Fattori di razza e nazione nella teoria marxista (3)
Parte terza
Il movimento del proletariato moderno e le lotte per la formazione e la libertà delle nazioni
Ostacoli feudali al sorgere delle nazioni moderne
1. L'organizzazione della società e dello Stato feudale si leva come ostacolo alla spinta borghese per la formazione della nazione unitaria moderna pel suo carattere decentrato in senso orizzontale e verticale. Mentre gli "ordini" riconosciuti hanno ciascuno un proprio diritto e in certo senso non hanno rapporti familiari esterni formando quasi nazioni a sé stanti, i distretti feudali a loro volta avendo un'economia chiusa anche nel senso della forza umana di lavoro, fanno dei gruppi dei lavoratori servi tante piccole nazioni schiave.
Riassumendo il punto di arrivo della seconda parte di questo rapporto nel tramonto della nazione classica, succeduto alla caduta dell'Impero Romano, alle invasioni barbariche e al formarsi degli Stati medievali, è bene elencare ancora quali erano gli ingranaggi feudali che impedivano il risorgere storico della nazione. Nazione è dunque un circuito geografico nell'interno del quale il traffico economico è libero, il diritto positivo è comune, e di gran massima vi è un'identità di razza e lingua. Nel senso classico la nazione lascia fuori la massa schiava e accomuna in quei rapporti i soli cittadini liberi; nel senso moderno e borghese la nazione comprende tutti quelli che vi sono nati.
Se abbiamo trovato prima della grande tappa storica greco-romana Stati che non erano nazioni, e se ne ritroviamo dopo questa e prima della tappa borghese, non abbiamo mai una nazione senza Stato. Tutta questa trattazione in senso materialista del fenomeno nazionale, si incardina quindi ad ogni passo sulla teoria marxista dello Stato, ed è qui il divario tra i borghesi e noi. La formazione delle nazioni è un fatto storico reale e fisico quanto altri, ma quando è raggiunta la nazione unitaria statalmente, essa è sempre divisa in classi sociali, e lo Stato non è espressione - come per loro - di tutto l'insieme nazionale come aggregato di persone, o sia pure di comuni e distretti, ma è l'espressione e l'organo degli interessi della classe economicamente dominante.
Due tesi sono quindi contemporaneamente vere: l'unità nazionale è una storica necessità e quindi anche una condizione del futuro avvento del comunismo la raggiunta unità, con il mercato interno unico, l'abolizione degli Ordini, il diritto positivo uguale per tutti i sudditi; lo Stato centrale, non solo non esclude ma porta all'espressione più potente la lotta della classe operaia contro di esso, e l'internazionalità di questa lotta nell'ambito del mondo sociale sviluppato.
L'economia della società feudale è prevalentemente terriera. I componenti l'ordine nobiliare si dividono il possesso di tutta la terra non solo nel senso topografico distrettuale, ma soprattutto nel senso della soggezione personale ad essi di gruppi della popolazione contadina. Per i loro privilegi i nobili formano in certo senso una "nazione": non hanno scambi di sangue con servi o artigiani o borghesi, hanno un proprio diritto, e giudici dello stesso ordine. Il loro possesso terriero ereditario nella forma pura non è nemmeno alienabile, ma segue un titolo e investitura che viene dalla superiore gerarchia feudale e in ultimo con i dati limiti dal re. L'esercizio delle armi è privilegio di tale ordine quanto ai comandi; quando si formeranno truppe di massa, saranno mercenarie e molto spesso di raccolta extranazionale.
La classe dei servi non forma una nazione, non solo in quanto non ha alcuna rappresentanza od espressione centrale, ma in quanto si riproduce in cerchi chiusi e non comunicanti; è giuridicamente dipendente dal signore e con codici variabili da zona a zona o addirittura al suo arbitrio. Il servo non ha per limite fisico la frontiera statale o per limite giurisdizionale il centro statale, ma trova ambi i limiti nel feudo del signore.
Dobbiamo ora dire dell'ordine ecclesiastico, che nelle varie fasi è vicino al potere poco diversamente dall'ordine nobile. Ma esso non è una nazione e non definisce una nazione, sia perché non può avere continuità genealogica vigendo il celibato dei preti, sia perché il suo limite è extra-nazionale. La Chiesa cattolica, nel suo stesso nome, è internazionale, per meglio dire è nella dottrina e nella organizzazione interstatale come interrazziale. Questa particolare sovrastruttura è il prodotto di una economia a isole chiuse. Il servo è il solo che fornisce forza-lavoro, e ne consuma una parte sotto forma di una frazione dei prodotti della terra: i suoi bisogni sono talmente limitati che ai prodotti manufatti provvede da sé, essendo del tutto embrionale la divisione del lavoro, ed essendo appena tollerati i primi artigiani (quelli famosi che, mentre i contadini abitano sparsi sulla terra, si raccolgono nel borgo ai piedi del castello baronale e diverranno i tremendi, rompiscatole, rivoluzionari borghesi). Il barone e i suoi pochi cagnotti consumano quanto i contadini recano di quota al castello, o producono nei campi signorili con turni di giornate. E' chiaro che questa disposizione di larghi prodotti da parte di una piccola privilegiatissima minoranza mano a mano esalta i bisogni e moltiplica la richiesta di articoli manufatti, sebbene le principesse mangino ancora con le mani e cambino la camicia solo nelle grandi occasioni.
Di qui il materiale contrasto, punto di partenza di tutta l'immensa lotta che invocherà i paroloni sonanti come Patria, Libertà, Ragione, Critica, Idealità, tra la barriera distrettuale al movimento di persone e cose, e l'esigenza del libero commercio interno in tutto lo Stato, e poi universale, che permette al signore di godere della sua ricchezza, ma accelera la corsa verso l'audacia dei mercanti che un giorno baratteranno in denaro la sacra avita terra feudale... Perché si dirà agli illusi di avere ottenuta una Patria allorché nei confini dello Stato vi sarà una Moneta, una Borsa, un Fisco unitario, condizioni per l'erompere delle forze produttive capitaliste.
Localismo feudale e Chiesa universale
2. Nella società medioevale la base produttiva ed economica non è nazionale poiché è sub-nazionale, quanto ad aziende di lavoro e a mercato. La sovrastruttura linguistica, culturale, scolastica, ideologica, non è nazionale in quanto si concentra intorno alla Chiesa cristiana di Roma, con dogma, rito e organizzazione universale. Ma non solo, nella forza della Chiesa non risiede un mezzo per vincere il particolarismo feudale, in quanto essa appoggia strettamente gli interessi e gli ordinamenti della nobiltà terriera.
Le nazioni classiche avevano già raggiunta l'unità del diritto personale e commerciale entro le frontiere politiche, perché alla produzione terriera, anche allora fondamentale, si sovrapponeva la possibilità di formazione di ammassi di merci e di moneta grazie alla disposizione del lavoro degli schiavi, e alla clamorosa ineguaglianza, non solo permessa ma tollerata dal diritto romano, del numero di questi posseduto dai vari cittadini liberi, come anche del possesso allodiale della terra.
Dopo la soppressione, che abbiamo già chiarita al lume del determinismo, di questo tipo schiavista di produzione, sarà aperta per altra via - quella borghese - la via al flusso generale delle merci manufatte, e la produzione di esse si leverà di fronte all'agricoltura ancora da pari a pari, per poi sopravanzarla enormemente - ed insensatamente - nel tempo capitalista.
Ma la nazione classica con Roma era divenuta, più che una nazione, una universalità politica territoriale di potere organizzato, su tutto il mondo non barbaro.
La crisi ineluttabile di questo modo di produzione, cui aveva condotto l'accumulazione fantastica, favorita dal centralismo statale e dalla dittatura di esso sulle province, del possesso terriero e schiavista nelle mani di pochi ricchi strapotenti, aveva facilitato ai barbari avanzanti la riduzione in frantumi di quell'organizzazione immensa e unitaria.
Nel tempo del Medioevo tuttavia questa universalità era rimasta sotto una ben diversa forma, nell'organizzazione possente della Chiesa cristiana di Roma. Non ci occuperemo qui del grande processo storico, decifrabile con le stesse direttive sociali, relativo all'Impero d'Oriente che resistette per secoli e secoli più dell'Occidentale, ma se aveva potuto arginare l'ondata tedesca da Nord-Est non poté poi resistere a quella mongola da Sud-Ovest, e cedette per vie essenzialmente analoghe, con la frammentazione di un'unità divenuta sempre più simbolica.
Nell'Europa d'Occidente il premere della esigenza di sviluppo dello scambio mercantile generale contro lo spezzettamento terriero feudale prende le forme di un'esigenza per ricostruire il centralismo, che aveva dato al mondo romano classico potenza, ricchezza e sapienza che sembrano tramontate.
Ma la risposta a tale esigenza non poteva essere quella "guelfa", che ponesse contro gli Imperi tedeschi del tempo di mezzo, e la loro bellicosa classe dirigente, l'influenza internazionale della Chiesa, anche se ciò apparve nel reale rapporto di urto delle forze di classe per le prime cittadelle della nuova classe borghese: i Comuni italiani, retti da maestri, artigiani, banchieri, mercanti, che avevano addentellati in tutta Europa.
La Chiesa infatti costituisce per tutti gli Stati sorti dallo smembramento dell'Impero - dopo i primi secoli di resistenza - una sovrastruttura comune aderente al potere dei baroni feudali e dei loro monarchi. Appunto perché non si tratta di società nazionali, le funzioni di cui parliamo trascendono i limiti delle frontiere politiche. Non vi sono ancora lingue nazionali parlate dal "popolo", ossia "volgari". La lingua dei sacerdoti è ovunque il latino, mentre la massa serva parla dialetti che non si comprendono a poche diecine di chilometri di distanza, fin quando non è lecito viaggiare per trovar lavoro o denaro, ma solo per combattere, al che poco occorre il discorso. Ma il latino non è solo la lingua unica del rito, che sarebbe poco, bensì il solo veicolo della cultura, praticamente la sola lingua che tutti e ovunque possono leggere e scrivere.
Il latino, ed esso solo, viene insegnato ai membri dell'ordine nobile, e ciò vuol dire che la scuola resta, affidata alla Chiesa, una struttura interstatale, anche quando cominciano ad esservi ammessi elementi di altre classi, che oltre ai "giovani signori" e ai preti e frati di domani, comprendono pochi figli di borghesi delle città, con esclusione assoluta (non è superata del tutto nemmeno oggi, in province disgraziate di nazioni tanto nobili quanto... Italia e Jugoslavia!) dei contadini sparsi.
Non solo quindi passa per questo setaccio unitario tutta l'alta cultura, si discutono infatti gli stessi temi e testi a Bologna, Salamanca, Parigi o Londra, ma la stessa cultura pratica, e alla fine ne esce tutto l'elemento burocratico, civile, giudiziario, militare che sia: tutta la classe che ha una cultura, non ha ancora se non molto vagamente una "cultura nazionale", e sorgono solo dopo il Mille le "letterature nazionali".
Gli stessi borghesi che si fanno le ossa pagano il loro tributo a un tale connettivo sociale, che è una sovrastruttura del tipo produttivo dominante, ma allo stesso tempo è un inevitabile mezzo di lavoro, e se da Firenze il banchiere tratta rapporti fitti di affari con Anversa o Rotterdam, lo fa con una corrispondenza commerciale in lingua latina, anche se avrebbe fatto morire di colpo, un tale latino, Cesare e Cicerone redivivi; non meno che quello della Messa.
Tuttavia l'impalcatura ideologica cattolica, malgrado la grandezza di una tale costruzione che va recisamente e senza mezzi termini al di là ed oltre le differenze di sangue, di razza, di lingua tra uomo e uomo, si lega storicamente alla difesa e alla conservazione del tipo feudale di servaggio. La collaborazione comincia alla base tra il curato e il baronetto, che si spartiscono decime e tributi del contadino sfruttato, la cui soggezione è strettamente connessa al suo legame alla terra e al feudo di nascita. D'altra parte le comunità conventuali e i vasti ordini religiosi, non senza lotta col baronato, detengono vasti possessi col rapporto produttivo del tutto identico a quello feudale, ed hanno in comune la rivendicazione che tale possesso di suoli, corpi ed anime sia inalienabilmente legato al titolo, aristocratico da un lato, ecclesiastico-gerarchico dall'altro.
Universalismo e centralismo politico
3. Benché in Italia le prime lotte dei borghesi, organizzati in piccole repubbliche comunali ma ancora incapaci di assurgere alla visione di un'economia ad organamento interregionale, abbiano trovato con la parte guelfa appoggio nel papato, Dante precorre le forme moderne borghesi invocando nella monarchia la prima forma storicamente possibile di Stato centralizzato, pur non anticipando espressamente la richiesta nazionale, nel suo ghibellino universalismo che teorizzava un potere unico europeo.
Quando Dante scrive il suo trattato De Monarchia egli, di famiglia guelfa, sposa la tesi ghibellina. Nella teoria storica che Dante esprime è fondamentale l'esigenza unitaria di un potere centralista, e l'avversione alle sterili contese tra famiglie dei Comuni e piccole Signorie. La nuova esigenza universale si appoggia sulla tradizione formidabile dell'Impero di Roma, e tralascia e combatte l'universalità della Roma cattolica; ed è per questo che Dante depreca il potere e la direzione politica del Papato ed invoca nell'Imperatore tedesco un grande monarca che unifichi in uno Stato centrale l'intera Europa: Germania e Italia, e poi Francia e il resto.
Daremo la dottrina politica di Dante al Medioevo, perché non contiene l'esigenza borghese essenziale delle nazionalità separate, o vedremo in essa un anticipo del moderno tempo borghese? Bisogna evidentemente scegliere la seconda tesi. L'istituto della monarchia assoluta sorge, nel seno del Medioevo, come la sola forma allora compatibile dello Stato centrale in conflitto col federalismo del baronato e con le sue pretese di autogoverno periferico. Dalla parte di questo sta l'oscurantismo del clero e di Roma; dalla parte delle prime corti, di cui un brillante esempio caro all'Alighieri è quello di Federico di Svevia a Palermo, la via si apre alle nuove forze produttive, al commercio, e quindi all'incoraggiamento alle arti e allo scambio delle idee fuori della dittatura scolastica. Non è certo nazionale il re svevo, ma non è tutta leggenda quella che lo descrive ateo, scienziato, artista, ed è certo che fu fondatore delle prime industrie e manifatture, precursore di forme sociali non contenibili nell'ignoranza retrograda delle aristocrazie, esperte solo nelle armi. La prima forma in cui il capitalismo si contrappone al regime antico terriero è la monarchia centrale in una grande capitale, ove artefici e artisti e scienziati aprono alla vita materiale nuovi orizzonti.
Il trattato latino De Monarchia è una prima manifestazione ideologica di questa moderna esigenza ed in questo senso è rivoluzionario, antifeudale e anti-guelfo: il futuro anticlericalismo attingerà ampiamente del resto alle invettive del gran poema contro il Papato. E se l'esigenza chiaramente nazionale non è in Dante esplicita, ed egli vede un'Italia politica unita a spregio dei signorotti locali, ma provincia dell'Impero oltremontano, ciò si deve al fatto che in Italia la borghesia moderna nacque prima, ma con carattere comunale e locale, il che non toglie importanza a questo primo erompere di forze vive dell'avvenire, ma la fece socialmente soccombere, per ragioni inerenti al mutarsi degli itinerari geografici dei nascenti scambi commerciali, prima di assurgere alla visione del potente Stato capitalista unitario a limite nazionale. Ciò non toglie però che nel paese, che doveva essere tra gli ultimi a raggiungere il postulato della nazionalità nella storia moderna, fu Dante stesso ad affermare nella letteratura la lingua volgare italiana, a porre la pietra angolare della diffusione decisiva della parlata toscana contro i cento dialetti che risentivano delle più lontane origini, dalla longobarda alla saracena.
Rivendicazioni rivoluzionarie delle borghesie nazionali
4. Nella spiegazione marxista della storia ogni periodo di passaggio da uno all'altro dei modi di produzione vede da un lato la classe dominante chiusa a difesa del suo privilegio economico con l'impiego degli apparati di potere e dell'influenza delle sue ideologie tradizionali, dall'altro la classe rivoluzionaria che lotta contro tali interessi, istituti ed ideologie e in modo più o meno deciso e completo agita nel seno della vecchia società nuove ideologie, in cui si racchiude la sua coscienza delle proprie conquiste e del futuro modo sociale di produzione. Le moderne borghesie sviluppano nelle varie nazioni europee sistemi particolarmente interessanti e suggestivi che sono vere armi di lotta, e tutti girano intorno alla grande rivendicazione di unità e di indipendenza nazionale.
L'inizio dell'età moderna e la fine del Medioevo nei manuali di storia si pongono a volte al 1492, a volte al 1305. La prima data è quella della scoperta dell'America, ed è significativa nella storia della borghesia - vera epopea nel tracciato che ne ha dato il marxismo, dalla sintesi impareggiabile del Manifesto a tutte le altre classiche descrizioni - in quanto segnò l'apertura delle vie ultra-oceaniche, la formazione della trama del mercato mondiale, il destarsi delle potentissime forze di attrazione che, sotto forma di richiesta di merci manufatte, sollecitò l'avanzata razza bianca alla guerra della superproduzione. Parallelamente a questo svolto poderoso, si spostò il centro del rigoglioso sorgere dell'industrialismo, e precisamente si spostò dall'Italia del centro-nord al cuore dell'Europa atlantica, extra-mediterranea.
Ma il 1305 è la data in cui Dante scrive la Commedia, ed in Italia le rivendicazioni della rivoluzione antifeudale e antichiesastica erano già poste, se pure in funzione di un'area geografica più limitata. Compressa la tradizione di Roma entro i limiti della penisola, e per notevoli che fossero gli apporti di nuovo sangue barbaro, le forme organizzative dei popoli tedeschi trovarono maggiore resistenza ed il regime feudale non ebbe mai vita piena.
Restando gli stessi i vantaggi della ubicazione nel bel mezzo dei mari navigabili, ripresero rapidamente i commerci e gli scambi e si sviluppò su nuove basi la divisione del lavoro. Se il sistema dei Comuni cadde e sorsero piccole Signorie e monarchie autocratiche ereditarie, non per questo prevalse il servaggio terriero, e parte notevole della popolazione restò formata da contadini ed artigiani autonomi, da piccoli e medi commercianti. La borghesia non assurse per tali particolari motivi a classe nazionale, come poté fare solo alcuni secoli più tardi ma in un campo assai più vasto. Mandata indietro dall'Italia, la rivoluzione capitalistica subì un lungo rinvio, ma al XVI, XVII, XVIII secolo poteva guadagnare Inghilterra, Francia e poi Europa centrale.
Così l'avvento di un modo di produzione nuovo, tentato in una stretta cerchia può fallire ed essere costretto dalla sconfitta ad attendere intere generazioni. Ma alla sua ripresa storica esso si affermerà in un circuito molto più vasto. E così può ammettersi che la rivoluzione comunista, schiacciata in Francia nel 1871, abbia dovuto attendere il 1917 per tentare la conquista non della sola Francia ma di tutta l'Europa; e che essendo oggi stata sconfitta e svuotata come era stata la ristretta rivoluzione borghese dei Comuni, possa finalmente dopo un periodo di altre generazioni riproporsi come estesa a tutto il mondo e non solo a quello occupato e controllato dalla razza bianca.
Come nel periodo tra il XII e il XV secolo poterono sembrare illusioni disperse dalla storia le rivendicazioni di uguaglianza giuridica dei cittadini, libertà politica, democrazia parlamentare, repubblica, mentre la loro forza non faceva che aumentare per un'affermazione storica imponente a scala europea che oggi ci appare cosa ovvia; così nel periodo attuale solo in apparenza possono sembrare sopite e dimenticate le rivendicazioni del proletariato moderno per l'abbattimento violento dello Stato democratico capitalista, la dittatura della classe lavoratrice, la distruzione dell'economia salariale e monetaria.
In tutto quel periodo le classi e i gruppi borghesi, resi più influenti dai mutamenti nelle forze e nella tecnica produttiva e dal fervore degli scambi mercantili, non cessano in ogni occasione di porre le nuove rivendicazioni e di lottare per esse, fin quando perverranno a quella totalitaria di infrangere l'ordinamento feudale e insediarsi al potere.
L'artigiano e il mercante rifiutano di considerarsi come il contadino servo sudditi di un locale nobiluccio: essi si spostano, sebbene ciò all'inizio sia anche rischioso, da un distretto all'altro e percorrono tutto il territorio statale chiamati dal loro lavoro e dai loro affari, per facile che sia ai nobili vessarli, e spogliarli di quanto avranno accumulato man mano che masse notevoli di ricchezza si formano nelle mani di individui che sono fuori degli ordini e gerarchie tradizionali. Questi pionieri di un nuovo modo di vivere rivendicano il diritto di essere cittadini dello Stato e non sudditi del nobile: nella prima forma essi si dichiarano sudditi del re, per quanto assoluto. Il monarca e la dinastia sono la prima espressione di un potere centrale riferito all'intero popolo e a tutta la nazione. Il legame, cardine del diritto borghese, tra Stato e suddito, tende a stabilirsi direttamente senza essere trasmesso per le frammentarie gerarchie feudali.
Se vogliamo vedere questo trapasso nel campo della base economica, ricorderemo il romanzo dedicato all'episodio Il Re d'Inghilterra non paga. La grande banca borghese fiorentina dei Bardi anticipò al re in fiorini d'oro una somma colossale per un fondo di guerra: ma il re, perduta la guerra, non pagò gli interessi né restituì il capitale: la banca fallì e l'economia fiorentina ebbe un colpo enorme. Il vecchio banchiere morì di crepacuore non avendo trovata alcuna giurisdizione davanti alla quale tradurre il debitore sfrontatamente moroso. Nel sistema borghese avrebbe potuto citarlo avanti lo stesso magistrato inglese, e farsi pagare.
In una commedia di Lope de Vega, se vogliamo far cenno alla rivendicazione giuridica, il re fa la figura migliore, ma la rivendicazione è sempre borghese. In un paese di provincia un don Rodrigo del posto rapisce una giovane. Il padre, cui si ride sul viso, va a Madrid e si rivolge al re; questi in incognito lo segue al paese, con scarso seguito e senza armi; si siede come giudice, condanna severamente il comparso signore e libera la giovane con i dovuti indennizzi: il concetto che ogni cittadino trova giudice nel re contro il sopruso del potere distrettuale, traduce la rivendicazione centralista borghese.
Famoso è poi il mugnaio di Sans Souci che a Federico di Prussia, che gli voleva espropriare il mulino per ingrandire il parco del suo castello di delizie, oppose rifiuto, e uscì dall'udienza dicendo: "Vi sono dei giudici a Berlino!". Il giudice può condannare il re nel nome del re, e questo pare un capolavoro di stile nella concezione borghese del diritto: ma ben presto la stessa borghesia per esigenze rivoluzionarie sarà più risoluta e condannerà i re al taglio della testa.
Man mano che nell'ambito degli antichi Stati retti dalla nobiltà terriera come nei casi classici di Francia e Inghilterra, cresce rispetto all'economia agricola l'importanza dei commerci e delle manifatture, man mano che sorgono le grandi banche, i debiti di Stato, il sistema protezionista, il sistema fiscale centrale ed unico, le borghesie invocano maggiori privilegi al potere regale ossia all'amministrazione centrale. Nella sovrastruttura ideologica, e nell'agitazione culturale e politica per questi postulati nuovi, tutti questi sistemi unitari sono descritti e magnificati come espressione, non di una dinastia per diritto divino riconosciuta ed investita dai poteri religiosi, ma del popolo tutto, dell'insieme dei cittadini, della nazione, in una parola. Il patriottismo, questo ideale che si era eclissato dopo l'esaltazione nell'antichità classica, ridiventa il tema delle civili esaltazioni e ben presto infiamma (partito com'è dalle esigenze di trafficanti e fabbricanti) gli intellettuali, gli scrittori e i filosofi, che alle nuove prementi forze produttive sovrappongono una meravigliosa architettura di principii supremi e di decorazioni letterarie.
Iridescenti sovrastrutture della rivoluzione capitalista
5. Come le condizioni per la lotta rivoluzionaria del moderno proletariato si pongono nel pieno espandersi del modo capitalista di produzione, così la dottrina e il programma della rivoluzione comunista internazionale si costruiscono avendo appieno svolta la critica delle ideologie borghesi, che presero diversi caratteri nazionali in quanto appunto ogni rivoluzione borghese è nazionale, e ha suoi peculiari caratteri nella particolare maniera di costruire quella che Marx definisce "la coscienza che ogni epoca ha di se stessa".
In Italia, come abbiamo indicato, il contenuto economico della forma borghese si presenta precoce, ma insufficiente ad assumere il controllo della società: il contenuto politico, storicamente di prima importanza, si limita al controllo di piccole libere repubbliche cittadine, artigiane, commercianti o marinare. Queste forme non riusciranno storicamente a passare alla costituzione di un potere nazionale. Ma mentre questa prima società borghese sarà riassorbita da quella feudale europea malgrado le sue vittorie militari contro l'imperatore germanico, i suoi effetti nella "sovrastruttura" ideologica e soprattutto artistica si faranno sentire nei secoli immediatamente successivi. Il richiamo alle forme politiche della romanità e agli istituti classici di libertà fatto dai cittadini delle prime repubbliche, si riflette, più che nell'organizzazione degli Stati e delle nazioni, nella fioritura della nuova tecnologia e nel grande splendore dell'arte del Rinascimento, che ritrova e ravviva i modelli classici.
Parallelamente prendono lo stesso slancio, col ritrovamento e il rinnovato studio dei testi classici, che fornisce materiale ravvivato e reso attuale per le esigenze sociali del tempo, la letteratura e la scienza che si contrappongono al dominio conformista della cultura cattolica e scolastica. Questo moto immenso è dunque il prodotto di un particolare sviluppo dello scontro e del trapasso tra due modi di produzione, la luce dell'esplosione di una nuova società nel seno dell'antica, che tuttavia non ha potuto rompere gli ultimi involucri e li ha solo scossi in un terremoto storico; è tutto questo, o quello che meglio si potrebbe sviluppare ed esporre, piuttosto che il risultato di uno strano congresso nelle alcove di spermatozoi avventurati che avrebbero dato contemporanea nascita ad architetti, pittori, scultori, poeti, musici, pensatori, scienziati, filosofi, e così via, tutti di primissima grandezza.
E artisti, poeti e ideologi con opere memorabili e capolavori famosi non mancarono di esaltare, pure in una situazione di politica e sociale servitù, il concetto di patria e di nazionalità italiana, cui lontani imitatori, in verità spesso di calibro assai misero, fecero incessante e anche stucchevole ricorso. In Germania, ove deve parlarsi, e tante volte si parla nelle invettive di Marx e di Engels di una serie di aborti nel parto della Nazione, si ebbe altro grandioso fenomeno: la Riforma che del resto si diffuse variamente a tutta l'Europa.
La lotta sociale di nuovi ceti contro l'antica dominazione dei principi feudali sostenuti dalla Chiesa non riuscì a concretarsi in risultati politici, ma nemmeno si limitò in quel primo tempo alla critica di scuole artistiche o filosofiche, bensì si esplicò nello stesso organismo della Chiesa e si trasportò sul terreno dei dogmi religiosi. Vediamo qui una fase del frammentarsi dell'unica Chiesa in diverse chiese nazionali che si sottraggono alla normativa di Roma, non solo variando più o meno gli articoli della dottrina mistica, ma soprattutto spezzando i legami con la gerarchia del clero e sostituendo le nuove gerarchie nazionali. Se uno degli aspetti con cui lo Stato nazionale borghese appare nella storia è la lingua nazionale, altro non meno importante è la religione. La manifestazione tedesca fu più imponente nell'aspetto di religione e di Chiesa nazionale. La sostanza era il fremere delle nuove classi: borghesi e maestri artigiani delle città tedesche, come contadini servi delle campagne tedesche, guardavano a Lutero come a quello che li avrebbe guidati alla lotta contro i principi, baluardo dell'ingranaggio feudale e terriero, ma Lutero non solo sconfessò Münzer che capitanava la vinta gloriosa insurrezione dei contadini contro i piccoli principi, ma non seppe nemmeno condurre questi a vincere i grandi principi.
Se i limiti e i vincoli della società del Medioevo furono rotti in Italia solo nella letteratura e in Germania solo nella religione, espressioni di rivoluzioni o immature o schiacciate, nel primo storico caso puro, che è quello dell'Inghilterra, fu investita in pieno nelle sue profonde strutture l'economia sociale. Ivi mentre la produzione agricola, per motivi climatici e geografici non avrebbe mai potuto condurre ad alimentare una popolazione intensa, prese uno sviluppo dominante la produzione manifatturiera e industriale, ignota fino allora a qualunque paese. Gli stessi affittaiuoli delle tenute fondiarie accumularono forti capitali pecuniari mentre sempre più numerosi contadini venivano privati della terra e proletarizzati: si formarono assai più intensamente che altrove tutte le condizioni della produzione capitalistica e la borghesia manifatturiera prese grandissima importanza. Nobiltà e dinastia furono battute e, malgrado la breve vita della repubblica rivoluzionaria e l'uccisione di Cromwell, ben presto con una nuova rivoluzione la borghesia prese il potere, nella forma che oggi ancora dura della monarchia parlamentare.
Indiscutibilmente le condizioni geografiche non meno di quelle produttive contribuivano a dare al Regno Unito il carattere di nazione bene opposta a tutte le altre, il confine essendo ovunque il mare. Ma bene Engels notava, nella critica al programma di Erfurt (in cui proponeva per la Germania ancora divisa in staterelli federati la rivendicazione della "Repubblica una e indivisibile" che nelle due isole si trattava di almeno tre nazionalità, con suddivisioni sia di lingua che di razza e anche di religione. Col tempo infatti si staccheranno sostanzialmente gli Irlandesi, celti di razza, cattolici, di lingua gaelica, che era quasi scomparsa; e gli Scozzesi si sentono ancora molto diversi dagli Inglesi, a parte altre infiltrazioni e tradizioni razziali, come nel Galles, e tutti gli effetti del sovrapporsi di invasioni e migrazioni da Romani, Normanni ed infine Sassoni. Un misto dunque di razze, di tradizioni, di dialetti e di lingue anche letterarie, di religioni e chiese, ma la prima formazione di quel fatto storico che è lo Stato nazionale unitario, e corrisponde all'avvento pieno del modo sociale capitalistico.
In Francia infine l'ossatura dello Stato nazionale si va costruendo nella lotta civile delle classi fra loro. I limiti geografici sono definiti con precisione, salvo la storica oscillazione della frontiera verso il Reno, da mari e da catene di montagne. Un rapido processo ha condotto alla formazione di una lingua unica e di una letteratura che vi aderisce strettamente assorbendo le prime del Medioevo e cancellandone le differenze: del resto lo sono state man mano anche le non lievi diversità etnologiche. Non va dimenticato che questa nazione per antonomasia prende lo stesso nome dai Franchi, popolo tedesco che venne dall'Est e scacciò o sottomise gli autoctoni Galli, o Celti. Due popoli dunque di origine non latina, il che non impedì che la lingua uscisse dal ceppo latino.
La richiesta dell'unità nazionale non era dunque territoriale ma sociale, e la borghesia ottenne presto di divenire il terzo ordine riconosciuto e di avere rappresentanze negli Stati generali che affiancavano consultivamente il regio potere. Quando questo non bastò, la lotta fu direttamente politica. Non vi era un industrialismo comparabile a quello britannico, e di ciò sono anche espressione le scuole economiche: gli Inglesi ci dettero subito la teoria e l'apologia del capitalismo di produzione, la Francia uscì dall'agraria scuola fisiocratica, e passò a quella mercantile che vedeva il valore non nel lavoro produttivo ma nel commercio dei prodotti.
Politicamente non vi furono esitazioni: la borghesia francese aspirando direttamente al potere costruì la sua dottrina dello Stato: sovranità non derivante da eredità e da diritto divino ma da consultazione dell'opinione dei cittadini; caduta del dogma e trionfo della ragione, distruzione degli Ordini e delle corporazioni, democrazia elettiva, parlamento e repubblica. L'altra forma nazionale squisita del potere della borghesia era stata gettata d'un blocco dalla fucina della storia. Nel trapasso dal modo di produzione feudale a quello moderno, dunque, fondamentale base economica è il contrasto delle forze produttive coi vecchi rapporti, e le sovrastrutture politiche giuridiche e ideologiche erompono da questa palingenesi della base economica. Ma ciò non si riduce ad una formuletta da farmacisti. La borghesia non ha fatto una rivoluzione mondiale ma una gamma, una rosa di rivoluzioni nazionali, e non è detto che le abbiamo già tutte viste.
Dal sommario e scarno scorcio che abbiamo dato potremmo porre in rilievo, ai fini del fondamentale studio delle "aree" geografiche e dei "periodi storici" che facciamo per la rivoluzione borghese, al fine di procedere bene allo studio di quella - non più a colorazioni nazionali, ma ugualmente inserita in limiti di tempo e spazio nella ricchezza della sua dinamica - del proletariato, questa serie di avvicendamento. Italia: arte; Germania: religione; Inghilterra: scienza economica; Francia: politica. L'integrale sovrastruttura della base produttiva capitalista.
Le gesta della borghesia nella storia sono, com'è chiaro, al tempo stesso economiche, politiche, artistiche e religiose. Ma la ricchezza del suo cammino non si può meglio riassumere se non con le parole stesse del Manifesto: "Ognuno degli stadi della borghesia si accompagnò ad un corrispondente progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, associazione armata e autonoma nei Comuni, qui repubblica civica indipendente, là Terzo stato tributario della monarchia; poi, al tempo della manifattura, contrappeso della nobiltà nella monarchia a poteri limitati o in quella assoluta, principale fondamento, in generale, delle grandi monarchie, finisce col conquistare, con lo stabilirsi della grande industria e del mercato mondiale, l'esclusivo dominio politico nei moderni Stati rappresentativi. In questi il potere dello Stato non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese. Essa ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria. [...] La borghesia lotta senza posa: dapprima contro l'aristocrazia, poi contro quelle parti di essa stessa i cui interessi contrastano coi progressi della produzione industriale, sempre poi con le borghesie di tutti i paesi stranieri".
Entrata del proletariato sulla scena storica
6. Con la manifattura e l'industria capitalista si forma la nuova classe sociale dei lavoratori salariati. Vi è una coincidenza storica tra il formarsi di tale classe in masse notevoli e il grande sforzo della borghesia per assumere il potere politico e costituirsi in nazioni. Le masse proletarie, dopo una prima caotica fase di reazione al macchinismo in senso feudale-medievale, trovano la loro via al seguito della borghesia rivoluzionaria, ed è alla scala nazionale che il proletariato trova una unione di classe, non ancora un'autonomia di classe.
La storia del tempo moderno è piena di questa lotta contro la nobiltà troppo decentrata e la Chiesa troppo universale, per fondare con la vittoria e il potere integrale della borghesia le nazioni moderne. Se il contenuto di classe, e di sovvertimento del vecchio modo produttivo, è - nella spiegazione apportata dal marxismo - uniforme per tutte le borghesie nazionali, non meno chiaro resta nella nostra dottrina che le rivoluzioni borghesi, in quanto nazionali, hanno ognuna una propria originalità e una propria sagoma, con portata maggiore di quella che deriva solo dai successivi tempi storici e dalle diverse località geografiche. E ciò concorre, in pieno accordo col procedere necessario dello sviluppo capitalista, a spiegare come le nazioni così fondate sono solidali tra loro nella lotta contro l'antico regime per ragioni di classe, ma si combattono senza posa come nazioni e Stati.
Con la nuova classe dominante, il Terzo stato borghese, appare intanto, nei primi decenni del secolo decimottavo e anche prima, il nuovo fondamentale elemento sociale: la classe operaia. Le lotte per la conquista del potere contro il feudalesimo e l'alleato clero, e quella per la costituzione delle unità nazionali, sono in pieno sviluppo: gli operai delle città e delle campagne vi partecipano in pieno, anche quando cominciano ad avere organizzazioni di classe e veri e propri partiti politici che vanno anticipando il programma di abbattere il dominio della borghesia.
Al suo apparire il movimento socialista e comunista vero e proprio non solo non ignora l'enorme complessità di questo processo e ne costruisce la critica teorica, ma stabilisce le condizioni, i tempi e i luoghi nei quali i proletari daranno ai moti rivoluzionari borghesi e alle insurrezioni e guerre di nazionalità un totale appoggio.
E' bene anche qui per la chiarezza, e per soffocare subito i moti di sorpresa di taluni che mostrano sentire queste cose per la prima volta, rifarsi al Manifesto:
"Il proletariato traversa diversi gradi di sviluppo. La sua lotta contro la borghesia comincia dal suo nascere". E qui Marx ricorda la prima "reazionaria" forma di lotta: incendio di fabbriche, distruzione di macchine, di prodotti esteri, richiesta di ritornare alla condizione medievale di artigiani, già tramontata.
Questo primo trapasso da solo basterebbe a porre giù la ricetta antistorica dei semplicisti: due classi sono date, borghesia e proletariato; che questo lotti contro quella e tutto è fatto. Ma seguitiamo.
"In tale stadio gli operai formano una massa dispersa per tutto il paese e disgregata dalla concorrenza. I loro aggruppamenti in masse non sono ancora la conseguenza della loro coesione, ma dell'unione della borghesia che, per i suoi scopi politici, deve mettere in moto tutto il proletariato, e lo può fare ancora. In tale stadio i proletari non combattono già i loro nemici [leggi: i borghesi] ma i nemici dei loro nemici, gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, la piccola borghesia. Tutto il movimento storico è così concentrato nelle mani della borghesia; ogni vittoria così ottenuta è una vittoria della borghesia".
Riportiamoci al passo sulle incessanti lotte della borghesia e tra le borghesie nazionali. Esso seguita così: "La borghesia in tutto queste lotte si vede costretta a fare appello al proletariato, a chiederne l'aiuto, trascinandolo così nel moto politico, dandogli così quegli elementi della propria educazione [tradurremmo: allenamento], gli dà cioè le armi contro se stessa".
Le condizioni di vita del proletariato moderno, "il moderno soggiogamento al capitale, eguale in Inghilterra come in Francia, in America come in Germania, lo hanno spogliato di ogni carattere nazionale".
Questo passo che precede il famoso del secondo capitolo, che ha sempre fatto comodo, citato a freddo, agli opportunisti di tutti i tempi (e perfino ora al più fesso di tutti, quello che prende a modello il governo di Tito) corrisponde alla esatta tesi storica che abbiamo seguita nell'attuale elaborazione riespositiva della questione nazionale. La borghesia ha ovunque carattere nazionale e il suo programma è di dare alla società carattere nazionale. La sua lotta è nazionale e per condurla essa forma la sua unione, che trasmette allo stesso proletariato fin che lo adopera come alleato: la borghesia inizia la sua lotta politica costituendosi entro ogni Stato moderno in classe nazionale rivoluzionaria. Il proletariato non ha carattere nazionale ma internazionale.
Questo non si traduce nel teorema: il proletariato non partecipa a lotte nazionali, ma nell'altro: la borghesia ha il postulato nazionale nel suo programma rivoluzionario, la sua vittoria distrugge il carattere a-nazionale della società medioevale. Il proletariato non ha nel programma, che attuerà con la sua rivoluzione e con la conquista del potere politico, il postulato nazionale, cui oppone il postulato dell'internazionalismo. L'espressione nazionale borghese ha senso marxista ed è in data tappa storica richiesta rivoluzionaria. L'espressione nazione in generale ha senso idealista e antimarxista. L'espressione nazione proletaria non ha nessun senso, né idealista né marxista.
Questo mette a posto quanto riguarda sia la teoria della storia che il contenuto del programma di ciascuna classe rivoluzionaria che in essa combatte.
Lotta proletaria e ambito nazionale
7. Antiche e nuove deformazioni polemiche hanno confuso la posizione programmatica internazionalista del proletariato comunista con la natura formalmente nazionale di alcune prime tappe della sua lotta. Storicamente il proletariato non diviene una classe e non perviene ad avere un partito politico di classe se non negli ambiti nazionali, ed anche la lotta per il potere la ingaggia in una forma nazionale in quanto tende ad abbattere lo Stato della propria borghesia. Anche un certo tempo dopo la conquista del potere proletario questo può restare limitato ad ambito nazionale. Ma ciò non toglie la contrapposizione storica essenziale tra la borghesia che mira a costituire nazioni borghesi, presentandole come nazioni "in generale", e il proletariato che nega la nazione "in generale" e la solidarietà patriottica, dovendo costruire una società internazionale, per quanto comprenda che fino ad un certo stadio è rivendicazione utile, ma sempre in quanto borghese, quella della unità nazionale.
Quanto alle fasi del passaggio tra la lotta della borghesia per il potere e quella del proletariato, vale il secondo passo cui facevamo cenno:
"Poiché il proletariato deve in primo luogo conquistarsi il potere politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch'esso nazionale, sebbene per nulla affatto nel senso della borghesia".
Questo passo con altri risente in tutte le traduzioni di un certo errato gradualismo nell'uso dei termini: organizzazione politica, forza politica, dominio politico, potere politico, e infine dittatura. Detto passo segue, nella serie di risposte che nel capitolo Proletari e comunisti sono date alle obiezioni borghesi, all'altro non meno famoso: "Si rimprovera inoltre ai comunisti di voler sopprimere la patria e la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno". Dopo questa affermazione di principio così radicale, il testo non poteva seguitare: gli operai non hanno nazionalità. E' un fatto che gli operai sono francesi, italiani, tedeschi, ecc. Non solo per la razza e la lingua (sappiamo quanto vi sarebbe da ridire), ma per la fisica appartenenza a uno dei territori ove governa lo Stato nazionale dei borghesi, che influisce molto sulle vicende della loro lotta di classe, e sulla lotta anche internazionale. Questo è ben chiaro.
Staccare da questo poche frasi per far dire a Marx che gli operai hanno per programma, dopo rovesciata la borghesia, di fondare nazioni proletarie separate come aspetto essenziale della loro rivoluzione, non solo è trucco, ma al solito vale infliggere al proletariato, nell'attuale sviluppatissimo stadio, i programmi propri della borghesia, per tenerlo sotto il dominio della borghesia.
La cosa è ancor più chiara risalendo all'ordine logico e storico, prima della dichiarazione che il proletariato non ha carattere nazionale, nel capitolo precedente: Borghesi e proletari.
Abbiamo riportata la descrizione del primo stadio di lotta del proletariato contro le macchine industriali; e poi dello stadio ulteriore in quanto il proletariato attua una sua prima unione al seguito della borghesia in lotta: dunque di fatto si forma una unione nazionale degli operai, a fine borghese.
Viene poi la descrizione dell'urto tra operai e borghesi in singole aziende e località. Un grande passo è quello che "le lotte locali si accentrano in una lotta nazionale, in una lotta di classe".
Si deve guardare qui non ad uno sciocco isolamento nella nazione proletaria, ma, all'opposto, al radicale superamento del federalismo, localista, autonomista, che sempre viene battuto dal marxismo nei reazionari proudhoniani, e in tante altre ulteriori scuole similari. Non è lotta di classe quella che si svolge nel perimetro di Roccacannuccia, o di Torino. Da quando la borghesia ha condotto alla vittoria la sua rivendicazione di unità nazionale, la nostra lotta di classe apparirà la prima volta quando avrà fisicamente confini nazionali. Qui sono le altre parole essenziali: "Ma ogni lotta di classe è lotta politica"! E' la tesi buttata sul volto dei federalisti, degli economisti di tutti i tipi: "Ogni movimento economico è un movimento sociale, ed è un movimento politico"! E se non ci sono più i piccoli poteri decentrati dei nobili, ma quello che la borghesia ha attuato nel suo Stato nazionale centrale, arriviamo alla lotta politica quando abbiamo collegato l'azione dei proletari entro i confini di una nazione. Così in Europa e in Francia i proletari non lottano ancora, e nemmeno come truppa d'assalto dei borghesi, quando in Inghilterra una piena forma industriale già li contrappone come classe al padronato e allo Stato britannico.
Non siamo dunque nel campo del contenuto programmatico della lotta proletaria, ma in quello di descrivere da un lato i suoi stadi successivi nel senso del tempo, e dall'altro gli stadi nel senso dello spazio, del perimetro entro il quale le classi lottano e gareggiano (la parola stadio in origine misura non tempi ma lunghezze). Ora la borghesia nella sua lunga lotta ha raggruppato i piccoli rings feudali in un unico stadio nazionale di lotta, ed è giocoforza in esso lottare.
Il passo che segue lo dice in tutto lettere: "Non per il contenuto, ma per la forma, la lotta del proletariato contro la borghesia è a tutta prima nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente sbarazzarsi prima di tutto della propria borghesia". Ed allora gli stadi, ossia le successive fasi temperali, si seguono con tutta sicurezza.
Lotta dell'operaio contro la sua azienda in forma primitiva locale.
Lotta politica nazionale della borghesia e vittoria di essa, con la partecipazione degli operai uniti a scala nazionale.
Lotte locali e aziendali degli operai contro i borghesi.
Lotta unitaria del proletariato di un dato Stato nazionale contro la borghesia governante. Essa vale costituzione del proletariato in classe nazionale, organizzazione del proletariato in partito politico di classe.
Distruzione del dominio borghese.
Conquista del potere politico da parte del proletariato.
Da questo punto, sotto l'aspetto contingente formale e costituzionale-giuridico il proletariato, come si costituisce in Stato di classe (dittatura), deve costituirsi in Stato nazionale; e tutto ciò con carattere transitorio.
Ma con ciò non avviene che il proletariato, che non aveva carattere nazionale, lo acquisti come una sua caratteristica storica definitiva (così era invece avvenuto per la borghesia). Carattere e programma del proletariato e della sua rivoluzione restano pienamente internazionali, e il proletariato che primo "si sia anzitutto sbarazzato della propria borghesia" non si contrappone a nazioni in cui questo non sia avvenuto, ma si contrappone alle borghesie straniere seguitando la lotta unitaria al fianco dei loro proletari.
Ed ancora si conclude: il movimento proletario in date fasi storiche lotta per la costituzione delle nazioni ossia favorisce la costituzione in nazione delle borghesie. In questa fase e nella successiva in cui più non si parlerà di alleanza, il postulato nazionale è apertamente dichiarato postulato borghese.
Strategia proletaria nell'Europa del 1848
8. Non già come esposizione di dottrina o come descrizione di processo storico, ma come politica consegna strategica del fondato partito comunista, il Manifesto, nell'ambito dei paesi soggetti alla reazionaria Santa Alleanza, vuole sia dato appoggio insurrezionale ai partiti borghesi che lottano contro l'assolutismo feudale e l'oppressione delle nazionalità, e che, nel caso di vittoria borghese, segua la rottura dell'alleanza e la rivoluzione operaia.
Preferiamo parlare di strategia e non di tattica, in quanto le questioni che l'incandescente periodo storico in cui fu pubblicato il Manifesto poneva sul terreno, non comportavano soluzioni particolari, locali, contingenti, che potessero variare da luogo a luogo e consentissero successivi mutamenti e alternative di decisioni. Tattica è (come per il caso di eserciti il giudicare se una compagnia è in tali forze da attaccare, tenere la posizione o ritirarsi) il decidere il momento per iniziare uno sciopero locale, poniamo, o anche per dare il segnale della lotta a un gruppo proletario armato di un rione o villaggio. La strategia riguarda la direttiva generale di una campagna di guerra o di una rivoluzione: o ve ne sono le favorevoli condizioni o poco serve, anzi è disastroso, mutarla e invertirla nel corso dell'azione generale.
Senza strategia non vi è partito rivoluzionario. Da decenni e decenni i commentatori del Manifesto e di altri nostri testi fondamentali si arrabattano a scusare gli errori strategici che Marx avrebbe commesso nella sua prospettiva dell'azione futura dei comunisti. Infatti nel formidabile testo, e con brevità incomparabile, non è soltanto contenuta la teoria interpretativa del processo storico moderno ed il programma generale della società che dovrà succedere a quella capitalista, ma sono dati precisi riferimenti di tempo e di probabile rapidità, nelle varie zone, dello sviluppo delle lotte e guerre di classe.
Non è possibile che da una visione di insieme delle forze sociali e politiche di Europa si potesse prescindere, quando il tratto saliente di quel periodo storico era quello che, mentre ferveva in pieno il processo formativo delle nazioni, tra le liriche esaltazioni dell'ideologia borghese, tuttavia un'assonanza immediata faceva sì che al moto di Parigi facesse eco quello di Vienna, a quello di Varsavia quello di Milano, ecc., malgrado che ben diverse fossero nelle varie parti di Europa le resistenze dell'agonizzante regime pre-borghese. In quell'atmosfera rovente, tutto faceva ritenere che quello fosse l'ultimo decisivo attacco che avrebbe travolto le fortezze monarchiche ed imperiali del regime antico, e tolto ogni freno al dilagare del capitalismo.
Ma la eccezionale potenza di quella nostra proclamazione di base sta nella dichiarazione che, mentre tutto il primo piano della scena è tenuto dalla battaglia per la libertà democratica e nazionale, contro le ultime sopravvivenze del servaggio e dell'oscurantismo medioevale, è da circa dieci anni già in atto, nel tessuto della nuova economia capitalista, l'ondata d'urto delle forze produttive contro i rapporti di produzione propri non più del feudalesimo terriero, ma del lavoro salariato e del mercantilismo industriale ed agrario.
Quelli che ancora oggi fanno la corte al gonfiarsi del ritmo produttivo, e fanno, da pretesi rivoluzionari, perfetto coro agli inviti del capitale ad investire e produrre di più, dovrebbero ricordare la tremenda frase, che già nel 1848 prevede che la borghesia soccomberà perché "la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppe industrie, troppo commercio"!
La tesi centrale del Manifesto non è dunque quella che nella fase allora in atto l'Europa sarebbe divenuta comunista, ma che in ogni periodo di mutamenti violenti può avvenire la frattura del sistema di rapporti produttivi e che già allora era evidente che i rapporti di tipo capitalista non conducevano ad equilibri, ma a maggiore convellersi entro gli argini delle forze di produzione. Dopo un secolo il volume di tali forze è divenuto ben maggiore, ma è divenuto anche ben altro lo spessore delle lamine corazzate che rivestono il ventre mostruoso in cui il capitale mondiale le racchiude. Il piccolo-borghese, che non assurge alla dialettica del confronto tra una previsione scientifica e un fatto, non ha nemmeno digerito l'adagio che del senno di poi son piene le fosse, adora quelli che gli parlano terra terra e piede piede, e inorridisce se sente una tesi come questa: alla rivoluzione proletaria eravamo più vicini nel 1848 che nel 1948, come non capirebbe la tesi che è più vicino al cretinismo con la sua laurea che con la sola licenza elementare.
La strategia europea del 1848 vede dunque la classe operaia, nei vari Stati alle prese con due compiti colossali: aiutare a completare la borghese formazione di Stati nazionali indipendenti; tentare di buttare giù il potere delle borghesie già vittoriose come di quelle ancora in cammino.
La storia con le sue vicende e il raffrontarsi delle materiali forze in urto ha allungato i termini di questo processo, ma non ha incrinato il cardine strategico di allora: non si potrà passare a guadagnare il secondo punto se non è vinto il primo, ossia rovesciati gli ultimi ostacoli alla disposizione della società in Stati nazionali.
Il principale ostacolo sta in piedi dal 1815 e fu eretto dopo la caduta di Napoleone: la Santa Alleanza di Austria, Prussia e Russia. La posizione del Manifesto è che non si avrà una Repubblica sociale d'Europa se non cade la Santa Alleanza, e quindi si dovrà, coi democratici rivoluzionari del tempo, lottare contro il giogo di questa sui popoli del Centro Europa, e nello stesso tempo sbugiardare costoro davanti ai proletari preparandosi all'evento che, assicurata ovunque la borghese liberazione nazionale con le sue democrazie elettive, seguirà la crisi ancora più profonda dei contrasti del modo di produzione capitalista, con gli urti e le esplosioni storiche che esso, al posto della idilliaca uguaglianza dei cittadini nello Stato e nelle nazioni nel mondo, dovrà suscitare.
Se si è solo un poco meno pettegoli e scemi di un politico da stipendio, che sostituisce al corso storico lo spirare del suo mandato elettorale, si vede che una simile veduta di giganti fu confermata integralmente dalla storia, per dura a crepare che fosse la Santa Alleanza, e sebbene più duro ancora, come di assai più infame di essa fosse la vincitrice Civiltà del Capitale.
Il quarto capitolo, quello strategico, passa in rassegna, come è ben noto, il compito del partito comunista nei vari Stati. Un breve cenno basta a stabilire che i comunisti in America, Inghilterra e Francia, ossia in paesi di compiuto sistema capitalistico, non hanno rapporti che con partiti della classe operaia, pur criticandone deficienze teoriche ed illusioni demagogiche. Poi vi è la consegna (il cui sviluppo seguiremo in questa parte finale della nostra esposizione) relativa a Polonia e Germania, ossia a paesi sotto regime di Santa Alleanza: qui si consacra l'appoggio a partiti della borghesia: in Polonia a quello che sostiene l'emancipazione dei servi agrari e il riscatto nazionale; in Germania ai partiti della borghesia purché lottino contro: monarchia, baronato, e (si rifletta ai traditori moderni) piccola borghesia. Ed è non meno noto e ripetuto da altri documenti che questa proposta di azione comune, armi alla mano, non si stacca un attimo dalla spietata critica ai principii borghesi e ai rapporti sociali capitalistici, sulla traccia della rivoluzione borghese immediato preludio della rivoluzione proletaria. La storia non smentì questa trama, ma la lasciò da parte: come tante volte dicemmo, fallirono entrambe.
Ripiegamento rivoluzionario e movimento operaio
9. Le lotte del 1848 non condussero alla vittoria generale della borghesia europea contro le forze della reazione assolutista; tanto meno poterono condurre a una vittoria del proletariato sulla borghesia, che fu tentata solo in Francia. Nel successivo periodo sfavorevole che durò fino al 1866 la posizione dei marxisti gravitò da un lato sulla spietata critica ai borghesi liberali democratici e umanitari, dall'altro sul necessario impulso alle lotte per l'unità e indipendenza delle nazionalità, svolte con insurrezioni e guerre di Stati (Polonia, Germania, Italia, Irlanda, ecc.).
Quando all'indomani delle battaglie del 1848-49 Marx ed Engels fanno il bilancio di quel periodo convulso (apparso così promettente che ancora nell'opinione popolare ha più colore dei successivi anni di incendio e di travaglio che ha traversato l'Europa e il mondo, in questo terribile secolo) si mostrano sicuri che la fase rivoluzionaria ritornerà, non però tanto presto. Teoria prima e poi organizzazione dovranno essere sistemate prima che si possa pensare all'azione generale vittoriosa: e il tempo non mancherà.
In Germania e in tutta l'Europa Centrale come in Italia il bilancio della lotta è stato lo stesso: i borghesi rivoluzionari liberali insorti sono stati dovunque sconfitti; con loro sono stati sulle barricate gli operai in una totale alleanza condividendo il peso della grave sconfitta, e quindi la situazione ulteriore di una contesa tra borghesi ed operai per il conquistato potere non si è neppure aperta. Non dunque la rivoluzione comunista è stata sconfitta, ma la rivoluzione liberale, e gli operai hanno ovunque lottato per cercare di salvarla dalla catastrofe, come era teoricamente previsto e politicamente indicato nel Manifesto.
Fanno eccezione a questa regola storica Inghilterra e Francia. Nella prima la reazione feudale è da un secolo fuori combattimento e sono già avvenuti gli urti di classe tra il proletariato e la borghesia: dove, come nel cartismo, hanno preso una prima forma politica sia pure con programmi vaghi e ingombranti di ideologie democratiche, la borghesia non ha esitato un momento a ricorrere alla repressione più violenta, pur dovendo al tempo stesso imboccare la via delle concessioni legislative e riformistiche mitigando lo sfruttamento inumano da parte dei fabbricanti.
La Francia ha percorso via diversa, di straordinario significato per la teoria e la politica della rivoluzione proletaria. Dopo la sconfitta di Napoleone, che per Marx è una positiva sconfitta della forza rivoluzionaria borghese da parte della reazione assolutista europea, questa è la serie nota (valga il vero, per i soliti che orecchiano le frasi sul Cesare il despota, il dittatore, il soffocatore della libertà ottantunovista e simili storie: lettera 2 dicembre 1856 di Marx ad Engels: "E' un fatto storico che tutte le rivoluzioni, dal 1789, misurano con quasi certezza la loro intensità e la loro vitalità dal loro contegno verso la Polonia. Questa è il loro termometro 'esterno'. E' ciò che si può dimostrare particolarmente nella storia di Francia. Di tutti i governi rivoluzionari, Napoleone I compresovi, il solo Comitato di salute pubblica fa eccezione, nel senso che rifiutò di intervenire non per debolezza ma per diffidenza, nel 1794" ). Dal 1815 al 1831 regna il Borbone, rimesso sul trono da Austria, Prussia e Russia dopo Waterloo. Nel 1831 l'insurrezione rivoluzionaria di Parigi rovescia la monarchia assoluta e diviene re l'Orléans, con una costituzione parlamentare. Vittoria dunque della borghesia, appoggiata fin da allora dagli operai.
Ma la monarchia borghese pende troppo dalla parte dei grandi proprietari e finanzieri, e nel febbraio del 1848 Parigi ancora insorta proclama la repubblica. Borghesi, piccoli borghesi ed operai levano, come Marx ricorda entusiasta, pur non conoscendo i tubi al neon, la fiammeggiante insegna del '93: "Liberté, Egalité, Fraternité".
Questa volta la classe operaia, cui il nuovo governo repubblicano denega immediatamente le promesse migliorie sociali, ingaggia la lotta per andare oltre i suoi alleati e traditori. Sono le formidabili battaglie del giugno 1848 che Marx descrive in quel libro che al tempo stesso è scienza ed epopea: Le lotte di classe in Francia, apparso nel 1850 in tre fascicoli della rivista di Amburgo. La disfatta tremenda dei lavoratori stabilì storicamente la capacità della moderna borghesia repubblicana e democratica ad essere nelle repressioni più spietata della aristocrazia feudale e della monarchia dispotica. Da allora possediamo lo schema completo rivoluzionario che è servito contro l'ondata di opportunismo della Prima Guerra Mondiale, e che deve servire contro l'opportunismo della Seconda. E' in queste pagine che troviamo la cardinale tesi politica: Distruzione della borghesia! Dittatura della classe operaia! E ancora: La Rivoluzione in permanenza, la dittatura di classe del proletariato! Sono le "parole dimenticate del marxismo" che Lenin ristabilì. E vi sono poi le parole dimenticate, da ristabilire oggi contro i rinnegati e del marxismo e del leninismo, che Engels sottolinea nella prefazione nella tesi cardinale economica: "La presa di possesso del capitale [...] e conseguentemente l'abolizione del lavoro salariato, e con essa l'abolizione del capitale e del loro rapporto di scambio".
Se lo Stato, come in Russia, prende possesso del capitale senza abolire il capitale fa quanto può fare uno Stato borghese.
Lo Stato che economicamente abolisce il capitale, il lavoro salariato, e il rapporto di scambio tra capitale e lavoro, quello può essere soltanto lo Stato del proletariato!
In Francia - non in Europa - è dal 1848 che la serie delle gloriose alleanze rivoluzionarie con la borghesia giacobina è dai lavoratori per sempre denunziata, ed è fino da allora, dal 1848, che possediamo il nostro modello - sì, modello, la rivoluzione è la scoperta di un modello della storia - per la rivoluzione di classe comunista. Sono denunzie che non si ricontrattano, quando le segna il sangue di diecine di migliaia di lavoratori caduti sulle barricate, tra cui tremila prigionieri bestialmente fucilati dalla repubblica borghese.
Marx giustifica che nel 1852, al colpo di stato di Luigi Napoleone, che tuttavia era ben altro che un ritorno feudale, alla soccombente democrazia parolaia il proletariato francese, che non si può tacciare di viltà, opponesse gelida indifferenza. Quanto più disgraziato il contegno del proletariato italiano nel banale episodio analogo di Mussolini!
La nazione francese è una conquista ormai assicurata dalla storia. Il proletariato non ha più remore al compito di "sbarazzarsi della sua borghesia nazionale". Dopo il tentativo di Babeuf nel pieno della grande rivoluzione, gli operai di Francia fanno onore a tale compito cogli insorti di giugno, e coi comunardi. Una smentita alla loro tradizione dettero nel 1914 e nel 1939, due gravi crisi per la borghesia. Anche qui valgono parole di Marx: "Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito ad una nuova crisi. Quella è però tanto certa quanto questa".
Lotte di formazione delle nazioni dopo il 1848
10. Lo sviluppo della rivoluzione in Germania nel 1848 non raggiunge lo stadio della vittoria politica della borghesia e del suo avvento al potere; e quindi il proletariato tedesco, allora non numeroso, non si trovò al punto strategico di attaccare la borghesia dopo averla sospinta innanzi. Da allora la posizione dei comunisti marxisti è quella di favorire u, processo di formazione nazionale tedesca e di rivoluzione liberale contro la dinastia e lo Stato prussiano, come necessario trapasso ad un'aperta lotta di classe tra borghesia e proletariato.
Particolarmente complesso storicamente è il processo nazionale tedesco. Oggi ancora non abbiamo uno Stato nazionale tedesco unitario: esso non vi era prima della Prima Guerra Mondiale, e solo Hitler lo realizzò con l'annessione violenta dell'Austria, spogliata dopo la sconfitta di tutto il possesso di popolazioni di altra nazionalità. Oggi dopo la Seconda Guerra, i vincitori hanno diviso i Tedeschi in tre Stati: Germania Est, Germania Ovest, Austria. Ma mentre da opposte sponde parlano di una riunione delle due Germanie, sono tutti impegnati a isolarne la piccola e debole Austria.
Innumeri citazioni potrebbero servire a caratterizzare la posizione del marxismo su tale problema, a partire dal 1848. Lo Stato prussiano è considerato feudale e reazionario, non trasformabile in uno Stato politico borghese entro quel territorio, e non meno avversa alla stessa rivoluzione borghese è ritenuta la monarchia degli Hohenzollern. Dinastia, aristocrazia, esercito, burocrazia, sono tutte considerate non nazionalmente tedesche e affette da influenze e legami a-nazionali, russofili, baltici, filoslavi. Indiscutibilmente nell'analisi della formazione della nazionalità politica con l'avvento del capitalismo, elemento fondamentale è un antagonismo con le grandi nazionalità contermini, e se ciò si ottiene pienamente contro i Francesi, nemici secolari, manca del tutto sulla frontiera di Oriente: particolarmente contraddittorie a tale processo sono considerate le guerre di Federico II che resero forte la Prussia, ma col carattere di uno Stato-gregario.
Quanto alle guerre antinapoleoniche, appunto esse non hanno nemmeno letterariamente data adeguata base alla nazione tedesca, in quanto sono volte contro l'avanguardia della nuova società borghese e nazionale costituita dagli eserciti e della Convenzione e del Consolato e del Primo Impero, e in quanto sono snaturate dall'alleanza con gli oppressori di nazionalità, autocrati di Russia e di Austria. Su tali guerre non può dunque farsi leva per definire un simile sbocco alla Germania.
Tuttavia deve ben capirsi che se Marx ed Engels rifiutano di considerare base di una nazione moderna lo Stato prussiano e il territorio prussiano, tanto meno sono per la conservazione e l'indipendenza degli staterelli e dei principati. La Prussia, senza di essi o con l'egemonia su di essi, non è la nazione tedesca attesa da vari secoli, ma nemmeno si parla di una nazione bavarese o sassone, e lo sminuzzamento dei granducati è puro detrito feudale. Né mai - gli occhi al modello della vicina "repubblica una e indivisibile" - è da Marx ed Engels caldeggiata una sistemazione federale.
Sarebbe per essi un gran passo avanti una centralizzazione statale democratica in cui ogni cittadino fosse giuridicamente tedesco e suddito del potere centrale. Contro questo stato capitalista unitario sarebbe poi indirizzato l'assalto rivoluzionario della grandeggiante classe operaia tedesca.
Fallita ormai al 1850 l'interna insurrezione antifeudale, con una piena capitolazione della debole borghesia davanti al prussianesimo, lo svolto non può attendersi che dalle guerre tra gli Stati, nel cui sfondo stanno le questioni nazionali. Di particolare interesse sono le posizioni di Marx circa la guerra con la Danimarca nel 1849, quella austro-francese del 1859, quella austro-prussiana del 1866 e finalmente quella franco-prussiana del 1871 da cui uscirà l'Impero, sempre però di prussiana e bismarckiana impronta.
In tutte queste guerre, come altre volte rammentato, Marx ed Engels fanno una precisa e motivata opzione per la vittoria di una delle parti, e svolgono in quanto agitatori una corrispondente politica. Naturalmente questo è le mille miglia lontano dalle apologie dei radicali borghesi e dei rivoluzionari indipendentisti di varia nazionalità che incrociano per l'Europa e sono trattati - anche i più illustri come Kossuth, Mazzini, Garibaldi e simili (per non parlare dei francesi dello stesso colore cui manca del tutto ogni giustificazione di patrie borghesi da far partorire alla storia, come i Blanc, Ledru-Rollin e altri sgonfioni) - da buffi e asini santoni. Tale distinguo lo richiamiamo ad ogni passo, perché la nostra ricostruzione storica non possa essere ingenuamente considerata a discarico delle recenti e contemporanee nauseose leccate di suola da parte "proletaria" ai tanti Churchill, Truman, De Gaulle, Orlando, Nitti, e cento altri liberatori e resistenti dei nostri stivali.
Basteranno pochi richiami e una sola citazione, col rinvio ad alcuni fili del tempo su Nazione, Guerra, Rivoluzione (nn. da 9 a 13 del 1950).
Guerra tra Piemonte e Austria nel 1848 e '49. Condanna dell'Austria attaccata, in quanto è guerra per la formazione della nazione italiana.
Guerra tra Austria e Danimarca nel 1849 per la conquista dello Schleswig-Holstein, comunemente condannata come aggressiva: è invece appoggiata perché unisce ai tedeschi un loro territorio.
Guerra di Napoleone III nel 1859 contro l'Austria in alleanza al Piemonte, e successive lotte italiane del 1860. La posizione è nettamente a favore della costituzione dello Stato unitario italiano, e quindi per la sconfitta dell'Austria; Engels dimostra che gli interessi tedeschi non si difendono sul Mincio. Con ciò si appoggia forse il Bonaparte?! Questo è lo scritto che invoca la lotta sul Reno contro di lui "spada alla mano", ed invoca perfino quella, a lungo rimandata, contro la Russia. Il Secondo Impero è anche ingiuriato per aver defraudato la nazione italiana di Nizza, della Savoia e perfino della Corsica. A ciò farà eco Marx nello scritto sulla Comune stigmatizzando fieramente l'intervento a difesa del Papato e contro Roma capitale d'Italia, come a suo tempo lo era stato l'intervento della Seconda Repubblica francese per schiacciare nel 1849 la Repubblica Romana.
Poiché delle guerre del 1866 e 1870 va detto più oltre, daremo la citazione che chiarisce il pensiero di Marx: rivendicazione necessaria della nazione tedesca, per poi strapparla alla borghesia; denunzia del controrivoluzionario Stato di Berlino.
Lettera ad Engels del 24 marzo 1863: "Bismarck rappresenta esattamente il principio statale prussiano, e lo Stato prussiano (creatura ben diversa dalla Germania) non può esistere senza l'antica Russia né con una Polonia indipendente. Tutta la storia prussiana conduce a questa conclusione, che gli Hohenzollern (compreso Federico II) hanno ricavato da gran tempo. Questa coscienza di padri della patria è ben superiore alla ristretta intelligenza da sudditi che è propria dei liberali prussiani. Poiché l'esistenza della Polonia è dunque necessaria alla Germania, ma impossibile a lato dello Stato prussiano [...]. Oppure la questione polacca è soltanto una nuova occasione di provare che è impossibile realizzare gli interessi tedeschi, fin quando esisterà lo Stato dinastico degli Hohenzollern".
Ad ogni passo, dunque, Germania, nazione germanica, interessi tedeschi: chiaramente interessi nazionali tedeschi. Ciò bene esprime nel caso particolare - ma di peso immenso - la tesi che la costituzione unitaria e centrale dello Stato-nazione è un interesse dei borghesi, in quanto forma del loro potere di classe, ma lo è anche dei proletari fino al momento della realizzazione, perché da esso si inizia lo schieramento politico e di classe, con cui a sua volta il proletariato strapperà alla borghesia nazionale il potere.
La questione polacca
11. La piena solidarietà con la rivendicazione di indipendenza nazionale della Polonia oppressa dallo Zar ha importanza fondamentale poiché si tratta non solo di un'opinione storica espressa in scritti di teoria, ma di un vero e proprio schieramento politico delle forze della Prima Internazionale. Non solo è offerto e dato il più completo appoggio delle forze dei lavoratori europei, ma la rivolta polacca è considerata come un punto d'appoggio per il ritorno di una situazione rivoluzionaria e la lotta generale in tutto il continente.
Seguiamo nei testi e documenti della nostra scuola in tutto dettaglio queste manifestazioni, perché tendiamo a dimostrare errata la tesi che si tratta, e si debba trattare nella politica marxista, di valutazioni e deduzioni fatte volta per volta seguendo i suggerimenti delle varie situazioni e sviluppi contingenti, e senza difficoltà ad invertire le rotte; mentre invece le decisioni politiche risultano rigidamente collegate tappa per tappa alla visione unica del corso storico della rivoluzione generale, e nel nostro caso alla definizione materialistico-storica della funzione delle nazionalità secondo il succedersi dei grandi e tipici modi di produzione.
Lo sfruttamento frammentario ed episodico di questi dati si vede infatti da molto più di mezzo secolo tentato dalle varie parti, al fine di giustificare le contorsioni incessanti dell'opportunismo e dell'eclettismo, che pretende di foggiarsi ogni giorno una nuova dottrina e una nuova norma, di fare senza vergogna dei suoi demoni di ieri i suoi angioli di oggi, o viceversa.
Ma la questione polacca è notevole anche sotto altro riflesso. Può sembrare che la decisa simpatia per le lotte di nazionalità abbia portata quasi platonica e limitata a scritti e studi di descrizione storica o anche di teoria sociale, ma non trasporti i propri effetti anche nel campo dei programmi politici e dell'azione di partito, del vero e proprio partito proletario comunista che già nel considerato periodo (1847-71) aveva come suo originale contenuto la lotta tra proletariato e capitalismo e la distruzione di questo modo sociale di produzione. Ed invece non sono Marx ed Engels scrittori che chiameremo a testimoni, ma Marx ed Engels capi internazionali del movimento comunista. Se da giovanili poco profonde letture taluno poté desumere che gli scritti di Engels su Po e Reno e Nizza, Savoia, Reno, fossero studi politico-militari svolti in una pausa della rivoluzione di classe ed astraenti dal metodo economico sociale (scivolando, se non avvertito, nella concezione che è permesso aprire parentesi e "zone franche" qualsiasi nella dottrina marxista del succedersi degli eventi umani, di tutti e di qualunque di tali eventi) sommamente importa mostrare che tutte le deduzioni nascono in aderenza assoluta al troncone della spiegazione materialista della storia e della decifrazione del "viaggio" collettivo umano nel tempo alla luce dell'evolvere delle forze produttive. Nessuna dimenticanza di queste è permessa a nessuno, trattisi di trarre la spada, e per avventura il bisturi, la penna, il pennello, lo scalpello o l'archetto, come la falce e il martello.
Il Marx e l'Engels "occasionalisti" fanno gioco al Cominform e simili congreghe, ma costituiscono quella centrale, delle tante miserabili contraffazioni che circolano.
E' in una lettera del 13 febbraio 1863 che Marx interpella l'amico Engels sugli avvenimenti polacchi. Le notizie su quella eroica insurrezione nelle città e nelle campagne, dilagata in una vera guerra civile contro le forze russe fanno esclamare a Marx: "E' certo che l'era delle rivoluzioni si è completamente riaperta in Europa. E la situazione generale è buona". Ma il ricordo delle amarezze del 1850 è troppo vivo: "Ma le innocenti illusioni e l'entusiasmo quasi infantile [nacque qui appo noi l'impiego di questo aggettivo caro a Lenin ma sempre con senso non deteriore] con il quale salutavamo prima del 1848 l'era delle rivoluzioni, se ne sono andati al diavolo [...], vecchi compagni sono morti, altri hanno cambiato casacca o tralignato, e non si vedono affatto nuove reclute. Inoltre sappiamo quale parte ha la scioccheria nelle rivoluzioni e come le sappiano sfruttare i filibustieri". Avanti dunque non infantili ma senili lavativi, aggiornate un poco Carlo Marx su questo punto.
La lettera dà con pochi tocchi, che integriamo servendoci delle successive, il quadro dell'atteggiamento di tutte le forze politiche europee verso l'insurrezione polacca. I "nazionalisti" prussiani, che fanno gli autonomisti per togliere all'imperatore di Vienna la figura di capo della Confederazione germanica e ipocritamente si mostrano solidali con Italia e Ungheria chiedenti l'indipendenza, sono colti con le mani nel sacco: sporcamente russofili, si schierano contro i polacchi. I rivoluzionari democratici russi (Herzen) sono messi anche loro alla prova; malgrado la loro predilezione slava devono difendere i polacchi contro la Russia ufficiale (non pretendere che ottenuta una costituzione dallo Zar la Polonia resti provincia russa). Il borghese governo di Londra e quello di Plon-Plon (Napoleone III) ipocritamente mostrano di appoggiare la causa polacca per delle loro rivalità con la Russia, ma entrambi sono sospetti, e del secondo è certo il tradimento; suoi agenti sono in rapporto con l'ala destra dei polacchi che certamente defezionerà, specie in caso di insuccesso.
Poco o nulla vuole e può fare per la Polonia insorta la "democrazia" europea; e subito Marx fa leva per un programma d'azione pratica sull'Associazione Internazionale dei Lavoratori costituitasi a Londra il 28 settembre 1864. Prima del famoso meeting alla Martin's Hall, Marx fa assegnamento sull'Associazione operaia inglese. Il suo piano è subito delineato: Una proclamazione breve agli operai di tutti i paesi da parte degli inglesi - Un opuscolo diffuso sulla questione polacca scritto su determinati temi da lui e da Engels. E subito dopo il settembre 1864 discussioni nel seno del Consiglio Generale, da lui moralmente presieduto pur non avendo voluto la carica, sull'azione da svolgere. Queste dettero luogo a dibattiti del più alto interesse e alla chiarificazione dei problemi politici del momento.
L'azione pro-Polonia è quindi in tutte lettere inclusa in documenti che emanano dal partito, dall'Internazionale operaia; ed è anzi considerata la leva principale per sviluppare al massimo l'agitazione operaia in Europa e affrettare le occasioni di un movimento rivoluzionario. Di tanta maggiore importanza divengono dunque le precisazioni di principio, sul problema storico dell'appoggio del proletariato internazionalista ad una lotta nazionale.
L'Internazionale e la questione di nazionalità
12. Nel seno del Consiglio Generale della Prima Internazionale e sotto la personale direzione di Marx, interessanti dibattiti forniscono i dati per rettificare gli errori di principio sulla questione delle lotte storiche di nazionalità. La tendenza ad ignorarle anziché spiegarle materialisticamente più che caratterizzare un internazionalismo avanzato tradisce posizioni particolariste e federaliste derivate da teorie utopiste e libertarie da cui il marxismo sgombrò il campo.
Lo stesso comizio di fondazione dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori era indetto per solidarietà coi Polacchi (originò da una lettera degli operai inglesi ai francesi per la Polonia) e gli Armeni oppressi dalla Russia, e come Marx riferisce vi partecipavano molti elementi democratici radicali suscitanti la diffidenza di quegli operai. Preoccupato della chiarezza teorica ma anche della forza del movimento, in un momento storico in cui le rivendicazioni di indipendenza avevano sicura portata rivoluzionaria, Marx provvide a far mettere da parte un testo deforme e redasse egli stesso il poderoso Indirizzo inaugurale, nel quale la lotta di classe proletaria in Inghilterra e nel continente tiene il primissimo piano.
La celebre lettera di Marx del 4 novembre 1864 chiarisce come egli stesse ad armi spianate contro ogni ingresso del democraticume teorico nelle file operaie. Ciò interessa per giudicare rettamente le sue ulteriori fiere ribattute a quelle che oggi si direbbero accuse di essere a destra in materia di nazionalità. Un tal maggiore Wolff presentò uno statuto che diceva essere quello delle società operaie italiane: "Sono essenzialmente delle società di mutuo soccorso. Ho visto più oltre la faccenda. Era evidentemente opera di Mazzini, e tu quindi sai già in che spirito e con che fraseologia vi è trattata la vera questione, la questione operaia, e anche come vi si trovino infilate le questioni di nazionalità". Sollecitato da Eccarius ad andare alle riunioni di sottocommissione Marx sente leggere "un preambolo orribilmente pomposo, mal scritto, peggio pensato, con la pretesa di essere una dichiarazione di principii, ove si vedeva ovunque spuntare Mazzini, avvolto in vaghi brindelli di socialismo francese".
Vi era inoltre, tratto dallo statuto italiano, "qualcosa di affatto impossibile, una specie di governo centrale (naturalmente con Mazzini dietro le quinte) delle classi lavoratrici d'Europa [sottolineato nel testo]".
Infine Marx prepara lui l'Indirizzo, riduce lo statuto da 40 a 10 articoli, e legge il testo divenuto poi storico, che viene da tutti accettato. Tuttavia ha dovuto non svolgere palesemente il suo metodo. Molta di quella gente non ci capirebbe niente, egli confida ad Engels, sono tipi che avranno assieme ai liberali dei comizi per il suffragio universale!
E' noto che il celebre Indirizzo dopo la parte sociale e classista contiene un paragrafo finale sulla politica internazionale, in cui gli operai reclamano che i rapporti tra gli Stati siano soggetti alle stesse norme morali di quelli tra gli uomini. Sebbene la frase sia ripetuta nel primo Indirizzo sulla guerra del '70, essa non solo esprime un postulato borghese, come tutti quelli della nazionalità, ma lo esprime in una pura forma propagandistica. Marx si scusa di aver dovuto agire fortiter in re, suaviter in modo, fortemente nella sostanza dolcemente nella forma. Ma i falsi marxisti di oggi sono, nella stessa forma, scesi al di sotto delle peggiori pisciate dei democratici ultra-borghesi. Ecco il chiarimento autentico di Marx: "Nella misura in cui nell'Indirizzo interviene la politica internazionale, io parlo di paesi e non di nazionalità, e denunzio la Russia e non i piccoli Stati. Tutte le mie proposte furono dal sottocomitato accettate. Ma fui costretto ad ammettere nel Preambolo taluni passaggi sul dovere, il diritto, la morale e la giustizia: sono però collocati in modo da non nuocere all'insieme".
Il 10 dicembre 1864 Marx espone la discussione svolta sul progetto di Fox di appello per la Polonia. Il buon democratico ha fatto del suo meglio, cercando di arrivare alla "riduzione alle classi". Ma un punto non è andato giù a Marx, una manifestazione di simpatia alla democrazia francese che quasi quasi arriva "fino a Boustrapa [Plon-Plon]". "Mi sono opposto, e, in uno scorcio storico, ho dimostrato in modo irrefutabile che, da Luigi XV a Bonaparte III, i Francesi non avevano mai cessato di tradire i Polacchi. Ho fatto osservare nello stesso tempo l'inopportunità di dare come nocciolo dell'Internazionale l'alleanza anglo-francese sia pure sotto un aspetto democratico". Il progetto passa con la rettifica di Marx, ma vi è il delegato svizzero Jung che per la minoranza vota contro "quel testo assolutamente borghese".
Per dare tuttavia la misura di quanto è spinto l'interesse alla Polonia in rivolta, è bene far presente che il Consiglio Generale non solo tiene contatti diretti coi Polacchi borghesi, ma riceve in una seduta perfino i rappresentanti dell'aristocrazia, in quanto partecipi all'unione nazionale antirussa. Questi assicurano che sono anch'essi democratici, essendo la rivoluzione nazionale in Polonia impossibile senza la sollevazione contadina. Marx si limita a chiedersi se credono a quello che dicono.
Veniamo al 1866: ancora la questione polacca "è il vero nerbo della polemica in seno all'Associazione". Tal Vésinier accusa nientemeno l'Internazionale di trasformarsi in comitato di nazionalità a seguito del bonapartismo. La barba di Carlo si comincia ad arruffare. "Quest'asino" aveva attribuito ai delegati parigini, che invece lo avevano detto inopportuno, un paragrafo per la Polonia inserito nell'ordine del giorno del congresso di Ginevra. E deplorava che si trattassero questioni "al di fuori dello scopo dell'Associazione e contrarie al diritto, alla giustizia, alla libertà, alla fraternità, alla solidarietà dei popoli e delle razze, quali quelle di annientare l'influenza russa in Europa", ecc. La tesi del Vésinier è questa: non è classista né internazionalista eccitare ad una guerra nazionale dei Polacchi contro i Russi e suscitare nemici alla Russia, perché dobbiamo essere per la pace tra i popoli. A giustificazione si mette a ricordare le vergogne del regime di Bonaparte e della borghesia inglese, e l'emancipazione in Russia e Polonia dei servi della gleba, allora recente, per deplorare che "invece di proclamare la solidarietà di tutti i popoli se ne metta uno solo, il russo, al bando dell'Europa". Il Vésinier accusa poi i Polacchi di avere invaso i posti del Consiglio Generale "per occuparsi del ristabilimento della loro nazionalità senza occuparsi dell'emancipazione dei lavoratori". Marx si limita a riferire le risate con cui sono state accolte simili balle e bugie, le chiama "teorie moscovite di Proudhon-Herzen" e dice di Vésinier: "Questo è il tipo che serve ai Russi, senza gran valore letterario, ma molto ingegnaccio, molta forza retorica, grande energia, e al di sopra di tutto... mancanza assoluta di scrupoli".
Il Vésinier sarà messo fuori e "il 23 gennaio, noi festeggeremo la rivoluzione polacca". Siamo totalmente dell'avviso che ogni rivoluzione in armi "contro le condizioni sociali esistenti" vale più di una teoria di spropositato estremismo e di un pacifismo dei popoli che invoca in effetti l'amplesso tra le borghesie di Occidente e lo Zar di tutte le Russie, credendo o fingendo di essere classista.
Gli Slavi e la Russia
13. Il ciclo storico della formazione degli Stati borghesi nazionali, parallelo alla diffusione dell'industrialismo e alla formazione dei grandi mercati, si estende senz'altro a Inghilterra, Francia, Germania, Italia; altre minori potenze possono considerarsi nazioni stabilite: Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda, Svezia, Norvegia. La rivendicazione marxista si estende alla Polonia tipicamente, e vale soprattutto come dichiarata lotta alla "Santa Alleanza" di Russia, Austria e Prussia. Ma tale ciclo si chiuderà, nella visione marxista, lasciando insoluto, tra altri, il problema degli Slavi dell'Est e del Sud-Est.
Fin dal 1856 interessò Marx un libro del polacco Mieroslawski in quanto apertamente volto contro la Russia, la Germania e il panslavismo, cui l'autore oppone "una confederazione libera di nazioni slave con la Polonia come popolo Archimede", il che vorrebbe dire popolo di avanguardia, di scoperta della libertà. Qualcosa di simile si ebbe dopo la Prima Guerra Mondiale e la dissoluzione dell'Austria (1918) con la nota formazione della Piccola Intesa degli Stati slavi (Bulgaria, Jugoslavia, Cecoslovacchia, con la Polonia in effetti il più importante e omogeneo). Si sa che tale situazione visse solo un ventennio, fino alla nuova spartizione tra Tedeschi e Russi, nel 1939.
Interessa molto la critica di Marx al tentativo di spiegazione sociale del Mieroslawski, a parte il rimprovero a costui di fondare le sue speranze sui governi inglese e francese. L'autore non prevede la forte industrializzazione futura di molte città e distretti polacchi e fonda il suo Stato indipendente sulla "comune agraria democratica". Alle origini in Polonia i contadini erano uniti in libere comuni, università agrarie, alle quali si contrapponeva un dominium, ossia un distretto controllato militarmente e amministrativamente da un barone: i nobili eleggevano poi il re. Ma presto la terra libera dei contadini fu usurpata, parte dalla monarchia, parte dall'aristocrazia, e le comunità finirono nel servaggio. Rimase però una classe quasi libera di contadini medi, con diritto a formare una semi-nobiltà, un ordine equestre: tuttavia i contadini accedevano a un tale ordine solo in caso di partecipazione alla guerra o alla colonizzazione di terre incolte; questo ceto decadde a sua volta in una specie di Lumpenproletariat dell'aristocrazia, di nobiltà stracciona: "Questo modo di sviluppo è interessante - scrive Marx - perché si può così dimostrare l'origine del servaggio per via puramente economica, senza l'intervento della conquista e del dualismo di razza". E infatti, re, alta nobiltà, piccola nobiltà, contadiname, sono tutti di razza e di lingua comune, e la tradizione nazionale è antica quanto potente. La tesi di Marx stabilisce dunque che la soggezione di classe sorge, con lo sviluppo dei mezzi tecnici produttivi, anche nel seno di un complesso etnico uniforme, come in altri casi sorge per scontro di due razze e di due popoli, funzionando allora la razza e la lingua, a loro volta, come "agenti economici" (v. Engels nella Parte Prima).
Evidentemente il democratico polacco non antivedeva la discesa in lotta di una vera borghesia industriale e tanto meno quella di un proletariato potente e glorioso, che nel 1905 tenne in iscacco le armate zariste, e si levò persino dopo la Seconda Guerra Mondiale in un disperato tentativo di prendere il potere nella martoriata capitale contro gli stati maggiori tedesco e russo, facendo la fine dei comunardi di Parigi, caduti insorti tra i due fuochi nemici.
L'attenzione di Marx non si stacca un momento dalla Russia in quanto egli considera l'esercito dello Zar come l'armata di riserva della controrivoluzione europea, pronto a passare le frontiere ovunque si tratti di ristabilire "l'ordine" soffocando ogni nuovo moto che nel centro dell'Europa tenda a rovesciare gli Stati dell'antico regime, tagliando così la via ai vari sbocchi da cui può uscire la rivoluzione del proletariato. Quasi dieci anni dopo Marx si interessa alla dottrina di Duchinsky (un professore russo di Kiev, domiciliato a Parigi). Questi sostiene che "i grandi Russi, i veri Moscoviti, cioè gli abitanti dell'antico granducato di Mosca, sono in gran parte mongoli o finlandesi, come d'altronde sono mongoli gli abitanti delle parti orientali e sud-orientali della Russia europea. Vedo in ogni caso che la questione ha grandemente turbato il gabinetto di Pietroburgo (poiché sarebbe la fine del panslavismo). Tutti i sapienti russi sono stati invitati a redigere delle risposte o delle confutazioni; ma queste sono di una estrema debolezza. La purezza del dialetto grande russo e la sua parentela con lo slavo della Chiesa sembrano, in questo dibattito, testimoniare più in favore della concezione polacca che della concezione moscovita [...]. E' stato provato inoltre dalla geologia e dalla idrografia che all'Est del Dnieper si stabilisce una grande differenza 'asiatica' per rapporto ai paesi che restano all'Ovest del fiume, mentre l'Ural, come Marchison ha di già sostenuto, non costituisce affatto una separazione. Il risultato, quale Duchinsky lo, stabilisce, è che i Moscoviti hanno usurpato il nome di Russia. Essi non sono Slavi, non appartengono insomma alla razza indogermanica, e sono degli intrusi che bisogna respingere al di là del Dnieper. Il panslavismo, nel senso russo, è dunque un'invenzione del governo di Pietroburgo. Mi auguro che Duchinsky abbia ragione e che in ogni caso la sua opinione si generalizzi presso gli Slavi. D'altra parte, egli afferma che molti dei popoli della Turchia, fin qui considerati come Slavi, quali i Bulgari, per esempio, non lo sono".
Noi non sappiamo se questo brano sia stato adoperato nella polemica borghese recente contro la rivoluzione russa nella comune accezione che il popolo russo è asiatico e non europeo, e che per questo subisce la dittatura! Certo la tesi, assolutamente inoffensiva per il marxismo vero, è scottante per i Russi di oggi che, sulle orme di Stalin, fanno leva su una tradizione razziale, nazionale, e linguistica più che sul legame di classe del proletariato di tutti i paesi.
Nel senso marxista il fatto che i grandi Russi siano da classificare come mongoli e non come ariani (vecchia frase che Marx ricorda spesso: gratta il Russo e troverai il Tartaro) ha questa fondamentale importanza: per chiudere il ciclo entro il quale le forze della classe lavoratrice europea devono dare se stesse alla causa della formazione delle nazioni, chiusa la quale si imposta la rivoluzione proletaria europea, occorre attendere la formazione di una grandissima nazione capitalista slava che comprenda tutto lo Stato russo, o almeno si estenda fino agli Urali? La risposta di allora era che la sistemazione in moderni Stati nazionali come premessa alla rivoluzione operaia riguarda un'area che finisce ad Est con la Polonia, ed eventualmente con una Ucraina e Piccola Russia che si arrestano al Dnieper. Questa è l'area europea della rivoluzione, la prima che ne deve essere investita, ed il ciclo che prelude al successivo di azione puramente classista, è quello che poi si chiuse al 1871.
Non può dimenticarsi al fine di non considerare come fattore unico determinante l'etnologia che i popoli di schiatta mongola, ossia i Finnici, formano in Europa nazioni (Ungheria e Finlandia, Estonia, Lituania, Lettonia) che essendo socialmente avanzate rientrano nell'area storica europea, ed il marxismo ne vede favorevolmente, nel dato periodo, gli sforzi indipendentisti, contro i tre della Santa Alleanza.
Guerre del '66 e del '70
14. Marx ed Engels, mentre l'insurrezione polacca declina e si chiude questa via alla ripresa rivoluzionaria, come si era chiusa nel 1848. scorgono che si avvicina la guerra tra Austria e Prussia. In questa entrerà di certo l'Italia per l'acceso problema d'indipendenza delle Venezie, si dubita dell'atteggiamento della Russia e della Francia; è certo che un nuovo periodo convulso si sta preparando. Sedan salderà tutti i conti, ma il solo nemico della rivoluzione ad affondare sarà l'impero francese.
Il 10 aprile 1866 Marx pensa che siano i Russi a volere la guerra concentrando truppe alla frontiera austriaca e prussiana ed aspirando a profittare della situazione per occupare le altre due parti della Polonia. Ma ciò sarebbe la fine del regime Hohenzollern, e il vero scopo è di muovere eventualmente su una Berlino in rivoluzione per sostenerveli. Marx ed Engels sperano che alla prima sconfitta militare Berlino si muova.
E' molto originale che pure essendo contro l'Austria sulla questione delle Venezie, essi attendano come cosa utile una vittoria austriaca, agli effetti della rivoluzione anti-prussiana.
Quanto a Napoleone III, egli è non meno sospetto per la causa proletaria di Alessandro di Russia, e fino ad allora il suo sogno era stato "essere quarto nella Santa Alleanza", ormai spezzata.
A guerra scoppiata il 19 giugno 1866 il Consiglio dell'Internazionale discute la situazione, ed affronta in principio il problema delle nazionalità.
"I Francesi, venuti in gran numero, dettero libero sfogo all'antipatia cordiale che risentono per gli Italiani". Marx accenna al fatto che incoscientemente i Francesi sono contro la lega italo-prussiana e preferirebbero la vittoria dell'Austria. Ma più che di una scelta di posizione è la questione teorica che in questa seduta viene in luce: "I rappresentanti (non operai) della 'Giovane Francia' dichiararono che ogni nazionalità e le stesse nazioni sono pregiudizi sorpassati". Qui scappa dalle mani a Marx una botta secchissima: "E' dello stirnerismo proudhonizzato!" (Stirner è il filosofo dell'estremo individualismo che, esasperando tutto nel soggetto "unico", tocca da un lato la teoria del superdittatore di Nietzsche, dall'altro quella, negante Stato e società, degli anarchici: quintessenza del pensiero borghese entrambi. Proudhon in economia e sociologia esaltò il piccolo autonomo gruppo di produttori trafficante con tutti gli altri). Marx chiarisce questa condanna, come retrogrado, di un preteso atteggiamento radicale. Come già abbiamo notato non si tratta di sorpassare il postulato storicamente borghese, ma attivo, della nazione, ma di restare indietro ad esso.
"Scomporre tutto in piccoli gruppi o comuni che formino a loro volta un'unione, ma niente Stato. E questa individualizzazione dell'umanità, come anche il 'mutualismo' che ci corrisponde si formeranno in questo modo, mentre la storia si fermerà in tutti i paesi e il mondo intero aspetterà che i Francesi siano maturi per fare una rivoluzione sociale. Allora essi faranno per primi l'esperienza e il resto del mondo, trascinato dalla forza del loro esempio [non parrebbe sentir parlare dei Russi di oggi?] farà la stessa cosa. E' esattamente quello che Fourier si riprometteva con il suo falansterio moderno [oggi si dice guardare alla patria socialista, nel paese del socialismo]. Sono del resto tutti 'reazionari' quelli che appesantiscono la questione 'sociale' con superstizioni del Vecchio Mondo".
Anche questa volta Marx, tanto restio all'attività pubblica, non può non parlare contro il suo futuro genero Lafargue. Fa scoppiare a ridere gli Inglesi rilevando che questi, avendo soppresso le nazionalità, aveva arringato in francese, lingua ignota a nove decimi dei presenti: "Indicai che Lafargue sembrava intendere per abolizione delle nazionalità il loro assorbimento nella nazione francese, la nazione modello".
Ma qual era allora, in quella guerra, la scelta di Marx? In primo luogo, la disfatta prussiana. Ed egli dice, nella lettera ad Engels, non nel Consiglio (non si dimentichi la natura interna di questi scritti che citiamo): "La situazione è d'altronde difficile in questo momento. Bisogna fare fronte da una parte alla stupida italianofilia inglese e d'altra parte alla falsa polemica francese, ed impedire soprattutto ogni dimostrazione che potrebbe incanalare la nostra Associazione in una direzione esclusivista".
Dunque nella guerra 1866 ufficialmente nessuna presa di posizione per un belligerante, paragonabile a quella presa per i Polacchi nell'insurrezione antirussa.
Dopo i successi dell'Austria in Italia giunge Sadowa col trionfo della Prussia ed interviene Napoleone come mediatore. Il 7 luglio 1866 Marx scrive: "Al di fuori di una grande sconfitta dei Prussiani, che sarebbe forse sboccata in una rivoluzione (ma questi berlinesi!) tutto ciò che di meglio poteva accadere è l'immensa loro vittoria". Marx giudica che il maggiore interesse di Bonaparte sarebbe stato per un ondeggiamento di vittorie e disfatte tra Austriaci e Prussiani, perché non si formasse una Germania troppo forte con una decisa egemonia centrale, il che lo avrebbe reso con l'intatta sua forza militare arbitro dell'Europa. Marx giudica altresì scabrosa la posizione dell'Italia e vantaggiosa quella della Russia. Com'è noto, l'Austria accettando la mediazione della Francia aveva ceduto a questa il Veneto: il Savoia per averlo dovette inchinarsi ancora al suo alleato del '59, che opponeva il famoso "jamais" all'occupazione di Roma.
In questa prospettiva la posizione dell'Internazionale è precisa: la guerra sarà a suo tempo scatenata da Bonaparte che sta introducendo il fucile ad ago nella sua fanteria (e Marx nella lettera del 7 luglio considera un'applicazione del determinismo economico l'evoluzione tecnica dell'armamento, e suggerisce ad Engels di scrivere uno studio su ciò: oggi pare tutto verta sul: chi ha l'atomica?). In secondo luogo in questa guerra occorre che la Francia di Napoleone sia battuta.
Abbiamo dato ampio rilievo alla politica proletaria in riguardo ad una guerra d'indipendenza nazionale interna e rivoluzionaria, come quella polacca del '63 (o italiana del '48 e '60) in cui lo schieramento era pieno e deciso. Non ripeteremo quanto lungamente esposto sulla guerra del 1870 tra Francia e Prussia. Gli Indirizzi dell'Internazionale escludono totalmente un appoggio sia al governo di un Bismarck che a quello di un Bonaparte: su ciò non vi è dubbio. Ma è auspicata decisamente la disfatta del Secondo Impero (come lo sarebbe stata nel 1815 la vittoria del Primo).
Infatti mentre nell'Indirizzo del Consiglio Generale del 23 luglio 1870 si plaude alla coraggiosa opposizione alla guerra delle sezioni francesi, vi è poi la tanto sfruttata frase: dal canto tedesco la guerra è guerra di difesa (chiosata con storica irrevocabilità da Lenin). Ma ad essa segue il deciso attacco alla politica prussiana e l'invito agli operai tedeschi a fraternizzare coi francesi: la stessa vittoria della Germania sarebbe un disastro e riprodurrebbe "tutte le sciagure piombate sulla Germania dopo le cosiddette [sic: vedi avanti] guerre d'indipendenza [quelle contro Napoleone]". Doveva venire un Lenin per dire: il filisteo piccolo-borghese non può capire come si auspichi la disfatta di entrambi i contendenti! Dal 1870 la teoria del disfattismo proletario generale è in piedi.
Quale sia la valutazione storica del marxismo su questa fase del 1866 e 1870, e sul gioco delle forze delle potenze feudali dall'Oriente e di quelle borghesi dittatoriali dall'Occidente, sta in questa frase (non dimenticando che si sconsiglia l'uso del se nella storia al singolo fesso ambiziosetto di essere stampato): "Se la battaglia di Sadowa fosse stata perduta anziché vinta, i battaglioni francesi avrebbero inondata la Germania quali alleati della Prussia".
Guerra di difesa significa guerra nel senso progressivo per la storia, il che accade tra il 1789 e il 1871 come da Lenin stabilito, mai dopo (ciò non sarà mai abbastanza volte sbattuto sulla faccia dei guerragiustisti del 1939-45). Il che vuol dire che se Moltke fosse partito un giorno prima di Bazaine, se le urla dei guerraioli fossero state: a Parigi, a Parigi! - anziché: a Berlino! a Berlino! - la valutazione marxista sarebbe stata la medesima.
La Comune e il nuovo ciclo
15. La rivoluzione mancata in Germania nel 1848 non è scoppiata nel 1866 e nel 1871 a causa delle clamorose vittorie del militarismo prussiano. Ma la disfatta tremenda di quello francese ha sollevato il proletariato di Parigi, non solo contro il regime abbattuto ma contro tutta la classe borghese anche repubblicana e capitolarda, come contro la forza reazionaria prussiana. La caduta del governo rivoluzionario della Comune non ha tolto nulla all'importanza storica del trapasso, che da quel momento pone ai comunisti in Europa il solo diretto traguardo storico della dittatura proletaria.
Il secondo Indirizzo dell'Internazionale del 9 settembre 1870 segue la vittoria di Sedan e la resa dell'esercito francese, la destituzione di Napoleone e la proclamazione della repubblica. Esso è una requisitoria a fondo contro i propositi di annessione dell'Alsazia e della Lorena, contro la pretesa che si tratti di assicurare un confine militare di sicurezza; deride la mancata analoga sensibilità prussiana dal lato russo e prevede "la guerra contro le razze coalizzate degli Slavi e dei Latini". Questo testo dice ancora che la classe operaia tedesca "ha appoggiato energicamente la guerra, per impedire la quale non aveva alcun potere", ma ora chiede la pace e il riconoscimento della repubblica, proclamata a Parigi. Esprime contro questa gravi diffidenze: tuttavia sconsiglia il proletariato parigino dal sollevarsi contro di essa. Ma è il terzo Indirizzo, lavoro personale di Marx, che costituisce non soltanto una manifestazione della politica del proletariato, ma un pilastro storico della teoria e del programma rivoluzionario. Marx lo legge il 30 marzo 1871 - come nella prefazione Engels rammenta - solo due giorni dopo che gli ultimi combattenti della Comune cadevano a Belleville.
Questa classica fonte del comunismo rivoluzionario alla quale incessantemente si attinge, si pone al di là di ogni preoccupazione del tipo di quella che aveva suggerito al Consiglio Generale sei mesi prima il monito a Parigi proletaria di non tentare l'impresa impossibile, nella tema che l'ulteriore catastrofe favorisse altre invasioni ed annessioni prussiane riaprendo un altro immenso problema di formazione nazionale nel cuore stesso dell'Europa più progredita. L'Internazionale dei lavoratori di tutto il mondo si schiera con tutte le sue forze al fianco del primo governo rivoluzionario della classe operaia e prende in consegna quanto la stessa repressione feroce ha trasmesso alla storia avvenire della rivoluzione proletaria.
La consegna è stata tradita due volte alla scala mondiale, nel 1914 e nel 1939, ma l'obiettivo delle nostre pazienti ricostruzioni e ripetizioni instancabili è di dimostrare che, malgrado questo, essa sarà in un ulteriore svolto storico raccolta, così come fu fissata in quel memorabile patto.
L'unione di Versagliesi e Prussiani per schiacciare la Comune rossa, anzi il fatto che i primi assumono, sotto la pressione dei secondi e gli ordini di Bismarck, per sé il compito di boia della rivoluzione, conduce alla conclusione storica che "il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale [che allora, ossia, avevamo il dovere di sostenere]; e oggi è dimostrato che questa non è altro che una mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta di classe e viene messa in disparte non appena la lotta di classe divampa in guerra civile".
Lenin non inventò la norma: trasformare la guerra nazionale in guerra civile; ma la trovò scritta in tutte lettere. Lenin non disse che questa doveva essere una consegna ai partiti proletari europei dal 1914 al 1915, che in situazioni ulteriori poteva cambiare e riaprire la fase delle alleanze di guerra nazionali, di "pace tra i lavoratori e coloro che si appropriano il loro lavoro" come il testo di cui sopra aggiunge. Marx e Lenin riconobbero la legge storica che dal 1871 fino alla distruzione del capitalismo in Europa esistono due alternative: o i proletari obbediscono al disfattismo di ogni guerra, o, come Engels scrisse profeticamente nella prefazione del 1891, e come oggi vediamo, "penderà quotidianamente sopra il nostro capo la spada di Damocle di una guerra nel cui primo giorno tutte le alleanze ufficiali tra i principi si disperderanno come la polvere [...]; che sottoporrà alla devastazione l'Europa intera, da parte di quindici o venti milioni di armati".
Il marxismo ha sempre preveduto la guerra tra gli Stati borghesi, primo; ha sempre ammesso che in ben determinate fasi storiche non il pacifismo ma le guerre accelerano lo sviluppo sociale generale, come quelle con cui la borghesia ha istituito gli Stati di nazionalità, secondo; dal 1871 ha stabilito che il proletariato rivoluzionario in un solo modo porrà fine alle guerre: con la guerra civile e la distruzione del capitalismo, terzo.
Epoca imperialista e residui irredentisti
16. Il sopravvivere, alla grande epoca delle guerre di indipendenza e di sistemazione nazionale con carattere borghese rivoluzionario, di gran numero di casi in cui nazionalità minori sono soggette a Stati di altra nazionalità nella stessa Europa, non toglie che l'Internazionale proletaria debba rifiutare ogni giustificazione di guerre di Stati con motivi di irredentismo, e debba smascherare la finalità imperialista di ogni guerra borghese, invitando i lavoratori al sabotaggio di essa da ogni lato. L'incapacità ad attuare questa linea ha determinato la distruzione delle energie rivoluzionarie sotto le ondate di opportunismo di due guerre, e la determinerà in una guerra futura se le masse non abbandoneranno in tempo la direzione opportunista (socialdemocratica o cominformista) col sopravvivere in tutti i casi del capitalismo alle sue violente sanguinose crisi.
Lenin appunto forni per la guerra del 1914 la dimostrazione che essa scoppiò per la contesa economica tra i vari grandi Stati capitalisti nella spartizione delle risorse produttive mondiali e specie delle colonie nei continenti meno progrediti. Con ciò non disconobbe che in vari Stati metropolitani sussistevano questioni nazionali acute; esempio squisito la monarchia austriaca che dominava su Slavi di vari ceppi, su Latini, e su Magiari, senza escludere gruppi perfino ottomani. Altro esempio era la Russia, il cui Stato feudale stava a cavallo tra l'area Europa e l'area Asia. Sicché sulle questioni nazionali russe non può concludersi senza aver presente l'oggetto della presente trattazione e di altra in successiva riunione, in cui sarà riferito circa la dinamica delle lotte di classe e nazionali per i continenti non europei e le razze di colore (questione orientale; questione coloniale).
Come i socialisti della Seconda Internazionale tradirono per i due sofismi dell'appoggio alla nazione nel caso di guerra difensiva, e nel caso di guerra contro un paese "meno sviluppato", così tradirono in base al terzo che la guerra nel 1914 tendesse a risolvere problemi di irredentismo. L'intrico di questi problemi era formidabile: la Francia, per dare un esempio, voleva riavere Alsazia e Lorena, ma non si preoccupava di restituire Corsica o Nizza. L'Inghilterra le dava buona mano, ma si teneva strette Gibilterra e Malta e Cipro. La Polonia poi erano in tre a volerla liberare, per tenerla unita sotto di sé.
E' altrettanto noto che esempio lodevole di resistenza alla seduzione irredentista lo dette il partito italiano; esempio ancora più classico fu quello del partito serbo, che agiva in una nazione contornata da connazionali soggetti, attaccata dalla tanto più forte Austria, e che vigorosamente condusse la lotta contro il militarismo di Belgrado e la febbre patriottica. Circa la portata di quelle questioni nazionali, in una serie di fili del tempo del '50 e del '51 abbiamo ricordato le tesi basilari, e ci contentiamo di riassumerle.
a. Giustamente i marxisti radicali nei paesi plurinazionali combatterono la tesi socialdemocratica della semplice autonomia "culturale" di lingua nel seno dello Stato unico, e sostennero l'autonomia totale delle nazionalità minori, ma non come risultato borghese o possibile da parte della borghesia, bensì come risultato dell'abbattimento dello Stato centrale, anche ad opera dei proletari della sua nazionalità.
b. Sono formule borghesi e controrivoluzionarie quelle della liberazione e dell'uguaglianza di tutte le nazionalità, che è impossibile sotto il regime capitalista. Tuttavia sono forze che concorrono alla caduta di esso le resistenze delle nazionalità oppresse, e quelle che le piccole potenze "semi-coloniali" o protette oppongono ai grandi colossi statali del capitalismo.
c. Nel ciclo in cui l'Internazionale proletaria denega ogni appoggio ed apporto delle proprie forze politiche organizzate alle guerre tra gli Stati, e nega che sia motivo per derogare da tale storica posizione internazionale la presenza da uno dei lati del fronte di Stati feudali dispotici, o meno democraticamente organizzati degli altri, e si adopera ovunque al disfattismo interno, ciò non toglie che nell'analisi storica si possa e debba prevedere quali diversi effetti abbiano i diversi scioglimenti delle guerre.
Abbiamo dato molti esempi in altre trattazioni: Marx nella guerra russo-turca del 1877 in cui la democrazia franco-britannica tifa per i russi, simpatizza ardentemente per i turchi. Nella guerra greco-turca di indipendenza 1899 senza arrivare alla partecipazione con volontari come gli anarchici e i repubblicani, i socialisti di sinistra sono per la Grecia, come simpatizzeranno per la rivoluzione giovane-turca, e per la liberazione greca, serba, bulgara di territori soggetti agli Ottomani nelle guerre balcaniche del 1912. Così potrebbe dirsi per i Boeri contro gli Inglesi, guerra - come quella ispano-americana del 1898 - di portata extra-europea e a sfondo imperialista.
Ma questi sono episodi, nel gran periodo calmo dal 1871 al 1914.
Seguono le guerre mondiali: ogni partito proletario che ha aiutato il suo Stato in guerra o i suoi alleati è stato traditore, e dovunque si doveva tenere la tattica disfattista rivoluzionaria. Da questa cristallina conclusione ci corre a dire che era del tutto indifferente allo sviluppo degli eventi in senso rivoluzionario che l'uno o l'altro gruppo vincesse.
E' nota la nostra posizione al riguardo. La vittoria delle democrazie occidentali e dell'America nella Prima e nella Seconda Guerra ha allontanato le possibilità di rivoluzione comunista, mentre l'esito opposto le avrebbe accelerate. Lo stesso deve dirsi per una vittoria del mostro capitalista americano in una terza guerra mondiale, che può sopravvenire tra uno o due decenni.
Condizione della rivoluzione comunista è la vittoria del proletariato sulla borghesia: più che condizione, ciò è la rivoluzione stessa. Ma nel campo della guerra tra gli Stati, che fino a prova contraria ha finora storicamente mobilitato fisiche energie maggiori che non le guerre sociali, si ravvisano anche condizioni rivoluzionarie: le due principali sono una catastrofe per la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d'America, giganteschi volani dell'inerzia storica paurosa del sistema e del modo di produzione del capitale.
Una formula per Trieste offerta ai "contingentisti"
18. La posizione dei comunisti marxisti circa l'attuale contesa per Trieste si fissa in questi capisaldi: fin dal 1911 era aperta la posizione del proletariato italiano contro le rivendicazioni di unità nazionale; nella guerra per Trieste e Trento del 1915 i socialisti rifiutarono l'appoggio, e i gruppi che poi formarono a Livorno nel 1921 il Partito Comunista sostennero il sabotaggio della guerra nazionale; dopo il 1918 il proletariato giuliano delle due razze e lingue fu compatto col socialismo rivoluzionario e col partito di Livorno; il proletariato comunista deve spregiare con la stessa decisione la politica nazionalista dei governi di Roma e di Belgrado, e più ancora quella inverosimilmente barattiera dei cominformisti.
Per una strana coincidenza questa riunione si svolge mentre improvvisi eventi portano Trieste sulla prima scena della politica internazionale. Che cosa dicono i comunisti per l'affare triestino?
Il Partito Comunista d'Italia costituito a Livorno nel 1921, rivendicava in pieno la più recisa opposizione alla guerra che liberò Trieste e i territori giuliani e tridentini, in quanto esso derivava dai gruppi che, non paghi della negazione all'unione sacra di guerra e del "non aderire né sabotare", sostennero il deciso disfattismo leninista, chiedendo al maggio 1915 lo sciopero generale senza termine contro la mobilitazione, e spingendo il vecchio partito all'azione in tutto il corso della guerra e nel periodo del rovescio di Caporetto.
Non avevamo dunque voluto Trieste. Ma Trieste proletaria e rivoluzionaria fu nostra, e al Partito Comunista vennero la maggioranza delle sezioni politiche, i sindacati, le cooperative, di lingua italiana o slovena poco importava, e il glorioso Lavoratore, che usciva nelle due lingue con le versioni degli stessi articoli di teoria, di propaganda e di agitazione politica e organizzativa. E nelle file comuniste Trieste rossa fu prima nella lotta contro il fascismo, che si impose solo grazie alla scesa in campo dei carabinieri tricolori.
Nulla ciò ha di comune col contegno dei cosiddetti odierni comunisti italiani, che ieri avrebbero sostenuto che Trieste passasse a Tito perché così entrava in una patria socialista, oggi ostentano smaccato nazionalismo e chiamano Tito per antonomasia "il boia".
La rivalità tra lo Stato di Belgrado e quello di Roma nell'agone ributtante della diplomazia mondiale, come la rivalità tra i partiti italiani, a proposito delle soluzioni per Trieste, si avvolge nelle più rancide formule nazionaliste in cui i più sguaiati a fare uso di sofismi etnici linguistici e storici non sono i borghesi autentici, ma i "marxisti" Tito e Togliatti.
Non ci preoccupa di solito, e non solo per la scarsa forza numerica, la domanda: praticamente che sostenete, che proponete? Ma a questi marxisti del concretismo e della politica positiva, regaleremo una formula cui non hanno pensato. Il problema della doppia nazionalità e della doppia lingua è indecifrabile, e non se ne esce facendo ai Veneti e agli Sloveni discorsi inglesi o croati.
In sostanza la situazione è che nelle città, borghesemente organizzate, prevalgono i Latini, gli Slavi invece nei villaggi sparsi all'interno delle campagne e specie lungi dalla costa. Italiani i commercianti, gli industriali, gli operai, i professionisti; Slavi i proprietari di terra e i contadini. Una differenza sociale che si presenta come differenza nazionale, e che sparirebbe se gli operai fregassero gli industriali, i contadini cacciassero i proprietari, ma non può sparire tracciando comunque linee di frontiera.
Nella costituzione dell'URSS, signori delle Botteghe Oscure, una volta copiata in quella della Repubblica popolare jugoslava, signori marxisti di Belgrado, la base dell'alleanza tra operai e contadini era la formula: un rappresentante per cento operai, uno per mille contadini.
Fate il plebiscito che tanto vi esalta (la formula l'avete presa da Mussolini, vostro comune nemico) con la norma che il voto dell'abitante delle città e cittadine (oltre, ad esempio, diecimila abitanti) vale dieci, quello dell'abitante del villaggio e della campagna vale uno. Allora potete estendere la democratica consultazione a tutta l'area tra la frontiera 1866 e quella 1918: mettete dentro Gorizia, metteteci Pola, Fiume e Zara.
Ma, da una parte e dall'altra, sporca democrazia borghese ne hanno tanta ingurgitata che si piegano al sacro dogma, di cui la classe ricca sghignazza, che ovunque e dovunque il voto dell'unità persona ha lo stesso calibrato peso!
Chi sa che con un'aritmetica come quella che suggeriamo noi, la maggioranza non venga fuori per la tesi: andate all'inferno entrambi!
Rivoluzione europea
19. Nel senso dello sviluppo storico delle forze produttive sociali, Trieste è un nodo di convergenza di fattori economici che si estendono molto oltre le frontiere degli Stati in contesa, e un nodo della perfetta attrezzatura moderna industriale e di comunicazione: qualunque esso sia, ogni taglio alle spalle agisce in senso contrario all'estensione degli scambi che è la sottostruttura del grande moto, chiuso col secolo XIX, per la formazione di unità nazionali. Nel cuore del secolo Ventesimo non può esservi per Trieste che avvenire internazionale, che non può trovarsi utilmente in compromessi politici e mercantili delle forze borghesi, ma solo nella rivoluzione comunista europea, di cui i lavoratori di Trieste e del suo territorio dovranno ridiventare uno dei reparti di assalto.
Nel fulgore del primo capitalismo che si ebbe in Italia e di cui uno dei primi Stati politici fu la Serenissima Repubblica di Venezia, è indiscutibile che la dipendenza da questa di Trieste, porto ed emporio dell'Adriatico avanzato nel cuore di un'Europa feudale e semibarbara, è un fatto storico audacemente progressivo.
Quando l'apertura mondiale delle comunicazioni marittime scavalcò il capitalismo mediterraneo, e il mercato mondiale sembrò costruirsi ad opera di Spagna, Portogallo, Olanda, Francia, Inghilterra per le vie atlantiche; sempre da Trieste parte geograficamente la possibilità di una penetrazione del nuovo modo di produzione verso l'interno dell'Europa del Centro e dell'Est, dove la reazione terriera e anti-industriale pare essersi trincerata, e frapporre ostacoli di secoli alla nuova organizzazione umana.
La disposizione dell'Impero mosaico di Austria che collega lo sbocco adriatico ai nascenti centri industriali tedeschi, magiari, boemi, è tuttavia una disposizione progressiva rispetto ai blocchi che Russi e Turchi stendono più oltre, e che il capitalismo va successivamente forzando.
Ai fini di un ritorno dell'industrialismo pieno nella penisola italica e del suo affermarsi nella balcanica, era un'ulteriore situazione utile quella che si delineava in un collegamento con la potente economia germanica e nel tentativo di buttare fuori dal Mediterraneo il predominio economico anglosassone.
Nella situazione succeduta alla disfatta dell'Asse, evidentemente Trieste è sempre in primissimo piano se, per meglio deliberare sulla colonizzazione americana dell'Europa e i suoi piani disgustosi, si è gravata la città e il territorio di un regime di eccezione.
Ogni rivoluzionario comunista saluta il proletariato triestino nel duro succedersi di fasi in cui si sono oscenamente insediati i rappresentanti dei peggiori capitalismi e dei nazionalismi militareschi più feroci, ed hanno celebrate le loro orge di crudeltà, di corruzione e di sfruttamento.
Tesi sulla ristretta area tanti artigli adunchi e tanti apparecchi di sguaiato colonialismo da lenoni, essa non troverà via di uscita nazionale da nessun lato, e in qualunque lingua la invochi.
La soluzione non può essere che internazionale: ma come non può venire dagli attriti e dai conflitti degli Stati, così non verrà dai loro fornicamenti democratici, dalla sordida unità della servitù europea.
Non una bandiera nazionale auguriamo sulla torre di San Giusto, ma l'avvento della dittatura proletaria europea, che tra un proletariato uscito da tali esperienze, e tanto dolorose, non potrà non trovare, quando finalmente l'ora sia giunta, i combattenti più decisi.
Da "Programma comunista" nn. 16, 17, 18, 19, 20 del 1953