Lenin nel cammino della rivoluzione (2)
Il preteso opportunista tattico
Veniamo ora a considerare l'aspetto più delicato e difficile della figura di Lenin: quello che si riferisce ai suoi criteri tattici. La tattica non è certo questione separata da quella della dottrina, del programma, della politica generale, e soprattutto per questo noi respingiamo con tutte le nostre forze questa interpretazione che ci presenta il fustigatore dell'opportunismo - di cui dette per la prima volta la definizione Federico Engels quando, come prevedendo le falsificazioni bernsteiniane, condannò l'attitudine di chi per le questioncelle quotidiane compromette la visione e la preparazione delle finali prospettive programmatiche - come quegli che alla flessibilità equivoca, alla diplomazia ruffianeggiante, al preteso "realismo" inteso come lo intende il bottegaio e il filisteo, abbia fatto nella pratica delle concessioni fatali.
Su questa nota falsa insiste il borghese per vantarsi di non si sa quale sua rivincita sull' "utopismo" attribuito idiotamente a Lenin e alla sua scuola. Su questa insiste l'opportunista per ragioni non dissimili; su questa l'anarchico per reclamare per sé la illusoria capacità di non contravvenire mai alla fedeltà integrale alle attitudini rivoluzionarie. Non posso qui svolgere neppure in piccola parte, e per molteplici motivi, tutta la questione della tattica comunista, che aspetta ben altre trattazioni, Mi propongo solo di esporre qualche osservazione su Lenin tattico e manovratore politico, e di rivendicare quello che è il vero carattere dell'opera sua. Domani un dibattito di questa natura può divenire importantissimo, non essendo escluso, e vedremo perché, che da qualche parte si invochi un insegnamento di Lenin travisato da quello che veramente deve essere, quando si sappia considerarlo nell'insieme formidabile e complesso quanto unitario dell'opera sua. Perché noi neghiamo che vi sia una discordanza, anche minima, tra il Lenin rigido e implacabile degli anni di discussione e di preparazione e il Lenin infaticabile della molteplice realizzazione.
Anche qui ci conviene esaminare prima la tattica di Lenin come capo della rivoluzione russa, poi come capo della Internazionale comunista. Molto vi sarebbe da dire su quella che fu la tattica del partito bolscevico prima della rivoluzione: abbiamo infatti detto quale fu il compito di questo partito nelle grandi direttive programmatiche come nella critica degli avversari, resterebbe da trattare il suo contegno nei rapporti coi partiti affini nelle successive situazioni contingenti, che precedettero la grande azione autonoma del 1917. Questa materia importantissima è continuamente invocata dai comunisti russi nella loro presa di posizione sui problemi della tattica internazionale: e indiscutibilmente ne va tenuto esatto conto, e se ne terrà sempre conto nei dibattiti della Internazionale.
Limitiamoci a ricordare un argomento di prima importanza, e che gli stessi compagni russi trovò a suo tempo discordi: la pace di Brest-Litowsk del 1918 con la Germania imperialista, voluta soprattutto dalla chiaroveggenza di Lenin. Significò essa un compromesso col militarismo kaiserista e capitalistico? Sì, se si giudica dal punto di vista superficiale e formalistico; no, se si segue un criterio dialettico marxista. In quella occasione, Lenin dettò la vera politica che teneva conto delle grandi necessità finali rivoluzionarie.
Si trattava di porre in rilievo lo stato d'animo che aveva dettato alle masse russe il loro slancio rivoluzionario: via dal fronte della guerra delle nazioni, per rovesciare il nemico interno. E si trattava di creare il riflesso di questa situazione disfattista nelle file dell'esercito germanico, come si era fatto fin dal primo momento colle "fraternizzazioni". L'avvenire ha dato ragione a Lenin e torto a chi giudicava superficialmente che si doveva continuare la lotta contro la Germania militarista non curandosi né di queste considerazioni a lunga mira programmatica, né di quelle pratiche (per questa volta assolutamente coincidenti colle prime: il che non sempre avviene, ed è allora che le difficoltà del problema tattico sono più gravi) che dimostravano la certezza della sconfitta per ragioni di tecnica militare. Il generale Ludendorff ha dichiarato nelle sue memorie che il crollo del fronte tedesco, dopo una serie di clamorose vittorie militari su tutte le sue parti, in un momento in cui la situazione tecnicamente era buona sotto tutti i rapporti, è stato dovuto a ragioni morali, cioè politiche: i soldati non hanno più voluto combattere. La politica genialmente rivoluzionaria di Lenin, mentre parlava un linguaggio di transazione protocollare coi delegati del Kaiser, ha saputo trovare le vie rivoluzionarie per ridestare, sotto l'uniforme dell'automa-soldato tedesco, il proletario sfruttato che è condotto al macello nell'interesse dei suoi oppressori.
Brest-Litowsk non ha solo salvato la rivoluzione russa dall'attacco del capitalismo tedesco di cui quello dell'intesa si affrettò a prendere il posto con non minore protervia controrivoluzionaria, ma, dopo che si erano guadagnati i mesi occorrenti a fare dell'armata rossa un invincibile baluardo, ha determinato la disfatta della Germania ad occidente, di cui a torto ha menato vanto la pretesa abilità strategica dei Foch o dei Diaz, dei capi militari dell'Intesa la cui inferiorità professionale la guerra dimostrò all'evidenza cento volte.
Vogliamo ora passare all'argomento su cui maggiormente si insiste per mostrare il Lenin delle concessioni e delle transazioni: quello della nuova politica economica russa, per brevemente accennarvi.
Abbiamo ricordato che debba pensarsi del compito economico della rivoluzione proletaria, della sua necessaria gradualità e della sua internazionalità, e abbiamo altresì richiamato, sia pure fugacemente, il significato teorico e politico dei rapporti che logicamente i proletari industriali di Russia dovevano stabilire colle classi contadine. Ma, ci si dice dagli avversarii, non si è trattato solo di procedere adagio verso un regime socialistico e poi comunistico bensì vi e stato un vero indietreggiamento su posizioni superate, un ristabilimento di forme puramente borghesi che si era sperato di sopprimere, un patteggiamento col capitalismo mondiale a cui si era dichiarata la guerra senza quartiere: e ciò dimostra che i comunisti e Lenin si sono adattati a praticare quello stesso opportunismo che agli altri avevano clamorosamente rimproverato.
Noi sosteniamo invece che non può parlarsi di opportunismo, poiché tutta la grandiosa manovra tattica è stata condotta, nel pensiero teoretico con cui ce la presenta Lenin, nella applicazione da lui guidata ora per ora, fino a quasi due anni addietro e, per esser chiari, nella magnifica formulazione che dava del problema Leone Trotskij in un suo poderoso discorso al IV congresso mondiale, con mira costante e tenace al supremo interesse del processo rivoluzionario e al trionfo finale nella lotta complessa contro le resistenze formidabili e molteplici del capitalismo. La sola parola: Lenin, è una garanzia di questo.
In un primo periodo il problema fondamentale della rivoluzione russa è stato quello della lotta militare, che continuava direttamente l'offensiva rivoluzionaria, nel respingere le controffensive molteplici delle forze reazionarie non tanto sul fronte politico interno, quanto su tutti i fronti che si dovettero creare contro le bande bianche sostenute dalle grandi e piccole potenze borghesi. In questa lotta epica, e che solo colla fine del 1920 si può ritenere abbia avuto termine, attraverso gli episodi e le fasi che qui non ho a ricordarvi, l'Armata Rossa e la polizia rossa si comportarono con tale brillante decisione nello stritolare il nemico, che nessuno vorrà parlare di compromessi e di rinunzia alla più ampia valutazione del conflitto di classe tra rivoluzione e controrivoluzione. Nulla autorizza finora a supporre che questa stessa decisione verrà meno, quando avesse a riacutizzarsi, o meglio a ritrasportarsi sul terreno militare, l'antagonismo tra proletariato e capitalismo mondiale su cui è costruita la politica del primo stato operaio e contadino. Orbene, in tale periodo il problema della costruzione del socialismo si presentava come secondario, e si trattava da una parte di impedire che la conquista politico-militare del proletariato potesse venire scossa, dall'altra di provocare la estensione della vittoria rivoluzionaria ad altri paesi.
Col principio del 1921 la situazione esce da questa fase: da una parte la rivoluzione in Europa si presenta, sia pure per il momento, come rinviata dinanzi al fenomeno generale della offensiva capitalistica contro gli organismi proletari, dall'altra la lotta per abbattere colla violenza il regime dei soviet viene abbandonata dalle potenze borghesi. Non si tratta più solo di vivere alla meglio e condurre la lotta, la cui necessità stessa, dinanzi al pericolo di una restaurazione borghese e zarista, ha tenuto insieme le varie classi rivoluzionarie, ma di organizzare, su formule che non potranno essere che contingenti e transitorie, la economia di un paese come la Russia in cui la forza politica del capitalismo e delle altre forme reazionarie (come il feudalismo agrario) è stata battuta, ma per l'assenza delle condizioni tecniche, economiche, sociali, per il dissesto recato da sette anni di guerra, di rivoluzione e di blocco, non si può parlare di costituire un regime economico pienamente sodalistico.
Che per questa ragione si dovessero chiamare i mandatari delle orde bianche disperse e ributtate e dichiarare loro che, non potendo costituire di un tratto la economia comunista, si riconsegnava loro il potere perché amministrassero il paese in una economia borghese; o che vi si potesse rimediare disarmando l'apparato dell'esercito e dello stato rivoluzionario e appellandosi alle misteriose iniziative "libere" e "spontanee" del "popolo", come dicono gli anarchici senza capire che propongono la stessissima cosa anzidetta, è opinione che lasceremo ai matti o ai deficienti.
Ben altra limpida e coraggiosa analisi marxista guida i bolscevichi, con Lenin alla testa, verso la difficile soluzione.
Una necessità politica e militare aveva "imposto", in quel primo periodo, un insieme di misure economiche che non erano adottate per sé stesse, ma per stroncare la resistenza di certe classi e certi ceti. Lenin definisce questo insieme di misure "comunismo di guerra". Così si dovette, senza poter pensare a vie di mezzo, demolire spietatamente il vecchio apparato amministrativo dell'industria russa, che era, in un paese arretrato, tuttavia grandemente accentrata; espropriare non solo il grande latifondista, ma il medio proprietario agricolo perché costituiva un ceto anti-rivoluzionario da metter fuori combattimento; monopolizzare completamente il commercio del grano, non potendo altrimenti assicurare l'approvvigionamento dei grandi centri e dell'esercito: senza starsi a chiedere se lo stato proletario avrebbe potuto stabilmente reggere la organizzazione socialista da sostituire a tutte queste forme soppresse per necessità.
Cessato il periodo suddetto il problema si presentò nei suoi dati essenzialmente economici, e se ne diede, per conseguenza, una nuova e diversa soluzione. Oggi tutto questo riesce chiarissimo, sol che se ne faccia un esame non intorbidato da pregiudizi pseudo-rivoluzionari. Nel quadro della società russa si riconoscono, dice Lenin, le più varie forme economiche: regime agricolo patriarcale, piccola produzione agraria per il mercato, capitalismo privato, capitalismo di stato, socialismo. La lotta non è economicamente portata al punto da situarsi soprattutto nel passaggio dal capitalismo di stato al socialismo, ma è piuttosto la lotta contro questo "capitalismo di stato" della "piovra" dell'economia contadina piccolo borghese e del capitalismo privato. Che cosa sia il capitalismo di stato indicato da Lenin, viene ben chiarito da Trotskij nel discorso già accennato (che dovrebbe essere pubblicato in italiano in un opuscolo popolarissimo). Non si tratta, come nel significato tradizionale della frase, della socializzazione attuata da uno stato "borghese", ma della socializzazione, attuata bensì, in certi campi della economia, dal potere politico proletario, ma con riserve e limitazioni che equivalgono a mantenere intatto il supremo controllo politico e finanziario dello stato adottando tuttavia i metodi della "calcolazione commerciale" capitalista.
Lo stato russo, cioè, fa l'imprenditore e il produttore, ma non può, nelle reali condizioni economiche russe, essere il solo imprenditore, come sarebbe nel regime "socialista": perché deve permettere che la distribuzione si faccia, non con un apparecchio di stato, ma a mezzo del mercato libero a tipo borghese, dove si lascia intervenire il piccolo contadino mercante, il piccolo imprenditore industriale e in certi casi il medio capitalista locale e il grande capitalista estero, in organizzazioni e aziende però controllate fortemente dalla repubblica operaia coi suoi appositi organi.
Agire diversamente, soprattutto in rapporto alla questione agraria, voleva solo dire paralizzare ogni possibilità di vita della produzione. Non potendosi parlate di socializzazione, e nemmeno di gestione statale per una quota apprezzabile, di un'agricoltura così rudimentalmente attrezzata come quella russa, non vi era altro modo per far produrre il contadino che concedergli la libertà di commercio dei generi agricoli, dopo avergli fatto versare allo stato una imposta "in natura", che prese, all'epoca indicata, il posto delle requisizioni introdotte per necessità durante il "comunismo di guerra".
Questo nuovo orientamento della politica economica si presenta come una specie di ritirata, ma questa ritirata, nel senso effettivo datole ora, non è che un momento inevitabile della complessa evoluzione dal capitalismo e dal pre-capitalismo al socialismo: momento prevedibile anche per le altre rivoluzioni proletarie, ma evidentemente di importanza tanto meno sensibile, quanto più progredito nei rispettivi paesi sarà il grande capitalismo, quanto più si sarà precedentemente diffuso il "territorio" della vittoria proletaria.
Deve notarsi un altro pericolo che la NEP arginò a tempo: il declassamento del proletariato industriale. Le difficoltà dell'approvvigionamento dei grandi centri avevano determinato una migrazione dei lavoratori dalle fabbriche verso la campagna: questo, oltre alle conseguenze economiche, ne aveva una gravissima di natura sociale-politica, togliendo alla rivoluzione e ai suoi organi la loro base principale: il proletariato urbano, e compromettendo così le condizioni più essenziali per lo svolgimento di tutto il processo. Le misure adottate permisero di fronteggiare anche questo fenomeno, di risollevare sempre più il tenore della vita economica, di lottare contro il flagello naturale dalla carestia, venuta sciaguratamente ad aggiungersi a tutte le difficoltà provocate dall'avversario.
Tra le misure che caratterizzano la nuova politica economica si comprende, naturalmente, lo stabilirsi di un modus vivendi economico e anche diplomatico cogli stati borghesi. Nessuna seria teoria della rivoluzione può pretendere che, essendo in presenza stati borghesi e proletari, vi debba essere tra questi la guerra in permanenza: questa guerra è bensì un fatto possibile, ma è interesse rivoluzionario il suscitarla solo quando essa valga a far precipitare favorevolmente quella situazione di guerra civile all'interno dei paesi borghesi, che è la via "naturale" per cui si giunge alla vittoria del proletariato. Nulla di strano dunque, mentre questo non è possibile dal punto di vista comunista, che avendo a loro volta gli stati borghesi constatata la impossibilità di suscitare in Russia una rivolta anticomunista, si sia in un periodo di tregua militare e di rapporti economici di cui da entrambe le parti si delinea il bisogno in modo concreto, Ridicolo addirittura sarebbe rimpicciolire un tale problema alla repugnanza per certi contatti protocollari e per le esigenze dell'etichetta.
La stessa situazione, su cui avvenne la rottura della conferenza di Genova, dimostra che il governo russo non rinunzia per nulla alle questioni di principio e non accenna menomamente a ritorni alle direttive della economia privata, come piace a tutti i nostri avversari di insinuare di continuo. Strappando al capitalismo, sia pure a costo di un corrispettivo adeguato preso tra le varie risorse naturali russe, alcune delle sue forze promotrici della grande produzione, si prosegue l'opera teorizzata da Lenin per sopprimere a poco a poco la piccola economia industriale agraria e commerciale che è la nemica del proletariato, e la principale nemica ove, come in Russia, la organizzazione di dominio politico del grande capitalismo è già stata messa fuori combattimento. E il problema dei rapporti politici colla classe contadina non è risolto con una formula che sappia di opportunismo, perché, se si fanno delle concessioni al piccolo contadino, non si perde di vista che esso è un fattore rivoluzionario in quanto la sua lotta contro il boiardo si è saldata con la lotta del proletariato contro il capitalismo, ma nell'ulteriore sviluppo il programma operaio deve sovrastare e superare definitivamente il programma contadino dell'alleanza.
Passerò dopo questi accenni incompleti al concetto che molti si sono fatti della tattica preconizzata da Lenin per la Internazionale Comunista, e delle sue vivaci critiche ai criteri tattici di "sinistra".
Il metodo di cui Lenin si serve per l'esame dei problemi di ordine tattico e per fare la teoria del "compromesso" è pienamente soddisfacente. Voglio però dire subito che, a mio parere, il vasto compito della elaborazione, con questo metodo, della tattica che la Internazionale deve adottare è tutt'altro che assolto. Lenin ci lascia esaurita la questione della dottrina e del programma, ma non quella della tattica. Sussiste il pericolo che il metodo tattico di Lenin venga travisato fino al punto di smarrire la visione dei suoi chiari presupposti programmatici rivoluzionari: ciò potrebbe eventualmente mettere in pericolo la consistenza stessa del programma nostro. Da alcuni elementi di destra della Internazionale viene troppo spesso invocato il criterio tattico di Lenin per giustificare forme di adattamento e di rinunzia potenziale che non hanno nulla di comune colla linea luminosamente rivoluzionaria e finalista che collega tutta l'opera grandiosa di Lenin. Il problema è gravissimo e delicatissimo,
Quale è la critica essenziale di Lenin agli errori di "sinistra"? Egli condanna ogni valutazione tattica che, invece di richiamarsi al realismo positivo della nostra dialettica storica e al valore effettivo degli atteggiamenti e degli espedienti tattici, si renda prigioniera di ingenue formule astratte, moralistiche, mistiche, estetiche, da cui scaturiscano d'improvviso risultati del tutto estranei al metodo nostro. Tutta la rampogna al frasario pseudo-rivoluzionario che viene spesso a prendere arbitrariamente il posto dei veri argomenti marxisti, non solo è giusta, ma è perfettamente intonata a tutto il quadro del grandioso lavoro di restaurazione dei valori rivoluzionari "sul serio", dovuto a Lenin, e che noi qui pallidamente cerchiamo di tracciare nei suoi lineamenti sintetici. Tutti gli argomenti tattici che si basano sulla fobia di certe parole, di certi gesti, di certi contatti, su una pretesa purezza e incontaminabilità dei comunisti nell'azione, sono roba da ridere, e costituiscono lo sciocco infantilismo contro cui Lenin si batte, figlio di pregiudizi teorici borghesi di sapore anti-materialista. Sostituire alla tattica marxista una dottrinetta morale è una balordaggine.
Questo non significa che certe conclusioni tattiche sostenute dalla sinistra, e difese da molti con questi argomenti ingenui, non si possano ripresentare come punti di arrivo di una effettiva analisi marxista spoglia di ogni velleità etica ed estetica e perfettamente pronta ad accettare, a ragion veduta, le esigenze della tattica rivoluzionaria, anche quando mancano di eleganza e di nobiltà nel loro aspetto immediato. Ad esempio, nelle tesi tattiche del Secondo Congresso del nostro partito, che costituivano un tentativo nel senso suddetto, mentre si critica il metodo tattico del fronte unico dei partiti politici come organo permanente al di sopra di questi, non si adopera mai, per giungere a tale conclusione, l'argomento che sia indegno dei comunisti trattare coi capi opportunisti, o avvicinare le loro persone. Io penso che questa stessa parola "opportunista" dovrebbe essere cambiata, per il suo sapore moralistico. Ho citato il problema non per discuterlo, ma a solo titolo di esempio esplicativo.
Tenuto conto degli ultimi portati della esperienza tattica della Internazionale, e del fatto che da due anni non ne è Lenin l'animatore, noi abbiamo il diritto di sostenere che il problema deve essere ancora discusso per arrivare a una soluzione. Noi ci rifiutiamo di far tradurre il realismo marxista di Lenin nella formula che ogni espediente tattico sia buono ai nostri fini. La tattica influisce a sua volta su chi la adopera, e non si può dire che un vero comunista, col mandato della vera Internazionale e di un vero partito comunista, può andare dovunque, con sicurezza che non sbaglierà. Noi abbiamo visto il recente esempio, a cui accenno di sfuggita, del governo operaio in Sassonia. Il presidente della Internazionale ha dovuto dire, giustamente scandalizzato, che il compagno mandato al posto di cancelliere di stato, anziché seguire la tattica rivoluzionaria prefissata e organizzare l'armamento del proletariato, si è reso prigioniero dell'osservanza della legalità. Si trattava, dice Zinoviev, non di propositi di azione comunista, ma di rispetto puramente germanico della cancelleria di stato. La frase è forte, ed è degna di Marx (forse è proprio di Marx), ma Zinoviev si deve domandare se la causa dell'insuccesso è nelle qualità di quel compagno o nella tattica stessa che si era progettata e urtava contro difficoltà insormontabili,
"Allargare" oltre ogni limite la possibilità dei progetti tattici non vene a urtare contro le stesse nostre conclusioni teoretiche e programmatiche, punti di arrivo di un vero esame realistico controllato da una continua e vasta esperienza? Noi riteniamo illusoria e in contrasto coi nostri principii una tattica che si illuda di sostituire al rovesciamento e alla demolizione della macchina statale borghese, caposaldo dimostrato così vigorosamente da Lenin, la penetrazione di non sappiamo qual cavallo di Troia entro la macchina stessa, la illusione - veramente pseudo-rivoluzionaria e piccolo borghese - di farla saltare col sasso tradizionale. La situazione, finita nel ridicolo, dei ministri comunisti sassoni dimostra questo: che non si può prendere la fortezza statale capitalistica con stratagemmi che risparmiano l'assalto frontale delle masse rivoluzionarie. E' un grave errore far credere al proletariato che si posseggono di questi espedienti per facilitare la dura via, per "economizzare" sul suo sforzo e il suo sacrifizio, L'aver creduto questo ha determinato un grave stato di disillusione nel partito tedesco, che ha spiacevoli conseguenze, anche se è discutibile che abbia avuto quella - gravissima - di non sferrare l'attacco generale diretto in un momento in cui sarebbe riuscito. Adesso o comunisti tedeschi danno la parola della insurrezione generale e della dittatura proletaria. Bisognava dire prima che, se vi sono situazioni e rapporti di forza molto variabili, e in molti casi non si può dare quella parola come formula immediata, è però assodato in modo generale che una è la via maestra da cui si dovrà necessariamente passare; che non vi sono mezze rivoluzioni, ma solo rivoluzioni.
Molti vogliono far credere che la mentalità di Lenin sia di lasciar sempre in bianco la pagina su cui si deve scrivere il quotidiano compito tattico, escludendo ogni generalizzazione. Questo sarebbe il preteso realismo "veramente marxista". Si vede così apparire un "vero marxismo", che potrebbe domani divenire analogo al "vero socialismo" staffilato da Carlo Marx. Quanto sappiamo di Lenin e del contenuto di sintesi colossale dell'opera sua, ci autorizza a respingere questa falsificazione che lo abbasserebbe al livello dell'opportunismo volgare, a debellare il quale egli ha dedicata la vita sua. Il metodo tattico marxista deve essere scevro da preconcetti tratti da ideologie arbitrarie e atteggiamenti psicologici introdotti di straforo, deve richiamarsi alla realtà e alla esperienza; ma questo non vuol dire scendere al pettegolo e imbelle "eclettismo", bollato a suo tempo da una campagna del bolscevismo russo, che cela la ignavia piccolo-borghese dei falsi rivoluzionari. Il realismo e lo sperimentalismo nostro, se rifuggono da gratuite astrazioni ideologiche, tendono però, nella elaborazione della coscienza del movimento, a raggiungere su basi rigorosamente scientifiche un indirizzo unitario e sintetico, non capriccioso e arbitrario, della pratica quotidiana.
In Lenin, noi affermiamo, la valutazione tattica, spregiudicata fin che si vuole nel senso che egli meno che ogni altro si lasciava guidare da suggestioni sentimentali estemporanee e da cocciutaggini formalistiche, non abbandonò mai la piattaforma rivoluzionaria: ossia la sua coordinazione alla finalità suprema e integrale della rivoluzione universale. E questa coordinazione deve essere precisata e chiarita nelle discussioni di tattica della Internazionale, a cui Lenin ha dato il metodo e anche indubbiamente la formulazione di alcuni risultati, ma senza lasciarcene una elaborazione completa, perché ciò non era fino a oggi storicamente possibile. Nel proseguire il lavoro, la Internazionale deve guardarsi dal pericolo che la tesi della massima libertà tattica venga a celare l'abbandono e la diserzione della "piattaforma" di Lenin ossia la perdita di vista delle finalità rivoluzionarie. Perdute di vista queste, sarebbe puro volontarismo anti-realistico quello che lasciasse a base delle decisioni tattiche non un insieme sintetico di direttive, ma, per così dire, una semplice firma di una o più persone. Questo invertirebbe tutta la disciplina unitaria, nel senso veramente fecondo, della nostra organizzazione. E non dirò altro in materia.
A chi voglia troppo sottolineare in Lenin il tattico "senza regole fisse" noi rinfacceremo sempre la unità che lega tutta l'opera politica di lui. Lenin è quel grande che, fisso lo sguardo nella meta finale rivoluzionaria, non teme di farsi chiamare nelle epoche della preparazione il dissolvitore, il centralizzatore, l'autocrate, il divoratore dei suoi maestri e dei suoi amici. E' l'apportatore spietato della chiarezza e della precisione dove questo comporta il crollo di false concordie e di alleanze posticce. E' l'uomo che sa temporeggiare quando ne è il caso, ma che in un certo momento sa formidabilmente osare e, come ho ricordato, nell'ottobre 1917, dinanzi alle stesse esitazioni del CC del suo partito, dopo averlo tempestato di messaggi pressanti, corre di persona a Pietrogrado, incita gli operai a impugnare le armi, passa su tutte le incertezze. Un borghese, che lo ha sentito parlare, racconta: "Mi avevano detto del suo linguaggio freddo, realistico, pratico; non ho udito che una serie di roventi incitazioni alla lotta: Prendete il potere! Rovesciate la borghesia! Cacciate il governo!"
Ora il Lenin delle ponderate valutazioni tattiche è lo stessissimo uomo che in potenza racchiude quelle facoltà di audacia rivoluzionaria. Molte marmotte vorrebbero rivestirsi della pelle di questo leone. Perciò noi diremo a tanti che invocano il destreggiamento e la elasticità nella tattica e citano Lenin, ma della cui potenzialità rivoluzionaria abbiamo motivo di dubitare: fate altrettanto, mostrate di essere altrettanto incarnati nella dominante necessità della vittoria della rivoluzione che nell'attimo culminante è fatta di irresistibile slancio e di colpi a fondo, e poi avrete il diritto di parlare a nome di lui!
No, Nicola Lenin non rimane il simbolo della accidentalità pratica dell'opportunismo, ma quello della ferrea unità della forza e della teoria della rivoluzione.
La funzione del capo
Lenin e morto. Il colosso, e non da ieri, ha abbandonato l'opera sua. Che cosa significa questo per noi? Qual è il posto della funzione dei capi nell'insieme del nostro movimento e del modo con cui lo giudichiamo? Quale sarà la conseguenza della scomparsa del più grande capo sull'azione del partito comunista russo e della Internazionale Comunista, su tutta la lotta rivoluzionaria mondiale? Riandiamo un poco, prima di venire alla conclusione di questo già lungo discorso, alla valutazione nostra di questo importante problema.
Vi sono quelli che tuonano contro i capi, che vorrebbero se ne facesse a meno, che descrivono, o fantasticano una rivoluzione "senza capi". Lenin stesso illumina colla sua limpida critica questa questione, sgombrandola dal confusionismo superficiale. Vi sono, come realtà storiche, le masse, le classi, i partiti e i capi. Le masse sono divise in classi, le classi rappresentate da partiti politici, questi diretti da capi: la cosa è ben semplice. Concretamente parlando, il problema dei capi ha preso uno speciale aspetto nella II Internazionale. I suoi dirigenti parlamentari e sindacali avevano incoraggiato gli interessi di certe particolari categorie del proletariato, a cui tendevano a costituire dei privilegi attraverso compromessi anti-rivoluzionari colla borghesia e lo stato.
Questi capi finirono col tagliare il legame che li univa al proletariato rivoluzionario, avvincendosi sempre più al carro della borghesia: nel 1914 si rivelò apertamente che essi, da strumenti dell'azione proletaria, erano divenuti puri e semplici agenti del capitalismo. Questa critica, e la giusta indignazione contro coloro, non devono fuorviarci al punto di negare che i capi, ma capi da quelli ben diversi, esisteranno e non possono non esistere anche nei partiti e nella Internazionale rivoluzionaria. Che ogni funzione direttiva si trasformi automaticamente, qualunque sia la organizzazione e i suoi rapporti, in una forma di tirannide o di oligarchia, è argomento cosi trito e spropositato che perfino Machiavelli cinque secoli fa poteva, nel Principe, darne una critica di cristallina evidenza. Certo al proletariato si pone questo problema, non sempre facile, di avere dei capi ed evitare che le loro funzioni divengano arbitrarie e infedeli all'interesse di classe: ma questo problema non si risolve certo ostinandosi a non vederlo o pretendendo di rimuoverlo colla abolizione dei capi, misura che nessuno saprebbe poi indicare in che consista.
Dal nostro punto di vista materialistico storico, la funzione dei capi si studia uscendo decisamente fuori dai limiti angusti in cui la chiude la concezione individualista volgare. Per noi un individuo non è una entità, una unità compiuta e divisa dalle altre, una macchina per sé stante, o le cui funzioni siano alimentate da un filo diretto che la unisca alla potenza creatrice divina o a quella qualsiasi astrazione filosofica che ne tiene il posto, come la immanenza, la assolutezza dello spirito, e simili astruserie. La manifestazione e la funzione del singolo sono determinate dalle condizioni generali dell'ambiente e della società e dalla storia di questa. Quello che si elabora nel cervello di un uomo ha avuto la sua preparazione nei rapporti con altri uomini e nel fatto, anche di natura intellettiva, di altri uomini. Alcuni cervelli privilegiati ed esercitati, macchine meglio costruite e perfezionate, traducono ed esprimono e rielaborano meglio un patrimonio di conoscenze e di esperienze che non esisterebbe se non si appoggiasse sulla vita della collettività. Il capo, più che inventare, rivela la massa a sé stessa e fa sì che essa si possa riconoscere sempre meglio nella sua situazione rispetto al mondo sociale e al divenire storico, e possa esprimere in formule esteriori esatte la sua tendenza ad agire in quel senso, di cui sono poste le condizioni dai fattori sociali, il cui meccanismo in ultimo, si interpreta partendo dall'indagine degli elementi economici. Anzi, la più grande portata del materialismo storico marxista, come soluzione geniale del problema della determinazione e della libertà umana, sta nell'averne tolta l'analisi dal circolo vizioso dell'individuo isolato dall'ambiente, e averla riportata allo studio sperimentale della vita delle collettività. Sicché le verifiche del metodo deterministico marxista, dateci dai fatti storici, ci permettono di concludere che è giusto il nostro punto di vista oggettivistico e scientifico nella considerazione di queste questioni, anche se la scienza al suo grado attuale di sviluppo non può dirci per quale funzione le determinazioni somatiche e materiali sugli organismi degli uomini si esplichino in processi psichici collettivi e personali.
Il cervello del capo è uno strumento materiale funzionante per legami con tutta la classe e il partito; le formulazioni che il capo detta come teorico e le norme che prescrive come dirigente pratico, non sono creazioni sue, ma precisazione di una coscienza i cui materiali appartengono alla classe-partito e sono prodotti di una vastissima esperienza. Non sempre tutti i dati di questa appaiono presenti al capo sotto forma di erudizione meccanica, cosicché noi possiamo realisticamente spiegarci certi fenomeni di intuizione che vengono giudicati di divinazione e che, lungi dal provarci la trascendenza di alcuni individui sulla massa, ci dimostrano meglio il nostro assunto che il capo è lo strumento operatore e non il motore del pensiero e dell'azione comune.
Il problema dei capi non si può porre allo stesso modo in tutte le epoche storiche, perché i suoi dati si modificano nel corso della evoluzione. Anche qui noi usciamo dalle concezioni che pretendono che questi problemi si risolvano per dati immanenti, nella eternità dei fatti dello spirito. Come la nostra considerazione della storia del mondo assegna un posto speciale alla vittoria di classe del proletariato, prima classe che vinca possedendo una teoria esatta delle condizioni sociali e la conoscenza del suo compito, e che possa, "uscendo dalla preistoria umana", organizzare il dominio dell'uomo sulle leggi economiche, così la funzione del capo-proletario è un fenomeno nuovo e originale della storia, e possiamo ben mandare a spasso chi ce lo vuol risollevare citando le prevaricazioni di Alessandro o di Napoleone. E infatti per la speciale e luminosa figura di Lenin, se pure egli non ha vissuto il periodo che apparirà quello classico della rivoluzione operaia, quando questa mostrerà le sue maggiori forze a terrificazione dei filistei, la biografia incontra caratteri nuovi e i cliché storici tradizionali della cupidigia di potere, dell'ambizione, del satrapismo, impallidiscono e incretiniscono al confronto della diritta, semplice e ferrea storia della sua vita e dell'ultimo particolare del suo habitus personale.
I capi e il capo sono quelli e colui che meglio e con maggiore efficacia pensano il pensiero e vogliono la volontà della classe, costruzioni necessarie quanto attive delle premesse che ci danno i fattori storici. Lenin fu un caso eminente, straordinario, di questa funzione, per intensità ed estensione di essa. Per quanto meraviglioso sia il seguire l'opera di quest'uomo all'effetto di intendere la nostra dinamica collettiva della storia, non noi però ammetteremo che la sua presenza condizionasse il processo rivoluzionario alla cui testa lo abbiamo veduto, e tanto meno che la sua scomparsa arresti le classi lavoratrici sul loro cammino.
Più ancora: questo processo di elaborazione di materiale appartenente a una collettività, che noi vediamo nell'individuo del dirigente, come prende dalla collettività e a essa restituisce energie potenziate e trasformate, così nulla può togliere colla sua scomparsa dal circolo di queste. La morte dell'organismo di Lenin non significa per nulla la fine di questa funzione se, come abbiamo dimostrato, in realtà il materiale come egli lo ha elaborato deve ancora essere alimento vitale della classe e del partito. In questo senso, prettamente scientifico, cercando di guardarci, per quanto è possibile, da concetti mistici e da amplificazioni letterarie, noi possiamo parlare di una immortalità, e per lo stesso motivo della particolare impostazione storica di Lenin e del compito suo mostrare quanto questa immortalità sia più ampia di quella degli eroi tradizionali di cui ci parlano la mistica e la letteratura.
La morte resta per noi non l'eclissi di una vita concettuale, ché questa non ha fondamento nella persona ma in enti collettivi, ma è un puro fatto fisico scientificamente valutabile. La nostra assoluta certezza che quella funzione intellettiva che corrispondeva all'organo cerebrale di Lenin è dalla morte fisica arrestata per sempre in quell'organo, e non si traduce in un Lenin incorporeo che noi possiamo celebrare come presente invisibile ai nostri riti, che quella macchina possente e mirabile è purtroppo distrutta per sempre, diventa la certezza che la funzione di essa si continua e si perpetua in quella degli organi di battaglia nella direzione dei quali egli primeggiò. Egli è morto, l'autopsia ha mostrato come: attraverso il progressivo indurimento dei vasi cerebrali sottoposti a una pressione eccessiva e incessante. Certi meccanismi di altissima potenza hanno una vita meccanica breve: il loro sforzo eccezionale è una condizione della loro precoce inutilizzazione.
Chi ha ucciso Lenin è questo processo fisiologico, determinato dal lavoro titanico cui negli anni supremi egli volle, e doveva, sottoporsi, perché la funzione collettiva esigeva che quell'organo girasse al più alto rendimento, e non poteva essere in altro modo. Le resistenze che si opponevano al compito rivoluzionario hanno rovinato questo magnifico utensile, ma dopo che esso aveva spezzato i punti vitali della materia avversa su cui operava.
Lenin stesso ha scritto che, anche dopo la vittoria politica del proletariato, la lotta non è terminata; che noi non possiamo, uccisa la borghesia, sgombrare senz'altro il suo mostruoso cadavere: questo rimane e si decompone in mezzo a noi e i suoi miasmi pestilenziali ci ammorbano l'aria che respiriamo. Questi prodotti venefici, nelle loro molteplici forme, hanno avuto ragione del migliore tra gli artefici rivoluzionari. Essi ci appaiono come il lavoro immane, necessario ad affrontare le gesta militari e politiche della reazione mondiale e le trame delle sette controrivoluzionarie, come lo sforzo spasmodico per uscire dalle strettezze atroci della fame prodotta dal blocco capitalista, cui Lenin doveva sottoporre il suo organismo senza potersi risparmiare. Ci appaiono, tra l'altro, come i colpi di rivoltella della socialrivoluzionaria Dora Kaplan, che restano collocati nelle carni di Lenin e contribuiscono all'opera dissolvitrice. Sforzandoci di essere pari all'obiettività del nostro metodo, noi possiamo solo trovare in questa valutazione di fenomeni patologici nella vita sociale il modo di esprimere un giudizio su certe attitudini che altrimenti non sarebbero, nella loro insultante insensatezza, suscettibili di essere giudicate, come quella degli anarchici nostrani che hanno commentato la scomparsa del più grande lottatore della classe rivoluzionaria sotto il titolo: "Lutto o festa?". Anche questi sono fermenti di un passato che deve scomparire: l'avvenirismo paranoico è sempre stata una delle manifestazioni delle grandi crisi. Lenin ha sacrificato se stesso nella lotta contro queste sopravvivenze che lo circondavano anche nella triplice fortezza della prima rivoluzione; la lotta sarà ancora lunga, ma finalmente il proletariato vincerà levandosi fuori dalle molteplici pietose esalazioni di uno stato sociale di disordine e di servitù, e del loro disgustoso ricordo.
La nostra prospettiva dell'avvenire
Al momento in cui Lenin muore, un interrogativo si presenta dinanzi a noi, e noi certo non lo sfuggiremo. La grande previsione di Lenin è forse fallita? La crisi rivoluzionaria, che con lui noi attendevamo, è rinviata, e per quanto?
La organizzazione in partito, che permette alla classe di essere veramente tale e vivere come tale, si presenta come un meccanismo unitario in cui i vari "cervelli" (non solo certamente i cervelli, ma anche altri organi individuali) assolvono compiti diversi a seconda delle attitudini e potenzialità, tutti al servizio di uno scopo e di un interesse che progressivamente si unifica sempre più intimamente "nel tempo e nello spazio" (questa comoda espressione ha un significato empirico e non trascendente). Non tutti gli individui hanno dunque lo stesso posto e lo stesso peso nella organizzazione: man mano che questa divisione dei compiti si attua secondo un piano più razionale (e quello che è oggi per il partito-classe sarà domani per la società) è perfettamente escluso che chi si trova più in alto gravi come privilegiato sugli altri. La evoluzione rivoluzionaria nostra non va verso la disintegrazione, ma verso la connessione sempre più scientifica degli individui tra loro.
Essa è anti-individualista in quanto materialista; non crede all'anima o a un contenuto metafisico e trascendente dell'individuo, ma inserisce le funzioni di questo in un quadro collettivo, creando una gerarchia che si svolge nel senso di eliminare sempre più la coercizione e sostituirvi la razionalità tecnica. Il partito è già un esempio di una collettività senza coercizione.
Questi elementi generali della questione mostrano come nessuno meglio di noi è al di là del significato banale dell'egualitarismo e della democrazia "numerica". Se noi non crediamo all'individuo come base sufficiente di attività, che valore può avere per noi una funzione del numero bruto degli individui? Che può significare per noi democrazia o autocrazia? Ieri avevamo una macchina di primissimo ordine (un "campione di eccezionale classe", direbbero gli sportivi) e questo potevamo metterlo all'apice supremo della piramide gerarchica: oggi questi non v'è ma il meccanismo può seguitare a funzionare con una gerarchia un poco diversa in cui alla sommità vi sarà un organo collettivo costituito, si intende, da elementi scelti. La questione non si pone a noi con un contenuto giuridico, ma come un problema tecnico non pregiudicato da filosofemi di diritto costituzionale o, peggio, naturale. Non vi è una ragione di principio che nei nostri statuti si scriva "capo" o "comitato di capi", e da queste premesse parte una soluzione marxista della questione della scelta: scelta che fa, più che tutto, la storia dinamica del movimento e non la banalità di consultazioni elettive. Preferiamo non scrivere nella regola organizzativa la parola capo perché non sempre avremo tra le file una individualità della forza di un Marx o di un Lenin. In conclusione, se l'uomo, lo "strumento" di eccezione esiste, il movimento lo utilizza: ma il movimento vive lo stesso quando tale personalità eminente non si trova. La nostra teoria del capo è molto lungi dalle cretinerie con cui le teologie e le politiche ufficiali dimostrano la necessità dei pontefici, dei re, dei "primi cittadini", dei dittatori e dei duci, povere marionette che si illudono di fare la storia.
Non è la prima volta che noi marxisti ci sentiamo rinfacciare che le previsioni rivoluzionarie, "catastrofiche", dei nostri maestri sono state smentite dai fatti. Soprattutto nelle opere degli opportunisti socialisti si enumera con compiacenza quante volte Marx ha atteso la rivoluzione ed essa non è venuta.
Nel '47, nel '49, nel '50, nel '62, nel '72, Marx ripete la sua convinzione - e si citano più o meno esattamente i passi relativi - che la crisi economico-politica del capitalismo corrispondente a quella data epoca si risolverà nella rivoluzione sociale. I passi son tolti a casaccio da opere teoretiche di quel corpus complesso che sono i materiali del marxismo. Naturalmente sono gli stessi critici quelli che poi ci vorrebbero servire un Marx riformista e tutto "pacifici tramonti" senza saperci dire come si concilierebbe poi col Marx annunziatore precipitato e impaziente di catastrofi apocalittiche. Ma lasciamo costoro e vediamo che può dirsi di questo delicato argomento della previsione rivoluzionaria.
Se noi consideriamo l'attività di un partito marxista nel suo aspetto puramente teoretico di studio della situazione e dei suoi sviluppi, dobbiamo certo ammettere che, se questa elaborazione fosse giunta al suo maximum di precisione, dovrebbe essere possibile, almeno per linee generalissime, dire se si è più o meno prossimi alla crisi rivoluzionaria definitiva. Ma, anzitutto, le conclusioni della critica marxista sono in continua elaborazione nel corso del formarsi del proletariato in classe sempre più cosciente, e quel grado di perfezione non è che un limite a cui ci si sforza di approssimarci. In secondo luogo il nostro metodo, più che avere la pretesa di enunciare una profezia in tutte le regole, applica in maniera intelligente il determinismo a stabilire delle enunciazioni in cui una data tesi è condizionata da certe premesse. Più che sapere che cosa accadrà, a noi interessa giungere a dire come accadrà un certo processo quando certe condizioni si verificheranno, e che cosa ci sarà di diverso se diverse saranno le condizioni. L'affermazione fondamentale di Marx e di Lenin che noi rivendichiamo come non smentita, è quella che il capitalismo moderno pone in modo generale le condizioni necessarie della rivoluzione proletaria, e che quando questa avverrà, non potrà che avvenire secondo un certo processo di cui le grandi linee sono da noi enunciate come punto di arrivo di una vasta critica, partita dall'esperienza.
Se volessimo qui tornare su tutta la questione del come possa questo processo essere affrettato dall'opera del partito proletario, non ci sarebbe difficile giungere a questa conclusione. Il partito deve sapersi preparare per il comportamento da tenere nelle eventualità più diverse, ma siccome esso è un dato empirico della storia e non il serbatoio della verità assoluta e indiscutibile, nella quale noi non crediamo come in un nec plus ultra, è interessante che il partito non solo sappia che, quando la rivoluzione avverrà, si dovrà agire in quel dato modo ed essere pronti a quei dati compiti, ma creda che la rivoluzione verrà al più presto possibile. La rivoluzione totale come scopo dominante deve talmente ispirare l'azione del partito, anche a molti anni da essa, che, a patto di non cadere in errori grossolani nella immediata valutazione dei rapporti delle forze, si può affermare utile che le previsioni rivoluzionarie siano in qualche anticipo sugli avvenimenti.
La storia ci dimostra che chi non ha creduto nelle rivoluzioni non le ha mai fatte: chi le ha tante volte attese come imminenti, spesso, se non sempre, le ha viste realizzarsi. E' vero che meno che per ogni altro movimento lo scopo finale si pone a noi colla funzione di un mito motore e determinante della azione, ma non è meno vero che, nella considerazione obiettiva e marxista della formazione di una psicologia delle masse e anche dei capi, questo ingrandimento delle probabilità rivoluzionarie può, sotto le opportune condizioni, avere un compito utile.
Noi non diciamo che il capo comunista, pur sapendo la rivoluzione impossibile, debba affermarla sempre imminente. Anzi va evitata questa pericolosa demagogia, e soprattutto vanno messe in vista le difficoltà dei problemi rivoluzionari. Ma in un certo senso la prospettiva rivoluzionaria deve essere ravvivata nella ideologia del partito e della massa, come si ravviva nella mente dei capi stessi, sotto forma di un avvicinamento a noi nel tempo.
Marx visse attendendo la rivoluzione, e ciò lo pone per sempre al disopra della ingiuria che il revisionismo gli ha fatto. Lenin dopo il 1905, quando il menscevismo disperava della rivoluzione proletaria, la attendeva per il 1906. Lenin si è sbagliato: ma che cosa può fare impressione sui lavoratori, questo errore, che non solo non ha determinato alcun disastro strategico, ma ha assicurato la vita autonoma del partito rivoluzionario, o il fatto che quando, in ritardo se si vuole, la rivoluzione è venuta, Lenin ha saputo porsene alla testa, mentre i menscevichi sono ignobilmente passati al nemico?
Una o più di queste previsioni fallite non rimpiccioliscono e non rimpicciolirebbero la figura di Lenin, a più forte ragione ancora che non diminuiscono la figura di Marx, in quanto Lenin ha fatto in realtà "assaggiare" alla borghesia che cosa sia una rivoluzione. Padroni i riformisti o gli anarchici di protestare che "non è una rivoluzione", il che serve solo a sommergerli nel ridicolo che meritano, agli occhi del più semplice dei proletari.
In conclusione, delle due parti di cui si compone ciascuna delle nostre conclusioni o "previsioni" rivoluzionarie, la seconda è la vitale; la prima, che si può tradurre, se si vuole, in una data che si cerca di prefissare, ha valore secondario, è un postulato che si deve porre per scopi di agitazione e di propaganda, è una ipotesi parzialmente arbitraria come tutte quelle che deve, per necessità, porsi ogni esercito che prepari i suoi piani supponendo i movimenti del nemico e le altre circostanze indipendenti dalla volontà di chi lo dirige.
Ma ci vogliamo effettivamente chiedere quali siano le prospettive che ci si pongono oggi? I comunisti di tutto il mondo rivendicano la tesi di Lenin, che la guerra mondiale ha aperto la crisi rivoluzionaria e "finale" del mondo capitalistico. Vi possono essere stati errori secondari nella valutazione della rapidità di questa crisi e della rapidità con cui il proletariato mondiale avrebbe potuto approfittarne, ma noi manteniamo la parte essenziale della affermazione, in quanto sono ancora in piedi le considerazioni di fatto su cui essa si appoggia.
E' possibile che noi attraverseremo una fase di depressione della attività rivoluzionaria, non nel senso che si tratti di un riassettarsi dell'ordine capitalistico nei suoi fondamenti, ma nel senso che la combattività rivoluzionaria sarà minore o meno fortunata, e questo, appunto perché non smentisce le valutazioni essenziali di Lenin, ci espone al pericolo di una fase di attività opportunistica.
Nell'esordio di Stato e Rivoluzione Lenin stesso dice che è fatale che i grandi pionieri rivoluzionari vengano falsificati: come e stato di Marx e dei suoi migliori seguaci. Sfuggirà Lenin stesso a questa sorte? Certamente no, sebbene sia certo che il tentativo avrà meno rispondenza fra le file del proletariato, che per istinto seguirà a sentire nel nome di Lenin non la parola della sfiducia, ma quella dell'incuoramento generoso a combattere. Tuttavia noi già vediamo i borghesi di tutto il mondo, attoniti e sbigottiti dinanzi alla solidità del regime fondato da Lenin, di cui mostrano di doversi accorgere solo ora che il lutto di cento e più milioni di uomini si manifesta in maniera che supera tutti i ricordi storici di dimostrazioni collettive, consolarsi col descrivere un Lenin diverso dalla sua idea, dalla sua causa, dalla sua bandiera, un Lenin vincitore sì, ma per aver saputo rinculare su una parte del fronte, per aver abbandonato parti vitali del suo programma. Noi respingiamo questi complimenti ingannatori: il più grande rivoluzionario non ha bisogno di consensi avversari e di concessioni degli scribi della stampa del capitale: noi non crediamo alla sincerità di questi omaggi attraverso il fronte di classe, e riconosciamo in essi solo un nuovo aspetto delle influenze che la borghesia organizza per dominare quanto più può la ideologia del proletariato. Intorno alla bara di Lenin ben si uniscono il fervore ardente dei milioni di proletari del mondo e l'odio, anche se non sempre osato confessare, della canaglia capitalistica, cui egli fece sentire nel vivo delle carni l'aculeo della rivoluzione, la punta implacabile che ne cerca il cuore, e lo troverà.
Questo atteggiamento ipocrita del pensiero borghese prelude quasi certamente ad altri tentativi di falsificazione, a noi più o meno vicini, contro i quali i militanti di domani hanno il dovere di combattere: dovere da assolvere, se non sarà possibile colla stessa genialità, però con la stessa decisione di cui Lenin dette prova nei riguardi dei maestri del marxismo.
Non posso qui neppure in abbozzo tracciare un esame della situazione mondiale attuale. Noi siamo in presenza di un indietreggiamento delle forze della classe operaia in molti paesi, dove forme a tipo fascista prevalgono, e non siamo così ingenui da contrapporre a quei paesi, oltre alla grande e gloriosa Unione Sovietica di Russia, quelli in cui si iniziano e si preparano altre gesta della sinistra borghese e della socialdemocrazia con relativi MacDonald e Vandervelde. L'offensiva capitalistica è stata ed è un fatto internazionale: ed essa tenta di realizzare la unificazione delle forze antiproletarie per fronteggiare politicamente e militarmente le minacce rivoluzionarie, per deprimere oltre misura il trattamento economico delle classi lavoratrici.
Ma sebbene, nelle grandi linee, si tratti del tentativo borghese di colmare, con questa depressione della retribuzione del lavoro, i vuoti recati dalla guerra alla massa delle ricchezze, lo stesso successo della offensiva politica in molti paesi, e l'esame dei risultati dal punto di vista della economia mondiale, ci permettono di concludere sempre più che il dissesto portato al sistema borghese è irreparabile. Le apparenti riprese e i tentati espedienti non si risolvono che in ulteriori difficoltà e in contrasti insormontabili: tutti i paesi del mondo vanno verso una ulteriore depressione economica, e oggi, per non citare altro, assistiamo al disfarsi della potenza finanziaria della Francia, baluardo politico della reazione borghese, come ripercussione della crisi nella questione delle riparazioni. A tutto questo non si può certo contrapporre la vantata miglioria della economia italiana, che, se anche la propaganda pacchiana con cui la si vuol accreditare avesse ragione, non modificherebbe il quadro generale. Ma tutti sapete come in Italia non solo il proletariato, ma le stesse classi superiori, attraversino un periodo di malessere e di tensione economica che ogni giorno si aggrava. In Italia esiste un apparato politico che meglio di ogni altro tende a riportarne le conseguenze sulle classi lavoratrici, salvandone soprattutto gli altissimi ceti profittatori industriali e agrari: ecco per chi vi è vantaggio.
La controffensiva borghese è per noi la prova della inevitabilità della rivoluzione, entrata nella stessa coscienza delle classi dominanti. Perché la superiorità della dottrina rivoluzionaria marxista è anche in questo, che le stesse classi avversarie sono costrette a sentirne la giustezza e agiscono secondo questa sensazione, malgrado i continui aborti di dottrine e di restaurazioni ideologiche che mettono in circolazione a uso delle folle. Se potessimo riprendere l'esame dei mezzi coi quali la borghesia ha fatto quanto poteva per trovare scappatoie alle accennate "previsioni catastrofiche" gettatele sul viso dai teorici del proletariato, vedremmo come l'accoppiamento agli espedienti ingannevoli della collaborazione economica e politica - di cui i portabandiera erano, sono, e saranno certo ancora i democratici e i socialdemocratici - del metodo del contrattacco aperto e delle spedizioni punitive, dimostra che tutte le risorse sono ormai in gioco per la reazione, e che presto essa non avrà più nulla da opporre alla fatalità del suo crollo, anche se il suo proposito è di preferire alla vittoria della rivoluzione il crollo, con il regime borghese, di tutta la vita sociale umana.
Come lo sviluppo avverrà e come esso si ripercuoterà nella formazione delle falangi di lotta del proletariato, insidiata da allettamenti e prepotenze avversarie, non è qui dato di dire. Ma tutta la nostra esperienza, la dottrina su di essa edificata dalla classe operaia, il contributo colossale portato a questa opera titanica da Lenin stesso, ci fanno concludere che non vedremo una fase stabile di riassetto del capitalismo privato e del dominio borghese. Attraverso continue scosse, e non sappiamo tra quanto, noi arriveremo allo sbocco che la teorica del marxismo e l'esempio della rivoluzione russa ci additano.
Lenin può non aver ben calcolato la distanza che ci separa da questo sbocco storico: ma noi restiamo, con corredo formidabile di argomenti, autorizzati a sostenere che, nel travagliato cammino, la storia di domani passerà per Lenin, riprodurrà le fasi rivoluzionarie la cui prospettiva marxista egli ha ravvivata nella teorica e temprata nella realizzazione.
Questa è la posizione incrollabile che noi assumiamo dinanzi a qualsiasi momentaneo prevalere di forze avversarie, come dinanzi a qualunque tentativo di obliqui revisionismi di domano.
Le armi teoretiche, politiche, organizzative. che Lenin ci consegna, sono già provate alla battaglia e alla vittoria, sono abbastanza temprate da poter con esse difendere l'opera della rivoluzione, l'opera di lui.
L'opera di Lenin ci mostra luminosamente il compito nostro, e seguendone la traccia mirabile noi, a nostra volta, noi proletariato comunista del mondo, dimostreremo come i rivoluzionari sanno tutto osare nel momento supremo, così come avranno saputo, nelle tormentate vigilie, attendere senza tradire, senza esitare, senza dubitare, senza disertare né abbandonare per un attimo l'opera grandiosa: la demolizione del mostruoso edifizio della oppressione borghese.
Fine