I fattori di razza e nazione nella teoria marxista (2)
Parte seconda
Interpretazione marxista della lotta politica e diverso peso del fattore nazionale nei modi storici di produzione
Da razza a nazione
1. Il passaggio dal gruppo etnico o "popolo" alla "nazione" non avviene che in relazione alla comparsa dello Stato politico, con le sue caratteristiche fondamentali di circoscrizione territoriale e di organizzazione di forza armata - e quindi dopo la cessazione del primitivo comunismo e la formazione delle classi sociali.
Astraendo da ogni movimento letterario e da ogni influenza idealista, riferiamo la categoria razza al fatto biologico, la categoria nazione al fatto geografico. Tuttavia altro è nazione come fatto storico definito, altro è nazionalità, e per nazionalità deve intendersi un aggruppamento che risente dei due fattori, quello razziale, e quello politico.
La razza è fatto biologico, dato che, per classificare un esemplare animale in quanto a razza, non ci domandiamo dove sia avvenuta la sua nascita, ma da quali genitori, e se entrambi (fatto ben raro nel mondo odierno) erano dello stesso tipo etnico, gli esemplari da essi nati appartengono a tale tipo e sono come razza precisamente classificati. Ovunque sono stati diffusi quei bei maiali tutti biancorosei che si chiamano Yorkshire, dalla contea inglese ove ebbe origine l'allevamento, rigorosamente selezionato, il che - ha qui ragione il Papa - può farsi con sicurezza solo per le bestie e non per gli uomini, almeno da quando questi, per i due sessi, non si tengono in gabbia come in talune forme schiaviste. E così per le vacche bretoni, i cani danesi, i gatti siamesi, e via via; il nome geografico non esprime più che un fatto di allevamento.
Tuttavia cose simili avvengono anche per l'uomo ed anche oggi, e negli Stati Uniti d'America (negri a parte, di cui in alcuni Stati della Confederazione è tuttora vietato il matrimonio coi bianchi) vi è un Primo Carnera di babbo e mamma friulani, ma cittadino americano, e tanti, tanti Gennarini Espositi di sangue partenopeo, ma fierissimi di avere conseguito "a carta e' citatino".
La classificazione degli uomini come appartenenti ad una nazione si fa invece con concetto non biologico o etnologico, ma puramente geografico, e dipende dal luogo dove sono nati, in linea generale, salvo i casi sofistici e rari dei nati a bordo di bastimenti in navigazione e via dicendo.
Ma da ogni lato preme il difficile imbroglio delle nazioni che comprendono più nazionalità, ossia non soltanto più razze - le quali sono progressivamente sempre più indefinibili biologicamente come tipi puri - ma più gruppi distinti per lingua e anche per abitudini, costumi, cultura e così via.
Se possiamo ancora definire "popolo" la turba nomade formata dalla unione di tante tribù di razza affine che percorre talvolta interi continenti alla ricerca di suoli che la alimentino e spesso invade sedi di popoli già stabili geograficamente per il saccheggio o per il proprio stesso insediamento, evidentemente non siamo ancora in diritto, prima di tale ultimo evento, di adoperare il termine di nazione, che si riferisce al luogo di nascita, ignoto e indifferente per chi fa parte di una massa che, con i suoi bagagli e carri che fanno da principale tipo di abitazione, dimentica la topografia dei suoi itinerari.
Il concetto di sede fissa di un gruppo umano implica quello di confini a cui limita la sua zona di soggiorno e di lavoro, e si suol dire dal comune storiografo che implica una protezione di tale confine contro altri gruppi, e quindi l'organizzazione fissa di guardie e di eserciti, una gerarchia, un potere. Ma invece l'origine delle gerarchie, dei poteri, dello Stato è precedente all'infittirsi della popolazione umana fino al punto delle contese territoriali, ed è in relazione a processi interni degli agglomerati sociali, in evoluzione dalle prime forme del clan e della tribù, non appena la coltivazione del suolo e la produzione agricola si sono tecnicamente sviluppate al punto di stabilizzare gli interventi con cicli stagionali sugli stessi campi.
Apparizione dello Stato
2. La premessa dell'origine dello Stato è la formazione di classi sociali, e questa presso tutti i popoli si determina colla spartizione della terra da coltivare tra i singoli e le famiglie e con le parallele fasi della divisione del lavoro sociale e delle funzioni, da cui deriva una diversa posizione dei vari elementi rispetto alla generale attività produttiva, e il profilarsi di gerarchie diverse con funzioni di primo artigianato, di azione militare, di magia-religione, che è la prima forma della scienza tecnica e della scuola, a sua volta staccatasi dalla vita immediata della gens e della famiglia primitiva.
Non dobbiamo qui dare svolgimento totale alla teoria marxista dello Stato, ma essa interessa in massimo grado per stabilire quali sono le strutture delle collettività storiche indicate come nazione, strutture assai più complesse del banale criterio secondo cui ciascun individuo, considerato a sé, si rilega con un diretto vincolo alla terra che gli dette i natali, e la nazione è un insieme di molecole personali simili tra loro - concetto non scientifico ma da identificarsi con la ideologia di classe della moderna borghesia dominante.
La teoria dello Stato non come organo di popolo o nazione o della società, ma come organo di classe e del potere di una data classe, fondamentale in Marx, venne da Lenin restaurata nella sua integrità contro la sistematica dissimulazione teorica e politica cui la assoggettarono i socialisti della II Internazionale, appunto facendo leva sulla sistematica spiegazione dell'origine delle forme statali contenuta nella classica opera engelsiana sull'origine della famiglia e della proprietà, che ci ha guidati nel campo e nel corso della preistoria. In tali epoche agisce l'elemento etnico allo stato ancora puro e diremmo vergine, nella comunione primitiva di lavoro, di fraternità e di amore delle antiche e nobili, nel senso concreto della parola, tribù e gentes, di cui anche i miti di tutti i popoli serbarono traccia nel favoleggiare di un'età dell'oro dei primi uomini che ignoravano il crimine e lo spargimento di sangue.
Riprenderemo quindi da tale luminoso scritto il filo che ci deve condurre alla spiegazione delle lotte di nazionalità, e alla conclusione materialista che ancora una volta non si tratta di un fattore immanente, ma di un prodotto storico che presenta determinati inizi e cicli, e avrà la sua conclusione e scomparsa sotto condizioni già largamente elaborate nel mondo moderno; veduta nostra originale che non si identifica però per nulla con la rinunzia a considerare nella nostra dottrina e soprattutto nella inseparabile da essa nostra azione (nostre, ossia proprie non di uno o molti personali soggetti, ma del nostro movimento ormai secolare e mondiale) l'importantissimo processo della nazionalità, e tanto meno con il marchiano errore storico di dichiararlo liquidato nei suoi rapporti con la proletaria lotta di classe, nella struttura politica internazionale contemporanea.
Il processo per quanto riguarda l'antica Grecia, e quindi la grande forma storica della antichità classica mediterranea che si chiude con la caduta dell'Impero romano, è così sintetizzato da Engels:
"Vediamo dunque nella costituzione greca dell'età eroica l'antica organizzazione gentilizia ancora in pieno vigore, ma anche già all'inizio della sua fine: diritto patriarcale con eredità del patrimonio da parte dei figli, per cui venne favorita l'accumulazione di ricchezza nella famiglia, e la famiglia diventò rispetto alla gens una potenza [si confronti l'altra citazione del testo alla fine della parte prima]; ripercussione della differenza di ricchezza sulla costituzione mediante la formazione dei primi germi di una aristocrazia ereditaria e di una monarchia; schiavitù, limitata all'inizio ai soli prigionieri di guerra, ma che apre la via all'assoggettamento di veri e propri compagni di tribù e persino di gens; l'antica guerra di tribù contro tribù, che già degenera in sistematica rapina per terra e per mare, per conquistare bestiame, schiavi, tesori, quale regolare fonte di guadagno; in breve la ricchezza lodata e apprezzata come bene supremo, l'abuso degli antichi ordinamenti gentilizi per giustificare la violenta rapina di ricchezze. Mancava ancora solo una cosa: un'istituzione che non solo assicurasse le ricchezze degli individui recentemente acquistate contro le tradizioni comunistiche dell'ordinamento gentilizio" (altra volta avvertimmo di leggere questo aggettivo nella traduzione italiana come "pertinente alla gens", evitando la confusione col concetto meno antico di aristocrazia quale classe: nella gens che non conosce classi tutti sono di sangue puro e quindi pari; non adotteremo il termine di democrazia, spurio e contingente, e nemmeno conieremo quello di pancrazia, perché la prima parola indica bene tutti, ma la seconda indica potere, cosa allora ignota: nemmeno era una pananarchia, perché anarchia indica una lotta dell'individuo contro lo Stato, dunque tra due forme transitorie, e in cui è molto spesso la seconda a muovere la ruota in avanti. Si trattava nella gens di un ordinamento di schietto comunismo, ma limitato ad un gruppo razziale puro, ordinamento dunque etnocomunista, mentre il comunismo "nostro", a cui il nostro storico programma tende, non è più etnico o nazionale, ma è il comunismo di specie, reso realizzabile dai cicli di proprietà di potere e di espansione produttiva e mercantile, che la storia ha percorso... ).
Continua la citazione: "Mancava ancora solo una istituzione che non solo consacrasse la proprietà privata, così poco stimata in passato, e dichiarasse questa consacrazione lo scopo più elevato di ogni comunità umana, ma imprimesse anche il marchio del generale riconoscimento sociale alle nuove forme d'acquisto della proprietà, sviluppantisi l'una accanto all'altra, e quindi all'aumento continuamente accelerato della ricchezza. Mancava una istituzione che rendesse eterni non solo la nascente divisione della società in classi, ma anche il diritto della classe dominante allo sfruttamento della classe non abbiente, e il dominio di quella classe su questa. E una tale istituzione venne. Fu inventato lo Stato".
Ed è anche Engels a definire il criterio territoriale. "Nei confronti dell'antica organizzazione per gentes il primo segno distintivo dello Stato è la divisione dei cittadini secondo il territorio. Le antiche unioni e gentes, formate e tenute insieme da vincoli di sangue, erano diventate inadeguate, in gran parte perché presupponevano un legame dei loro membri a un determinato territorio e questo legame aveva da gran tempo cessato di esistere: il territorio era rimasto, ma gli uomini erano divenuti mobili. Si prese quindi come punto di partenza la divisione territoriale e si lasciò che i cittadini esercitassero i loro doveri e i loro diritti pubblici là dove si stabilivano, senza tenere conto né della gens né della tribù".
Stati senza nazione
3. Negli antichi imperi asiatico-orientali di formazione politica anteriore a quelle elleniche ravvisiamo piene forme di potere statale in relazione alla concentrazione di enormi ricchezze terriere e tesorizzate nelle mani di signori, satrapi, e talvolta teocrati, e al soggiogamento di vaste masse di prigionieri, schiavi, servi e paria della terra, ma non ancora può parlarsi di forma nazionale pure essendo ben presenti le caratteristiche della forma Stato: territorio politico e corpi armati.
La ovvia obiezione circa il popolo ebraico ci consente di dare un chiarimento non inutile all'ultimo passo di Engels citato al precedente punto. Può equivocarsi tra il territorio che in epoca meno antica definisce la forma pienamente statale, e il legame dei membri della gens ad un dato territorio, legame poi rotto pur permanendo quello del vincolo inviolabile di sangue.
Alla gens appartiene un territorio non nel moderno senso politico, e se vogliamo nemmeno nello stretto senso economico produttivo. Engels vuole dire che la gens si distingue dalle altre, anche nel nome, per il suo territorio di origine, non per i vari successivi territori di soggiorno e di lavoro comune. Il legame dell'indiano irochese alla sua terra di origine è rotto da secoli, non solo dacché la civiltà bianca ha ridotto i pochi superstiti in turpi riserve cintate, ma da quando le varie stirpi terribilmente lottavano tra loro, distruggendosi ma guardandosi bene dal confondersi, a costo di spostarsi di migliaia di chilometri nelle foreste immense (molte ridotte poi dalla tecnica capitalistica a deserti, e utilizzate dalla filantropia borghese per allestire le armi atomiche).
Il popolo ebreo è il primo che abbia una storia scritta, ma da quando è scritta lo è come una storia di divisione in classi, presenta proprietari e nullatenenti, ricchi e servi, e salta disinvoltamente il comunismo primitivo, di cui solo ricordo è l'Eden, perché già nella seconda generazione vi fu Caino, il fondatore, inventore della lotta di classe. Il popolo ebreo ebbe dunque uno Stato organizzato, e sapientemente organizzato, con gerarchie precise e costituzioni rigorose. Eppure questo popolo non divenne una nazione, come non lo erano divenuti i suoi barbari nemici Assiri, Medi o Egiziani. E ciò malgrado la enorme differenza tra la purezza razziale degli Ebrei e la indifferenza dei satrapi e dei faraoni a vedere pullulare attorno ai loro troni servi, schiavi e talvolta funzionari e capi militari di altra origine etnica o di altro colore, ad aver nei loro ginecei odalische bianche, nere o gialle, tutto derivato da razzie militari e da soggiogamento di libere tribù primitive o di altri Stati a loro preesistenti nel cuore dell'Asia o dell'Africa.
Gli Ebrei, divisi in dodici tribù, non sono assimilati da altri popoli nemmeno nella sconfitta. Le tribù e le gentes, ormai tradizionalmente trasformate in famiglie patriarcali monogame, non perdono il legame di sangue puro, il nome del paese di origine e la tediosa tradizione genealogica (tuttavia va notato che lo stretto attaccamento alla discendenza paterna degli israeliti tollera largamente la unione coniugale con donne di altra razza) nemmeno con le deportazioni territoriali, come sarebbero state le leggendarie cattività di Babilonia e di Egitto. Il mitico attaccamento alla terra promessa è una forma pre-nazionale, perché anche quando la comunità etnica conservatasi abbastanza pura ritorna al paese d'origine, alla sua culla etnologica, non riesce ad organizzarvisi politicamente con storica stabilità e il territorio seguita ad essere incrociato da eserciti dei più diversi e lontani poteri. Le guerre della Bibbia sono lotte di tribù più che guerre di libertà nazionale o di conquista imperiale, e il territorio rimane teatro di storici scontri in forze tra ben altri popoli aspiranti alla egemonia in quella area strategica del mondo antico e moderno.
Anche i Greci della guerra di Troia non sono ancora una nazione benché costituiscano una federazione di piccoli Stati aventi prossime sedi ed una molto vaga comunanza etnica, data la ben diversa origine di Joni e Dori e il confluire nella penisola ellenica di antichissime migrazioni da tutti i punti cardinali. Le stesse forme produttive, costituzioni statali, costumi, lingue, tradizioni culturali, sono diversissime per le varie piccole monarchie militari collegate: anche nelle storiche guerre con i Persiani l'unità non è che contingente, e fa luogo alle accanite guerre per il predominio nel Peloponneso e in tutta la Grecia.
Nazione ellenica e cultura
4. I fattori nazionali sono evidenti nell'antica Grecia anche nell'organizzazione sociale di Atene, Sparta e di altre città, e più evidentemente nello Stato macedone che non solo riduce ad unità il paese ma diviene in un rapido ciclo il centro di una prima conquista imperiale nel mondo antico. La letteratura e la ideologia di questo primo nazionalismo non solo si tradurranno nel mondo romano, ma forniranno la trama alle ebbrezze nazionali delle moderne borghesie.
Lo Stato lacedemone come lo Stato ateniese (o quello tebano) non sono soltanto perfetti Stati nel senso politico con un territorio esattamente definito e con istituzioni giuridiche, e con un potere centrale da cui promanano gerarchie civili e militari, ma assurgono alla forma di nazioni in quanto il tessuto sociale, pur conservando la divisione tra classi ricche e povere rispetto alla produzione agricola ed artigiana e al già sviluppato commercio interno ed esterno, ed assicurando il potere politico agli strati economicamente forti, consente un'impalcatura legale ed amministrativa che applica le stesse formali norme a tutti i cittadini, e tra esse la partecipazione con parità di voto alle assemblee popolari deliberative ed elettive. Una tale sovrastruttura giuridica contiene sostanzialmente una funzione analoga a quella che il marxismo denunziò nelle democrazie parlamentari borghesi, ma corre tra i due modi storici di organizzazione sociale una differenza di base: oggi chiunque è cittadino e si afferma che per tutti valga la legge medesima; allora il complesso dei cittadini, che soli assurgevano a formare la vera e propria nazione, escludeva la classe degli schiavi, benché in dati tempi numerosissima, cui la legge negava ogni diritto politico e civile.
Malgrado ciò, e malgrado il contrasto di classe tra aristocratici e plebei, tra ricchi patrizi e mercanti da un lato e semplici lavoratori dall'altro, viventi di mercede, tale forma di organizzazione sociale si accompagnò a grandiosi sviluppi sia nel lavoro e nella tecnologia e quindi nelle scienze applicate, che nella scienza pura: in relazione alla partecipazione al processo produttivo su basi di parità e di libertà, malgrado lo sfruttamento di classe, la lingua prende un posto di primo piano, la letteratura e l'arte raggiungono alti gradi, si ribadisce la tradizione nazionale che fa buon gioco ai dirigenti della società e dello Stato per avvincere i cittadini tutti alle sorti della nazione, e obbligarli al servizio militare, e ad ogni altro sacrificio e contributo in caso di pericolo dell'organismo nazionale e delle sue strutture essenziali.
Letteratura, storiografica e poesia largamente riflettono l'affermazione di tali valori, facendo del patriottismo il motore primo di ogni funzione sociale, ponendo con ogni mezzo di esaltazione innanzi la fraternità tra tutti i cittadini dello Stato, condannando le tuttavia inevitabili e frequenti guerre e lotte civili, presentate abitualmente come congiure contro i detentori del potere, mosse da altri gruppi o persone avide di esso, ma in realtà prorompenti dai contrasti di interessi di classe e dal malcontento della massa popolare dei cittadini nutriti di molte illusioni ma tormentati dal basso tenore di vita anche nei momenti di grande splendore della polis.
Non è tuttavia la solidarietà nazionale una pura illusione ed un miraggio creato dai privilegiati e dai potenti, ma è in data fase storica l'effetto reale determinato dagli interessi economici e dalle esigenze delle materiali forze di produzione. Il trapasso da una primitiva coltura locale del suolo della Grecia, che sotto clima favorevole è in molte parti arido e roccioso, che poteva nutrire una scarsa e poco evoluta popolazione, alla navigazione commerciale più fervida da un capo all'altro del Mediterraneo, recante prodotti di paesi lontani e diffondenti quelli di un sempre più differenziato artigianato e di un vero e proprio tipo antico di industria, che permise specie presso gli approdi l'infittirsi degli abitanti e una grandiosa evoluzione del loro modo di vita, non si sarebbe potuto avere se non con una forma statale non già chiusa e dispotica come nei grandi imperi del continente, ma democratica ed aperta, che non fornisse solo contadini ed iloti, ma artefici adatti alla numerosa marineria ed ai lavoratori delle città, maestranze e stati maggiori di lavoro, sia pure assai meno numerosi dei moderni, necessari a quella prima forma di capitalismo che ebbe indimenticati splendori.
Ogni prevalere e sbocciare di forme di lavoro, sempre sfruttato, ma non più legato a vincoli di immobilizzazione locale e di fossilizzazione in tecniche secolari della lavorazione, determina in fase ascensionale, nella sovrastruttura, un grande sviluppo della scienza, dell'arte e dell'architettura, e si riflette in nuovi orizzonti ideologici che si aprono alle società prima vincolate a dottrine chiuse e tradizionali. Si ritroverà il fenomeno nel Rinascimento, inteso come fatto europeo, al declinare del feudalesimo: molti ritengono insuperato nelle altezze culturali il periodo aureo greco, ma è esercitazione letteraria. Possiamo tuttavia considerare che il "ponte" di "umanità nazionale" gettato sulle disuguaglianze economiche, quando lasciava fuori gli schiavi, quasi animali non computabili alla quota umana, era molto più saldo che allorché, nella sua edizione storica di quindici o venti secoli dopo, pretende valicare l'abisso sociale che divide i signori del capitale dal proletariato diseredato.
Ricorda Engels che nel massimo splendore di Atene non si avevano più di novantamila liberi cittadini contro ben trecentosessantacinquemila schiavi che non solo lavoravano la terra ma fornivano la manovalanza di quelle industrie cui abbiamo accennato, e quarantacinquemila "protetti" ossia ex schiavi e stranieri privi di cittadinanza.
E' bene ammissibile che una tale struttura sociale abbia determinato nel vivere di quei novantamila eletti un grado di "civiltà" qualitativamente più alto di quello dato ai moderni popoli "liberi" dal capitalismo attuale, a malgrado delle tanto maggiori risorse di meccanismo.
Ciò non induce certo a partecipare alla estasiata ammirazione per la grandezza greca del pensiero e dell'arte, e ciò non soltanto perché tali fastigi erano eretti sui dorsi sanguinanti di un numero di schiavi venti volte superiore a quello dei liberi uomini: questi d'altronde prima di Solone erano sfruttati dalla plutocrazia terriera fino al punto che l'ipoteca poteva ridurre a schiavo il libero cittadino debitore insolvente, e nella decadenza scesero, non volendo farsi concorrenti dello spregevole schiavo (la fierezza del libero ateniese giunse a tanto che anziché farsi sbirro consentiva che la polizia di Stato fosse costituita con prezzolati schiavi, e uno schiavo avesse la facoltà di manomettere i liberi) fino a costituire un vero Lumpenproletariat, un ceto di straccioni, le cui rivolte contro gli oligarchi dissolsero la gloriosa repubblica.
Engels fa qui un confronto, che dice tutto sulla posizione marxista verso le apologie delle grandi civiltà storiche. Gli Indiani irochesi non potettero assurgere a quelle forme a cui si avviò la gens greca originaria, del tutto analoga a quella studiata nella moderna America dal Morgan (forme simili sono nei giornali di questi giorni descritte da esploratori delle isole Andamane dell'Oceano Indiano, esplorazione fatta da italiani per incarico del nuovo regime indiano, tra gruppi primitivi finora isolati dal resto dell'umanità). Mancavano infatti agli Irochesi una serie di materiali condizioni produttive relative alla geografia, al clima, a quel legame dei popoli dato dai mari specie mediterranei... Tuttavia nella modesta cerchia della loro reale economia i comunisti irochesi "dominavano le loro condizioni di lavoro e i loro prodotti", che erano assegnati secondo gli umani bisogni.
Con lo slancio che invece la produzione greca prese verso la sua gloriosa differenziazione, al vertice della quale stanno le trabeazioni del Partenone, le Veneri fidiache, o i dipinti di Zeusi, e le astrazione platoniche che il moderno pensiero non avrebbe ancora scavalcate, i prodotti dell'uomo presero a divenire merci, circolarono su mercati monetari. Libero o schiavo che l'uomo fosse ai sensi dei canoni delle carte di Licurgo o di Solone, esso cominciò ad essere schiavo dei rapporti produttivi e dominato dal proprio prodotto. Non è ancora prossima la tremenda rivoluzione che lo scioglierà da questa catena, di cui le età "auree" della storia hanno ribadito i più formidabili anelli.
"Gli Irochesi erano molto lontani dal dominare la natura, ma entro i limiti naturali che vigevano per essi, dominavano la propria produzione [...]. Questo era l'enorme vantaggio della produzione barbarica, che andò perduto con l'avvento della Civiltà. Riconquistarlo, ma in base al possente dominio, ora raggiunto, della natura da parte dell'uomo [...], sarà il compito delle prossime generazioni".
Qui sta il nocciolo del marxismo, e qui si vede perché il marxista sorride quando vede taluno, ingenuamente, estasiato nell'ammirare tappe della umana evoluzione, che ascrive all'opera di sommi ricercatori, filosofi, artisti, poeti, l'omaggio ai quali dovrebbe venire da ogni campo, al di sopra delle classi e dei partiti, come la corrente buaggine suole ripetere. Non vogliamo aggiungere alla "civiltà" un suo coronamento, ma dalle sue fondazioni dobbiamo farla saltare.
Nazione romana e forza
5. Il fattore della nazionalità raggiunge la più alta espressione nella Roma antica della Repubblica, sviluppando il modello dato dalla Grecia per la cultura nel campo positivo dell'organizzazione e del diritto. Sulle basi della nazione romana si eresse l'impero, che tendeva ad essere l'unico Stato organizzato in tutto il mondo umano allora noto, ma che non resse alla pressione dell'aumento delle popolazioni sorte in terre ignote e lontane ed entrate a loro volta nel grande ciclo dello sviluppo produttivo, che dalla piccola gens aveva condotto i popoli mediterranei all'immenso impero, sospintivi a loro volta dalla materiale imperativa esigenza della diffusione di vita della specie.
Il processo nazionale in Italia è diverso da quello greco in quanto non vi sono più città capitali di piccoli Stati che con costumi e grado di sviluppo produttivo non grandemente diversi lottano per una egemonia su tutta la penisola. In Italia, dopo il tramonto di precedenti civiltà che, avendo raggiunto avanzati tipi produttivi ed avendo indubbiamente avuto poteri statali, non si può ritenere abbiano vissuto come nazionali nel senso proprio, Roma diviene l'unico centro di una organizzazione statale con forme giuridiche politiche e militari così definite da assorbire in breve tutte le altre di un territorio sempre più ampio, che rapidamente dai limiti del Lazio giunge al Mediterraneo e al Po. Mentre le forze produttive notevolissime di una così vasta zona sono coordinate con quelle della società romana, l'organizzazione sociale e statale di Roma e il sistema di amministrazione e di diritto vengono applicati ovunque ed in modo sempre più uniforme.
Meno rapidamente che nella Grecia la base produttiva agricola viene integrata, con una divisione del lavoro complessa, da quelle artigiane, commerciali, di navigazione e di industria: ma ben presto la stessa conquista militare oltre lo Jonio e l'Adriatico fa rapidamente assorbire i dati dell'organizzazione tecnica e culturale presenti nella vita greca e anche di altri popoli.
La disposizione sociale non è in sostanza dissimile, essendo sempre imponente l'apporto del lavoro schiavista. Ma la diffusione del mercantilismo, più lenta ma più profonda, rende più marcata nel seno della società degli uomini liberi la scala delle differenze sociali: a base della organizzazione e degli stessi diritti viene posto il censimento che classifica i cittadini romani secondo la loro ricchezza.
Il cittadino romano è tenuto al servizio militare, mentre le armi sono assolutamente inibite allo schiavo e al mercenario, fino alla decadenza dell'impero. L'esercito legionario è veramente esercito nazionale quale la Grecia non ebbe e quale non fu certo quello di Alessandro il Macedone, malgrado le travolgenti avanzate fino al limite dell'India, ove la morte fermò il giovanissimo condottiero, ma che in fatto era il massimo limite spaziale consentito alla schiacciante superiorità della forma di Stato occidentale rispetto alle bande dei vari principati d'Asia. Quella tentata organizzazione mondiale si sfasciò rapidamente dopo essersi spezzata in tronconi, non per la mancanza di un Alessandro, ma perché il centralismo statale era ancora bambino.
L'organizzazione romana oltre che statale era nazionale sia per la diretta partecipazione del cittadino alla guerra e alla costruzione in ogni tratto occupato di una stabile rete di strade, di fortificazioni, ma anche per la contemporanea colonizzazione agraria, l'attribuzione di terre ai soldati, e l'insediamento quindi immediato delle forme romane di produzione, di economia e di diritto. Non era una corsa a tesori ignoti e sperati di popoli da leggenda, ma la sistematica diffusione di un dato modo organizzativo di produzione in raggio sempre più vasto, debellando ogni resistenza armata, ma subito accettando la collaborazione produttiva delle genti assoggettate.
Tuttavia non è facile dare a Roma come nazione limiti, che variano nel tempo, e tanto peggio profilo etnografico, essendo ben noto come dal punto di vista delle razze l'Italia preistorica, non meno di quella storica, non aveva alcuna unità, né poteva materialmente averla se è un tanto facile ponte di passaggio tra il Nord e il Sud, l'Est e l'Ovest, delle più fitte sedi umane di tutti i tempi. Ammettiamo che i primi Latini (lasciando andare Troia) fossero una unità razziale, ma già erano dissimili di gran lunga dai vicinissimi Volsci, Sanniti, Sabini, per tacere dei misteriosissimi Etruschi, Liguri, ecc.
Il civis romanus coi suoi diritti e il suo proverbiale orgoglio nazionale ben presto dall'Urbe si estende al Lazio, e gli Italici sono organizzati in municipi, ai quali il criterio statale centralista non può concedere alcuna autonomia, preferendo dopo pochi secoli chiamare ogni uomo libero che in essi vive cittadino romano, con inerenti prerogative ed obblighi.
Il fatto nazione è qui spinto alla sua più potente espressione nel mondo antico, accompagnata dalla maggiore stabilità storica che finora si conosca. Ben lontani dunque dalla comunanza etnica di sangue, i membri della grande comunità, ossia i cittadini liberi, suddivisi in classi sociali, che vanno dal grande patrizio latifondista con ville in ogni angolo dell'Impero al minuto contadino e al proletario dell'Urbe che vive nei periodi difficili con distribuzioni statali di farina, sono tenuti insieme da un generale sistema economico e produttivo e di scambio dei beni e dei prodotti, retto da uno stesso inflessibile codice giuridico che la forza armata dello Stato fa senza eccezioni rispettare in tutto l'immenso territorio.
La storia delle lotte sociali e delle guerre civili nelle stesse mura dell'Urbe è classica, ma i suoi sconvolgimenti non sminuiscono la solidità e l'omogeneità della superba costruzione di amministrazione di tutte le risorse produttive dei più lontani paesi, che li copre di opere stabili a funzione produttiva di ogni natura: strade, acquedotti, terme, mercati, fori, teatri, ecc.
Tramonto della nazionalità
6. La decadenza e il tramonto dell'impero romano chiudono il periodo della storia antica in cui la nazionalità e l'organizzazione in Stati nazionali si presentarono come fattori decisivi e si svolsero nel senso dell'evoluzione delle forze produttive.
La solidarietà nella nazione che non elude i periodi di violente lotte di classe tra i liberi di diversa condizione sociale ed economica, ha una chiara base economica fin quando, a danno delle masse di schiavi, lo sviluppo del sistema di produzione comune ai cittadini della nazione fornisce un continuo apporto di nuove risorse che elevano il tenore generale di vita, come la sostituzione dell'agricoltura fissa e seminativa alla semplice pastorizia, dell'orticoltura irrigua ai sistemi estensivi, della lottizzazione della terra e della sua commerciabilità, insieme a scorte di schiavi ed armenti, al semi-nomadismo primitivo. Anche l'economia agraria e poi urbana romana partì dalla prima economia collettivista delle gentes locali, che doveva cedere non potendo bastare ad alimentare popolazioni aumentate con una rapidità su cui grandemente influisce la dolcezza dei climi. Engels dà di tali origini un'esposizione rapida ma compiuta, dimostrando nelle leggi dei quiriti le derivazioni dei primi ordinamenti gentilizi, e confutando vecchie tesi di storici e del Mommsen (vedi nel capitolo finale della parte precedente la confutazione di un recentissimo autore che nega l'applicabilità del materialismo storico a tale trapasso).
Se il sistema di diritto romano circa la vendibilità della terra e il mercantilismo delle scorte mobili rappresentava la sovrastruttura "di forza" di una nuova economia produttiva di rendimento più alto che il primitivo comunismo di tribù, e tale fatto economico ne spiega l'avvento, sono altri fatti economici che spiegheranno gli eventi politici e storici della sua fine. Con l'aumentare della ricchezza tratta dai commerci in uno spazio immenso e dal cumulo di lavoro schiavista, si va determinando lo scavarsi di un solco di classe profondissimo nel "fronte nazionale", una volta tanto solido. I piccoli coltivatori che avevano combattuto per la patria e faticosamente colonizzate le terre di conquista, si vedono sempre più espropriati e depauperati, e gli schiavi acquistati coi tesori dei ricchi terrieri (nonché allo stesso titolo gli armenti e le greggi) li sostituiscono sui loro fertili campi, che vanno in rovina. Il rapporto tra liberi e schiavi poteva reggere con una media bassa densità di popolazione, assicurando ai secondi la materiale vita e riproduzione, ai primi la ricca gamma di soddisfazioni delle età fiorenti; ma diminuendo la terra da occupare oltre frontiera, ed anzi agitandosi, oltre quelle, nuove popolazioni emigrate e demograficamente dilaganti, e crescendo gli aspiranti, si verifica la crisi ineluttabile e la degenerazione dei metodi di coltura. Questa decade al punto di non potere mantenere né l'animale né lo schiavo, e col proseguire della disorganizzazione lo stesso padrone libera gli schiavi, che vanno ad aumentare la massa dei poveri liberi e privi di lavoro e di terra.
La magnifica costruzione si va allentando nei suoi legami tra regione e regione e non riesce più ad intervenire nelle crisi locali di deficienza. Mentre le carestie verranno a contrastare il fattore demografico, i gruppi umani si riducono in cerchi di miserrime economie locali, in cerchi stretti, che non sono più quelli delle antiche tribù, e la cui situazione non può essere resa diversa dai profondi mutamenti succedutisi e dai nuovi rapporti tra strumenti produttivi, prodotti e bisogni... La nazione che era divenuta un impero si deve spezzare in minime unità, che non hanno più il potente tessuto connettivo del diritto, della magistratura, delle forze armate, emananti da un centro unico, e hanno perduto quello della comune lingua latina, della cultura, della tradizione orgogliosa... Il grande, "naturale", fondamentale fatto nazionale, patriottico, che sarebbe connesso alla famosa "umana essenza", a gran confusione degli idealisti, sta per permettersi un'eclisse storica totale di qualche migliaio di anni...
"Prima eravamo alla culla delle antiche civiltà greche e romane. Qui siamo alla loro tomba. Su tutti i paesi del bacino mediterraneo era passata la pialla livellatrice del dominio mondiale romano, e ciò per secoli. Là dove il greco non aveva opposta resistenza, tutte le lingue nazionali avevano dovuto cedere di fronte ad un corrotto latino; non vi erano più differenze nazionali [...], tutti erano diventati romani. L'amministrazione romana e il diritto romano avevano disciolto dappertutto le antiche unioni gentilizie e insieme gli ultimi residui di autonomia, locale e nazionale [...]. Gli elementi di nuova nazionalità esistevano ovunque [...], in nessun luogo esisteva però una forza capace di unificare tali elementi in nazioni nuove".
Si avvicinano i barbari, con la freschezza del loro ordinamento in gentes, ma non ancora maturi per la costituzione statale e per fondare vere nazioni. Si profila l'ombra del Medioevo feudale: eppure anche qui è una necessità determinista inerente allo svolgersi delle forze produttive: Engels afferma.
Ordinamento dei barbari tedeschi
7. Anche i popoli che sommersero nelle ondate di invasione l'impero romano ebbero come organizzazione iniziale quella di gentes e del matriarcato, e la coltivazione comunista della terra. Erano, quando vennero a contatto di Roma, al passaggio tra lo stato medio e quello superiore della barbarie, e cominciavano a passare dal nomadismo alle sedi fisse. La loro organizzazione militare cominciava a dar luogo alla formazione di una classe di capi militari che eleggevano il re e che andarono formandosi una proprietà in grande, sottraendo le terre al contadino franco, in cui si era trasformato il libero e uguale membro della gens e della tribù. Cominciò così anche presso tali popoli ad apparire lo Stato e si posero lentamente le basi delle nuove nazionalità che dovevano dopo molti secoli condurre alla rinascita moderna della nazione.
Le notizie che si hanno sulle origini dei popoli tedeschi che si spostavano in tutta l'Europa a nord del Danubio e ad est del Reno conducono ad attribuire ad essi una produzione agricola condotta colla comunione in famiglie, genti, e poi marche, e successivamente un tipo di occupazione della terra con periodiche ridistribuzioni di essa e della parte di essa non totalmente comune e lasciata a periodico riposo. Nello stesso tempo artigianato e industria sono del tutto primitivi: non vi è commercio e non circola denaro, se non quello romano ai margini dei limiti imperiali, con una relativa importazione di manufatti.
Tali popoli sono tutti ancora migratori ai tempi di Mario, che ributtò l'orda dei Cimbri e dei Teutoni dalla penisola ove volevano dilagare passando il Po; lo erano in gran parte ai tempi di Cesare, che li vide apparire a sinistra del Reno, e sono descritti come fissi su terra agraria solo in Tacito, centocinquant'anni dopo. Evidentemente fu processo complicato e in relazione soprattutto al rapido aumento numerico, di cui manca ogni documentazione storica originale: alla caduta dell'Impero erano secondo Engels sei milioni, nello spazio dove oggi vivono forse centocinquanta milioni di uomini.
La differenza di classe tra capi militari possessori di terra e di potere e la massa dei contadini-soldati (in quanto non vi sono schiavi e quindi tutti i non portatori di armi o liberi dalla guerra sono lavoratori del suolo) conduce alla formazione di veri e propri Stati, man mano che viene occupato un territorio fisso ed eletto un re o imperatore stabile, sia pure a vita e non ancora ereditario per dinastia. A un tale punto già l'ordinamento delle gentes è caduto, in quanto la tradizione dell'assemblea popolare della comunità è del tutto travisata nell'assemblea dei capi, o principi elettori, che è la base di un aperto potere di classe.
Indubbiamente un tale sviluppo è accelerato dalla conquista dei territori del decadente Impero Romano, ove i popoli invasori si installano. Più che la loro nuova organizzazione, loro compito rivoluzionario è stata la distruzione del corrotto Stato romano; liberarono, dice Engels, i sudditi romani dal loro Stato parassita, di cui ormai cadevano i presupposti economico-sociali, e in compenso si presero due terzi almeno del territorio imperiale.
La nuova organizzazione della produzione agraria su tali terre, dato il relativamente piccolo numero degli occupatori e la loro tradizione di lavoro comunistico, lasciò indivise grandi estensioni, non solo di boschi e di pascoli, ma anche di terre seminative, prevalendo le forme del diritto germanico su quelle romane, o formandosi interferenze di entrambe. Ciò rese possibile un'amministrazione fissa territoriale di quei popoli già migratori, e per quattro o cinque secoli sorsero gli Stati tedeschi con poteri sulle antiche province e sulla stessa Italia. Il più notevole era quello dei Franchi il quale valse di argine contro l'occupazione dell'Europa da parte dei Mori, e pure cedendo alla opposta pressione dei Normanni fece sì che le popolazioni resistessero sui territori in cui si erano fissate, sia pure nella complessa miscela etnica di Tedeschi, di Romani, e, nel regno dei Franchi, degli aborigeni Celti. Tali Stati tedeschi non erano nazioni per questo recente ingorgarsi di ceppi etnici, di tradizioni, di lingua, di istituzioni eterogenee: ma Stati lo erano di fatto per avere finalmente salde frontiere e un'unicità di forza militare.
"E tuttavia, per quanto questi quattro secoli [V, VI, VII, e VIII dopo Cristo] appaiano improduttivi, pure essi lasciarono dietro di sé un prodotto importante: le nazionalità moderne, nuova forma e organizzazione dell'umanità dell'Europa occidentale per la storia futura [leggi secoli XVII, XVIII, XIX]. I Tedeschi avevano in effetti ravvivato l'Europa e perciò la dissoluzione degli Stati del periodo germanico finì non nella sottomissione normanno-saracena, ma nella trasformazione progressiva in feudalesimo".
Prima di chiudere questa parte con il richiamo dei tratti della costituzione medioevale, dalla quale il fattore "nazionale" è sostanzialmente escluso, abbiamo così voluto mostrare che nella classica dottrina marxista non solo è ritenuto un positivo postulato storico l'organizzazione di antiche genti barbare e nomadi in Stati territoriali, in cui i popoli delle penisole mediterranee avevano segnato un vantaggio di oltre un millennio, ma lo è anche la natura nazionale degli Stati, il loro corrispondere alla nazionalità, ossia alla comunanza non solo in certa misura di razza, ma anche di lingua e di tradizione e di costume di tutti gli abitatori di un vasto e stabile territorio geografico. Mentre l'idealista storico vede nella nazionalità un fatto generale e presente sempre ed ovunque vi sia vita civile, noi marxisti le attribuiamo determinati cicli. Un primo ciclo storico lo abbiamo percorso, ed è quello delle grandi democrazie nazionali "sovrapposte" alla massa di schiavi, e tuttavia divise nel complesso di uomini liberi in classi sociali. Il secondo ciclo che vedremo nella terza parte, è quello delle democrazie di uomini liberi, senza più schiavi umani. In questo secondo ciclo storico il fatto nazione accompagna una nuova divisione di classi: quella propria del capitalismo. La nazione e la sua materiale influenza finiranno col capitalismo e con la democrazia borghese, ma non prima, anzi la formazione di Stati nazionali sarà indispensabile, perché l'avvento del moderno capitalismo, nelle varie aree geografiche, si dica compiuto.
La società feudale come organizzazione a-nazionale
8. I rapporti economici che definiscono l'ordinamento feudalistico spiegano come il tipo feudale di produzione dia origine a una precisa corrispondente forma storica di Stato politico, ma senza il carattere nazionale.
Per spiegare come l'incontro di due tipi di produzione talmente eterogenei, quali la comunione agraria dei popoli barbari e il regime terriero privato dei Romani, abbia condotto al sistema feudale a sua volta fondato sulla produzione agraria, e ribadire la conclusione marxista che gli Stati della classica antichità soprattutto nei periodi migliori ebbero natura nazionale, ignota all'ordinamento medioevale, occorre ricordare i caratteri più notevoli dei rapporti rispettivi di proprietà e di produzione.
Nell'ordinamento barbaro e fino a quando non è apparsa la schiavitù, il libero componente della comunità è lavoratore della terra, ma questa non è suddivisa in lotti singoli né ai fini del lavoro da fornire da ciascuno, né ai fini della disposizione dei frutti da raccogliere e da consumare.
Nell'ordinamento classico antico, essenzialmente il lavoratore bracciante è lo schiavo, e ciò non solo nell'agricoltura ma anche nella produzione ormai sviluppata e separata di oggetti manufatti, sicché è giusto dire che il mondo greco-romano ebbe un proprio industrialismo ed in un certo senso un proprio capitalismo: il capitale invece di essere costituito da terra e strumenti di produzione era oltre che di ciò costituito da uomini vivi come ad esempio oggi in una azienda sono capitale la terra, le macchine e gli animali da lavoro. Tale antico capitalismo non aveva come termine corrispondente il salariato generale, raro essendo che l'uomo libero lavorasse per mercede.
Ma essendo gli schiavi, forza di lavoro sociale fondamentale (forse anche a loro volta in origine comunisticamente posseduti dal gruppo dei liberi), un bene di proprietà, la loro distribuzione era ineguale e ciò significa divisione dei liberi in due classi: cittadini proprietari di schiavi, e cittadini senza schiavi, senza proprietà di uomini. Ci pare che lo stesso saggio Socrate aspirasse, nella sua miseria da filosofo, a potersi comprare almeno uno schiavetto.
Il cittadino senza schiavi non può dunque campare del prodotto delle braccia di un altro, e deve lavorare. Non da schiavo, certo, ma da libero, ossia senza dipendenza dagli ordini del padrone. E a ciò si collega il regime di proprietà privata della terra. Il libero lavoratore è un contadino proprietario e dispone come vuole del suo lotto di terreno, traendone il frutto col lavoro delle proprie braccia. Altri liberi non ricchi e senza schiavi conducono libero lavoro artigiano o professioni liberali (in qualche caso non contese, almeno come intellettuale attività, agli stessi schiavi).
Quando un tale ciclo è perfetto tutta la terra coltivabile è ridotta a bene allodiale. L'allodio è la proprietà privata della terra, con la piena libertà di venderla e di comprarne altra. Ciò significa che la nuova terra conquistata si lottizza subito ai soldati vincitori (Roma) che si trasformano in coloni. Ma perché il diritto allodiale abbia pieno respiro occorre che esista denaro in circolazione con cui si acquistano prodotti vari, e si hanno compravendite di schiavi come di possessi terrieri.
I pochi beni che nel regime antico non sono attribuiti in lotti e restano a disposizione dello Stato o di enti amministrativi locali formano, in opposizione a quelli allodiali, il demanio. La prevalenza del privato allodio sul pubblico demanio esige dunque che vi sia il mezzo circolante, e quindi un mercato generale cui accedono i cittadini liberi di tutto il territorio: questo era pienamente raggiunto in Grecia e in Roma. Il tipo di produzione antico classico quindi presenta per la prima volta, a differenza della barbarie coi suoi cerchi immediati di lavoro-consumo, il mercato interno nazionale (ed anche un inizio di mercato internazionale). Lo Stato territoriale è uno Stato nazionale quando non solo il suo potere raggiunge tutto il territorio con effetto di forza armata (il che era anche per Egiziani, Assiri, e poi Salii, o Borgognoni, ecc.) ma quando il commercio dei prodotti del lavoro e dei beni è praticabile su tutto il territorio e tra punti comunque lontani del territorio. Nella soprastruttura giuridica questo si esprime con l'esercizio degli stessi diritti da parte del cittadino in tutte le circoscrizioni dello Stato. E allora soltanto lo Stato è una nazione. Nel senso del materialismo storico, nazione è dunque una comunità organizzata su un territorio in cui si è formato un mercato interno unitario. Corrispondentemente si ha che questo risultato storico è parallelo ad un certo grado di comunanza di sangue, e più di lingua (non si commercia senza parlare!), di usi e costumi.
L'ambiente economico classico dette luogo al suo fenomeno di accumulazione come il moderno capitalismo: chi moltissimi schiavi, chi nessuno, chi tanta terra, chi appena quella che poteva dissodare con le sue braccia. La concentrazione condusse al disastro e rese antieconomico il lavoro schiavista al posto della feroce lottizzazione giardinata. In questo senso e con questi rapporti Plinio scrisse che "latifundia Italiam perdidere" e nelle sovrastrutture morali divenne infamia lo schiavizzare l'uomo... I compilatori attuali di leggi agrarie sono rimasti lì, quanto a dati dello sviluppo tecnico e sociale, e confondono schiavismo ed esoso sfruttamento capitalistico del lavoro agrario. Ma ora ci occupa il Medioevo.
Col crollo dell'economia terriera romana divenuta retrograda tecnicamente e improduttiva, crolla però anche la trama generale mercantile per cui la ricchezza mobiliare circola in tutto l'impero, e regredisce la gamma di soddisfazione dei bisogni di ogni natura per le popolazioni. Ma i barbari arrivano con la tradizione di minori consumi, e per loro, dopo le brevi parentesi di dilapidazione dei bottini trovati nelle città, che da allora in poi decadranno, la vera ricchezza conquistata è la terra. Troppo tardi è però e già troppo avanzata la divisione sociale del lavoro perché tutta la terra tolta ai Romani privati o anche ai latifondisti possa divenire gestione comune, o anche demanio dei nuovi poteri. Sorge un tipo misto di allodio e di demanio. Parte delle terre verrà goduta in comune dalle comunità (usi civici, fino ad oggi superstiti), parte verrà lottizzata in definitiva forma allodiale, del tutto precaria nel periodo di continuo arrivo di altri conquistatori, e parte verrà spartita con periodiche distribuzioni (ancora oggi tale istituto di ricomposizione fondiaria è superstite nella legislazione catastale ad esempio ex-austriaca).
I contadini franchi gettatisi sull'agognata terra fertile e in clima mediterraneo ne trarranno subito ben maggiore profitto delle greggi di schiavi. Ed in questo senso le forze produttive di tante braccia inoperose e del ricco terreno disprezzato dai cresi romani risorgono potentemente. Ma con la trama della romana amministrazione dei suoi legami e trasporti è stata infranta la trama connettiva del commercio, e si ricade in un tipo di produzione locale e di immediato consumo dei prodotti.
Tale economia senza commercio caratterizza il Medioevo, i cui Stati hanno magistrature ed eserciti territoriali, ma non hanno un mercato territoriale unitario: non sono quindi vere nazioni.
Se i componenti delle antiche gentes avevano già perduta la uguaglianza sociale nel corso delle migrazioni e delle conquiste, presto essi perderanno, nella gestione semi-comune e semi-allodiale della terra occupata, anche la libertà e l'autonomia. Ricomincia il processo di concentrazione del possesso terriero nelle mani di capi militari, funzionari, cortigiani del re, corpi religiosi.
Agli schiavi antichi si è sostituita una nuova classe di servi di coloro che fanno per loro conto il lavoro manuale e più quello di preda ed estorsione dai lavoratori liberi. Il lavoro della terra in lotti presuppone una stabilità dell'ordine, che lo Stato romano centralizzato rendeva sacrosanta coi suoi giudici e i suoi agenti e soldati, ma che è venuta a mancare perché non solo giungono spesso sulle terre opime nuovi popoli armati, ma si svolgono lotte tra i signori e capi di uno stesso potere mal centralizzato.
Più che della libertà il contadino franco aveva bisogno della sicurezza, elemento base dell'ordine giuridico romano, oggi rinnovellato ed esaltato a modello. Cedendo la libertà trovò la sicurezza, ossia la forte probabilità di coltivazione per se stesso e non per altri predatori del totale raccolto e di ogni scorta ed attrezzo.
Questa forma fu l'accomandazione (non raccomandazione come in qualche testo scrivono), che è in fondo un patto tra il lavoratore della terra ed il signore armato e combattente. Il signore feudale garantiva la stabilità nel territorio di lavoro, e il contadino impegnava a lui parte del raccolto (prestazione) o parte del suo tempo di lavoro (comandata). Ma la sicurezza di non essere mandato via divenne obbligo di non lasciare la terra. Non vi era più lo schiavo, alienabile, ma nemmeno il contadino franco: vi era il servo della gleba.
Le basi della rivoluzione moderna
La difesa di questa forma dinanzi allo schiavismo latifondista fondiario fatta da Engels è pienamente marxista. La nuova forma consente, ad esempio nella Francia dei semi-selvaggi Celti, uno sviluppo enorme della produzione e un aumento enorme di popolazione stabile, tanto che le carestie periodiche (conseguenze dell'abolito commercio tra regioni e province) e le Crociate (tentativo di riaprire le classiche vie commerciali) non valsero due secoli dopo a diminuirla.
La rivoluzione quindi che accompagnò, ad opera dei migratori barbari, la caduta dell'Impero di Roma fu anch'essa svolta nel senso dello sviluppo di forze produttive sociali.
La distruzione del commercio generale e dei mercati ad estensione nazionale ed imperiale condannò la fertilizzata e colonizzata Europa, sede ormai di popoli stabili che gradatamente percorrono l'ascesa tecnica e culturale che comporta l'organizzazione dei paesi stabilmente occupati da sedi umane, a un lunghissimo periodo di vita economica molecolare, sparpagliata, in isole minime, e la classe che formava ormai la grandissima maggioranza della popolazione, la classe serva e legata alla gleba, fu preclusa da qualunque orizzonte.
Ma, come nella geniale intuizione di Fourier, mentre lo schiavo antico non aveva condotto vere vittoriose lotte di affrancamento, per i popoli europei fu posta la base di un lontano ma formidabile sollevamento rivoluzionario contro le classi dominanti e gli istituti del tempo feudale.
Mentre il moderno proletariato urbano si affaccia alla storia, la rivendicazione nazionale è il più alto lievito di questa immensa rivoluzione, atta a sciogliere il cittadino moderno dalle catene del servaggio e a portarlo all'altezza del cittadino antico. Se la rivoluzione moderna borghese usa ed abusa letteralmente di questo riecheggiare delle glorie greco-romane - "qui nous délivrera des Grecs et des Romains?" - è certo che si tratta di un fermento rivoluzionario di forza gigantesca.
Non è la nostra rivoluzione e non è nemmeno la nostra rivendicazione, quella nazionale, e non è nemmeno essa la conquista di un beneficio irrevocabile ed eterno dell'uomo. Ma il marxismo la guarda con interessamento, anzi con ammirazione e passione, e quando la storia la minacci è, nei tempi e nei luoghi decisivi, pronto a scendere nella lotta per essa.
Lo studio necessario è quello del grado di svolgimento dei cicli, e della identificazione dei veri luoghi e dei veri tempi. Se mille anni passarono tra lo sviluppo delle genti primigenie sul Mediterraneo e nell'Europa continentale, il ciclo nazionale moderno dell'Occidente può bene chiudersi e restare per un lungo periodo rivoluzionariamente aperto quello di popoli di altra razza, di altro ciclo e di altro continente.
Ed è soprattutto per questo che importa enormemente mettere a fuoco nel senso marxista e rivoluzionario il gioco del fattore nazionale.