nelle intenzioni del nostro compagno, ma nelle vedute di correnti opportuniste) potrebbe prestarsi come formola teoretica a controrivoluzionari camuffati da fautori di un ripiegamento storico del contenuto della rivoluzione russa: mentre tra le più belle tradizioni del partito bolscevico resta la geniale intuizione storica con cui esso ha fronteggiato il programma socialrivoluzionario, al quale ha "rubato" un punto essenziale ma per farne realizzatrice non la classe contadina, bensì quella operaia: perché solo dalla seconda, e non per le forze sue proprie, può la prima essere guidata alla liberazione.
Non posso qui di tali questioni dare più che un cenno, ma i compagni conoscono, o possono vedere, un mio opuscoletto di volgarizzazione sulla "questione agraria" e, meglio, le tesi del Secondo Congresso del nostro partito sulla questione stessa, che rappresentano la unanime presa di posizione dei comunisti italiani sulla piattaforma che ho cercato di ricordare brevemente.