Storia della Sinistra comunista Vol. III - Parte sesta
Dal II al III Congresso dell'Internazionale Comunista. Settembre 1920 - giugno 1921

VI. La scissione in italia e il movimento comunista internazionale

Il carattere internazionalmente emblematico della scissione italiana come contributo teorico e pratico a quella che avrebbe potuto essere (e purtroppo non fu) una "definitiva sistemazione internazionale del movimento comunista" (1), ebbe la sua controprova immediata nell'accelerazione da essa provocata nella crisi, a lungo rimasta latente, del partito tedesco, e nelle critiche, solo velate dalla sornioneria delle rispettive "alte sfere", che le rivolsero i portavoce delle ali più moderate dei partiti francese e cecoslovacco. Poiché il VKPD era destinato ad anticipare con regolarità sconcertante le più discutibili "mosse tattiche" della III Internazionale prima della caduta nel precipizio della controrivoluzione stalinista e delle sue "scelte" strategiche, e poiché gli altri due partiti, nati costituzionalmente spurii, seguirono tale evoluzione con la puntigliosità di un barometro, le ripercussioni di Livorno nelle loro file aiutano anche a comprendere perché alle tappe successive del declino dell'Internazionale si sia sempre accompagnata la rimessa in causa dei criteri di principio che, già codificati nelle Tesi del II Congresso, avevano presieduto alla scissione in Italia; quindi, la rimessa in causa di questa stessa scissione.

1. - Una crisi latente

Dal I capitolo si ricorderà (ma i prodromi ne sono già segnalati nei cap. VIII e IX del II volume) che la fusione tra il Partito comunista tedesco (Lega di Spartaco) e l'ala sinistra del Partito indipendente di Germania avvenne alla fine del 1920 mentre nel primo si accentuava una tendenza di destra a lungo maturata nell'ombra e infine rivelatasi come particolare manifestazione di un processo di natura internazionale più volte denunciato nei mesi successivi specialmente da Zinoviev. Come scriverà più tardi Karl Radek (il quale tuttavia non era alieno per ricorsi ciclici dal civettare con alcune versioni di questa tendenza), essa si esprimeva sia nella riluttanza - spiegabile solo in parte con la preoccupazione di assicurare la sopravvivenza del partito dopo le terribili emorragie dell'inverno 1919 - ad impegnarsi in lotte la cui vittoria non fosse "garantita per atto notarile", quindi nella difficoltà a passare dal braccio di mare relativamente tranquillo della propaganda all'oceano tempestoso dell'azione pratica, sia nel timore ossessivo del putsch ad opera di minoranze incontrollabili e, soprattutto, di quel Lumpenproletariat, incolto e portato a non ascoltare che la voce dell'istinto, con cui i Paul Levi tendevano a identificare l'esercito sempre più vasto dei disoccupati; il che impediva allo Spartakusbund di apprendere l'arte di "applicare la leva dell'azione rivoluzionaria" alle moltitudini che anche in Occidente - non solo "nei deserti asiatici" - "non sanno o addirittura non vogliono saper nulla di marxismo, ma avranno un grande ruolo da svolgere nella rivoluzione proletaria".

La dura esperienza di lunga e solitaria battaglia contro l'intero fronte della reazione capitalistica alimentava nello stesso tempo, in buona parte dei leader spartachisti, un riflesso che potremmo chiamare maggioritario: il sogno cioè di ridar vita al partito di massa ricorrendo a metodi politici e organizzativi meno rigidi, meno intransigenti, meno "meccanici", che permettessero di rimarginare le cicatrici scavate nel movimento operaio dagli anni della union sacrée; il sogno di un partito che fosse a priori di maggioranza e - come l'avrebbero voluto i vessilliferi della rivoluzione "pulita", nonché della sua preparazione sui banchi di scuola (Parteischule, scuola di partito, è vero, ma pur sempre Schule) - partito di maggioranza cosciente. Unendosi non nel fuoco della lotta, ma ad esperienza consumata di "come non si conquista il potere" e prima di avere anche solo cominciato ad imparare "come si combatte per conquistarlo", il vecchio nucleo spartachista e la sinistra indipendente avevano messo in comune le inerzie del loro passato invece di aiutarsi a superarle: il nuovo organismo non poteva perciò mettersi in cammino senza nuovamente lacerarsi in aspre lotte di tendenza (2).

Il pericolo che nel partito si verificasse una svolta a destra, tanto più pericolosa in quanto esprimeva una tendenza internazionale e, in mancanza di una solida opposizione interna, lasciava prevedere una non meno avventata controsvolta a sinistra (nel senso "infantile" del termine), era presente all'Esecutivo del Comintern fin dal II Congresso, sia per l'arroganza della delegazione tedesca nei confronti dell'insieme del KAPD, da essa liquidato in blocco come extra- ed anti-comunista, sia per i consigli di tolleranza (almeno sul piano organizzativo) verso gli Indipendenti, di cui essa era stata prodiga. In Germania, a cavallo fra il 1920 e il 1921, ai sintomi preoccupanti già manifestatisi dopo l'agosto se ne erano aggiunti altri che avevano suscitato vivaci, ma non sempre ben argomentate, reazioni di sinistra, in specie a Berlino. Da un lato, la preoccupazione giusta e pienamente condivisa dall'IC di demarcarsi dal kaapedismo sul terreno della teoria e del programma non si accompagnava allo sforzo di coinvolgerne i militanti in azioni immediate comuni, anzi si traduceva in un atteggiamento scostante e, negli effetti se non nei propositi, aprioristicamente negativo verso quegli stessi elementi operai che avevano finito per gravitare nell'orbita del KAPD solo perché non avevano trovato nel moncone di Lega di Spartaco un organo capace di inquadrarli e dirigerli in una lotta che non fosse né di semplice difesa, né di azione "soltanto sindacale" o, peggio, soltanto parlamentare.

Dall'altro lato, alla "fobia" sia pure "in parte giustificata" (3) per lo spontaneismo kaapedista corrispondeva nelle alte sfere del PC Unificato di Germania (o VKPD) un'"apertura" per nulla dissimulata verso strati di piccola borghesia sensibili a parole d'ordine come l'alleanza con la Russia sovietica quale "unica via di salvezza per la nazione", contro le "ferite inferte alla Germania" e all'"economia nazionale tedesca" dalla pirateria delle potenze dell'Intesa (richiesta di riparazioni, occupazioni di città renane in pegno del loro futuro pagamento, ecc.); parole d'ordine che la direzione andava lanciando senza chiarire quale fosse il soggetto (il proletariato giunto rivoluzionariamente al potere, o la borghesia in saldo possesso del potere?) e quindi il contenuto di una simile alleanza, e che elementi di destra del VKPD soprattutto in Baviera avevano colta al volo per chiamare gli studenti ad unirsi agli operai "in un nuovo sentimento nazionale" e, addirittura, in un "fronte unico" di difesa e magari di guerra (4).

Ad accrescere la diffidenza di Mosca si aggiungeva, nelle sfere dirigenti tedesche, un altro genere di fobia, quella per gli inviati dell'Esecutivo, i "turkestani" venuti - si diceva - in cerca di possibili allori, dopo una serie di insuccessi personali e di sciagure collettive, in un'Europa ancora gravida di potenzialità rivoluzionarie, e unicamente riusciti a complicare la già ingarbugliata matassa dei rapporti fra comunismo "occidentale" e, come si soleva dire con una punta di disprezzo, "comunismo orientale".

Politica astiosa verso il KAPD, impiego con sfumature nazionalistiche della parola d'ordine "alleanza con la Russia sovietica": contro questi due bersagli si scaglierà, in febbraio, la sinistra del partito a Berlino sollevando anche il problema del "burocratismo" instaurato dalle sfere dirigenti a copertura di manovre tattiche piovute di sorpresa su una base disorientata e priva delle più elementari possibilità di espressione (5). "Grattate un poco il comunista occidentale - dirà un mese dopo Zinoviev - e spesso vi accadrà di trovare qualcosa di simile al menscevico di sinistra qui da noi" (6). Un'impressione analoga si stava diffondendo in seno al VKPD.

Su questo sfondo si vede anche meglio la questione, sulla quale non possiamo non soffermarci brevemente, della Offene Brief, ovvero, della lettera aperta. L'8/I/1921, facendo propria su un piano politico generale un'iniziativa dei metallurgici di Stoccarda ispirati dalla locale sezione comunista, il Partito rivolse pubblicamente non solo alle quattro organizzazioni, ma ai tre partiti "operai" esistenti (SPD, USPD, KAPD), una proposta di azioni comuni per obiettivi prevalentemente economici ritenuti di interesse generale per i lavoratori, a qualunque partito o indirizzo politico appartenessero. Pur non nascondendo la portata delle questioni di fondo intorno alle quali fra le componenti del ventilato "fronte unico" sussistevano divergenze incolmabili, e dichiarando che la proposta non implicava in alcun modo da parte del VKPD rinuncia a diffondere i principi del comunismo rivoluzionario come unica via all'emancipazione dal capitale, il Partito offriva pieno appoggio alla lotta per le rivendicazioni elencate nell'Offene Brief, e chiedeva alle controparti un impegno analogo, in assenza del quale non avrebbe esitato a condurre da solo la battaglia invitando gli operai a pronunciarsi nelle assemblee sindacali e di partito sulla fondatezza delle richieste e sulla necessità di imporne con urgenza la soddisfazione.

Non si trattava (si chiarì poi) di costruire un "fronte interpartiti od intergruppi", ma di chiamare a raccolta il maggior numero di proletari, attraverso gli organismi sindacali e politici ai quali appartenevano, in una lotta i cui obiettivi non erano propri di nessuno di tali organismi, ma da nessuno di questi potevano essere respinti in quanto riflettevano interessi suscettibili di unire i salariati invece di dividerli, anche se gli artefici di una simile manovra tattica non facevano mistero della convinzione che proprio attraverso l'esperienza di una lotta non vincolata a pregiudiziali partitiche o a etichette ideologiche, ma condotta fino in fondo con inflessibile coerenza, le grandi masse sarebbero "diventate comuniste" (7), o meglio avrebbero finito per riconoscere nei comunisti i veri ed unici difensori, nei fatti, dei loro interessi di vita e di lavoro.

La proposta, che suscitò da parte dei destinatari non solo una netta ripulsa, ma una rabbiosa campagna di radiazione dei comunisti dai sindacati, fu accolta a Mosca con pareri discordi, in cui si rispecchiavano due diversi ordini di preoccupazioni circa il processo di sviluppo dei partiti comunisti, soprattutto in Europa.

Come risulta dai verbali (8) delle riunioni dell'Esecutivo del 22-23 febbraio a Mosca, prevaleva in Zinoviev e Bucharin la sensazione che le sfere dirigenti del partito in Germania fossero inclini a cancellare o, almeno, attenuare le linee di demarcazione dal centrismo (9): posti di fronte, fra tante iniziative di dubbia natura, a quella recentissima della lettera aperta, "alcuni compagni - dirà tre anni dopo il presidente dell'Internazionale, alludendo a Bucharin e a se stesso - le erano contrari perché temevano che Levi e gli elementi intorno a lui facessero di questa tattica, invece di una strategia veramente rivoluzionaria, ciò che poi ne hanno fatto in realtà" (10) - nel giro di pochi mesi, la parabola di Paul Levi mostrerà quanto fossero fondate le loro apprensioni. Sia in Zinoviev che in Bucharin, questo motivo d'allarme impediva però di cogliere il nocciolo sano racchiuso nel guscio ambiguo dell'Offene Brief: entrambi perciò respingevano in blocco sia la lettera, sia la tattica che ne formava il contenuto. D'altra parte Lenin (in accordo con Trotsky) era preoccupato soprattutto del persistere in Occidente (11) di un "infantilismo di sinistra" che minacciava di vanificare quell'opera di preparazione delle masse senza la quale è pura demagogia parlare di assalto rivoluzionario al potere, inducendo non solo a trascurare il "lavoro quotidiano" (12) che di quella preparazione è parte integrante, ma a contrapporre astrattamente alle lotte parziali e agli obiettivi immediati la lotta finale e gli obiettivi ultimi - e che l'allarme fosse legittimo lo dimostrerà di lì a poco l'"azione di marzo".

Appunto perciò, l'attenzione di Lenin si andò concentrando sul fattore positivo non della lettera aperta in se stessa, ma della "sua tattica" - la tattica cioè (così difficile da assimilare per i giovani partiti nati da una netta rottura col passato) consistente nel far leva sugli interessi immediati e sulle lotte parziali dei lavoratori al duplice fine di assicurarsi un grado crescente di influenza in seno ad una classe non conquistabile nella sua totalità al comunismo, e di temprare il partito nel vivo del movimento sociale al compito di intervenire in ogni episodio di scontro fra le classi come forza trainante, facendo delle stesse organizzazioni economiche minimaliste le "cinghie di trasmissione" dei principi e delle finalità del comunismo - si concentrò dunque su questa tattica a prescindere da una valutazione critica sia delle forze chiamate ad eseguirla e del terreno al quale essa si sarebbe dovuta applicare (13), sia dell'adeguatezza o meno - come arma per una simile azione - dell'appello rivolto pubblicamente non solo ai sindacati e ad altri organismi intermedi sorti specificamente in difesa degli interessi di vita e di lavoro dei salariati, ma anche a partiti politici come l'SPD e l'USPD, da sempre denunciati quali strumenti della controrivoluzione.

Che quest'ultima procedura fosse foriera di gravi ambiguità lo provano non solo le interpretazioni discordanti che poi se ne diedero nelle diverse sezioni nazionali del Comintern, ma quelle che ora ne danno gli storici tipo Hajek (14), per i quali, nella intenzione di Lenin, essa era già un ponte lanciato verso i... fratelli separati del movimento socialista e, di là da questi, verso futuri fronti non più soltanto proletari, ma popolari e nazionali (quasi che Lenin e tutta l'Internazionale non l'avessero concepita, all'incontrario, come uno dei tanti mezzi per strappare le grandi masse lavoratrici al dominio del riformismo, e per accelerarne la morte ingloriosa!), ragione per cui non al gigantesco corpo di tesi dei due congressi costitutivi si dovrebbe far risalire la genesi della III Internazionale, ma alle due paginette di una "lettera aperta" piovuta a ciel sereno anni dopo (15)!

Nel quadro della preparazione del III Congresso, comunque, il giudizio positivo di Lenin ebbe infine il sopravvento e, nelle Tesi sulla tattica, la prassi dell'Offene Brief venne additata come modello agli ancora inesperti partiti comunisti, soprattutto occidentali (16). Si venne così creando (ma per poco) la prima di quella che poi sarà, nell'Internazionale, tutta una serie di convergenze anomale, generatrici nel migliore dei casi di equivoci non facili da dissipare e, nel caso peggiore, di gravi sbandamenti. Per Lenin, la lettera in quanto tale non era che un aspetto secondario della manovra tattica tendente alla conquista delle grandi masse, e si sa dai dibattiti del III Congresso che ciò significava per lui la conquista di un'influenza reale, non banalmente aritmetica, meno che mai ottenuta a prezzo di concessioni di principio, su strati operai ancora inaccessibili al proselitismo di partito. Ai suoi occhi, la procedura (la forma) seguita nell'avanzare la proposta di azione comune era quindi irrilevante, purché fosse salvo ciò che vi era in essa di essenziale (la sostanza): "L'Internazionale deve costruire la sua tattica così: conquistare incessantemente e sistematicamente la maggioranza della classe operaia, in primo luogo nei vecchi sindacati [premessa]... Quindi [conseguenza] la tattica esposta nella 'lettera aperta' è obbligatoria dovunque", mentre - completiamo noi - è solo un corollario possibile della tesi generale la scelta dell'organismo al quale proporre un' azione comune. Perciò, ma anche soltanto perciò, Lenin aggiunge: "Diciamolo apertamente: si devono espellere dall'IC, non più tardi di un mese dal Terzo Congresso, tutti coloro che non hanno capito la necessità di una simile tattica" (17). Solo perciò, d'altra parte, per Lenin - prima che i fatti lo convincessero dell'inguaribilità del morbo da cui erano affetti i vertici del VKPD - Levi in quanto promotore della "tattica esposta nella Lettera aperta" poteva ancora riscattare, se non si rendeva colpevole di imperdonabili atti di indisciplina, il Levi schieratosi a favore del serratismo (18): non gli appariva ancora evidente che per il leader tedesco, proprio all'inverso, la tattica dell'Offene Brief - l'unico punto sul quale la posizione sua e di Lenin convergessero formalmente - costituiva un aspetto secondario e derivato del grande disegno della ricomposizione dell'unità politica ed organizzativa fra il grosso dei militanti dei partiti della classe operaia; non era la faccia giusta di una medaglia di cui il corteggiamento di Serrati e C. rappresentasse soltanto la faccia sbagliata, ma era parte integrante di questa, intesa come il vero anche se lontano obiettivo da raggiungere; e, in tale quadro, non era né irrilevante né fortuita la scelta dell'indirizzo cui spedirla.

Contro ogni apparenza di sintonia, i due modi di impostare la questione andavano dunque in direzioni opposte: il primo, quello di Lenin, verso la cristallizzazione delle grandi masse intorno ai partiti comunisti, come loro autentica guida, ad esclusione di ogni altro partito "operaio", muovendosi perciò rigidamente nel solco della ricostruita Internazionale rivoluzionaria; il secondo, quello di Levi, verso la ricucitura delle divisioni politiche come presupposto di un'azione unitaria della classe, percorrendo a ritroso il cammino verso la II Internazionale, o meglio verso la neonata "Internazionale 2 e 1/2". Invano, quindi, gli storici si affaticano a scoprire rapporti di parentela fra due "universi" in realtà opposti: è fatica sprecata quanto lo sarebbe il tentativo inverso di stabilire rapporti di consanguineità fra la "sinistra tedesca" e il "gruppo Zinoviev-Bucharin", poi completato da Radek.

Queste considerazioni, necessarie per impedire che ci si smarrisca nel groviglio di eventi sul cui intreccio non di rado contraddittorio speculano gli storici asserviti all'opportunismo riformista e staliniano, non tolgono alcun valore all'obiezione mossa fin da allora da una corrente, come la nostra, che non solo condivideva la sostanza della tattica di cui sopra, ma stava proprio allora dandone un esempio di rigorosa applicazione a capo del PCd'I, e di cui il timore che vi si nascondesse il rifiuto "infantilista" delle lotte immediate e degli obiettivi parziali impedì ai bolscevichi di valutare tutto il peso: l'obiezione cioè che, agli effetti della buona riuscita di una tattica, neppure la forma, la procedura, il metodo sono indifferenti, perché sono atti materiali che a loro volta provocano atti materiali; e, in questo caso, il presupposto della loro rispondenza al fine e quindi al contenuto della tattica era rappresentato dal limite che la proposta di azioni comuni fosse rivolta ad organismi economici immediati, non invadendo con effetti necessariamente demoralizzanti il campo dei rapporti con quei partiti politici la cui funzione controrivoluzionaria vietava al partito rivoluzionario di lasciare anche solo intravedere la possibilità di richiamarli al dovere di difendere gli interessi vitali dei lavoratori, e addirittura - come proponeva fra l'altro l'Offene Brief - di procedere al disarmo dei corpi franchi della controrivoluzione e all'armamento del proletariato.

Smarrire quel confine nell'applicazione di una direttiva tattica ineccepibile significava non solo pregiudicarne l'esito, ma privare il partito della sua forza, che è anche funzione della sua immagine di partito della conquista violenta del potere, contrapposto, lungo un confine manifestamente indelebile, ai partiti della sua conquista legale. In questo senso, la formula della "lettera aperta", come anticipava le linee di impostazione generale della tattica del "fronte unico proletario" in ciò che esse avevano di coerente con i principi e il programma del comunismo rivoluzionario, così anticipava, nell'indeterminatezza dei limiti delle sue forme di applicazione, le oscillazioni, gli equivoci e infine gli smarrimenti degli anni successivi.

Ma atteniamoci per ora ai dati della situazione come si presentava quando ai motivi di malessere interno presenti nel partito tedesco si aggiunse, precipitandoli, quello dell'atteggiamento della Zentrale di fronte al Congresso di Livorno e alla nascita del PCd'Italia.

2. - Il VKPD di fronte alla scissione di Livorno

In Germania, prima che si inaugurasse il XVII Congresso del PSI, Paul Levi non era stato il solo ad augurarsi che l'espulsione dei riformisti turatiani si conciliasse con il recupero della grande maggioranza dei massimalisti. Il 10 gennaio, Clara Zetkin gli aveva espresso la ferma convinzione che fosse "stata una mossa sbagliata aver fondato una frazione nel Partito, invece di aspettare il Congresso e approfittare del tempo che restava per chiarire a fondo la situazione"; errore di cui erano per metà responsabili, essa scriveva, "i nostri compagni moscoviti", che "hanno fatto la loro parte nell'offendere l'amore di Serrati per il partito, spingerlo a destra ed urtarlo invece di condurlo a sinistra. Il pugno di ferro è spesso indispensabile - aggiungeva -, ma, dal Medioevo in poi, in Occidente non si deve prendere la gente troppo di petto, ma imparare ad accarezzarle la barba con un guanto di velluto" (19). La stessa Zetkin, destinata non solo ad agire quasi sempre di conserva con Levi nel quadrimestre successivo, sul piano politico se non sempre su quello disciplinare, ma a fungere da onnipresente madrina delle più sciagurate svolte tattiche ed organizzative dell'IC negli anni seguenti, giustificherà al III Congresso dell'IC il proprio disaccordo sulla scissione di Livorno, e il benevolo ascolto concesso alle lamentele di Serrati in incontri a quattr'occhi dopo il Congresso del PSI (20), con l'argomento comune a Levi e C. che la posizione di centro assunta dagli unitari italiani rappresentava, si, un ostacolo, ma alle loro spalle c'erano "grandi masse proletarie che avevano dimostrato in passato e dimostravano nel presente di cercare lealmente la via della III Internazionale". Bisognava quindi, "per attirare nelle file del Partito comunista migliaia e centinaia di migliaia di operai, accordarsi con gli amici della sinistra socialista e magari con lo stesso Serrati". La scissione, voluta allo scopo di ottenere "un partito piccolo ma puro", aveva invece spinto "quasi di forza" gli unitari nelle braccia dei serratiani; adesso il problema era di agire in modo che "anche l'ultimo proletario non [avesse] più dubbi su Serrati" (21) e, di conseguenza, neppure sull'opportunità ed anzi la necessità della scissione. A sentir Levi, di questo parere sarebbe stato, alla vigilia della sua partenza per Livorno, lo stesso Radek (22): certo lo erano buona parte dei dirigenti comunisti tedeschi provenienti dalla "sinistra" degli Indipendenti.

Forse anche per questo, Levi si era trattenuto a Livorno appena il tempo necessario per recare il saluto del VKPD, seguire criticamente il dibattito, e tessere nell'ombra una fitta trama di incontri con Serrati (nell'illusione di convincerlo a recedere dalla decisione di non rompere coi riformisti, in attesa che questi, compiendo un ultimo atto compromettente, permettessero agli operai di... comprendere la necessità della scissione), con Graziadei e Marabini (suoi consanguinei in amore delle "passerelle", eppure ormai convinti che tergiversare col grosso degli unitari sarebbe stato non solo vano, ma controproducente), con Kabakčev-Ràkosi da un lato e con Bordiga-Bombacci dall'altro, nella speranza non meno illusoria di convincerli ad "ammorbidire" la mozione di Imola. Fallito il tentativo, era tornato a Berlino senza partecipare all'assemblea di fondazione del PCd'I, per redigere con calma, il 20 gennaio, un rapporto circostanziato all'EKKI (23) di cui ecco i punti salienti: 1) il gruppo Serrati, equivalente in Italia agli ex-indipendenti di sinistra in Germania, rappresentava una forza di cui era necessario tener conto (fra l'altro disponevano, perbacco, di 2500 municipalità su 8000 e, svolgendovi "funzioni di polizia [!!]", erano in grado di rifornirsi di armi e compiere un lavoro clandestino); 2) in mancanza del suo apporto non soltanto numerico, il nuovo partito sarebbe rimasto privo (anche se Bordiga "sembrava estremamente energico e deciso") di un nocciolo di proletari sinceramente devoti alla III Internazionale; 3) il pericolo era tanto più grave in quanto il neonato PCd'I era un miscuglio di tendenze eterogenee (24); 4) se i compagni italiani e i due delegati russi avessero mostrato un po' più di tatto, si sarebbero ottenuti, insieme, l'espulsione della destra e il recupero della grande massa della frazione unitaria. Provvedesse dunque l'EKKI a riaprire la "questione italiana".

Fin qui, Levi si era tenuto nei limiti di un'iniziativa personale sul piano sia dell'intervento pratico, sia dello scambio di idee. Il 23/1, tuttavia, la Rote Fahne pubblicava un suo articolo sul Congresso del partito italiano (Der Parteitag der italienischen Partei) in cui gli stessi giudizi erano sostanzialmente ripetuti e si deplorava come assurda l'esistenza in Italia di due gruppi rivendicanti con pari (!!) legittimità l'appartenenza al Comintern, egualmente (!!) avversi al riformismo e unicamente (!!) discordi circa "i tempi della scissione". Il dissenso con l'Esecutivo di Mosca e i compagni italiani assumeva così veste pubblica e, data la personalità dello scrivente, ufficiale.

La vera bomba tuttavia scoppiò quando, il 30/I, l'organo dell'USPD, Die Freiheit, pubblicò il testo di un'iraconda lettera personale di Paul Levi al rappresentante dell'EKKI (il Comitato esecutivo dell'Internazionale Comunista) in Germania (di cui non si faceva il nome; ma era Ràkosi) dopo un acceso diverbio sulla scissione di Livorno (25). In essa il presidente del VKPD rivendicava il diritto e, se necessario, il dovere, nei confronti del CE dell'IC, di formulare critiche e suggerire correzioni di errori, fermo restando che solo a Mosca spettava di correggerli; e, alludendo ad oscure minacce di cui riteneva d'essere stato oggetto, chiedeva che si rispondesse, "non alla Serrati ma apertamente", se l'Internazionale e il suo rappresentante giudicavano o no "necessario o anche solo desiderabile il suo allontanamento dalla presidenza del partito". Si permetteva infine di ricordare al destinatario che, poco prima della partenza da Livorno, e non ancora giunta l'imbeccata telegrafica di Mosca, egli aveva mostrato di avere, circa la scissione, idee sostanzialmente simili alle sue (26).

Riunitasi il 28/1/1921 sotto il duplice choc, la Zentrale (un organo più ristretto del CC e intermedio fra questo e la Segreteria; qualcosa, insomma, di analogo al CE del partito italiano, ma assai meno agile: 14 membri, sette per ognuno dei due tronconi del VKPD), respinse tanto la mozione proposta da Levi, quanto quella presentata da Radek (27), e l'1/II votò all'unanimità una mozione contenente gli emendamenti suggeriti dalla Zetkin e apparsa il giorno successivo sulla Rote Fahne (28). In essa si riconosceva bensì (Punto I) che "i Partiti comunisti non possono né preparare la rivoluzione, né dirigere la lotta di massa del proletariato se conservano nelle loro file, in posti di responsabilità, degli avversari della rivoluzione comunista" (i turatiani); che "esigendo in forma ultimativa l'espulsione dei riformisti, l'Esecutivo dell'IC ha agito non solo in conformità alle decisioni del II Congresso mondiale, ma in pieno accordo coi partiti ad essa aderenti" (Punto II); che i massimalisti, preferendo "la scissione e il distacco dal Comintern piuttosto di decidere di separarsi dai riformisti" hanno "dimostrato di comprendere nelle loro file degli elementi centristi, che oscillano fra comunismo e riformismo" (Punti III e IV), e che, di conseguenza, "il PCd'I (gruppo Bordiga-Bombacci) è in Italia l'unico partito che i partiti fratelli degli altri paesi debbano considerare membro legittimo e di pieno diritto dell'IC, appoggiandolo con la massima risolutezza" (Punto IV). Ci si dichiarava però convinti che fosse "possibile l'unificazione del PCd'I e della parte del gruppo scissionista di Serrati seriamente decisa a costituire un attivo reparto di combattimento dell'IC, separandosi nettamente da tutti gli elementi e le tendenze centriste", e si chiedeva all'EKKI di adoperarsi "ai fini di un'intesa ed unificazione dei due gruppi (29), il cui primo e più importante presupposto" restava "naturalmente l'esecuzione dei deliberati del II Congresso dell'IC" (Punto V).

La risoluzione dava un colpo al cerchio e l'altro alla botte, rispecchiando l'incapacità, comune a tutti i dirigenti del partito, di capire il ruolo storico del massimalismo e, quindi, di vedere il problema della conquista alla direzione del partito comunista almeno di una parte delle grandi masse gravitanti nella sua orbita in termini che non fossero quelli di un regolare "negoziato" fra "parti sovrane" egualmente in diritto d'essere accolte nella III Internazionale. Porre così la questione equivaleva a considerare ancora aperto il processo di formazione del partito non solo in Italia, ma dovunque (come infatti riteneva Levi) e, di conseguenza, escludere che l'unico modo, naturale ed organico di entrare a far parte dell'organizzazione internazionale comunista dovesse ormai consistere per chiunque - militante singolo, gruppo o corrente - nel seguire la via dell'adesione alla sezione del Comintern localmente esistente, costituita sulla base di principi teorico-programmatici e di criteri organizzativi fissi e in nessun caso negoziabili. Era quindi naturale che, per tutt'e due queste ragioni, i dirigenti del PCd'I giudicassero la risoluzione quanto meno insufficiente.

Dato l'intreccio di più questioni controverse nella crisi incipiente del VKPD, al paragrafo I della risoluzione ne seguivano logicamente altri due. Il primo, pur ripetendo il giudizio negativo sull'accettazione nell'Internazionale del KAPD come partito simpatizzante, ne prendeva atto disciplinatamente; denunciava però le ripetute violazioni da parte kaapedista degli accordi conclusi a Mosca in dicembre, e chiedeva all'EKKI di condannare simili manovre "che vanno in senso opposto all'aspirazione del proletariato tedesco all'unità tanto quanto l'ignobile comportamento degli Scheidemann, dei Dittman e dei burocrati sindacali". Il secondo suggeriva una serie di misure pratiche al duplice scopo di favorire una più stretta centralizzazione dell'Internazionale sotto la guida del CE e di assicurare a quest'ultimo una più attiva collaborazione delle sezioni nazionali grazie a più regolari rapporti reciproci.

L'unanimità del voto non chiuse tuttavia un incidente che, di là dal giudizio su Livorno, investiva i problemi assai più vasti del modo di costituzione dei partiti comunisti, del funzionamento dell'Esecutivo e dei suoi rapporti con le sezioni nazionali del Comintern. Levi era l'ultimo dal quale ci si potesse aspettare che, lanciato il sasso, fosse disposto a ritirarlo, ed egli infatti tornò alla carica in un'incalzante successione di articoli, interventi, discorsi (30), denunciando quello che riteneva stesse per essere assunto dall'IC a metodo-standard di formazione dei partiti comunisti - il metodo cioè delle scissioni "meccaniche", "artificiali", imposte dall'alto e dall'esterno, senza curarsi della maggiore o minore comprensibilità per le grandi masse dei motivi che le ispiravano -, e chiedendo all'Esecutivo di offrire "all'ala sinistra dei serratiani la possibilità di ritornare nell'Internazionale" non per la via, che nessuno le precludeva (che anzi la si incoraggiava a seguire), delle adesioni individuali al partito esistente di fatto e di diritto, ma per quella della fusione fra organizzazioni considerate come paritetiche.

Nel frattempo, il disagio per l'atteggiamento della Zentrale (non solo in merito alla scissione italiana) aveva guadagnato alcuni fra i suoi più autorevoli membri come Brandler e Thalheimer, mentre contribuivano ad alimentarlo sia gli articoli di Radek e Kabakčev nella stampa di partito (31) e le prese di posizione del rappresentante dell'EKKI a Berlino, sia la campagna svolta dall'"opposizione di sinistra" organizzatasi in Comitato di azione sotto la triade Friesland-Fischer-Maslow (32). Si faceva quindi sempre più insistente la richiesta di una Korrektur della risoluzione del 1° febbraio.

Le tensioni accumulate esplosero nella riunione del Comitato Centrale il 22-23-24 a Berlino, allorché gli schieramenti rimasti fin allora vaghi assunsero forma netta e precisa (33). Da un lato, Levi attaccò il metodo attribuito all'IC di "consolidare e rafforzare i partiti" nati dalla scissione di partiti riformisti (34) "procedendo a scinderli di nuovo per ottenere così un nucleo più solido e puro" (il metodo delle "scissioni a intermittenza"), invece di raggiungere lo stesso scopo attraverso lotte ed esperienze comuni, e la pretesa, dopo averlo messo alla prova in Italia, di estenderlo ad altri paesi, fra i quali, chissà mai, la Germania; dall'altra, Ràkosi dichiarò che, ove esigenze di chiarezza politica imponessero di scindersi, non bisognava esitare a farlo, se occorre, dieci volte, poco importa se in Francia, Italia o Germania (35), mentre Stöcker rivendicò la necessità della scissione così com'era avvenuta a Livorno, e concluse: "La tattica dell'Internazionale deve ormai essere diretta a rafforzare in Italia il Partito comunista e a staccare dal gruppo Serrati le masse lavoratrici che ancora lo seguono".

La mozione Thalheimer-Stöcker, già respinta dalla Zentrale ma ripresentata in sede di CC, venne infine approvata con 28 voti contro 25 e resa pubblica nella Rote Fahne del 27/II. Essa riprende tali e quali i punti I-III della risoluzione del 19, modificandone tuttavia il seguito per elencare le questioni di principio intorno alle quali i massimalisti mostrano di divergere dalle tesi programmatiche e dalle direttive tattiche del Comintern (espulsione dei riformisti, questioni agraria e nazionale, rapporti fra sindacato e partito, contegno di fronte agli attacchi armati della controrivoluzione, centralizzazione dell'IC contro autonomia delle sezioni nazionali), e proclamando: 1) che il PC nato a Livorno è l'unico rappresentante dell'IC in Italia, e il suo rafforzamento è possibile solo attraverso una "decisa posizione di lotta contro la dirigenza riformista del gruppo Serrati", 2) che "le masse proletarie rimaste al seguito della direzione serratiana potranno essere conquistate ad una chiara politica comunista soltanto se l'IC priverà definitivamente il gruppo Serrati della possibilità di coprire con l'etichetta della III Internazionale la sua politica opportunistica, assumerà la più decisa e risoluta posizione di lotta contro questo gruppo dirigente [...] e infine riconoscerà e appoggerà fermamente il PCd'I come unico membro legittimo e di pieno diritto dell'IC" (36).

Tipico colpo di scena: di fronte a questa aperta sconfessione, Levi si dimette dalla Zentrale accusandola di supina acquiescenza ai portavoce dell'EKKI ("Il Comitato centrale - scrive l'1/III sulla Rote Fahne - si è rivolto all'oracolo di Delfo, per apprendere dalla bocca della Pizia il vero significato di quel che è avvenuto in Italia"). Per solidarietà si dimettono anche Däumig, Zetkin, Brass e Hoffmann, dichiarando (37) che, se in Italia era giusto scindersi dai riformisti, il metodo seguito aveva però "escluso dall'Internazionale masse operaie che, per il loro passato e la loro volontà rivoluzionaria, potevano benissimo continuare ad appartenere a un Partito comunista"; che si sta assistendo a un tentativo di "creare partiti più solidi e puri attraverso il processo meccanico della scissione", e così, invece di formare dei partiti di massa, si rischia di creare dei minuscoli gruppi privi di influenza. Il CC ne accetta le dimissioni, sostituisce i due presidenti dimissionari con Brandler per gli spartachisti e Stöcker per gli indipendenti, e affida la segreteria del partito a Fröhlich, Meyer, Böttcher e Sievers, affermando in un'ulteriore Dichiarazione (38) che, dando il suo avallo alla scissione anche dai serratiani, l'Esecutivo dell'IC non ha introdotto nessun principio nuovo rispetto alle Tesi e Condizioni del II Congresso, né ha smentito la tesi sulla necessità di creare partiti comunisti di massa, e che nessuna nuova scissione è prevista né in Germania, né in Francia (39).

Non per questo Levi si arrende: l'1/III, in un articolo intitolato Noi altri (Wir anderen), ribadisce il parere che Livorno sia stato "un tentativo di espellere l'opportunismo per via meccanica" non esitando, "per un alluce malato, ad amputare tutta una gamba"; e, riferendosi alle minacce di estensione di questa prassi alla Francia e alla Germania, giustifica la protesta dei cinque con la necessità di "spegnere l'incendio quando nella strada brucia la prima casa, non quando il fuoco ha già avvolto la casa successiva". In una nuova assemblea di funzionari di partito a Berlino (40), ripete l'accusa all'IC di mirare al rafforzamento dei partiti comunisti attraverso una serie di "scissioni meccaniche", anziché mediante un'educazione politica delle masse ottenuta con la lotta a contatto costante con esse, facendo risalire questo metodo alla concezione "chiusa" del partito di classe propugnata da Lenin contro la Luxemburg nel 1902-1904 ed elevando la polemica su Livorno a dignità di dissenso su questioni di principio. Il 15/III, nell'articolo Meine Replik, ritorna su una delle sue tesi preferite: "Le masse giudicano in base alle loro esperienze e, alla data di Livorno, queste non le avevano ancora convinte che Serrati fosse un traditore", per concluderne che, trattandosi di un opportunista mascherato, "non c'è che strappargli la maschera mediante la prassi rivoluzionaria". (Curioso modo di strappargliela, quello di tenerlo in seno al partito in attesa che le masse si convincano sulla propria pelle del suo tradimento, invece di cominciare a privarlo della possibilità di proseguire l'opera di capillare sabotaggio entro il partito affidando alla "prassi rivoluzionaria" il compito di persuadere il suo seguito proletario a ritrovare la via verso il partito!).

Ma, a questo punto, il sopraggiungere di nuovi eventi mise fine alla polemica intorno alla scissione in Italia e diede la prova definitiva che la crisi aperta in Germania andava ben oltre i termini di una diatriba, tutto sommato, occasionale.

Due osservazioni prima di dedicare uno spazio adeguato alla risposta del partito italiano. La prima è che almeno in un punto Levi e i suoi più stretti collaboratori avevano ragione: nel giudizio sulla volubilità della Centrale tedesca e, in particolare, dei suoi elementi di "sinistra". La storia del VKPD sarà nel periodo successivo una monotona storia di oscillazioni da un estremo all'altro, di una "sinistra" che nel giro di pochi mesi o addirittura di pochi giorni si converte in destra, di "offensivisti" che si trasformano in "difesisti", di avversari del "nazionalbolscevismo" che ne diventano i paladini, di critici di Mosca che si trasformano in suoi partigiani coûte que coûte, a seconda degli alti e bassi della situazione contingente (41). Esiste addirittura un costante rapporto di dipendenza fra le oscillazioni tattiche e organizzative del VKPD e gli zig-zag tattici e organizzativi dell'Internazionale nel suo breve ciclo di vita: il partito che avrebbe dovuto costituire la colonna portante dell'intero movimento comunista mostrerà invece d'essere in pratica non solo il suo anello più debole, ma il focolaio dei processi dapprima tendenzialmente, poi attualmente degenerativi, dei quali il movimento stesso sarà vittima.

La seconda osservazione è che tale volubilità era solo l'altra faccia dell'empirismo che proprio in Levi trovava la sua massima espressione - la tendenza cioè a lasciarsi dettare dai dati immediati della situazione gli orientamenti in materia di tattica ed organizzazione, e lo stesso giudizio sugli avvenimenti. Di qui, in Levi (a prescindere dal modo insieme gradualista e idealista di intendere il processo rivoluzionario) l'incapacità di riconoscere nel massimalismo italiano e nel centrismo internazionale qualcosa di più che un "incidente di percorso", un fatto occasionale in gran parte dipendente da fattori personali e contingenti. Di qui l'inclinazione a farne dipendere la genesi e la traiettoria da errori di valutazione più o meno legati ad un infantilismo di sinistra, e il raddrizzamento della sua rotta dall'abilità manovriera e dalla disposizione al compromesso di un "comunismo maturo". Di qui la diffidenza spinta al limite della fobia per le "scissioni incomprensibili alle grandi masse", pur di fronte all'ovvia considerazione che tanto meno le "grandi masse" comprendono le cause profonde per cui le scissioni avvengono, quanto meno il partito di classe ha il coraggio di metterle in chiaro e tirarne le conseguenze necessarie. Di qui, peggio ancora, il malvezzo di anteporre ai risultati positivi e agli insegnamenti duraturi di un atto certamente doloroso quanto ai riflessi immediati, ma politicamente salutare, come la rottura dell'equivoco centrista, gli effetti di segno temporaneamente negativo (specie se giudicati in termini numerici) ch'esso non manca di avere sull'insieme dell'organizzazione, e il conseguente malvezzo, ad ogni contraccolpo dell'azione tattica o delle misure organizzative intraprese, di rimettere in discussione i criteri ai quali esse si erano ispirate, quindi anche le Tesi e Condizioni di ammissione, che in tanto meritavano quel nome appunto in quanto non dovevano più essere soggette a mutamento. Anche di questo empirismo subirà i riflessi l'Internazionale comunista negli anni in cui la nostra Sinistra potrà accusarla (il peggiore insulto, soggettivamente, per gli uomini che ne erano a capo) di eclettismo.

Poiché di fronte agli stessi problemi la Sinistra in Italia tenne l'atteggiamento opposto, è importante mostrare come essa reagì ai giudizi soprattutto tedeschi sulla scissione di Livorno, non esitando ad abbondare in citazioni più di quanto, a prima vista, i brani riportati non sembrino qua e là meritare. L'ampia documentazione ha infatti il pregio di rispondere anticipatamente al diluvio di critiche e rilievi di fatto e di sostanza, oggi più che mai circolanti in merito a Livorno, da cui i giovani militanti non possono non essere frastornati: la "rimessa a punto" vi è infatti più che esaurientemente contenuta.

3. - La risposta della "Sinistra Italiana"

La prima reazione a tali giudizi si ha in una lettera inviata il 28/I/1921 da A. Bordiga alla Rote Fahne e riprodotta il 3/II ne Il Comunista (Cfr. anche L'Ordine Nuovo dell'8/II). Lo scrivente si riferisce al riassunto, pubblicato dall'Avanti!, di un articolo di Paul Levi sul congresso di Livorno apparso nel quotidiano tedesco il 22/I, e così lo commenta [corsivi nostri]:

"Secondo esso voi non condividereste l'atteggiamento intransigente tenuto a Livorno da noi della Frazione comunista verso i cosiddetti 'Comunisti unitari' e sareste dell'opinione che con un po' di buona volontà da parte nostra si sarebbe potuto giungere allo scopo, da voi ritenuto giusto, di eliminare dal Partito e dalla III Internazionale la sola frazione di destra riformista.

Tale giudizio, di evidente gravità, non può essere da noi accettato. Voi avreste l'impressione che esisteva la possibilità di indurre i comunisti unitari capitanati da Serrati a disfarsi dei riformisti, subito, col voto del Congresso come applicazione delle decisioni di Mosca. Noi invece siamo convintissimi, in base a mille e mille prove, che non esisteva affatto una via per raggiungere tale scopo, e ciò a parte il fatto che l'uscita di tutta la frazione Serrati dalla Terza Internazionale deve considerarsi come un avvenimento utile ed assai istruttivo per la tattica comunista anziché come una disgraziata conseguenza della situazione creatasi a Livorno. S'intende che alludiamo ai capi, ma non vi era altro mezzo per staccare da essi le masse che li seguivano e che da loro erano state ingannate sui termini della questione, che quello della scissione completa, dopo la quale noi abbiamo intrapresa una viva campagna per attirare a noi il proletariato italiano.

Ma, per ritornare alla possibilità dell'altra soluzione da voi prospettata, l'uscita cioè dal partito della piccola minoranza di destra, eccovi, senza entrare in troppi dettagli, le ragioni che dimostrano come tale soluzione fosse praticamente irraggiungibile.

Nella campagna per la preparazione del Congresso, gli unitari, per acquistare voti, asserirono di essere disposti alla epurazione del Partito, ossia ad eliminare se non una frazione o dei gruppi, almeno taluni uomini più compromessi per i loro noti atteggiamenti riformistici. Ebbene, tale loro proposito sparì nelle giornate di Livorno; anzi gli unitari nelle loro adunanze di frazione smentirono la voce corsa che volessero proporre la esclusione dei deputati Turati e Ciccotti, i due elementi che Serrati era meno alieno dal sacrificare. La tesi unitaria, dunque, anziché avvicinarsi alla nostra - esclusione col voto del Congresso di tutta la frazione riformista, detta 'di concentrazione socialista' - se ne allontanava sempre di più, tendendo a destra in modo accentuatissimo. Ciò avvenne anche sulla questione collaterale del nome del partito: gli unitari nella loro mozione di Firenze proponevano il nome di socialista-comunista, a Livorno deliberarono di tornare al nome socialista, evidentemente per mettersi sul terreno della frazione di destra, contrarissima al cambiamento del nome.

Ancora: vi era una corrente, quella del compagno Graziadei, che si proponeva appunto lo scopo da voi tratteggiato della cosiddetta Unità comunista. Soprattutto dopo le dichiarazione dei riformisti, che audacemente asserivano di accettare i ventun punti e tutte le formule comuniste nel momento stesso che ingiuriavano e diffamavano la Terza Internazionale, e dinanzi al contegno rivoltante dei serratiani, Graziadei ed i suoi amici dichiararono che lo scopo era irraggiungibile e votarono senz'altro la nostra stessa mozione, come sono oggi con noi nel partito comunista.

La stessa opinione venne espressa dai compagni i quali rappresentavano l'Internazionale; ed anche da tutti i comunisti esteri che assistevano al congresso. Chi conosce la politica antica, e soprattutto recente, degli unitari, e chi ha inteso i loro discorsi al congresso e le loro invettive contro i rappresentanti della Internazionale comunista, per non dire contro i comunisti italiani, sa che essi, se non sono riformisti, si differenziano dai riformisti solo in quanto sono più pericolosi di loro per lo sviluppo della rivoluzione proletaria in Italia.

Infine, secondo la versione dell'Avanti!, nel vostro articolo sarebbe anche detto che la situazione creatasi è sfavorevole pel fatto che la frazione comunista italiana non costituisce un gruppo solido e chiaro. Su ciò non vogliamo trattenerci. Ci auguriamo solo che lo svolgimento della organizzazione e dell'opera del nostro partito comunista, costituito da pochi giorni, ma già in magnifica e concorde attività, dimostri che invece deve parlarsi di un chiaro solido e potente partito, degno rappresentante della Internazionale comunista in Italia".

Una breve nota dal titolo La nostra scissione e il Partito comunista tedesco, nel numero 13/II/1921 de Il Comunista, prende bensì atto dell'o.d.g. della Zentrale del VKPD dell'1/II, giunto "molto a proposito a controbattere le opinioni del compagno Levi sulla eccessiva asprezza della nostra scissione" e a "dare l'approvazione di quel Partito all'opera della III Internazionale in Italia ed alla frazione comunista ora costituitasi in PCd'I"; ma poiché lo stesso o.d.g. "ritiene possibile l'unione del Partito comunista con quella parte della frazione Serrati che eventualmente si mettesse sul terreno della III Internazionale", si affretta a precisare [corsivi nostri]:

"Noi preghiamo i compagni tedeschi di deporre questa ultima illusione. Essi forse giudicano per analogia con la situazione che si venne a creare tempo fa in Germania con lo sbloccamento degli Indipendenti e l'unione della loro sinistra coi comunisti tedeschi. Noi invece crediamo che in Italia il processo di costituzione del partito sia già espletato e che gran parte della nostra attività sarà assorbita dalla lotta contro i riformisti e i centristi e opportunisti della frazione Serrati", fermo restando che "nessun ostacolo noi poniamo al passaggio degli operai comunisti, eventualmente rimasti nel PSI, nel Partito comunista".

La seconda parte dell'articolo Wir und die Exekutive, riassunta a modo suo dall'Avanti! del 20/II, offre ad a.b. l'occasione di tornare sull'argomento in una nota su Paul Levi ed i comunisti tedeschi apparsa il 24/II/1921 ne Il Comunista, di cui è sufficiente mettere in rilievo l'atteggiamento non di vana deprecazione per quanto la storia ha voluto, ma di franca accettazione della sua necessità e di energico impegno a lavorare sulla base di tutto ciò che di positivo esso contiene. Dopo una breve schermaglia polemica con l'Avanti!, che si affannava a presentare la posizione di Levi di fronte a Mosca come condivisa da tutta la direzione del VKPD, la nota prosegue:

"Riservandoci di rispondere sugli stessi giornali dei compagni comunisti tedeschi a quanto si scrive di noi in Germania, ricordiamo che il testo delle decisioni della Centrale circa la scissione italiana è quello già noto in Italia per essere stato riportato dall'Ordine Nuovo del 5 corr. e del quale già ci siamo occupati nel Comunista, rilevando che in quella deliberazione si approva pienamente sia l'opera del CE. di Mosca che quella della frazione comunista italiana al Congresso di Livorno. Esprimemmo un dissenso dai compagni tedeschi soltanto sulla eventualità da essi ammessa di una unificazione della sinistra del partito socialista col nostro partito, volendo intendere che, mentre noi auguriamo e sollecitiamo il passaggio dei buoni militanti, specie operai, che hanno compreso i pericoli dell'equivoca politica degli unitari del P. S. I., nelle nostre file, non crediamo che sia da prendere nemmeno in considerazione la possibilità di unificazioni sul genere di quella di Halle, di aggregazioni al nostro partito comunista di blocchi staccatisi dall'altro partito; e ciò sia per ragioni internazionali di organizzazione del movimento comunista, sia per la nostra concezione del processo di formazione del partito comunista in Italia.

Chiarito questo, riesce evidente che tutte le altre opinioni contenute nello scritto del Levi che l'Avanti! riassume, sono sue opinioni personali e non dei comunisti tedeschi né della Centrale del loro partito. Non vogliamo qui approfondire la polemica col Levi. Egli dice che la scissione doveva avvenire non tra noi e il gruppo Serrati, ma tra questo e la destra riformista. Ma era proprio quello che era scritto nella mozione della frazione comunista. Il Levi dice che si fece male a voler imporre questa senza togliere una virgola, ma lo strano è che egli esprime proprio il pensiero scritto nella mozione stessa. Se questa non fu applicata, la colpa è semplicemente della maggioranza che la respinse e che vi contrappose il suo ostinato rifiuto ad espellere anche un solo riformista. Se il distacco è avvenuto come è avvenuto, ciò non si deve a non aver voluto attenuare la mozione, ma al fatto che per ottenere l'accordo coi serratiani sarebbe stato unico mezzo quello di rimangiarsela dalla prima all'ultima parola. Non facciamo al compagno Levi il torto di supporre che egli ci avrebbe consigliato questo, tanto più che egli parlò a Livorno e si esprime ancora oggi per quella stessa tesi della esclusione di tutti i riformisti, che era contenuta nella nostra mozione.

Ha il compagno Levi qualche elemento concreto che appoggi la sua affermazione che era possibile trovare un punto di incontro coi serratiani, che non fosse la conservazione della unità del partito intatta tino a Turati? Noi glielo chiediamo allo scopo di dimostrare che le sue impressioni non sono esatte, ed aggiungiamo subito, ancora una volta, che come è vero che le cose non potevano andare diversamente da come sono andate, col distacco di Serrati e dei suoi dai comunisti, è altrettanto per noi indiscutibile che è un vantaggio per la causa comunista che le cose siano andate così, e non altrimenti".

Di sommo interesse è infine una nota di a.b. apparsa il 6/III ne Il Comunista su La crisi nella centrale del partito comunista tedesco. Dopo aver polemizzato con l'Avanti!, precipitatosi il 27 febbraio ad annunciare le "dimissioni dell'intera Centrale [...] per solidarietà con gli unitari italiani, quasi che la centrale stessa, nella gratuita ipotesi che fosse stata unanime in una solidarietà di tale specie, avrebbe avuto bisogno di dimettersi per questo!", e illustrati i punti salienti della mozione Stöcker-Thalheimer, vi si sottolinea il valore internazionale di Livorno sia come episodio della lotta contro l'equivoco riformista, sia come contributo alla liquidazione di situazioni non chiare sopravviventi in partiti formatisi attraverso un processo d'insufficiente chiarificazione teorica e politica [corsivi nostri]:

"I dimissionari hanno […] dichiarato che condividevano la richiesta dell'Internazionale per l'eliminazione dei destri dal partito italiano, ma che la loro opposizione derivava dal timore che la rigorosa politica di spietata selezione degli opportunisti anche più atteggiantisi a rivoluzionari iniziata in Italia dovesse, secondo le dichiarazioni dei rappresentanti di Mosca a Livorno, essere anche estesa ad altri paesi, tra cui la Francia e la stessa Germania.

Quest'ultima considerazione è tanto interessante, che trascende la polemica con l'Avanti! ed investe vitali problemi internazionali del movimento comunista. Noi pensiamo che il significato dello scioglimento del congresso [...] consista proprio nell'aver acquisito alla pratica internazionale del movimento comunista elementi che permettono di perfezionare i mezzi di identificazione dei pericoli di corruzione del movimento. Non è un caso, lo abbiamo detto più volte, che in Italia, dove il partito aveva minori traversie passate di attitudini opportunistiche, il processo di selezione dei fattori politici comunisti si sia presentato come si è presentato, indicando come elementi da scartare anche quelli che per il loro passato sembravano i meno sospetti. Questi valori dialettici nello studio della crisi dei partiti proletari influiranno e devono influire sulla definitiva sistemazione internazionale della organizzazione comunista, e noi opiniamo che gli organi supremi debbano fare proprio quello che temono il compagno Levi ed i suoi compagni di dimissioni, cioè applicare il massimo di severità ad altri partiti, tra cui è certamente quello francese, e forse per qualche riguardo anche quello tedesco, a cui la grande unificazione di Halle non ha certo portato tutto elemento puro, e nel quale delle scorie esistono ancora. L'allarme non è dunque ingiustificato, solo troviamo che esso fa torto ai compagni che si sono dimessi e che vengono così a mettersi nella figura di protettori di quei residui opportunistici di cui domani si dovrà forse eseguire il repulisti.

E questo abbiam dovuto e voluto dire per riaffermare che per noi la lotta contro l'equivoco opportunista è lotta internazionale, che quanto si è fatto in Italia è ottimo precedente per liquidare altre sopravviventi situazioni non chiare di altri partiti, che è per questo che i comunisti credono che rapporti sempre più sicuri di informazione e critica reciproca debbano legare i partiti dei vari paesi, a gran differenza dal metodo obliquo con cui si voleva in Italia sfruttare difetti di altri partiti per conservare nel nostro la malattia a cui siamo orgogliosi di aver apportato eroici rimedi" (41 bis).

La questione de I dibattiti tra il Partito comunista unificato di Germania ed il Comitato esecutivo della III Internazionale, in riferimento anzitutto a La scissione del Partita italiano, era però troppo importante perché il primo numero (30/III/1921) della rivista teorica del partito, Rassegna comunista, non le dedicasse - sotto quel titolo e sottotitolo - un lungo articolo firmato a.b. Per rispondere al discorso di Levi alla riunione del 22-24/II, il testo si mantiene sul puro terreno dei fatti, contestando l'affermazione secondo cui soltanto un quinto del vecchio partito sarebbe passato alla frazione comunista; a proposito del paragone fra "la posizione di Serrati, che tre mesi prima di essere messo all'indice era presidente di un congresso internazionale", e quella degli Indipendenti tedeschi, nonché a proposito della domanda su "come si sarebbe fatto a disfarsi di Dittman se questi fosse stato a Mosca presidente del Congresso?", osserva, approfondendo la questione di fatto e rispondendo ad obiezioni fritte e rifritte dell'opportunismo internazionale:

"Ecco in verità un ragionamento specioso! Non è possibile un confronto tra la scissione del partito indipendente tedesco e quella del partito italiano: in Germania vi era già stata la scissione, e ad Halle, dal punto di vista dell'organizzazione della Internazionale, non vi fu scissione ma aggregazione di un gruppo affine" staccatosi da altri "che mai erano stati nell'organizzazione internazionale.

Il paragone non può e non deve nemmeno continuare nel prevedere una aggregazione al nostro partito comunista di un blocco della sinistra serratiana, a meno che non si voglia ridurre la compattezza e il disciplinamento dell'internazionale, che il compagno Levi desidera quanto noi, ad uno stato di cose per cui si rabbercerebbe e si raffazzonerebbe di continuo l'organizzazione, ricucendovi giunte... di un altro colore, come fanno i rigattieri con gli abiti frusti".

Quanto all'"opinione del compagno Levi circa l'impressione che in generale fanno le scissioni sulle masse operaie", l'articolo poi osserva acutamente:

"Egli dà, a nostro credere, un valore eccessivo alla valutazione di un fattore di ordine psicologico, che può anche agire nel senso opposto a quello da lui considerato. A noi pare che una pregiudiziale contro le scissioni e una ripugnanza per l'odiosità di chi se ne fa banditore sia propria piuttosto della parte più tradizionalmente pigra ed inetta dei capi e dei semicapi militanti nei partiti".

Un breve interludio in questa polemica è la sola voce ufficialmente levatasi nel partito francese a mettere in dubbio la fondatezza dei criteri di principio e di metodo che avevano presieduto alla scissione di Livorno: e diciamo ufficialmente, perché è difficile credere che i vertici di un partito ben più ibrido di quello uscito dalla unificazione di Halle, e fin dall'inizio trovatosi in disaccordo con l'EKKI su problemi vitali di tattica e di organizzazione, non condividessero la sostanza delle critiche all'operato dei rappresentanti dell'Esecutivo espresse da Jacques Mesnil tanto nella Humanité del 25/I (e riprese dall'Avanti! il 29 e il 30/I), allorché si chiedeva se "la situazione è oggi veramente 'rivoluzionaria' come essi [i bolscevichi] pensano che sia" e "se, data la situazione esistente, la tattica migliore consista davvero nel provocare [!!] una scissione che separa dalla massa del partito gli elementi più giovani e più combattivi [!!]", quanto nel nr. XII della Revue Communiste, dove accusava i delegati di Mosca di commettere, come tutti i bolscevichi, "un errore fondamentale: la credenza cieca nella virtù della centralizzazione".

L'episodio è doppiamente significativo: 1) come esempio della prassi in forza della quale ogni militante o gruppo di militanti del PCF si sentiva autorizzato a prendere pubblicamente posizione intorno a problemi riguardanti l'intero movimento comunista e, in particolare, il Comintern, secondo la tradizione non solo federalista ma individualista che in Francia vantava antiche e profonde radici; 2) come manifestazione della stessa malattia contingentista dalla quale erano afflitti i dirigenti del partito tedesco e che condizionava il giudizio sulla legittimità o l'opportunità di una esplicazione rigorosa delle Tesi e Condizioni di ammissione a quello sul carattere più o meno "rivoluzionario" della situazione nell'anno e mese tale (42).

Secondo Mesnil, la contraddizione apparente fra l'accettazione di Cachin in Francia e l'esclusione di Serrati in Italia si risolveva considerando che, per i russi, tutto era questione di tattica senza regole fisse, e che in Italia essi erano stati tanto severi solo perché vi credevano più vicina che altrove la rivoluzione. Una nota su I giudizi esteri sul Congresso di Livorno, ne Il Comunista del 6/II così ribatteva:

"La soluzione tracciata non dai Russi ma dal Congresso internazionale per la questione italiana, era la separazione fra Serrati e Turati. Se le cose sono andate altrimenti, senza meraviglia e con completa sanzione degli organi internazionali preposti all'applicazione dei deliberati del Congresso, ciò mostra che il Congresso di Livorno nel suo significato storico va al di là della applicazione volontaristica di una formuletta tattica; che la sua soluzione non è la conseguenza di errori di Bombacci, Kabatcheff o Lenin, senza i quali le cose sarebbero profondamente diverse, ma è l'indice di un processo storico interessante e complesso nella formazione dei partiti comunisti, che insegna qualcosa ai comunisti ed all'internazionale stessa nel suo continuo sforzo di basare su una più precisa comprensione della storia la più efficace azione rivoluzionaria […] mentre non insegnerà mai nulla a quelli che nulla possono apprendere che vada al di là delle solite banalità e personalismi".

Chiusa dall'articolo del numero I della rivista teorica, la polemica si riaprì tuttavia su un piano più alto, spostandosi da Berlino a Mosca, allorché, nella seduta del 4/IV, l'Esecutivo dell'IC, senza consultare il partito italiano, decise di porre all'ordine del giorno del III Congresso la questione del ricorso del PSI (la famosa "mozione Bentivoglio") e, in tale quadro, di invitarlo a parteciparvi con una sua delegazione (43), purché si impegnasse a dichiarare per iscritto che intendeva rompere definitivamente coi riformisti alla Turati-Modigliani.

Con ciò l'Esecutivo, che approfittava "dell'occasione per inviare al PCd'I il suo fraterno saluto", non intendeva ritornare né sul giudizio circa la posizione del "gruppo Serrati", né su quello circa l'irreversibile necessità della scissione. La già citata riunione del 22-23/II, in cui Radek aveva dichiarato che "il gruppo Serrati non contiene soltanto elementi centristi, è esso stesso il centro", si era conclusa col voto di una risoluzione di pieno appoggio al PCd'I (approvata all'unanimità), di condanna dell'atteggiamento tenuto da Levi a Livorno e dopo (approvata contro la sola opposizione di Geyer), e di solidarietà con la risoluzione della Centrale tedesca dell' 1/II (approvata con una astensione). Successivamente, Radek in un articolo sulla Crisi del partito comunista di Germania apparso sul nr. 1, anno III, di Die Internationale (44) e datato 15/III, aveva sostenuto che la riconquista delle masse operaie ancora legate al centrismo poteva essere soltanto il frutto di un'aperta lotta politica contro quest'ultimo, mentre Zinoviev in Alla vigilia del III Congresso dell'IC (45) non aveva esitato a dichiarare che, nella persona di Serrati, "noi combattiamo gli ultimi Mohicani del centrismo ammodernato e reso 'rivoluzionario' e, a smentita di uno degli argomenti cari a Levi e Zetkin:

"Se Serrati si è unito ai riformisti contro i comunisti, è per la semplice ragione che se ne sente attirato, che ha più affinità e simpatia con essi che con noi. Di fronte a questo gravissimo fatto, cadono miseramente tutte le frasi invocanti pretesi errori dei comunisti italiani e del Comitato esecutivo dell'IC, che, si dice, avrebbero spinto Serrati verso gli opportunisti. In realtà, egli è stato spinto verso i riformisti non per colpa dell'Internazionale, ma perché voleva esserlo".

In Italia, cioè - aggiungeva - nel paese più vicino alla rivoluzione, "tutti i partiti sembrano più a sinistra di quanto non siano [...] il giallo sembra rosa pallido, il rosa pallido rosso; a sentir loro, i riformisti italiani si direbbero rivoluzionari, e i centristi quasi comunisti". Cedere a Serrati (o a Levi che lo proteggeva) avrebbe quindi significato "cedere alla Internazionale 2 1/2, dunque fare il gioco della Seconda". Lo stesso Lenin, pur disposto ad ascoltare quel poco o tanto di buone ragioni che anche un nemico può avere, non lo era affatto a transigere sulla questione dell'atteggiamento dei serratiani a Livorno o dell'appoggio loro offerto da Levi.

Una risoluzione dell'EKKI, di cui la stampa dei partiti europeo-occidentali ebbe notizia solo in marzo (46), aveva perciò confermato senza riserve la decisione in merito alla questione italiana e, protestando "con la massima energia" per il sostegno dato da Levi al gruppo Serrati, non aveva soltanto fatto propria la mozione originaria della Zentrale tedesca, ma aveva chiesto a quest'ultima di non permettere "nessuna interpretazione della stessa che equivalesse ad un appoggio" a tale gruppo "e causasse difficoltà ai comunisti italiani". Non solo, ma una risoluzione dello stesso 4 aprile aveva aspramente condannato le dimissioni dei 5 membri della Centrale tedesca sia come prova di "mancanza di disciplina nel gruppo dirigente del VKPD" sia come sintomo del delinearsi in Germania (e in altri paesi) di un'"ala destra", il che imponeva ai comunisti di "serrare le file e soffocare decisamente sul nascere tali tendenze" (47). A nostro avviso, tuttavia, l'accettazione del ricorso del PSI e il suo invito a Mosca costituivano di per sé da un lato una deroga di principio ai criteri di costituzione dell'Internazionale comunista e, in specie, alle sue Condizioni di ammissione (punto che sarà chiarito nelle ultime pagine e nell'appendice del capitolo seguente), dall'altro un passo indietro nella valutazione del fenomeno internazionale del centrismo in generale e del massimalismo italiano in particolare, che era stata propria dei bolscevichi non meno che della nostra corrente. In realtà, così agendo, si ricollocava il PSI in una situazione pre-Livorno, come se appunto il dibattito congressuale non avesse dato la prova lampante che le divergenze andavano ben oltre la questione del distacco dalla "destra": si dava, volenti o nolenti, per non avvenuto il congresso, quindi anche la scissione.

Questo secondo punto, che più direttamente si riallaccia alle questioni trattate nel presente capitolo, fu svolto in modo che riteniamo esauriente nei due articoli di A. Bordiga, apparsi nei nr. V, 30 giugno, e XIII, 15 novembre 1921, di Rassegna comunista e intitolati rispettivamente Mosca e la quistione italiana e Chiudendo la "quistione italiana", il cui testo completo troverà posto in un volume successivo.

Qui si dimostrava, prima di tutto in linea di fatto, 1) che la rivendicazione dei "meriti" sedicentemente acquisiti dal PSI durante e subito dopo la guerra nascondeva la realtà ben diversa che l'ala rivoluzionaria nel suo seno era sempre stata, specialmente negli svolti decisivi della situazione, in netta e assoluta minoranza; 2) che "il serratismo non è comunismo" e "la formula dell'esclusione dei riformisti doveva esserne solo una delle tante prove: esso era esso stesso il centrismo; non poteva farsene l'esecutore"; 3) che se "la condizione negativa, la condizione che basta a rendere incompatibili con l'Internazionale, non è il collaborazionismo, ma un'attitudine che sta più a sinistra del collaborazionismo", appunto questa aveva caratterizzato la variante italiana del fenomeno internazionale del centrismo.

L'errore di principio, in secondo luogo, non era tanto di non scorgere la reale natura del fenomeno, quanto di supporre che non fosse materialisticamente determinato, non avesse esistenza oggettiva, non obbedisse a leggi; quindi che potesse essere diverso da quel che era, e spettasse alla nostra abilità tattica o sapienza organizzativa di modificarlo [corsivi nostri]:

"Ogni meccanismo ha una sua legge funzionale che non ammette violazioni. Una tesi somigliante a quella che dimostra la impossibilità di prendere l'apparato dello Stato borghese e volgerlo ai fini della classe proletaria e della costruzione socialista, prova, tra le molteplici conferme della storia, che la struttura dei partiti socialdemocratici dell'anteguerra con le sue funzionalità parlamentaristiche e sindacali non può trasformarsi in struttura del partito rivoluzionario di classe, organo della conquista del potere. La conclusione è che la scissione di Livorno fu l'epilogo di uno sviluppo che non solo nelle sue cause e nel suo procedere sta al di sopra di tutti i Serrati del mondo, ma della stessa volontà dell'Internazionale comunista e degli uomini responsabili del suo organo dirigente. Le Condizioni di Mosca ebbero per crisma la scissione come avvenne a Livorno, in quanto sono una legislazione non arbitrariamente imposta da una oligarchia, ma scritta col concorso delle nozioni scaturite da tutta l'azione proletaria mondiale e anche delle vicende italiane. Nulla dunque di artificioso nella separazione del PSI. Se vi fu qualche cosa di artificiale fu il suo ritardo, ma questa artificiosità va accettata come uno di quegli errori da cui si desumono migliori orientamenti tattici e, nella fattispecie, la necessità della 'guerra al centrismo'.

Se qualche cosa vi può essere di artificioso sarebbe solo una decisione del Terzo Congresso [...] nel senso di ritornare sul taglio fatto dalla storia a Livorno con decisioni che si approssimassero alle richieste del PSI. Ma questo errore sarebbe un errore infecondo, in quanto già esistono esperienze sufficienti a provare che si dovrebbe presto amaramente pentirsene".

Nulla dunque da rimpiangere o da rivedere, come riaffermerà con vigore anche l'articolo Il Partito comunista, dell'1/V/'21, riprodotto in appendice al capitolo che segue.

Era avvenuta nel frattempo l'"azione di marzo", e poiché le polemiche da essa suscitate in seno al Comintern si intrecciarono a quelle suscitate dalla scissione di Livorno, rendendo necessarie da parte del PCd'I ulteriori chiarimenti, dobbiamo riportarci in Germania e seguire lo svolgersi per molti aspetti drammatico di quella battaglia. Si vedrà allora come, per un'altra "convergenza anomala", la giusta esigenza di aiutare le giovani sezioni dell'IC a superare lo schema "infantile" del partito-élite, agente per forza propria a prescindere dalle condizioni oggettive e, in particolare, dal grado di influenza sulle grandi masse, e la preoccupazione altrettanto legittima che i partiti nati da una violenta scissione dalla II Internazionale non si chiudessero nell'orizzonte apparentemente sicuro della setta cospirativa, abbiano generato per contraccolpo nei vertici dell'IC, prima confusamente, poi con chiarezza sempre maggiore, una visione deformata - perché fondamentalmente quantitativa - dei requisiti propri del partito di classe e come, sulla sua base, essi si siano sempre più lasciati indurre a valutare la rispondenza dei partiti storici alle necessità della lotta rivoluzionaria in base a criteri estrinseci e in forte misura aleatori, piuttosto che a coefficienti interni di continuità programmatica ed organizzativa, aderenza ai principi, rigore nell'applicazione della teoria all'analisi delle situazioni, capacità di polarizzare intorno a sé, nel vivo dell'azione, una cerchia sempre meno ristretta di lavoratori. Per i nostri compagni si tratterà allora di difendere le ragioni non solo della loro nascita per scissione dall'opportunismo, ma del loro modo di agire, crescere e potenziarsi sulle proprie, non altrui, basi di esistenza organizzata.

4. - L '"azione di marzo" e la "teoria dell'offensiva".

Il 17 marzo, sotto pretesto di stroncare la gragnuola di furti, atti di sabotaggio, aggressioni, attentati, ecc. da cui i grandi industriali lamentavano d'essere bersagliati, l'Oberpräsident della Sassonia prussiana, il socialdemocratico Hörsing, decideva di occupare con forze di polizia la zona industriale e mineraria di Mansfeld-Eisleben, nella Germania centrale (48).

Momento migliore non si poteva scegliere. Su scala internazionale, le lotte di classe scatenate nell'ultimo biennio dal passaggio dalla vita e dall'economia di guerra a quelle di pace erano - salvo rare eccezioni - in netto riflusso.

In Germania, la lunga serie di battaglie sul terreno sia economico che politico, spesso sanguinose e quasi sempre sfortunate, del biennio postbellico aveva lasciato dietro di sé un senso diffuso di stanchezza soprattutto nei gangli decisivi delle più forti concentrazioni operaie, dove più aspre erano divampate le lotte e più si risentivano i contraccolpi di troppe, e troppo dure, sconfitte. È anche vero che fattori di politica estera, come l'imminente plebiscito nell'Alta Slesia, l'inasprirsi della politica alleata di richiesta di riparazioni e d'intervento militare in suo appoggio, e l'aggravarsi della già difficile situazione economica e, in particolare, della disoccupazione, minacciavano di riaprire dovunque il capitolo delle tensioni politiche e dei conflitti di classe. Riunito il 16-17/III, il CC del VKPD prevedeva bensì che difficilmente potessero verificarsi estesi movimenti di sciopero prima dell'aprile avanzato, e su tale previsione basava i suoi preparativi di azione; ma, per i tutori dell'ordine, questo era un argomento di più a sostegno di rapidi interventi preventivi onde evitare che anche solo una certa resistenza operaia potesse organizzarsi. In tutto il drammatico susseguirsi di eventi, l'iniziativa rimase quindi nelle mani delle forze statali e non-statali borghesi.

Lo si spiega anche con la crisi di sviluppo che stava attraversando il VKPD, la cui nuova direzione, impegnata ad "attivare" il partito e convinta di poter "forzare" il corso della situazione oggettiva, era sottoposta alla duplice pressione, a) di una "base" insofferente della cautela o addirittura della passività della dirigenza dimissionaria, b) degli incitamenti all'azione provenienti dalla triade ungherese Béla Kun-A. Guralsky-J. Pogany inviata dall'EKKI a rappresentarlo in Germania. Che, in tali condizioni, il blitz controrivoluzionario abbia colto doppiamente impreparata non solo la classe operaia nel suo insieme, ma la sua guida politica, è soltanto naturale.

Anche a non prendere per oro colato la versione data da Radek al III Congresso dell'IC, secondo cui, alla notizia della mossa di Hörsing, durante la riunione del 16-17 Brandler si era chiesto se non fosse il caso di spingersi fino a "provocare il nemico", e Frölich gli era venuto di rincalzo "come un tenente di cavalleria, proclamando: Da oggi noi rompiamo con la tradizione del partito; invece di aspettare, come abbiamo fatto sinora, prenderemo l'iniziativa e scateneremo la rivoluzione" (49), è certo che non solo nell'ala sinistra o nella base del VKPD, ma nei suoi vertici, prevalse in quei giorni la convinzione che fosse suonata l'ora di un "nuovo corso", e che occorresse mostrarsi non solo animati da un generico attivismo, ma capaci di mettere realmente in moto le grandi masse proletarie (50) scrollandole dall'apatia generata da devastatrici sconfitte, e di volgere in senso favorevole a questa spinta elementare la stessa curva oggettiva degli eventi. Prevalse insomma l'orientamento velleitario della sfida lanciata "per principio" al mondo borghese (dei rapporti di forza non era il caso di darsi pensiero; quella stessa sfida avrebbe avuto il potere di modificarli!) su cui più tardi si costruirà l'edificio della "teoria dell'offensiva" come via a percorso unico ed obbligato per sfondare le porte di una situazione stagnante.

Costretto a prendere decisioni rapide e ben precise in una battaglia scatenata dall'avversario con il favore dell'iniziativa nella scelta del momento e del terreno e nella consapevolezza che l'ora di un colpo mortale al nemico di classe era quella, e guai a lasciarsela sfuggire, il partito pagò il duro prezzo di un passato dal quale non aveva ricevuto armi che non fossero quelle della pura propaganda, e i cui limiti non poteva superare dalla sera alla mattina grazie alla buona volontà di "passare all'azione". E, così stando le cose, l'errore non fu, come deplorarono i "Leviti", di buttarsi a capofitto nella mischia, ma di farlo senza commisurare le direttive, gli interventi, le parole d'ordine, alle reali forze proprie e del nemico; al grado effettivo di influenza sulla classe e di reattività di quest'ultima all'attacco nemico su scala locale e nazionale; al livello di preparazione del proletariato e, soprattutto, del partito di fronte agli imperativi del momento; errore uno dei cui corollari fu la tendenza a credere che, in situazioni che esigono un intervento diretto del partito (specie poi se si presume che tale intervento debba essere risolutivo), tutto quanto si chiede ai rivoluzionari sia non già di disciplinare, controllare, organizzare, dirigere le masse, ma di esortarle, stimolarle, incitarle o, viceversa, rampognarle, ricadendo così, volenti o nolenti, nell'ambito, dal quale si pretendeva di essere usciti, della mera propaganda, sia pure di tono agitatorio. Messosi su questo piano, il partito che aspirava a divenire un'organizzazione d'assalto, quindi di guida, finì per muoversi a rimorchio dei proletari entrati spontaneamente in azione, invece di prenderne la testa e tracciar loro chiaramente la via.

L'effetto di questa impreparazione fu, ripetiamo, duplice, riguardando sia il teatro immediato dello scontro, la Germania centrale e particolarmente la regione di Mansfeld-Eisleben, sia l'intero territorio del Reich. Scriverà acutamente Trotsky (51): "Fino a poco tempo fa e ancora durante la guerra, i proletari della Germania centrale, gli operai del distretto minerario, rappresentavano uno dei settori più arretrati della classe lavoratrice tedesca; essi seguivano nella loro maggioranza non i socialdemocratici, ma le cricche borghesi, patriottiche e chiesastiche; erano ligi all'Impero, ecc. Pur nella gravità delle loro condizioni, essi prendevano nei confronti degli operai di Berlino una posizione simile a quella dei nostri operai arretrati degli Urali di fronte agli operai di Pietrogrado. Ma - era qui il nodo della questione e, insieme, il motivo animatore del golpe militar-poliziesco di Hörsing - "in tempi rivoluzionari accade che il settore più arretrato e più oppresso della classe lavoratrice, scosso per la prima volta dal rombo degli eventi, scenda in lotta con la maggiore energia e si mostri pronto a battersi in qualunque circostanza, non sempre tenendo conto della situazione e delle possibilità di vittoria, cioè delle esigenze della strategia rivoluzionaria". Ora la prima caratteristica mostrava tutta la cecità di coloro - non solo gli Indipendenti della "Freiheit", ma i comunisti alla Levi - che scambiavano i moti di marzo con un putsch anarchico o con un colpo di mano... teppistico, ignorando che come, in date circostanze, "le punte avanzate della classe sono paralizzate dalle loro vecchie abitudini e irretite dalla vecchia burocrazia di partito e di sindacato, così, soprattutto nei primi stadi della rivoluzione e, molto probabilmente, fino alla conquista del potere da parte del proletariato, le forze trainanti sono appunto i settori della classe operaia che nella fase precedente erano i più retrogradi", e che le azioni terroristiche da più parti rinfacciate ai proletari dei distretti minerari tedeschi erano l'ovvio prodotto della "reazione di masse lavoratrici rimaste a lungo vittime dell'oppressione morale e materiale dei padroni" (52). La seconda caratteristica avrebbe invece dovuto ammonire la nuova direzione del VKPD che, più che di una propaganda eccitativa e agitatoria, un simile proletariato aveva bisogno di freddi e precisi indirizzi di azione pratica; che non occorreva dirgli, come il manifesto della Zentrale in data 18 marzo: "Ogni operaio se ne infischia della legge; si procura le armi dove le trova. Infischiatevene della legge" (a questo i minatori avevano già provveduto da sé, senza bisogno di consigli o esortazioni), quanto indicargli chiaramente i modi, i tempi, gli obiettivi, ma anche i limiti, di un'azione bensì armata, ma per forza di cose difensiva. Più ancora, urgeva fornirgli un organo capace non di esortare ad una lotta già divampata fuori da suggerimenti esterni, ma di inquadrarla e dirigerla, il che poteva anche voler dire (dati i rapporti di forza) saperla contenere e perfino, a un certo stadio, trattenere.

Più che in errori o deficienze di singoli, è in tutto il contraddittorio passato del VKPD che si deve cercare la chiave della sua incapacità di arrecare agli audaci proletari della Mitteldeutschland ciò che ad essi in parte mancava, invece di ciò che possedevano in eccesso: non lo slancio, la volontà di battersi e la disposizione al contrattacco, ma una guida politica e un efficace coordinamento organizzativo (53). Resosi conto che urgeva mostrarsi capaci di combattere, il partito non seppe dar prova della capacità di dirigere le forze combattenti, dotandole insieme di precisi obiettivi politici e di un minimo di centralizzazione. Inseguì grandiosi sogni di "offensiva rivoluzionaria" (54) invece di contribuire alla conquista dell'obiettivo più modesto, è vero, ma assai più realistico, della autodifesa operaia. Sensibile al fascino delle finalità più ambiziose, e dell'estensione più vasta possibile dei movimenti sia di sciopero che di guerriglia armata, non ebbe mente ed occhio per quelle azioni con traguardi precisi e circoscritti che, allo stato dei fatti, avevano le maggiori probabilità di conseguire i sia pur limitati successi resi possibili dai rapporti di forza, e di concludersi nella conquista di posizioni sulle quali attestarsi oggi, in attesa di potersi lanciare all'attacco domani. Volle tutto e in una sola volta: finì per perdere anche il poco che avrebbe potuto ottenere, almeno localmente.

Quanto al resto della Germania, Trotsky notava che "gli operai […] di Berlino o della Sassonia, dopo le esperienze degli anni '19 e '20, sono diventati molto più cauti - il che ha i suoi lati positivi, ma anche negativi" (55): era quindi assurdo pretendere che le notizie degli attacchi della polizia e dell'esercito a distretti minerari tradizionalmente sordi al richiamo della lotta di classe li spingessero di colpo e su vasta scala all'azione. Il partito pagò qui a caro prezzo l'eredità di un altro genere di impreparazione, quello legato sia all'atteggiamento ora passivo, ora "aristocratico" troppo spesso assunto dalla vecchia Zentrale di fronte alle lotte rivendicative e ai loro traguardi immediati, sia alla riluttanza a battersi in un solo schieramento con proletari di diversa affiliazione politica, per es. del KAAPD, ma sensibili agli stessi problemi di vita e di lavoro, e a maneggiar bene gli strumenti adatti a questo particolare campo di azione, nella coscienza che lotte e obiettivi parziali e lotte e obiettivi finali non sono incompatibili, e che è compito dei rivoluzionari fare dei primi un mezzo di preparazione ai secondi, una (come si è sempre detto) "scuola di guerra del comunismo".

Era sacrosanto chiamare i proletari di tutta la Germania alla solidarietà attiva verso i loro fratelli della Sassonia prussiana; ma, per poter lanciare con successo, tre giorni dopo che tutti gli operai dell'area prescelta da Hörsing per la sua spedizione punitiva avevano incrociato le braccia, cioè il 24 marzo, la parola d'ordine dello sciopero generale nazionale, sarebbe stato preventivamente necessario un paziente e metodico lavoro di partecipazione diretta alle lotte immediate e agli organismi di resistenza economica, ed essere quindi certi di trovare ascolto almeno fra i settori di avanguardia della classe, a ciò preparati da una lunga abitudine di battaglie sostenute insieme contro la classe avversa e per gli stessi obiettivi. Il terreno in questo senso non era stato preparato dalla vecchia direzione, malgrado tutto il chiasso sulla tattica della "lettera aperta" (56); la nuova non ne aveva avuto il tempo, ed è anche difficile pensare che, nell'orgia dei suoi entusiasmi "offensivistici", sarebbe stata disposta ad occuparsene.

Si spiega così la goffaggine con cui, sia pure nell'intento di allargare l'orizzonte dell'azione e di convogliarvi un massimo di forze operaie, si mescolarono in una sola piattaforma rivendicativa parole d'interesse pratico immediato per tutti i proletari e slogan già di per sé confusi, comunque irrilevanti ai fini della lotta in corso e tutt'altro che adatti a farsi comprendere dai più, come quello di "Alleanza con la Russia sovietica!". Si spiega il tono di professorale sufficienza con cui, il 19/III, le sezioni comuniste del distretto di Halle-Merseburg si rivolsero ai lavoratori già in sciopero ammonendoli: "Una grave decisione vi sta dinnanzi. Mostratevi degni dell'ora storica! Siate uomini liberi, non schiavi!" (57), o l'assurdo di prepararsi a decretare lo sciopero generale in tutto il paese lanciando nel contempo agli operai dell'SPD e dell'USPD (58), che pure si doveva e si voleva cercar di coinvolgere in azioni interessanti l'insieme della classe, la sfida arrogante: "Chi non è con me è contro di me!" (nella Rote Fahne del 20/III), minacciando di considerare complice o addirittura strumento di Hörsing chiunque non fosse disposto a seguire le indicazioni e le parole d'ordine del partito. Di qui l'assenza o, almeno, l'inadeguatezza di una propaganda esplicitamente diretta verso quell'esercito dei senza-lavoro (59) che, in tutto un terribile biennio, era stato il nerbo della classe proletaria tedesca e che la vecchia direzione del KPD aveva troppo a lungo guardato con diffidenza e perfino con sospetto come incarnazione della scomposta e indisciplinabile turba dei Lumpenproletarier (60).

Nella sua rude immediatezza, l'impennata operaia di fronte all'attacco poliziesco sotto egida riformista fu imponente; benché in ordine sparso e male armati, i proletari dei distretti minerari e industriali del centro della Germania si batterono con indomito vigore sfidando gli agguerriti reparti della controrivoluzione: le officine Leuna occupate dagli operai si arresero il 29/III soltanto dopo un duro bombardamento di artiglieria. Il fatto che entrassero in azione centinaia di migliaia di proletari, e che tale fosse il loro spontaneo slancio, smentì non solo come gratuita ma come proditoria la tesi che si trattasse di un colpo di mano: "Chiamare 'putsch' e tanto più 'putsch bakuniniano' l'azione difensiva di centinaia di migliaia di operai - scrisse Lenin il 10 giugno - è peggio di un errore, è una violazione della disciplina rivoluzionaria" (61). Negare d'altra parte che i proletari dovessero rispondere all'attacco nemico tentando di tagliargli la strada, e che il partito, soprattutto in una zona in cui i lavoratori avevano di recente mostrato di guardarlo con più simpatia dei loro fratelli di altre regioni tedesche (62), dovesse intervenire in loro appoggio (a parte ogni giudizio sul modo, i tempi e i limiti dell'azione da proporre) significava predicare il suicidio per principio. "Avete agito giustamente! - dirà l'EKKI nel suo proclama del 6 aprile. - La classe operaia non può mai ottenere la vittoria d'un sol colpo. Avete voltato una nuova pagina nella storia della classe operaia tedesca!".

Quello che fallì (e da cui, per parere concorde dei bolscevichi, sarebbe stato opportuno astenersi) fu il tentativo di trasformare in sciopero generale (di più, a sfondo insurrezionale) (63) il fronte di combattimento creatosi localmente nella Sassonia prussiana e di cui non valsero a controbilanciare la frammentarietà i successi temporaneamente ottenuti, sul piano del contrattacco se non della "offensiva", ad Amburgo, in Turingia, in Lusazia e qua e là nella Ruhr.

L'1/IV, la Zentrale dovette quindi rassegnarsi a decidere la fine di un'azione su scala nazionale che il VKPD era stato, con il KAPD, il solo a tentar di mettere in moto. "Occorre sfruttare il tempo disponibile - diceva il suo manifesto -. Preparatevi nuovamente alla lotta! Restate armati!". Il guaio è che ormai il controllo sia del tempo che delle armi era in pugno al nemico: ciò che per gli operai era stato possibile dieci giorni prima, non lo era più ora che l'occupazione militare del territorio si prolungava in implacabile repressione. Il numero di proletari arrestati, licenziati, malmenati, condannati (64) fu enorme; all'intera stampa comunista fu imposta la museruola; nel giro di qualche settimana, il partito perse circa 200.000 iscritti. L'impossibile "ritirata in buon ordine" si convertì in rotta, e la sconfitta lasciò il solito strascico di delusione negli uni, di recriminazione o addirittura di condanna negli altri, cui la direzione del partito non seppe reagire se non con l'arma spuntata dell'apologia e perfino dell'apoteosi, invece di trarre freddamente dal bilancio della Märzaktion, anche nei suoi aspetti più controversi, un insegnamento positivo (65).

Le "due anime" del partito entrarono in violenta collisione. Sorpreso dagli avvenimenti durante un soggiorno a Vienna, il 27 marzo Paul Levi aveva scritto a Lenin denunciando l'isolamento dalla maggioranza della classe operaia in cui aveva posto i comunisti la politica velleitaria della loro Zentrale, e invitandolo a riflettere su questa situazione drammatica e, se del caso, ad "agire in conseguenza".

Aveva bensì aggiunto che, da parte sua, nulla sarebbe stato fatto per ostacolare l'azione, salvo "forse" scrivere un opuscolo per chiarire il proprio punto di vista; ma non era passata una settimana, che già egli si lanciava appunto in ciò che aveva dichiarato di voler evitare: una pubblica requisitoria contro la direzione del partito.

Prima in una riunione di funzionari a Berlino (66), poi nell'opuscolo Unser Weg. Wider den Putschismus (La nostra via. Contro il putschismo) uscito il 12/IV, egli attaccò sia la Zentrale tedesca, sia l'Esecutivo moscovita, o quantomeno i suoi rappresentanti in Germania, non solo per gli errori commessi nel corso della Märzaktion, ma per averla sedicentemente provocata ad arte (il che, completato da pseudo-testimonianze e pseudo-rivelazioni, equivaleva a fornire alla polizia e alla magistratura proprio quel che cercavano, cioè le "prove" del complotto, della cospirazione, appunto del putsch) e per aver voluto opporre una minoranza operaia comunista ad una maggioranza politicamente immatura e retrograda, gli occupati ai disoccupati, la "aristocrazia del lavoro" alla manovalanza semplice, incanalando verso il terrorismo, la violenza armata, gli atti di sabotaggio (tutte cose da Lumpenproletariat, naturalmente!) la più o meno istintiva protesta proletaria.

Quella che Levi prendeva di mira, dunque, non era solo l'imprevidenza con cui si erano assegnati alle battaglie subito esplose obiettivi sproporzionati rispetto alle condizioni reali e alle forze disponibili, o, per il grosso dei lavoratori, poco comprensibili, e si erano dilatati in azioni generali di sciopero e in episodi offensivi di guerriglia urbana quelli che erano in realtà atti circoscritti di difesa immediata, senza predisporre i mezzi e seminare il terreno per rendere possibile un "salto di qualità" audace ma, in teoria, non impossibile a priori. Ciò a cui soprattutto egli mirava era inchiodare la nuova direzione "di sinistra" alla responsabilità di aver cercato di "creare situazioni di lotta con mezzi non politici ma polizieschi [!!], con la provocazione" (67), il che significava da un lato portare nuova acqua al mulino della repressione ufficiale e, dall'altro, tingere di foschi colori le pur necessarie "azioni parziali" di autodifesa operaia, così giustificando l'accusa al VKPD di avere organizzato "il più grande putsch bakuninista della storia" (68).

Nei limiti in cui la requisitoria conteneva una critica degli errori di conduzione della lotta, quando, poco più di due mesi dopo, si riunì il III Congresso dell'Internazionale, e uno dei suoi grandi nodi fu la condanna dell'infantilismo di pseudo-sinistra, poté sembrare che fra il nocciolo di "Unser Weg" e i discorsi dei membri della delegazione russa e specialmente di Lenin e Trotsky esistesse una sostanziale convergenza: Lenin in particolare ripeté più volte che "politicamente Levi [aveva] ragione in moltissime cose" (69).

In realtà, l'apparente sintonia celava un modo profondamente diverso di vedere i grandi problemi della tattica rivoluzionaria.

Filo conduttore del III Congresso fu l'energico richiamo dei giovani partiti comunisti al compito prioritario di "imparare a preparare la rivoluzione" invece di cullarsi nella fiducia illusoria che basti essersi costituiti in partito rompendo con le tradizioni riformiste, gradualiste e legalitarie della socialdemocrazia, per concedersi il lusso di chiamare le masse all'offensiva per la presa violenta del potere senza preparazione adeguata e comunque si presentino i rapporti di forza; un richiamo, dunque, alla necessità di porsi seriamente - a questo fine - l'obiettivo di "conquistare la maggioranza della classe operaia" e, se possibile, gli strati della piccola borghesia urbana e contadina più sconvolti e immiseriti dalla crisi.

Ma, soprattutto in Lenin: 1) la preoccupazione per la sorte di giovani partiti che mostravano di "sostituire la lucida valutazione della situazione, non molto favorevole all'azione rivoluzionaria immediata e diretta [corsivi nostri] con un frenetico agitare di bandierine rosse" (70), non va mai disgiunta dall'affermazione che, storicamente, il partito è e non può che essere il partito dell'offensiva ("Se esistono centristi, mascherati o meno, che contestino la teoria dell'offensiva, bisogna senz'altro espellerli!") (71) e che, se "una lucida valutazione della situazione" imponeva allora di non lanciarsi "prematuramente" (72) all'attacco e persino di fare un passo indietro, restava pur sempre vero che "la ritirata deve servire a preparare l'offensiva" (73), non a sconfessarla: non a caso egli paragona "la ritirata compiuta a questo congresso [...] alle nostre azioni del 1917 in Russia", in particolare alle giornate di luglio, quando il partito si era ben guardato sia dal non intervenire in una lotta i cui rischi gli erano tuttavia ben presenti, sia dall'evitare di frenarne gli sviluppi "prematuri", non confondendosi né con i teorici dell'intervento solo "a vittoria garantita per atto notarile", ne con quelli dell'adesione pura e semplice alla lotta, e così preparando il vittorioso assalto di Ottobre). 2) Per Lenin, "la conquista della maggioranza" non va né "intesa in modo formale, come la intendono i paladini della 'democrazia' filistea dell'Internazionale due e mezzo" (esempio: "quando nel luglio 1921, a Roma, tutto il proletariato, il proletariato riformista dei sindacati e il proletariato centrista del partito di Serrati, ha seguito i comunisti contro i fascisti, è avvenuta la conquista della maggioranza della classe operaia da parte nostra") (74), né va intesa in modo banalmente statistico: essa "è possibile anche quando la maggioranza del proletariato segue formalmente i capi della borghesia, i capi che fanno una politica borghese, o quando la maggioranza del proletariato tentenna" (75). Si tratta quindi di prepararla "più saldamente ed accuratamente", di "non lasciarsi sfuggire nessuna occasione seria in cui la borghesia costringa il proletariato a sollevarsi per lottare", di "imparare a determinare con esattezza i momenti nei quali le masse del proletariato non possono non insorgere insieme con noi" (76) anche se rimaniamo in esse un'esigua minoranza. 3) Per Lenin, lo stesso "concetto di 'massa'" non è statico, ma dinamico; non quantitativo, ma qualitativo: esso "muta col mutare del carattere della lotta", tanto che "nel corso delle nostre rivoluzioni vi sono stati casi in cui migliaia di operai rappresentavano una massa"; purché si sappia "con quale metodo conquistare [nel senso suddetto] le masse", in modo da averle con sé e attorno a sé in quanto nucleo sempre e necessariamente minoritario (77), nulla vieta neppure "che la rivoluzione [figurarsi poi un moto proletario potente, si, ma non identificabile con la rivoluzione, come l''azione di marzo'] possa essere iniziata da un partito molto piccolo, e portata ad una fine vittoriosa" (78).

A congresso finito, Lenin spiegherà di essersi dovuto "schierare con la destra" non per dare il proprio avallo al modo di pensare ed agire dei Levi, degli Smeral e di tutti coloro che poi pretenderanno di coprire il proprio opportunismo dietro la formula della "conquista della maggioranza", ovvero "delle grandi masse" non solo operaie, ma anche popolari, bensì per evitare che una formulazione errata della tattica dell'IC inducesse in errori "di sinistra" proprio quegli "elementi migliori, che sono effettivamente i più devoti, e senza i quali, forse, non esisterebbe neppure l'Internazionale comunista".

Ben diversa, anzi opposta (Lenin lo riconoscerà meno di un anno dopo) (79) la posizione di Levi. Non vogliamo sostenere che, nell'aprile 1921, egli avesse ormai rinnegato il concetto del partito comunista come per antonomasia partito di attacco, dunque di offensiva. Ma il fatto è che per lui l'assalto rivoluzionario al potere è, in fondo, qualcosa di simile alla famosa grande journée, unica ed irripetibile, non preceduta da episodi che in qualche modo la anticipino sul suo specifico terreno ("le azioni parziali - si legge nel suo opuscolo, e si intendono le azioni di lotta armata su un piano locale e saltuario - sono ammissibili soltanto in fase rivoluzionaria avanzata") (80), e che si spingano oltre i limiti dell'attività normale e graduale di propaganda, proselitismo e agitazione; insomma, non "accelerata" - col favore, certo, delle condizioni oggettive - dall'intervento del partito.

D'altra parte, legato alla tradizione luxemburghiana presa alla lettera, egli ha della "conquista delle masse" proprio il concetto formale, meccanico e statisticamente maggioritario che Lenin respinge: ciò che egli condanna a priori nell'azione di marzo non è solo (e fin qui tutto bene) la scarsa influenza del partito nelle file della classe operaia organizzata, ma (e, di qui in poi, tutto male) il fatto che "i comunisti sono per ora una minoranza nel proletariato", come se mai, come partito, potessero costituirne la maggioranza; concetto, questo, che ritorna con insistenza nel discorso della Zetkin sulla questione tedesca al III Congresso dell'IC; che fa sembrare a Levi l'"insurrezione" di marzo un colpo "sparato con la pistola" non solo contro la borghesia ma "contro i quattro quinti del proletariato"; e che è tanto più suscettibile di interpretazioni passiviste discordanti dall'impostazione generale delle Tesi sulla tattica approvate dal Congresso e dalla stessa critica della Märzaktion, in quanto Levi non cessa di richiamarsi alla celebre frase del Programma dello Spartakusbund, già citata nel I capitolo, sulle condizioni in cui soltanto i comunisti prenderanno il potere e, nel successivo opuscolo (81), svolge la teoria secondo cui in Occidente, a differenza della Russia (dove la borghesia era ancora allo stato embrionale e la classe operaia non si trovava ancora di fronte alle conseguenze politiche del pieno sviluppo della classe avversa, cioè alla democrazia), "la forma di organizzazione non può che essere quella di un partito di massa aperto, di quei partiti di massa aperti che non possono essere mai mossi su comando da un comitato centrale, che possono essere mossi unicamente nell'invisibile fluido in cui essi si trovano, nell'azione e reazione psicologica con tutto il resto della massa proletaria", dando così una pseudo-giustificazione teorica alla trasformazione del partito, da organo che in tanto può aspirare a dirigere la classe, in quanto sul piano storico ne è la coscienza e ne riassume la volontà, in una specie di "cassa di risonanza" della classe nella sua immediatezza, tanto più fedele e tanto più sonora, quanto più capace di convogliarne se non la totalità certo la stragrande maggioranza, nelle proprie file.

Si ricorderà inoltre che l'orrore del colpo di mano di minoranze "audaci ma scriteriate" affondava nella tradizione spartachista radici tanto profonde, da suggerire ad uno dei primi congressi del KPD la condanna ufficiale del "putschismo" (82). Riferendosi quattro anni dopo, nelle Lezioni di ottobre, a un'altra e non meno dolorosa esperienza tedesca, l'ottobre 1923, Trotsky denuncerà la tendenza diffusa nei partiti occidentali "a vedere nella rivoluzione, prima di tutto, difficoltà ed ostacoli, e a considerare ogni situazione col proposito preconcetto, anche se non sempre cosciente, di evitare l'azione" per dedicare i quattro quinti dell'attività di partito all'esorcizzazione del "pericolo putschista" elevato ad ossessione da un lato, a paravento del nullismo dall'altro (83).

Orbene, la concezione di Paul Levi sul rapporto fra partito e maggioranza della classe andava fino alla giustificazione teorica del rifiuto del "leninismo" (84), inteso da lui come teoria della rivoluzione proletaria riservata ai paesi non ancora benedetti da quella "conseguenza politica" del pieno sviluppo della dominazione borghese che è la democrazia, nonché fino all'avallo ante litteram di quella che sarà una delle caratteristiche della Internazionale nella sua fase di declino: il metodo cioè di giudicare il grado di rispondenza delle sezioni nazionali al modello "ideale" di partito comunista in base a un dato e statisticamente identificabile livello di consistenza numerica dei loro effettivi o, addirittura, al numero di voti raccolti in elezioni politiche e amministrative, ai risultati bruti di consultazioni sindacali notoriamente arcimanipolate, ecc., invece di sforzarsi di valutarne il peso reale nell'area geografica e nella situazione storica in cui essi si muovevano, e di capire sia i fattori oggettivi e soggettivi che ne determinavano gli sviluppi positivi sul piano statistico, sia quelli che ne spiegavano i ritardi, sia infine quelli grazie ai quali l'esiguità degli "effettivi" poteva essere compensata (a volte più che compensata) dalla saldezza dei legami stabiliti "informalmente" con l'insieme della classe, e dall'efficienza della rete organizzativa preposta alla loro creazione e salvaguardia (85).

Il fatto che si creasse una convergenza sia pure soltanto verbale fra interpretazioni così diverse e perfino antitetiche di termini che si suppongono "semplici" come "maggioranza", "masse" e perfino "conquista", mostra nello stesso tempo quanta ragione avesse la "Sinistra italiana" di suonare l'allarme per l'eccessiva facilità con cui si lanciavano parole d'ordine tollerabili bensì nel campo della propaganda spicciola e dell'agitazione, e qui, a volte, di sicura efficacia, ma, nel campo delle indicazioni tattiche e relativi indirizzi di azione ed organizzazione, tali da produrre effetti opposti a quelli scontati.

Dalla tribuna del III Congresso, Lenin diede di quelle parole un'impeccabile esegesi; ma il fatto stesso che non se ne fece tesoro per la formulazione di "piani tattici" non soggetti al rischio di essere stravolti prima ancora che ci si mettesse ad applicarli, mostra come il problema fosse reale e, lungi dall'avere implicazioni unicamente teoriche, avesse prima di tutto riflessi pratici. D'altronde, il pericolo che su parole d'ordine come "conquista della maggioranza della classe operaia" si verificassero delle "convergenze anomale" era così poco astratto, che proprio questo avvenne nel corso dei mesi seguenti, che videro i più accesi critici di Levi divenirne gli esecutori testamentari e la direzione "di sinistra" diventare "di destra", anticipando la parabola che più tardi avrebbero percorsa fino in fondo altre direzioni di altri partiti con tutti i crismi - sia pure soltanto temporanei, da... un Congresso all'altro - della "ortodossia". I suddetti commenti di Lenin noi li riscopriamo come tesori nascosti nelle pieghe dei suoi discorsi: all'epoca, passarono fra ondate di entusiasmo - e si persero.

Ma che avveniva, frattanto, dell'"altra anima" del partito tedesco? Nella riunione del 7-8/IV, il CC respinse a schiacciante maggioranza una mozione Zetkin di biasimo della Zentrale e di richiesta di un congresso straordinario del partito, dove l'azione di marzo era raffigurata come "lotta del Partito contro le masse proletarie [!!]" anziché "contro la borghesia sfruttatrice ed il suo Stato" e come "ricaduta nella malattia infantile dell'estremismo, nel putschismo bakuniniano" (86), e adottò con 26 voti contro 4 un testo, apparso il 9/IV nella Rote Fahne, in cui si rivendicava la necessità - nella situazione esistente - di una tattica offensiva, si scaricava sul tradimento socialdemocratico e sulla passività di una gran parte della classe operaia la responsabilità della sconfitta subita, e, condannando la resistenza passiva ed attiva di singoli compagni alle direttive del partito nel corso dell'azione, si chiedeva alla Zentrale di "mettere l'organizzazione, con tutte le misure adeguate, sul piede di guerra".

Era il prologo delle Tesi sull'azione di marzo (87), che elevarono a "principio" la tattica allora seguita contrapponendola a quella puramente difensiva attribuita con una certa forzatura, benché non senza un nocciolo di verità, alla vecchia direzione e all'attuale gruppo dissidente. E il grave non è tanto che la situazione in Germania e, più in generale, in Europa vi fosse vista in una luce contrastante col duro linguaggio dei fatti e con quella che sarà, pochi mesi dopo, la prognosi sviluppata da Trotsky al III Congresso - ma anticipata fin dal dicembre da Lenin (88) - di un riflusso sia pur temporaneo nella generale curva di declino e, in prospettiva, di catastrofe dell'economia borghese. Il grave fu di proclamare obbligatoria per tutto il periodo or ora apertosi e ritenuto destinato a concludersi solo con la vittoria della rivoluzione la "tattica dell'offensiva rivoluzionaria", ovvero "il tentativo, basandosi sulle proprie forze, di trascinare le masse nella lotta anche a rischio di non trascinare con sé, a tutta prima, che una cerchia ristretta dei lavoratori", essendo chiuso ormai per sempre il periodo della "pura propaganda e agitazione" ed essendosi aperto, non meno definitivamente, il periodo dell'azione. In questa visione antidialettica, il cammino della classe operaia va in linea retta - sotto lo stimolo del partito - dalla passività della semplice difesa all'attivismo dell'assalto generalizzato: "scuoterla dalla stagnazione" è compito dell'avanguardia rivoluzionaria, e in questo senso non è gratuita iperbole la frase di Maslow secondo cui, "se ci si chiede che cosa c'è stato di veramente nuovo nell'azione di marzo, si deve rispondere: proprio ciò che gli avversari ci rimproverano, il fatto cioè che il partito sia entrato in azione senza preoccuparsi di chi lo avrebbe seguito", e altrettanto si dovrà fare domani nella certezza che "lo seguiranno gli strati della classe operaia che in marzo non erano ancora con noi" (89).

È vero che la redazione della rivista teorica del partito precisò di non condividere "molte delle conclusioni dell'autore"; ma, nello stesso torno di tempo, le Tesi ufficiali sull'azione di Marzo statuirono come criterio valido per ogni situazione che, "per assolvere il suo compito storico, il VKPD deve attenersi alla linea di offensiva rivoluzionaria alla base dell'azione di marzo, e proseguire deciso e sicuro su questa via", mentre le Tesi sulla tattica dell'Internazionale comunista formulate dalla Zentrale in vista del III Congresso mondiale (90) sostenevano che, nel "periodo di transizione" in cui si era trovato il movimento comunista "ogni azione che non porti al pieno obiettivo della conquista del potere (zum vollen Ziel der Machteroberung), permette al nemico di trincerarsi più saldamente, di assicurarsi nuove forze, e di minacciare con maggiori energie le posizioni già conquistate", cosicché "una legge tattica fondamentale per la rivoluzione è di passare dalla difensiva all'offensiva e tenere costantemente viva l'attività della classe operaia" - il che equivaleva a dire in forma più sottile la stessa cosa, cioè a prendere la verità sacrosanta che il partito è all'attacco contro la società borghese anche quando non è materialmente ancora in grado di afferrarla alla gola e non cessa di preparare la classe operaia a quello sbocco anche quando la sua parola è condannata a non raggiungerne che un'avanguardia isolata, e stravolgerla nella controverità sia di una classe che, in un cammino uniformemente ascendente, via via si dilata e si rafforza, sia di un partito che di pari passo la sorregge e la sprona tenendola in "costante attività" (91) e sviluppandosi a sua volta in tutta la varietà delle sue articolazioni (92).

Certo, in questi scritti, specialmente dei più equilibrati teorici del "nuovo corso", come Thalheimer, non mancano le osservazioni pertinenti, i rilievi ben intonati alle esigenze della lotta rivoluzionaria, le affermazioni incontestabili: pur così critico del modo di intervento del partito nelle battaglie di marzo, lo stesso Lenin considererà un passo avanti sulla difficile via della genesi di un "partito d'azione" il fatto di non avere eluso, pur fra mille errori, le responsabilità e quindi anche i pericoli di una congiuntura storica non voluta né prevista, ma coinvolgente grandi masse proletarie decise a far pagare cara la tracotanza del nemico. Ma appunto perché la reazione comunista era stata sana, e il cammino imboccato puntava nella direzione giusta, fu sull'orgia di velleitarismi autocompiaciuti e di teorizzazioni tanto pompose quanto approssimative o cervellotiche a cui quell'esperienza aveva indotto la direzione del partito, che si appuntarono gli occhi dei dirigenti dell'Internazionale e, liquidato l'episodio Levi, la frusta che, come ebbe ad osservare Radek, solo qualche mese prima si sarebbe abbattuta sul "pericolo di destra in seno al Comintern", si abbatté invece con particolare durezza sul pericolo di falsa sinistra. Ma proseguiamo col racconto dei fatti.

Il 4/IV l'EKKI pubblica la già citata risoluzione - tardiva come, in questo periodo, tutti i suoi interventi - sulle dimissioni di cinque membri della Zentrale, insoddisfatti "per il comportamento dell'Esecutivo nella gestione della scissione del Partito socialista italiano". Vi si legge: "I veri motivi delle dimissioni del compagno Levi e del suo gruppo dalla Centrale del VKPD sono forniti non dalla questione italiana, ma da tendenze opportunistiche nei riguardi dei problemi tedeschi ed internazionali" e: "Nel periodo apertosi in Germania con le recenti lotte di marzo non saranno più determinanti per le divergenze di corrente i punti di vista più o meno meditati sulla questione del partito italiano, ma bensì la presa di posizione di fronte ai problemi della lotta di massa rivoluzionaria appena combattuta a fondo e ancora una volta incombente" (93).

Il 15, la Zentrale, con risoluzione pubblicata l'indomani dalla Rote Fahne, decide (provvedimento riconfermato il 5-7/V) di espellere Levi, chiedendogli di deporre anche il mandato parlamentare, non per il fatto di non condividere la linea generale dettata al partito durante e dopo l'azione di marzo, ma per aver "rotto la disciplina rivoluzionaria" pubblicando un opuscolo contenente una serie di affermazioni inesatte e di gravi accuse alla direzione del partito e a rappresentanti dell'Internazionale, nell'atto stesso in cui la lotta divampava ancora in varie località della Germania e una dura repressione si scatenava contro migliaia di combattenti. Ciò non significava negare il diritto alla critica "prima e dopo azioni condotte dal partito. La critica sul terreno della lotta e su quello della piena solidarietà nella lotta è una necessità vitale per il partito, e un dovere rivoluzionario. Tuttavia, l'atteggiamento di Levi non è di critica sul terreno del partito e della lotta, ma è di aperto sostegno al nemico mentre il partito è esposto a gravi persecuzioni; non equivale a rafforzare il partito, ma a disgregarlo e distruggerlo".

Coincidenza curiosa: lo stesso giorno Lenin risponde a Levi, e per suo tramite alla Zetkin, deplorando sia l'uscita dal CC dopo la riunione del 22-24 febbraio, sia, e a maggior ragione, il proposito di Levi di scrivere un opuscolo sull'azione di marzo (su cui dice di non aver "letto assolutamente nulla") e così "approfondire il contrasto" nel momento in cui i "quadri provati" sono "così pochi" e occorre - abbia o no il rappresentante dell'Esecutivo "difeso una tattica sciocca, troppo di sinistra" - "fare tutto il possibile" per evitare irreparabili rotture. La lettera è doppiamente patetica: chiede a compagni ai quali Lenin si sente per taluni aspetti particolarmente vicino quella pazienza, quella tolleranza e quel senso del limite che essi si guardavano bene dall'avere; reca nuova conferma del ritardo o dell'approssimazione con cui giungevano all'IC le notizie anche più scarne sugli sviluppi del movimento operaio in Europa.

Ancora il 17/IV, otto militanti - Brass, Däumig, Geyer, Hoffmann, Zetkin, Eckert, Malzahn, Paul Neumann - pubblicano nella Rote Fahne una dichiarazione di aperta solidarietà con Levi, accusando la Zentrale di avere prima "abbandonato la chiara linea dei principi fondamentali della III Internazionale" e precipitato "il partito, con il lancio di un'azione putschista, nel più grave disorientamento", e di cercare ora di sottrarsi alla "critica aperta e senza riserve che è una necessità vitale del partito e un dovere dei compagni", creando un "caso Levi". Le idee di quest'ultimo sull'azione di marzo e sul comportamento della Zentrale - vi si scrive - corrispondono in pieno ai principi dell'IC e ai deliberati del II Congresso; il problema non è di scegliere fra azione e passivismo, ma di svolgere un'azione rivoluzionaria sulla base dei principi dell'IC, o ricadere nel putschismo bakuninista; chiarire le divergenze è impossibile senza un congresso straordinario del partito, che i firmatari invocano (94).

Il 29/IV, l'EKKI precisa in una dichiarazione firmata anche da Lenin e Trotsky, che "il famoso opuscolo di Paul Levi" è stato unanimemente giudicato un tradimento: "anche se Paul Levi avesse ragione al 90 per cento nelle proprie opinioni sull'offensiva di marzo, sarebbe ugualmente passibile di espulsione dal partito per l'inaudita violazione della disciplina da lui compiuta e perché, con il proprio modo di agire, in circostanze come le attuali, ha vibrato una pugnalata nella schiena al partito" (95). Data però la grande importanza delle divergenze di valutazione sull'azione di marzo, l'EKKI decide di sottoporre la questione al prossimo congresso dell'IC, chiede ai compagni tedeschi di provvedere affinché tutto il materiale sia messo a disposizione dei delegati, e "giudica assoluto dovere di tutti i membri del VKPD, nonostante tutte le loro divergenze, affrontare a ranghi serrati e mantenendo la più rigorosa disciplina la lotta spietata contro la reazione che ora sta infuriando".

Come, al III Congresso, la questione tedesca in generale e quella della teoria dell'offensiva in particolare furono affrontate e risolte, condannando le deviazioni di pseudo-sinistra non meno di quelle (assai più gravi) di destra, e valorizzando il poco o tanto di buono implicito nella tendenza al "dinamismo" dei giovani partiti o delle loro ali di sinistra, si vedrà nel volume successivo. Poiché tuttavia a tale congresso la delegazione italiana - come si è già osservato altrove - "commise effettivi errori in senso infantilista" esprimendo "assai male" la divergenza teorica allora sorta fra sinistra italiana e maggioranza dell'IC (96) ("stonatura, questa, dovuta alla grande capacità d'improvvisare" di Umberto Terracini), col risultato di far ricadere sulla corrente che dirigeva il partito l'accusa di blanquismo, putschismo, "pose estetiche nel risolvere i problemi di azione marxista", settarismo e disprezzo per obiettivi "volgari" come la "conquista della maggioranza della classe", ecc., e poiché - a parte i doveri di lealtà storiografica che ci spingono a far chiarezza in tutta la vicenda - i problemi allora sollevati sulla natura, la composizione e il modo di agire del partito, e sul rapporto tra i diversi momenti di quella che storicamente non cessa mai di essere l'offensiva rivoluzionaria contro il potere borghese, rivestono tuttora importanza eccezionale, conviene anticipare i tempi per chiarire subito, testi alla mano, la posizione da noi assunta nei loro riguardi prima ancora che il congresso mondiale iniziasse ad affrontarli.

Se infatti abbiamo più volte ricordato che le Tesi di Roma del marzo 1922 rappresentarono "la felice liquidazione teorica e politica di ogni pericolo di infantilismo di sinistra nel partito italiano" (97), in quanto, lungi dal teorizzare l'offensiva ad ogni costo, discutevano precipuamente delle forme tattiche di azione rivoluzionaria in fase di offensiva controrivoluzionaria senza per questo cadere in un atteggiamento disfattista di pura "difesa" (pronta a scivolare - come insegna tutta la storia del movimento operaio - nella genuflessione proletaria dinanzi all'ordine costituito), possiamo qui anticipare che la risposta all'accusa d'infantilismo, e una delle più complete disamine dei problemi tattici sollevati dal terzo Congresso dell'Internazionale comunista, fu data dalla nostra corrente prima che quest'ultimo si riunisse, e la si trova nell'articolo Partito e azione di classe, di Amadeo Bordiga, apparso nel nr. IV, 31 maggio 1921, della Rassegna comunista.

5. - Il PCd'I e le questioni tattiche connesse alle vicende del movimento comunista internazionale nel primo semestre 1921.

L'articolo completa quello, intitolato Partito e classe, che lo stesso Bordiga aveva redatto per il numero precedente della rivista teorica del PCd'I e in cui il concetto, già svolto nelle tesi del II Congresso, secondo cui "il partito non può comprendere nelle proprie file che una parte della classe - mai tutta - forse mai neppure la maggioranza", era ulteriormente precisato nel senso "che non si potrebbe nemmeno parlare di classe quando non esista una minoranza di questa classe tendente ad organizzarsi in partito politico" e che "la vera e l'unica concezione rivoluzionaria dell'azione di classe sta nella delega della direzione di essa al partito" (98). Analogamente, nel secondo articolo, assodato che l'esistenza di una classe "dotata di movimento storico" presuppone l'esistenza del "partito che di quel movimento e dei suoi sbocchi abbia precisa coscienza, che di quel movimento si ponga all'avanguardia nell'azione", si dimostra come non si possa parlare "di vera azione di classe (che cioè sorpassi i limiti degli interessi di categoria o dei problemucci contingenti) ove non si sia in presenza di un'azione di partito", e di qui si passa a considerare le questioni tattiche che lo sviluppo del movimento comunista necessariamente pone e che l'Internazionale è chiamata non soltanto a risolvere, ma a riunire in un "piano generale".

Benché non ci si riferisca esplicitamente a nessuna delle polemiche divampate in seguito alle deviazioni ora di destra ed ora di sinistra del Partito tedesco, e discusse in sede di congresso nel giugno successivo, i richiami alle questioni allora sollevate sono evidenti. Riportiamo i brani più significativi dal punto di vista dei problemi che qui direttamente ci interessano, riunendoli in base a quello di volta in volta esaminato.

Prima questione [i corsivi sono sempre nostri]:

"Assodato che il partito politico è indispensabile organo rivoluzionario; posto fuori discussione, colle risoluzioni teoriche del secondo congresso mondiale [...] che il partito non può essere che una frazione della classe, si pone il problema di sapere più precisamente quale estensione debba avere l'organizzazione del partito, quali rapporti di inquadramento delle masse esso debba realizzare".

È, in sostanza, il problema (intorno al quale ruotò buona parte del III Congresso) del grado, variabile a seconda della situazione lungo il cammino verso l'assalto al potere, sia di consistenza numerica del partito, sia di influenza su strati sempre più vasti della classe, che è necessario raggiungere per rispondere alle pressanti esigenze della lotta rivoluzionaria. La risposta non lascia dubbi e, mentre si colloca sulla stessa linea dei deliberati del successivo III congresso mondiale, precisa assai meglio il senso di quello che Lenin chiama il modo non formale d'intendere la questione della "maggioranza":

"Esiste - o si dice che esista - una tendenza che vorrebbe avere dei 'piccoli partiti' purissimi, che quasi si compiacerebbe di straniarsi dal contatto con le grandi masse, accusandole di poca coscienza e capacità rivoluzionaria. Si critica vivamente questa tendenza, e la si definisce, non sappiamo se con più fondatezza o demagogia, 'opportunismo di sinistra', mentre tal nome andrebbe piuttosto riservato alle correnti che, negando la funzione del partito politico, pretendono possa aversi un vasto inquadramento rivoluzionario delle masse attraverso forme puramente economiche, sindacali, di organizzazione.

Si tratta dunque di vedere un po' più a fondo in questa questione dei rapporti del partito con la massa. Frazione della classe, sta bene, ma come stabilire il valore numerico della frazione? Noi vogliamo qui dire che se vi è una prova di errore volontarista, e quindi di specifico 'opportunismo' (oggimai opportunismo vuol dire eresia) antimarxista, è quella di voler fissare a priori il valore di questo rapporto come una regola di organizzazione, di voler stabilire che il partito comunista debba avere come suoi organizzati o come suoi simpatizzanti un numero di lavoratori che stia al di sopra o al di sotto di una certa frazione della massa proletaria.

Se il processo di formazione dei partiti comunisti, fatto di scissioni e di fusioni, si giudicasse con una regola numerica, cioè quella di tagliare nei partiti troppo numerosi, e di appiccicare per forza aggiunte a quelli troppo piccini, si commetterebbe il più risibile errore, non intendendo come a quel processo debbano presiedere norme qualitative e politiche, e come in grandissima parte esso si elabori nelle ripercussioni dialettiche della storia, sfuggendo ad una legislazione organizzativa che volesse troppo assumere il compito di colare i partiti in uno stampo perché ne uscissero delle dimensioni appropriate e desiderabili.

Quello che si può assumere a base indiscutibile di una simile discussione tattica è che è preferibile che i partiti siano quanto più possibile numerosi, che essi riescano a trascinare intorno a sé gli strati più larghi delle masse. Nessuno esiste tra i comunisti che elevi a principio l'essere pochi e ben rinchiusi nella 'turris eburnea' della purezza. È indiscutibile che la forza numerica del partito, e il fervore del consenso proletario attorno ad esso, sono favorevoli condizioni rivoluzionarie, sono gli indizi sicuri di una maturità di sviluppo delle energie proletarie, e non vi è quindi chi non si auguri che i partiti comunisti progrediscano in questo senso.

Non esiste adunque un rapporto definito e definibile tra gli effettivi del partito e la grande massa dei lavoratori. Assodato che il partito assolve la sua funzione come minoranza di essi, sarebbe bizantinismo indagare se esso debba essere una piccola o una grande minoranza. È certo che allorché lo sviluppo del capitalismo nei suoi contrasti e nei suoi urti interni da cui germinano primieramente le tendenze rivoluzionarie è all'inizio, allorché la rivoluzione appare come una prospettiva lontana, il partito di classe, il partito comunista non può essere che formato da piccoli gruppi di precursori, in possesso di una speciale capacità di intendere le prospettive della storia, e che la parte delle masse che lo comprendono e lo seguono non può essere estesa. Quando invece la crisi rivoluzionaria incalza, rendendosi i rapporti borghesi di produzione sempre più intollerabili, il partito aumenta di numero nei suoi ranghi, e di seguito in mezzo al proletariato.

Se l'epoca attuale è, nella sicura convinzione di tutti i comunisti, epoca rivoluzionaria, ne segue che in tutti i paesi dovremmo avere partiti numerosi e largamente influenti presso i vari strati del proletariato. Ma [è questo il punto nodale, visto che si cominciava a dubitare dell'opportunità di un taglio radicale come quello di Livorno, e a chiedersi come porvi rimedio] ove questo non sia ancora realizzato, pur essendovi inconfutabili prove dell'acutezza della crisi e dell'imminenza del suo precipitare, le cause di questa deficienza sono così complesse che sarebbe enormemente leggero concludere che, se il partito è troppo piccolo e poco influente, occorra artificialmente dilatarlo aggregandogli altri partiti e pezzi di partiti, nelle cui file siano gli elementi che sono collegati alle masse. L 'opportunità di accettare nelle file di questo partito altri elementi organizzati, o per converso quella di escludere da partiti pletorici una parte dei membri, non può discendere da una valutazione aritmetica, da un infantile disappunto statistico".

Sia dunque, una volta per tutte, ben chiaro: la nostra corrente è lontana tanto dall'idealizzazione del partito "necessariamente piccolo", quanto da quella del partito "necessariamente grande"; è per il partito in grado, pur nella enorme varietà delle situazioni possibili, di rispondere ai compiti fondamentali della preparazione rivoluzionaria, e solo ad essi; e di tale capacità vede il presupposto in coefficienti che non possono ridursi al bruto dato numerico dei suoi effettivi - "i numeri - dice Marx - pesano sulla bilancia solo quando sono uniti dalla organizzazione e guidati dalla conoscenza", cioè dal partito come fattore di coscienza e volontà.

Seconda questione: Come fronteggiare le circostanze sfavorevoli nelle quali gli alti e bassi della crisi capitalistica inevitabilmente porranno i partiti comunisti (e durante i quali è inevitabile che una parte notevole delle masse subisca l'antica influenza dei socialtraditori), senza illudersi di poterle eliminare con formule tattiche ed organizzative e senza d'altra parte lasciarsi indurre a pessimistiche conclusioni?

A conclusioni pessimistiche la destra del VKPD era stata indotta dalla constatazione che la crisi rivoluzionaria tanto attesa sembrava allontanarsi nel tempo. A conclusioni opposte la sinistra del VKPD era indotta sia da una valutazione troppo ottimistica della situazione, sia dall'illusione di poter modificare con espedienti tattici il corso oggettivo dei fatti. Era essenziale che in nessuno dei due tranelli cadesse l'Internazionale. Formulato come sopra il problema, l'articolo prosegue:

"Nella ipotesi astratta del continuo sviluppo delle energie rivoluzionarie della massa, il partito va aumentando di continuo le proprie forze numeriche e politiche, cresce in quantità, rimanendo uguale in qualità, in quanto cresce il rapporto dei comunisti rispetto ai proletari. Nella situazione reale del complesso riflettersi sulle disposizioni delle masse dei vari fattori continuamente mutevoli dell'ambiente sociale, il partito comunista, che, se è l'insieme di quelli che meglio della restante massa conoscono ed intendono i caratteri di quello sviluppo, non cessa di essere un effetto di quello sviluppo, non può non subire quelle alternative, e pur agendo costantemente come fattore di accelerazione rivoluzionaria, non può, a mezzo di qualsiasi raffinatezza di metodo, forzare o capovolgere l'essenza fondamentale delle situazioni.

Ma il peggiore di tutti i rimedi che possano servire a riparare ai riflessi sfavorevoli delle situazioni, sarebbe quello di fare periodicamente un processo ai principi teorici e organizzativi su cui si basa il partito, allo scopo di modificare l'estensione della sua zona di contatto con la massa. Nelle situazioni in cui scema la predisposizione rivoluzionaria delle masse, molte volte quello che alcuni definiscono portare il partito verso la massa equivale, snaturando i caratteri del partito, a togliergli proprio quelle qualità che possono farlo servire come un reagente che influisca sulle masse nel senso di far loro riprendere il moto in avanti.

Una volta basati solidamente i partiti comunisti su quelli che sono i risultati di dottrina e di esperienza storica circa i caratteri precisi del processo rivoluzionario, risultati che non possono essere che internazionali, e dare quindi luogo a norme internazionali, si deve ritenere definita la loro fisionomia organizzativa, e si deve intendere che la loro facoltà di attrarre e potenziare le masse sarà in ragione della loro fedeltà ad una serrata disciplina di programma e di organizzazione interna.

Essendo il partito comunista dotato di una coscienza teorica, suffragata dalle esperienze internazionali del movimento, che lo rende preparato alle esigenze della lotta rivoluzionaria, esso ha garanzia, anche se le masse se ne allontanano in parte in certe fasi della sua vita, di averle intorno a sé quando si porranno quei problemi rivoluzionari che non ammettono altra soluzione da quella tracciata dai suoi programmi. Quando le esigenze dell'azione mostreranno che occorre un apparato dirigente centralizzato e disciplinato, il partito comunista, che avrà ispirato a tali criteri la sua costituzione, verrà a porsi alla testa delle masse in movimento".

L'esigenza di rifarsi costantemente ai criteri di "serrata disciplina di programma e di organizzazione interna" e di continuità e coerenza nell'azione indicati più sopra, nasceva da preoccupazioni non solo dottrinarie, ma eminentemente pratiche. Al III Congresso si parlerà con viva preoccupazione del caso di un partito come quello cecoslovacco ingrossatosi nel giro di pochi mesi fino a vantare oltre 400.000 iscritti (più del partito tedesco!) proprio per essere rimasto "semi-centrista" per impostazione teorica e per orientamento pratico, e contraddistintosi per una completa passività o addirittura latitanza nei confronti di manifestazioni pur rilevanti della lotta fra le classi, come il poderoso sciopero del dicembre 1920. E, a prescindere dalle discussioni nel VKPD intorno a Livorno e a tutto il modo d'intendere il rapporto fra partito e masse proprio dei Levi e C., v'era l'esempio recente del partito jugoslavo, forte di un largo seguito almeno elettorale controbilanciato dall'incapacità di raccogliere nel momento decisivo la sfida lanciatagli dalla reazione statale borghese e chiamare alla lotta contro di essa. Esaminando pacatamente la questione in un articolo su Il PC Jugoslavo e la reazione borghese, apparso nel nr. IX, 30 agosto 1921, di Rassegna comunista, a.b. potrà scrivere a questo proposito:

"A noi pare che ciò voglia dire che non è sufficiente per un Partito comunista avere al proprio seguito vaste masse allenate a rispondere ai suoi appelli nell'azione elettorale e sindacale. Il partito non deve solo ricevere dalle masse quello che è certo l'alimento primo e indispensabile della sua funzione; esso deve anche dialetticamente riflettere sulle masse la coscienza e la volontà d'iniziativa nella lotta rivoluzionaria di cui è per natura il serbatoio. Un vasto seguito di adesione popolare conta poco quando manchi la seconda condizione; e perché questa pienamente e progressivamente si realizzi è indispensabile che il consenso della classe lavoratrice coi metodi del Partito avvenga sulla base della chiarezza e dirittura programmatica e organizzativa di questo.

Prima dunque di compiacersi di un vasto seguito tra le masse, bisogna vedere se il partito è in grado di utilizzarlo dando ad esse i termini di una chiara e cosciente visione delle finalità della lotta ed un saldo inquadramento organizzativo non adatto solo all'azione elettorale e sindacale, ma altresì alla battaglia rivoluzionaria".

Purtroppo, la tendenza a poco a poco radicatasi nell'Internazionale di Mosca sarà sempre più quella di subordinare questo secondo aspetto - il più vitale - al primo; peggio ancora, agli espedienti tattici ed organizzativi suscettibili di assicurare al partito, nell'immediato, un "seguito popolare" e un successo contingente. Il brano di Partito e azione di classe continua:

"Ne vogliamo concludere che i criteri che devono servire di base nel giudicare della efficienza dei partiti comunisti devono essere ben diversi da un controllo numerico 'a posteriori' sulle loro forze in rapporto a quelle degli altri partiti che si richiamano al proletariato. Quei criteri non possono consistere che nel definire esattamente le basi teoriche del programma del partito, e la rigida disciplina interna di tutte le sue organizzazioni e dei suoi membri, che assicuri la utilizzazione del lavoro di tutti per il miglior successo della causa rivoluzionaria. Ogni altra forma di intervento nella composizione dei partiti, che non derivi logicamente dalla applicazione precisa di tali norme, non conduce che a risultati illusori, e toglie al partito di classe la sua più grande forza rivoluzionaria, che sta appunto nella continuità dottrinale ed organizzativa di tutta la sua predicazione e la sua opera, nell'aver saputo 'dire prima' come si sarebbe presentato il processo della finale lotta tra le classi, nell'essersi dato quel tipo di organizzazione che ben corrisponde alle esigenze del periodo decisivo.

Questa continuità fu spezzata negli anni di guerra in modo irreparabile dappertutto, e non vi era altro che ricominciare. Ma il sorgere della Internazionale Comunista come forza storica era il concretarsi sulla base di chiarissime decisive esperienze rivoluzionarie di quelle linee su cui il movimento proletario poteva in tutti i paesi riorganizzarsi. Prima condizione di successo rivoluzionario del proletariato mondiale è dunque il pervenire della Internazionale ad una stabilizzazione organizzativa che dia dappertutto alle masse un senso di decisione e di sicurezza, che sappia guadagnarle sapendole anche attendere dove è indispensabile che lo sviluppo della crisi agisca ancora su di esse, dove non è evitabile che esse tornino ancora a certe sperimentazioni degli insidiosi consigli socialdemocratici. Non esistono ricette migliori per uscire da tale necessità".

Ricordate le fondamentali acquisizioni teoriche e tattiche del II Congresso mondiale, il testo allarga la questione con particolare riferimento ai quesiti - rimessi sul tappeto dalla decisione di riaprire in qualche modo la "questione italiana" invitando a Mosca una delegazione del PSI - circa la possibilità di modificare, attenuandoli, i criteri di accettazione nell'IC e nelle sue sezioni nazionali di elementi non ancora completamente guadagnati alle tesi e ai metodi del comunismo rivoluzionario, al fine di assicurarsi maggiori consensi e un seguito più largo fra i proletari.

"Quello che è essenziale è il considerare l'applicazione delle condizioni di ammissione come un atto iniziale costitutivo ed organizzativo della Internazionale, come un'operazione da compiersi una volta per sempre per trarre dal caos in cui era ridotto il movimento politico proletario le forze organizzate ed organizzabili da inquadrare nella nuova Internazionale.

Non si sarà fatto mai abbastanza presto a sistemare in base a tali norme internazionalmente obbligatorie il movimento internazionale, poiché la grande forza, come dicevamo, che deve guidarlo nell'assolvere il suo compito di propulsore delle energie rivoluzionarie, è la dimostrazione di una continuità di pensiero e di azione verso una méta precisa che un giorno apparirà agli occhi delle masse determinando la loro polarizzazione verso il partito di avanguardia, e con ciò le migliori probabilità di vittoria nella rivoluzione.

Se da questa sistemazione primordiale, ma definitiva nel senso organizzativo, del movimento, usciranno in alcuni paesi partiti di apparente scarsa forza numerica, si potrà studiare, e molto utilmente, le cause di tal fatto, ma sarebbe assurdo voler cambiare le norme e ritentare la loro applicazione allo scopo di voler raggiungere un diverso rapporto di forze numeriche del partito con la massa o con altri partiti.

Con ciò non si farebbe che rendere inutile e frustrare tutto il lavoro compiuto nel primo periodo organizzativo, ricominciando da capo e lasciando sussistere l'eventualità di ricominciare ancora altre volte l'opera di preparazione, perdendo così certamente del tempo in luogo di guadagnarlo.

E ciò tanto più nei riflessi internazionali, poiché una simile interpretazione delle regole di organizzazione internazionale, rendendole sempre revocabili, e creando dei precedenti in cui si fosse accettato di 'rifare' i partiti, come dopo un primo tentativo di fusione mal riuscito si liquefa di nuovo il metallo per rifare la statua, toglierebbe ogni autorità e ogni prestigio alle 'condizioni' che la Internazionale pone a partiti e ad individui che vogliono farne parte, procrastinerebbe all'infinito la stabilizzazione dei quadri dell'armata rivoluzionaria, in cui sempre nuovi ufficiali potrebbero aspirare a entrare 'conservando i benefici del grado'.

Non bisogna essere per i partiti grandi o piccoli, non bisogna pretendere che si debba invertire tutta l'impostazione di certi partiti col pretesto che non sono 'partiti di massa'; bisogna esigere che i partiti comunisti si fondino ovunque su salde regole di organizzazione programmatica e tattica in cui si compendino le migliori esperienze della lotta rivoluzionaria internazionalmente acquisite.

Tutto ciò, per quanto difficile sia porlo in evidenza senza lunghissime considerazioni e citazioni difatti tolti dalla vita del movimento proletario, tutto ciò non discende da astratto e sterile desiderio di avere, di vedere partiti puri, perfetti, ortodossi, bensì proprio dalla preoccupazione di raggiungere nel modo più efficiente e sicuro la realizzazione dei compiti rivoluzionari del partito di classe.

Esso non sarà mai tanto sicuramente circondato dalle masse; queste non troveranno mai un così sicuro presidio della loro coscienza classista e della loro potenza, che quando i precedenti del partito avranno segnato una continuità di movimento verso le finalità rivoluzionarie, anche senza e contro le masse stesse nelle ore sfavorevoli.

Le masse non saranno mai guadagnate efficacemente che contro i loro capi opportunisti, il che vuol dire che bisogna guadagnarle sgretolando le trame delle organizzazioni di partito non comuniste che hanno ancora séguito tra esse, e assorbendo gli elementi proletari nei quadri della solida e definita organizzazione del partito comunista. Questo metodo è l'unico di utile rendimento, di certo successo pratico. […]

Alla tattica della Internazionale, ai fondamentali criteri che ne dettano l'applicazione, ai complessi problemi che presenta la pratica, occorre acquisire certe norme che hanno costantemente fatto ottima prova: l'intransigenza assoluta verso partiti anche affini, intesa nei suoi riflessi avvenire, e passando sopra alla considerazione contingente che possa convenire affrettare lo svolgersi di certe situazioni; la disciplina verso gli aderenti, avendo riguardo non solo alla sua esecuzione attuale, ma anche alla precedente azione di essi, con massima diffidenza verso le conversioni; il criterio di considerare individui e gruppi non come posti in ciascun momento dinanzi al diritto di prendere o lasciare una 'ferma' nell'esercito comunista, ma nelle loro responsabilità passate. Tutto ciò, anche quando momentaneamente sembri di richiudere il partito in una cerchia troppo stretta, è, non lusso teorico, ma metodo tattico di sicurissimo rendimento avvenire [...].

Mille esempi dimostrano come stiano male e poco utilmente nei nostri quadri i rivoluzionari dell'ultima ora, quelli cioè che dalle condizioni speciali si lasciavano dettare orientamenti riformistici, e si inducono oggi ad acquisire le fondamentali direttive comuniste perché suggestionati da considerazioni spesso troppo ottimiste sull'imminenza della rivoluzione. Basterà una nuova oscillazione della situazione - e chi può dire nella guerra quante alternative di avanzate e ritirate precederanno la vittoria finale? - perché questi elementi ritornino al loro opportunismo di un tempo guastando il contenuto della nostra organizzazione.

Il movimento internazionale comunista deve essere composto non solo da quelli che sono fermamente convinti della necessità della rivoluzione, che sono disposti a lottare per essa a costo di qualunque sacrificio, ma anche da quelli che sono decisi a muoversi sul terreno rivoluzionario anche se le difficoltà della lotta mostreranno la méta più aspra e meno vicina.

Al momento della crisi rivoluzionaria acuta, operando sulla salda base della nostra organizzazione internazionale, noi polarizzeremo attorno a noi gli elementi che oggi sono ancora esitanti, e avremo ragione dei partiti socialdemocratici di varie sfumature. Se le possibilità rivoluzionarie saranno meno immediate noi non correremo nemmeno per un momento il rischio di essere distratti dal tessere la nostra trama di preparazione e ripiegare alla soluzione di altri problemi contingenti, da cui guadagnerebbe la sola borghesia".

Ed eccoci infine al problema tattico reso di scottante attualità dagli eventi tedeschi, quello della scelta del momento in cui lanciare parole d'ordine per l'azione, sia essa secondaria o finale. La risposta si tiene lontana dagli assurdi tanto della teoria dell'offensiva elevata a principio sovrastorico, quanto dalla tesi, tipica della destra, secondo cui il proletariato dovrebbe limitare "l'attacco" violento ed armato alla "grande journée" della rivoluzione concepita come atto unico:

"Oggi si discute appassionatamente sulla "tattica offensiva" dei partiti comunisti, consistente nel possedere un certo inquadramento ed armamento degli aderenti e dei più vicini seguaci, e manovrarlo al momento opportuno in azioni di attacco destinate a trascinare le masse in un movimento generale, od anche a compiere azioni dimostrative e rispondere alle offensive reazionarie della borghesia. Anche qui si configurano di solito due opposte valutazioni del problema di cui probabilmente nessun comunista assumerebbe la paternità.

Nessuno che sia comunista può affacciare pregiudiziali contro l'impiego dell'azione armata, delle rappresaglie, anche del terrore, e negare che il partito comunista debba essere il diretto gerente di queste forme di azione che esigono disciplina ed organizzazione. Così pure è bambinesca quella concezione secondo la quale l'uso della violenza e le azioni armate sono riservate alla "grande giornata" in cui sarà sferrata la lotta suprema per la conquista del potere. È nella realtà dello sviluppo rivoluzionario che urti sanguinosi tra il proletariato e la borghesia avvengano prima della lotta finale, non solo nel senso che potrà trattarsi di tentativi proletari non coronati dal successo, ma nel senso di inevitabili scontri parziali e transitori tra gruppi di proletari spinti ad insorgere e le forze delle difesa borghese, ed anche tra manipoli delle "guardie bianche" borghesi e lavoratori da esse attaccati e provocati. Né è giusto dire [come i Levi!] che i partiti comunisti debbano sconfessare tali azioni e riservare ogni sforzo per un certo momento finale, poiché per ogni lotta è necessario un allenamento ed un periodo di istruzione, e la capacità rivoluzionaria di inquadramento del partito deve cominciare a formarsi ed a saggiarsi in queste preliminari azioni.

Darebbe però a queste considerazioni una valutazione errata chi concepisse senz'altro l'azione del partito politico di classe come quella di uno stato maggiore dalla volontà del quale unicamente dipenda lo spostamento delle forze armate e il loro impiego; che si costruisse la prospettiva tattica immaginaria del partito che, dopo essersi fatta una rete militare, ad un certo momento, pensandola abbastanza sviluppata, sferri un attacco credendo di potere con quelle forze battere le forze difensive borghesi.

L'azione offensiva del partito non è concepibile che allorquando la realtà delle situazioni economiche e sociali pone le masse in movimento per la soluzione di problemi che direttamente interessano la loro sorte, e la interessano sulla più grande estensione, creando un sommovimento, per lo sviluppo del quale nel vero senso rivoluzionario è indispensabile l'intervento del partito che ne fissi chiaramente gli obiettivi generali, che lo inquadri in una razionale azione bene organizzata anche come tecnica militare [proprio ciò che era mancato, durante la Märzaktion, da parte del VKPD]. Anche in movimenti parziali delle masse è indubbio che la preparazione rivoluzionaria del partito può cominciare a tradursi in azioni preordinate, come indispensabile mezzo tattico è la rappresaglia dinanzi al terrore dei bianchi che tende a dare al proletariato la sensazione di essere definitivamente più debole dell'avversario, e farlo desistere dalla preparazione rivoluzionaria. Ma credere che col gioco di queste forze, sia pure egregiamente e largamente organizzate, si possano spostare le situazioni e determinare, da un certo ristagno, la messa in moto della lotta generale rivoluzionaria [appunto l'illusione della Centrale tedesca in marzo], questa è ancora una concezione volontarista che non può e non deve trovar posto nei metodi della Internazionale marxista.

Non si creano né i partiti né le rivoluzioni. Si dirigono i partiti e le rivoluzioni, nella unificazione delle utili esperienze rivoluzionarie internazionali, allo scopo di assicurare i migliori coefficienti di vittoria del proletariato nella battaglia che è l'immancabile sbocco dell'epoca storica che viviamo. A questo ci pare di dover concludere. E i criteri fondamentali direttivi dell'azione delle masse, che si estrinsecano nelle norme di organizzazione e di tattica che l'Internazionale deve fissare per tutti i partiti aderenti, non possono raggiungere un limite illusorio di manipolazione diretta di partiti con tutte le dimensioni e caratteristiche adatte per garantire la rivoluzione, ma debbono ispirarsi alle considerazioni della dialettica marxista basandosi soprattutto sulla chiarezza e omogeneità programmatica da un lato, sulla disciplina accentratrice tattica dall'altro.

Due ci sembrano le degenerazioni 'opportuniste' sulla buona via. Quella di dedurre la natura e i caratteri del partito dalla valutazione della possibilità o meno, allo stato delle cose, di aggruppare forze notevoli - ossia farsi dettare dalle situazioni le norme organizzative del partito per dare al partito stesso dall'esterno una costituzione diversa da quella cui lo ha condotto la situazione - l'altra di credere che un partito purché sia numeroso e giunga ad avere una preparazione militare possa determinare con ordini di attacco le situazioni rivoluzionarie - ossia pretendere di creare le situazioni storiche con la volontà del partito.

Sia quella che si vuole la deviazione di 'sinistra' o di 'destra' è certo che entrambe si allontanano dalla sana via marxista. Nel primo caso si rinunzia a quello che può e deve essere il legittimo intervento di una sistemazione internazionale del movimento, a quel tanto di influenza della nostra volontà - derivato da una precisa coscienza ed esperienza storica - sullo svolgimento del processo rivoluzionario, che è possibile e doveroso realizzare; nell'altro si attribuiscono alla volontà delle minoranze influenze eccessive ed irreali, rischiando di creare soltanto delle disastrose sconfitte.

I rivoluzionari comunisti devono invece essere quelli che, temprati collettivamente dalle esperienze della lotta contro le degenerazioni del movimento del proletariato, credono fermamente nella rivoluzione e vogliono fermamente la rivoluzione, ma non col credito e col desiderio che si ha di conseguire il saldo di un pagamento, esposti a cedere alla disperazione e alla sfiducia se passa un giorno dalla scadenza della cambiale".

Di là dalle vicissitudini contingenti di questo o quel congresso, è qui riassunto il contributo della Sinistra comunista, nel 1921, alla soluzione dei gravi problemi tattici da cui il movimento mondiale era (e sarà ancora) assillato. Polemizzando con un autorevole collaboratore della rivista viennese Kommunismus, il quale spiegava l'esito giudicato deludente della partecipazione del PCd'I alle elezioni politiche del maggio '21, oltre che con la sua derivazione dalla Frazione astensionista, con la "base puramente teoretica" sulla quale, a suo parere, esso era sorto (nel senso che "la questione dell'espulsione dei riformisti allo scopo di attuare le condizioni di ammissione alla III Internazionale era allora realmente teoretica sotto molti aspetti, specialmente per le masse"), la Rassegna comunista nel suo nr. XIII del 15 novembre '21 replicava:

"Ci pare veramente singolare che il compagno Z. possa ritenere 'teorica' la questione dell'espulsione dei riformisti al momento della nostra separazione quando egli sa meglio di ogni altro che la presenza dei riformisti aveva decisamente contribuito all'insuccesso del movimento del settembre precedente per l'occupazione delle fabbriche. Che non si trattasse di una questione puramente teorica, bensì di somma importanza pratica, coinvolgente tutto l'avvenire del movimento proletario in Italia, e che come tale fosse sentita anche dalle masse, è provato tra l'altro dall'asprezza del dibattito sorto in seno al PS intorno all'espulsione dei riformisti durante il periodo preparatorio al Congresso di Livorno. Noi potremo aver commesso degli errori; per esempio, quello di esserci orientati troppo tardi e dapprima senza sufficiente determinazione verso il distacco, per cui poté parere che il distacco stesso fosse solo conseguenza delle deliberazioni del Congresso di Mosca [...]; altri certamente ne commettiamo attualmente e ne commetteremo in avvenire; ma ci pare che facciamo quanto sta in noi per dare al movimento una base non 'puramente teorica' ma realistica, che possa metterci in grado - e i buoni auspici non mancano - di appagare i voti fraternamente espressi dal compagno Z. sullo sviluppo e incremento del nostro Partito".

Che anche le posizioni sviluppate nell'articolo citato più sopra non fossero soltanto dottrinali, ma riflettessero una precisa e coerente linea di azione pratica seguita dal partito in Italia e ugualmente lontana dalla faciloneria di pseudosinistra e dal pavido e legalitario codismo di destra, risulterà dal capitolo che segue.

Note

(1) La scissione italiana e la politica internazionale: La crisi nella centrale del Partito comunista tedesco, ne Il Comunista del 6/III/1921.

(2) Cfr. in particolare K. Radek, Die Krise in der VKPD, 15/III/1921, nel nr. III di Die Internationale. Una traduzione un po' troppo libera in L'Ordine Nuovo del 1° maggio.

(3) Così in una nota de Il Comunista del 13/II/1921, intitolata La nostra scissione e il Partito comunista tedesco.

(4) Si veda, per tutta questa parte, G. Sanna, La tragica liquidazione della guerra mondiale e il movimento comunista in Germania, nei nr. I del 30/III/1921 di Rassegna comunista, anno I.

(5) La situazione veniva cosi ad assumere tonalità paradossali. I dirigenti tedeschi erano accusati di fare entro il partito quello che rimproveravano a Mosca di perpetrare a danno del partito: essi, che chiedevano più "democrazia", si vedevano bollati come "autoritari" affetti da burocratismo.

(6) In un discorso su La situazione nell'Internazionale comunista al X Congresso del PC(b)R, riprodotto nel nr. XVI della rivista Die Kommunistische Internationale (Cfr. anche L'Ordine Nuovo del 16/IV/1921).

(7) Così Bremer (uno dei tanti pseudonimi di Radek, in questo caso ispiratore con Levi della "lettera aperta") in Die Bildung der einheitlichen proletarischen Kampffront, nr. I e II/1921 della rivista teorica del VKPD Die Internationale.

(8) Riprodotti in M.L. Goldbach, Karl Radek und die deutschsowjetischen Beziehungen, 1918-1923, Francoforte s.M., 1973. Per la Germania era presente K. Geyer.

(9) Zinoviev ne vedeva un segno nel "parlamentarismo opportunistico" invalso di recente nel VKPD; Bucharin, nella tendenza a scambiare per semplici "divergenze di opinione" con i socialdemocratici quelli che erano in realtà antagonismi da "guerra civile".

(10) Al V Congresso dell'Internazionale, luglio 1924: cfr. Protokoll des V. Kongresses der Kommunistischen Internationale, Amburgo, 1924, pp. 468.

(11) Lenin non perdeva d'occhio (e lo dice nella lettera del 16.IV.1921 alla Zetkin e a Levi: Opere complete, XLV, pp. 95-96) neppure i "sinistri" di... casa sua, come un Bucharin che aveva cominciato l'anno scrivendo per il nr. XV di Die Kommunistische Internationale un articolo significativamente intitolato La tattica offensiva e che si preparava a criticare temporaneamente "da sinistra" la NEP; o come un Béla Kun che si faceva veicolo in Europa di una "tattica sciocca, troppo di sinistra", come quella di marzo (vedi oltre) in Germania.

(12) "Nella maggior parte dei partiti legali dell'Occidente [...] manca il lavoro quotidiano (il lavoro rivoluzionario) di ogni membro del partito. Ecco il male fondamentale [e si noti, a riprova di una nostra antica tesi, come questa malattia congenita sia fatta risalire alle abitudini contratte nella legalità democratica]. Cambiare questo stato di cose: ecco qual è la maggiore difficoltà. E questo è l'essenziale". (Lettera a Kuusinen, 10.VI.1921, in Opere complete, XLII, p. 296).

(13) Nella stessa lettera del 16.IV.1921, tanto spesso citata a codificazione (per omnia saecula saeculorum e per qualunque possibile uso) dell'invio a destra e a manca di proposte di azioni comuni, Lenin ammette di saper poco o nulla della situazione in Germania. E ha del drammatico il suo appello a Zinoviev affinché si crei un "Ufficio per la corretta raccolta e scelta di dati sul movimento operaio internazionale", senza di che "non abbiamo né occhi, né orecchi, né braccia per partecipare" a questo movimento "e lo facciamo in modo fortuito, perché dipendiamo (quanto all'informazione) da chi è più vicino, da chi abbiamo sottomano, da chi per caso ha letto, per caso è venuto da noi, per caso ha raccontato, ecc.". (Lettera a G.E. Zinoviev e incarico al Segretario, 13.VIII.1921, in Opere etc., XLII, p. 314).

(14) M. Hajek, Storia dell'Internazionale Comunista (1924-1935). Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 7-12.

(15) Al congresso di Jena, nell'agosto successivo, E. Meyer, pur rivendicando il significato della tattica della lettera aperta, osserverà che questa era stata lanciata dagli organi direttivi del partito senza che le masse da un lato e il partito stesso dall'altro vi fossero stati in alcun modo preparati, per cui essa era apparsa o come una manovra di accostamento all'opportunismo socialdemocratico, o come un ripiegamento del partito su una specie di programma minimo a sfondo puramente rivendicativo; d'altra parte, giunta come una bomba, l'Offene Brief non era stata seguita da un'azione coerente sul piano pratico; rimase un gesto essenzialmente propagandistico, un puro e semplice appello, per di più rivolto ai vertici anziché alla base dei partiti operai e delle organizzazioni sindacali. Cfr. Bericht über die Verhandlungen des 2. Parteikongresses der KPD... abgehalten in Jena vom 21. bis 26. August 1921, pp. 215-216.

(16) Nei paragrafo VI si precisa, del resto: "Dato che nell'Europa occidentale e in America, dove le masse operaie sono organizzate in sindacati e in partiti politici, e dove, di conseguenza, non si può per ora contare su movimenti spontanei che in rarissimi casi, i partiti comunisti, avvalendosi di tutta la loro influenza nei sindacati e aumentando la loro pressione sugli altri partiti che si appoggiano sulle masse lavoratrici, devono tendere ad ottenere lo scatenamento generale della lotta per gli interessi immediati del proletariato; e, qualora i partiti non comunisti siano trascinati nella lotta, il compito dei comunisti consiste nel preparare in anticipo le masse operaie a un possibile tradimento da parte dei partiti non comunisti nel corso della lotta, e nei tendere a forzare il più possibile la situazione per essere in grado di continuare la lotta anche senza gli altri partiti. (Cfr. la Lettera aperta del VKPD, che può servire come modello per introdurre determinate azioni)".

(17) Osservazioni sui progetti di tesi sulla tattica per il III Congresso dell'IC - Lettera a G. E. Zinoviev (in Opere complete, XLII, pp. 299).

(18) "Ho visto la 'Lettera aperta' e considero la sua tattica assolutamente giusta [...] Considero [invece] errata la vostra tattica nei confronti di Serrati - scrive Lenin nella citata lettera alla Zetkin (Opere etc., XLV, pp. 95-96) - Ogni difesa o anche semidifesa di Serrati è un errore". Il verdetto definitivo su Levi e C. si avrà, da parte di Lenin e non solo sul piano disciplinare, in Note di un pubblicista, febbraio 1922, in Opere etc., XXXIII, pp. 186-190.

(19) Cfr. Una lettera inedite di Clara Zetkin, in La critica sociale, nr. 7 del 5/4/71.

(20) Per i viaggi di Serrati in Germania alla ricerca di alleati o almeno di giudici comprensivi, cfr. T. Detti, Serrati e la formazione del PCI, Roma 1972, pp. 56-60.

(21) Curiosi, questi paladini del necessario consenso delle grandi masse ad ogni mossa del partito! Da un lato, sono pronti ad accettare i tempi necessariamente lunghi della libera persuasione di tutti i proletari sulla bontà dell'operato del partito; dall'altro, per controbattere le critiche rivolte ai centristi circa, per esempio, il loro comportamento durante l'occupazione delle fabbriche, risolvono con allegra scioltezza il problema, consolandosi col dire, come appunto la Zetkin: "Se le masse fossero state veramente animate da volontà rivoluzionaria, in quella situazione se ne sarebbero infischiate delle decisioni dei loro leader politici e sindacali titubanti e si sarebbero lanciate nella lotta politica al di sopra delle loro teste". (Cfr. il Protokoll des III. Kongresses etc., Amburgo, 1921, pp. 278 sgg., 282 sgg.). Analogamente, con tutto il loro attaccamento alle masse, non riescono ad immaginare altro modo di mantenere il contatto con esse che quello del piccolo sotterfugio, della manovretta in combutta coi vertici, della lustratina di stivali.

(22) Cfr. PauI Levi, Wir und die Exekutive, (II), nel nr. 6/II/1921 della Rote Fahne.

(23) La versione inglese integrale del rapporto si legge nel cit. The Comintern: Historical Highlights, pp. 275-282.

(24) Un apprezzamento non molto diverso sarà formulato dal sempre imprevedibile Radek nel corso di una successiva riunione della Zentrale (i cui verbali si leggono nello stesso volume citato più sopra), quando esclamerà che sarebbe stata un'illusione credere ormai di possedere, in Germania e in Italia, dei partiti veramente comunisti: oh, ci correva!

(25) Come la lettera fosse capitata in quelle mani, non si seppe mai. Negli ambienti tedeschi "di sinistra", comunque, simili "fughe" erano piuttosto la regola che l'eccezione, e avevano quasi sempre l'aria di essere volute, o almeno favorite, dalle loro "vittime".

(26) La lettera fu poi integralmente riprodotta dalla Rote Fahne il 2/II.

(27) Nel suo rapporto a Mosca, questi aveva già scritto: "Dovremo passare sul cadavere politico di Serrati per avere lo scalpo di Turati". (Cfr. Historical Highlights, cit., p. 290), concetto che la sua mozione ribadiva.

(28) Paragrafo I (Sulla scissione in Italia) della risoluzione Sull'azione e l'organizzazione dell'Internazionale comunista: un cenno agli altri due paragrafi un po' oltre.

(29) Si noti come i due siano posti sullo stesso piano, in quanto "gruppi", non in quanto Partito l'uno e gruppo o frazione l'altro.

(30) Basti qui citare le due puntate di Wir und die Exekutive" apparse nella Rote Fahne del 5 e 6/II e, fra gli interventi, quello ad una riunione di funzionari del partito a Berlino il 6/II (ivi, 10/II), nella quale egli ribadiva la tesi già sostenuta al Reichstag il 2 febbraio, secondo cui "non accade più oggi che potenze imperialistiche affrontino potenze imperialistiche, ma sono le nazioni oppresse dei mondo intero ad affrontare gli oppressori capeggiati dagli Stati dell'Intesa", e sostenne, scontrandosi in vivaci opposizioni, che "era tempo che gli oppressi di tutti i paesi" (ivi comprese le nazioni oppresse dai vincitori della guerra, come la Germania) "affrontino in lotta i propri oppressori", anticipando quella che nel 1923, durante l'occupazione francese della Ruhr, diverrà la parola d'ordine "nazionalbolscevica" del VKPD in una delle sue svolte a destra. Nell'articolo del 5 e 6 citato più sopra, si dice esplicitamente che la scissione in Italia sarebbe dovuta avvenire col gruppo Turati, non con i serratiani, per trattenere i quali sarebbe bastato introdurre nella mozione di Imola alcune "concessioni di pura forma". Un'ampia documentazione della polemica interna del VKPD si trova nell'articolo di A. Bordiga, I dibattiti fra il PC unificato di Germania e il Comitato esecutivo della III Internazionale, apparso nel nr. I, 30/III/1921, di Rassegna Comunista.

(31) Di Radek, cfr. soprattutto Die Spaltung der italianischen sozialistischen Partei (firmato P.B.) nella Rote Fahne del 26 e 27/I; di Kabakčev, Die Spaltung in der italianischen sozialistischen Partei, in Die Internationale, anno III, nr. 1, 31/I/1921, e Die Lage in Italien, nei nr. 26-27-28 febbr. della Rote Fahne. Si veda anche l'articolo di A. Thalheimer, Neue Aufgaben der Partei, nella Rote Fahne del 18-19-20/II, in cui si passano in rassegna tutte le questioni controverse nel partito tedesco, e si sostiene la necessità di correggere la risoluzione del 1° febbraio sulla scissione italiana.

(32) Si vedano le risoluzioni - fortemente critiche verso la Zentrale - di questo Aktionsausschuss nel nr. 16/II della Rote Fahne.

(33) Cfr. il resoconto nella Rote Fahne del 26/II/21.

(34) La teoria di Levi era che a Livorno si fosse appunto arrivati a "scindere" un partito non solo "già aderente alla III Internazionale", ma già prima separatosi dai riformisti: perché, altrimenti, mezz'anno prima chiamare Serrati alla presidenza del II Congresso? Il nostro parere in merito apparirà più avanti: in Germania, Stöcker osservò giustamente che in Italia "non si trattava di scindere un partito comunista esistente, ma di creano ex-novo". Nell'assemblea dei funzionari di partito a Berlino citata più sopra, Levi aveva anche sostenuto che "le scissioni sono necessarie e possono riuscire di giovamento alla causa. Ma non bisogna prenderne su di sé l'odiosità"; a suo parere, gli operai italiani, nella loro profonda aspirazione all'unità, avrebbero visto come risultato di Livorno "soltanto la scissione", e "la responsabilità di averla provocata" sarebbe ricaduta sull'internazionale comunista. Vedremo più oltre come il PCd'I rispose a questo argomento-standard.

(35) Secondo la Zetkin, nel suo discorso al III Congresso, Ràkosi avrebbe dichiarato esplicitamente a Berlino, reduce da Livorno, che tanto il partito francese, quanto il tedesco, si erano "troppo ingrossati" e urgeva "rimpicciolirli" (Protokoll, cit., p. 289); il che, detto o no in questa forma, conteneva un nocciolo sicuramente giusto, come i fatti non tarderanno a confermare.

(36) Il saluto della nuova Zentrale (in data 27/II) ai compagni italiani, riprodotto dall'Ordine Nuovo il 4/III, dice perciò fra l'altro: "La Centrale del VKPD riconosce nel contegno della frazione comunista al Congresso di Livorno l'unica via possibile per attuare anche in Italia i postulati della Internazionale comunista. Quei proletari che oggi seguono ancora Serrati dovranno in breve riconoscere che solo il PCd'I è il rappresentante della parte del proletariato italiano coscientemente comunista. Invitiamo questi compagni di classe a separarsi dai loro capi, che preferiscono andare con i riformisti e dividersi dall'Internazionale comunista".

(37) Cfr. Die Rote Fahne del 28/II.

(38) Apparsa nella Rote Fahne dell'1/III.

(39) È caratteristico che si sia dovuto aspettare la nomina della nuova Zentrale per dire una parola definitiva sulla questione dello slogan "Alleanza con la Russia sovietica", espellendo i bavaresi Graf e Wolff con la motivazione che il VKPD si rifiuta di additare alla borghesia tedesca in bancarotta una via d'uscita, "fosse pure quella di un'alleanza politica o militare con la Russia dei Soviet", e che tale alleanza sarà possibile solo "dai momento in cui il proletariato tedesco si sarà impadronito del potere". (Cfr. il testo ne L'Ordine Nuovo del 7/III).

(40) Cfr. ibidem, 2/III.

(41) Questo spiega anche perché non sia mai stata possibile non diciamo un'intesa, ma neppure una convergenza temporanea fra la "sinistra" del partito tedesco e quella dei partito italiano.

(41 bis) Significativamente, il Rapporto del CE del PCd'I inviato il 20/V/1921 al CE dell'Internazionale Comunista scriverà al punto 9 (Rapporti Internazionali): "Il nostro Partito ha seguito con interesse lo sviluppo della lotta internazionale rivoluzionaria, e i dibattiti sulla tattica comunista suscitati in larga misura dalla scissione italiana. I comunisti italiani pensano che l'esperienza del fallimento rivoluzionario del partito socialista in Italia debba essere accettata come una lezione di portata internazionale; non si sono affatto rammaricati che la 'questione italiana' sia servita a smascherare, dopo gli opportunisti serratiani, i falsi comunisti di altri Paesi, come Levi e C.".

(42) Voci avverse alla scissione di Livorno si levarono anche dal nascente Partito comunista di Cecoslovacchia, e se ne ebbe una sia pur fuggevole eco al III Congresso mondiale, dove le tendenze centriste serpeggianti in quel partito e inclini a guardare con simpatia piuttosto a Serrati che a Bordiga vennero aspramente denunciate e combattute. Non ci risulta però che, in Italia, di tali voci si sia avuto notizia.

(43) Il testo della risoluzione - di cui riparleremo nel cap. VII - apparve sulla Rote Fahne del 15/IV: il Bureau ristretto dell'EKKI vi era incaricato di rivolgere ai membri del PSI una dettagliata Lettera Aperta con una critica del contegno di quest'ultimo e di pubblicare in quattro lingue il testo dei rapporti di Niccolini e Kabakčev da distribuire prima del congresso ai delegati dei partiti fratelli.

(44) Una traduzione italiana ne L'Ordine Nuovo del 5/V.

(45) Nel nr. XVI, marzo 1921, di Die Kommunistische Internationale.

(46) Cfr. tr. it. in L'Ordine Nuovo del 22/III/1921.

(47) Cfr. Die Rote Fahne del 15/IV e trad. in A. Agosti, La Terza Internazionale, cit., I/2, pp. 352-353.

(48) L'occupazione ebbe inizio il 19. Si noti che, se Hörsing la presentò come un'operazione di polizia diretta contro atti di delinquenza comune, nel piano del ministro degli interni di Prussia, il più celebre socialdemocratico Severing, essa mirava esplicitamente a colpire il partito comunista e, con esso, le avanguardie proletarie accusate di organizzarsi in vista di un putsch di cui il tentativo di far saltare a Berlino la Siegessäule, simbolo delle glorie militari della Germania non soltanto monarchica, il 13/III, sarebbe stato il preludio. Fu lo stesso Severing a decretare l'estensione dello stato di emergenza alla zona di Merseburg e, il 26, a dare istruzioni alla polizia perché non si avviassero trattative con gli operai in armi, specie se avevano occupato fabbriche od altro, e si agisse senza guardare in faccia a nessuno nel ristabilire l'ordine. Si veda, anche per questo aspetto dell'intera vicenda, il volume (tuttavia non tenero verso il VKPD e, meno che mai, verso i lavoratori insorti) di Werner T. Angress, Stilborn Revolution. The Communist Bid for Power. 1921-1923, Princeton, 1963.

(49) Protokoll etc., cit., p. 463. Nel fare il bilancio del "marzo", lo stesso Frölich rivendicherà poi la tesi secondo cui "il partito doveva, con tutto il suo lavoro, promuovere l'inasprimento della situazione": tale era stato, dirà, il giudizio unanime dei componenti il CC alla suddetta riunione. (Cfr. Taktik und Organisation der revolutionären Offensive. Die Lehren der März-Aktion, Berlino, 1921, p. 28) Testimonianze ulteriori in P. Broué, Révolution en Allemagne (1917-1923), Parigi, 1971, pp. 478-479. Non occorre, a questo proposito, tener per buone tutte le rivelazioni, in larga misura scandalistiche, dell'opuscolo socialdemocratico Die Enthüllungen zu den Märzkämpfen etc., Halle, 1922.

(50) Si trattava (ricorderà E. Meyer al congresso di Jena, loc. cit.) di "spezzare il muro di passività delle masse lavoratrici", quasi che a queste, anziché al partito, si dovesse imputare la tendenza a ripiegarsi su se stesse e a chiudersi in una sorta di apatia. L'arroganza di numerosi proclami lanciati ai lavoratori durante l'"azione di marzo" ha in parte radice in questo modo di guardare dall'alto in basso un proletariato di tutto "colpevole" fuorché di... rassegnazione. Nello stesso tempo, aveva così inizio la serie malaugurata di "equivoci" dai quali la Zentrale fu indotta a fare un sol fascio della giusta rivendicazione del militantismo rivoluzionario contro il passivismo dei Levi e C. da un lato e della contrapposizione della offensiva in generale alla difensiva in generale dall'altro, elevando la prima, praticata in qualunque momento e situazione, a principio eterno dei partito e della classe.

(51) Die Schule der revolutionären Strategie - Der III. Kongress der Kommunistischen Internationale, in Die Neue Etappe - Die Weltlage und unsere Aufgaben, Amburgo, 1921, p. 72, come rielaborazione di un discorso tenuto a Mosca immediatamente dopo il III congresso. Considerazioni analoghe sono però già svolte nel breve scritto del 18/IV su Il movimento di marzo in Germania, in The First Five Years, etc., cit., pp. 193-194.

(52) Ancora Trotsky, nella pagina citata sul "movimento di marzo".

(53) Dal 20 marzo entrarono in azione le squadre volanti di Max Hölz e Karl Plättner, specialiste nell'ostacolare i movimenti delle forze dell'ordine e nel proteggere le cittadelle proletarie a colpi di sabotaggi alle ferrovie, di attentati dinamitardi e di imprese terroristiche di varia natura. Non si può certo accusare il VKPD di aver lesinato nell'invio di consiglieri in materia di tecnica militare, da Hugo Eberlein a Béla Kun, là dove la guerriglia infuriava. Il fatto è però che, come narra Max Hölz nella sua autobiografia ("Vom 'Weissen Kreuz' zur Roten Fahne", Berlino, 1929, pp. 172-174), egli cercò disperatamente una guida politica in grado di unificare intorno a direttive comuni le diverse formazioni proletarie, senza mai trovarla. Ed è anche per questo che, nell'ultima fase, il movimento si sbriciolò in un confuso groviglio di azioni locali ad opera di gruppi di ribelli e "terroristi".

(54) Titolo di un articolo nei nr. 4-5-6/IV della Rote Fahne, tuttavia basato sulla constatazione che ciò di cui continuava ad essere vittima la classe operaia tedesca era un'offensiva sistematica della parte avversa, dalla quale bisognava prima di tutto difendersi e così preparare le condizioni oggettive e soggettive di un possente contrattacco in un secondo tempo.

(55) In Die Schule etc., cit., pp. 72-73.

(56) Nel già citato articolo sulla crisi del VKPD, Radek scriveva: "È un fatto che l'azione inaugurata dalla Lettera Aperta per iniziativa del rappresentante dell'Esecutivo non è stata poi condotta con sufficiente energia, in modo abbastanza convincente e concentrico", e ricollegava queste insufficienze al tradizionale passivismo della direzione Levi. Il che era giusto, ma trascurava l'altro aspetto della questione, cioè il fatto che a Levi interessava non tanto "la tattica espressa nella Lettera aperta", quanto la lettera stessa in quanto mano tesa sul piano politico agli altri partiti operai, nel seno della cui Santa Alleanza egli finirà per tornare. "È più facile accettare 21 tesi comuniste - proseguiva Radek -, che portare un passo avanti, praticamente, nella lotta le grandi masse. Questo primo passo il VKPD non l'ha ancora fatto […] Esso non lotta ancora". Ma il problema non era tanto di lottare o no, quanto di battersi sul terreno giusto.

(57) Di queste prediche burbanzose ai lavoratori abbondò tutta la propaganda del Partito in quei giorni: per esempio a Berlino (città che, contro ogni previsione, non diede segni di voler scendere in battaglia) il 24/III: "Lavoratori... Scrollatevi di dosso la vostra apatia! Sbarazzatevi dei vostri capi codardi e traditori, e combattete - o sarete perduti!".

(58) Con il KAPD, sotto il patrocinio di Béla Kun, si erano conclusi accordi di azione comune: in pratica, però, tale era la forza della tradizione, che salvo in rari casi, i due partiti agirono non solo in completa autonomia reciproca, ma molto spesso in concorrenza, aggravando così lo stato di frantumazione e dispersione del movimento.

(59) Su questo aspetto richiamava l'attenzione Trotsky nell'articolo Il movimento rivoluzionario di marzo in Germania (Note personali), (ripubblicato in The First Five Years etc., cit., p. 197) affiancando ai minatori della Vestfalia, come forze trainanti di tutto il movimento, "i disoccupati che, per la natura stessa della loro posizione, non hanno trovato un loro posto nell'equilibrio instabile della repubblica di Ebert e C.". D'altra parte, la riluttanza a prendere in seria considerazione questo vitale settore dell'esercito proletario nel dopoguerra, e i suoi problemi specifici, rimarrà una palla al piede del comunismo tedesco fino a tutto il decennio successivo, e sarà uno dei fattori su cui farà astutamente leva il nazismo nel suo sforzo di dividere la classe lavoratrice e neutralizzarne o, in parte, addirittura conquistarne, una larga fascia, la fascia dei politicamente e socialmente "emarginati".

(60) Un'efficace disamina di ciò che si sarebbe dovuto fare prima di giungere al lancio della parola dello sciopero generale, o nella eventualità di dover interrompere prima l'azione, si trova nel citato rapporto di Trotsky al III Congresso di Mosca, contenuto in Die neue Etappe, cit., pp. 73-75.

(61) Nella cit. lettera a Zinoviev, del 10/VI/1921, Opere complete, XLII, p. 301.

(62) Nelle elezioni del 20 febbraio, 205.000 voti erano andati nel distretto di Halle-Merseburg al VKPD contro 76.000 all'USPD e 27.000 alla SPD. Cfr. F. Knittel, Die Märzkämpfe in Mitteldeutschland 1921, etc., in Zeitschrift für Geschichtswissenschaft, 1956, nr. III, pp. 601-4.

(63) Fra le parole d'ordine lanciate dal partito per lo sciopero generale, come "prima tappa" da raggiungere (la seconda era costituita dalle rivendicazioni della Lettera Aperta e in particolare dallo slogan dell'alleanza con la Russia sovietica) figurava "l'abbattimento del governo" non certo per via parlamentare. Il proclama dell'EKKI si può leggere in Degras, op. cit., tr. it., I, pp. 234-237.

(64) È caratteristico che, mentre il numero di operai arrestati fu elevatissimo, l'unico dirigente comunista imprigionato e processato (ma assolto) sia stato Brandler: altra prova della spontaneità del movimento proletario e dell'inconsistenza delle accuse di complotto, putsch, et...

(65) Per l'eco dell'"Azione di marzo" in Italia, cfr. gli articoli di G. Sanna e di L. Revo rispettivamente nei nr. V e IX del 30 giugno e del 30 agosto di Rassegna Comunista.

(66) Cfr. Broué, op. cit., pp. 488-89.

(67) Unser Weg, etc. Berlino, 1921, pp. 33. Nella mozione proposta dalla Zetkin in sede di riunione della Zentrale il 6-7/IV si accusava la politica seguita dalla direzione di "averci portati in dubbia e pericolosa vicinanza ad assurdi atti individuali di violenza e distruzione, che non erano necessità inderogabili della lotta e neppure sintomi della disperazione di grandi masse, no, ma atti di infantile banditismo romantico, espressione della debolezza di un movimento e non della sua forza, atti che ci allontanano dalle masse invece di legarle a noi" (la risoluzione apparve nella Rote Fahne del 30/IV). Così si faceva un solo fascio di atti puramente dimostrativi (d'altronde l'eccezione, non la regola, nei fatti di marzo 1921) di terrorismo individuale a sfondo anarchico, e di azioni spontanee di difesa armata condotte da gruppi di proletari in scontri diretti con la polizia o in previsione del suo arrivo nei quartieri operai e nelle fabbriche, e li si condannava in blocco in uno spirito ottusamente legalitario.

(68) Unser Weg, etc., p. 39. L'opuscolo non esitava ad accusare la direzione di aver spinto al massacro un reparto dopo l'altro di operai e militanti: Ave, scriveva con crudele sarcasmo alla pag. 34, morituri te salutant!

(69) Più esplicitamente nella Lettera ai comunisti tedeschi, del 14/VIII/1921: "Paul Levi aveva sostanzialmente ragione in una grande parte della sua critica all'azione del marzo 1921 in Germania (certo non aveva ragione quando affermava che questa azione era un 'putsch')" (Opere complete, XXXII, p. 489).

(70) Note di un pubblicista (III, A proposito delle caccia alla volpe, di Levi e di Serrati), fine febbraio 1922, in Opere complete, XXXIII, p. 187.

(71) A sua volta Trotsky: "Il III Congresso ha detto ai comunisti di tutti i paesi: […] Solo un traditore può negare la necessità della offensiva rivoluzionaria; solo uno stolto può ricondurre tutta la strategia rivoluzionaria all'offensiva". (In Die Schule etc., cit. p. 82).

(72) "Aver accettato prematuramente una battaglia generale: ecco la sostanza della Märzaktion. Non era un putsch, ma un errore attenuato dall'eroismo della difesa di centinaia di uomini". E "la nostra conclusione è che non faremo prematuramente la successiva eroica offensiva", cioè la faremo solo dopo aver contribuito a renderla "matura". (Lettera a G.E. Zinoviev, cit., Opere complete, XLII, p. 301).

(73) Discorsi alla riunione dei membri delle delegazioni etc., 11 luglio 1921, ivi, p. 306.

(74) Nella citata Lettera ai comunisti tedeschi, vol. cit., p. 494.

(75) Discorso in difesa della tattica dell'IC, 1 luglio 1921, Opere complete, XXXII, p. 451.

(76) Lettera ai comunisti tedeschi, cit., p. 495.

(77) "Prima della presa del potere e nell'epoca di transizione, il PC può, in circostanze favorevoli, esercitare un'influenza ideologica e politica incontrastata su tutti gli strati proletari e semiproletari della popolazione, ma non può riunirli organizzativamente nelle sue file. Finché il proletariato non avrà conquistato il potere statale, finché il suo dominio non si sarà per sempre consolidato rendendo impossibile ogni restaurazione borghese, esso non comprenderà di regola nella sua organizzazione che una minoranza degli operai". (Tesi del II Congresso sul Ruolo del PC nello rivoluzione proletaria, punto 2).

(78) Discorso in difesa della tattica dell'IC, cit., p. 452.

(79) "È risultato che io avevo torto a proposito di Levi, perché egli ha dimostrato con successo che sulla via del menscevismo si era trovato non per caso, non provvisoriamente, non soltanto 'esagerando' contro il pericolosissimo errore dei 'sinistri', ma per lungo tempo, solidamente e conformemente alla sua propria natura". Nelle già citate Note di un pubblicista, p. 187.

(80) Si ricorderà dal II volume della Storia della Sinistra comunista, (p. 477), come Il Soviet avesse già nel maggio 1920 criticato l'opera della Zentrale tedesca facendo propria la tesi di Béla Kun (applicabile tale e quale, magari anche contro l'opinione del suo autore, all'azione di marzo 1921) che, "sebbene preparare la rivoluzione non voglia dire stare sempre con le armi in mano, tuttavia implica lo stare incessantemente sul terreno della lotta [è in questo senso che si è sempre all'offensiva!], ciò che a sua volta ha per conseguenza la costruzione dell'organizzazione e la disposizione a prendere le armi ad ogni momento. 'Nessuna preparazione di sommosse violente' significa rinunzia alla preparazione". Le famose "azioni parziali" del 1921 non erano altro che le "sommosse violente" di un anno prima: tutte e due, secondo Levi, da escludere...

(81) Was ist das Verbrechen? Die Märzaktion oder die Kritik daran? (Qual è il delitto? L'azione di marzo o la critica ad essa?"), che è la versione letteraria della sua apologia in sede di CC dopo la espulsione e il ricorso in appello.

(82) Vol. II della nostra Storia, pp. 468-9.

(83) Cfr. le citazioni riportate nello stesso volume, p. 468.

(84) Può sembrare, a prima vista, che nel dirigere la sua requisitoria non solo contro la nuova direzione del partito tedesco, ma contro i metodi usati dall'Esecutivo moscovita, Levi si fondi esclusivamente su considerazioni di fatto come "la pressione esercitata sulla Centrale" dai suoi emissari "per indurla a lanciarsi nell'azione immediatamente e ad ogni costo", l'abitudine "di non lavorare mai con la direzione centrale del paese, ma dietro le sue spalle", la tendenza a "non agire altrimenti che come una ceka proiettata al disopra dei confini della Russia", ecc., muovendosi in un campo in cui la critica può a volte essere giustificata anche in bocca ad elementi non solo di destra ma di ultradestra. In realtà c'è in Levi un'insofferenza organica per il partito centralizzato e disciplinato "alla bolscevica", che lo porterà inevitabilmente a trovare il suo ubi consistam nell'Internazionale due e mezzo prima, nella II Internazionale poi.

(85) Si veda più avanti la risposta data fin d'allora a questo metodo, elevato a dignità di principio, dalla nostra corrente nell'articolo Partito e azione di classe del maggio 1921.

(86) La risoluzione critica giustamente la mancanza di preparazione del partito rispetto ad un'azione dagli obiettivi ambiziosi come l'abbattimento del governo, rivendica la necessità di una rigorosa politica d'azione preparata da una lotta tenace per la conquista di un'estesa influenza fra le grandi masse, e ripropone a questo fine la tattica espressa nella Lettera Aperta: non sa però definire né gli obiettivi e le parole d'ordine, né i metodi e i criteri organizzativi, che si sarebbero dovuti adottare in situazioni come quella di marzo, di fronte all'attacco armato della reazione borghese alle posizioni occupate dai lavoratori e in circostanze che esigevano qualcosa di più della semplice resistenza sul piano delle necessità di vita e di lavoro. Nella sua pretesa di realismo e concretezza, la risoluzione non è meno astratta delle Tesi della maggioranza del CC.

(87) Leitsätze über die Märzaktion, in Die Rote Fahne del 10/IV e in Die Internationale, nr. 4/1921, aprile.

(88) "Il ritmo di sviluppo della rivoluzione nei paesi capitalistici è molto più lento che da noi [...]; senza ipotecare l'avvenire non possiamo fare oggi assegnamento su una [sua] accelerazione". Discorso all'assemblea dei militanti dell'organizzazione mosca vita del PCR, in Opere complete, XXXI, p. 424. Per Trotsky, si veda la rielaborazione definitiva del suo discorso in Die neue Etappe. Die Weltlage und unsere Aufgaben, Amburgo 1921. Una potente anticipazione, in Trotsky, è la lettera al CC del partito russo in data 5/VIII/1919, pubblicata nel I volume dei già citati Trotsky Papers, pp. 621-627.

(89) Probleme des Dritten Weltkongresses, in Die Internationale, nr. VII dell'1 giugno, p. 254.

(90) Leitsätze zur Taktik der Kommunistischen Internationale während der Revolution, ibid. pp. 239 e seg. Si noti che, benché il titolo parli di "tattica durante la rivoluzione", le direttive contenute nei testo concernono il "periodo di transizione" in cui - vi si sostiene - mondialmente si è già e in cui si tratta di conquistare con una tattica sempre offensiva sul modello dell'azione di marzo "la guida incontestata della maggioranza della classe operaia". È vero che nell'articolo succitato Maslow, estremizzando le posizioni ufficiali del centro, scrive: "Il periodo di transizione è già la rivoluzione"...

(91) Con il gusto tutto suo delle estrapolazioni "dialettiche" e gli audaci avvicinamenti fra processi solo apparentemente affini, Maslow svilupperà di qui la tesi a lui prediletta della "riproduzione allargata" (anche in senso sociale e politico) "della classe operaia", durante la quale essa "si organizza e spuntano nuovi organi (consigli di fabbrica, partiti comunisti), cellule della nuova società, che si formano già sulle macerie dei vecchio apparato umano e saranno lo scheletro del nuovo e futuro", spezzando gli ostacoli che tendono a ridurla a "riproduzione abbreviata" e facendosi strada finché "la riproduzione allargata non trionfi come legge mondiale". Al congresso di Jena, in agosto, lo stesso Maslow conierà la formula secondo cui l'azione di marzo andava considerata come una "difesa offensiva", nel senso che, pur riconoscendone il carattere difensivo, non si escludeva la possibilità di estenderla ed ampliarla fino a trasformarla in offensiva, e in base a tale prospettiva ci si comportava.

(92) Anche i dirigenti più disposti ad "autocriticarsi" si consolavano poi con l'argomento che, dopo tutto, l'azione di marzo aveva permesso di riconoscere le proprie deficienze e quindi di correggerle, anche a prezzo di laceranti sconfitte. A Trotsky quest'argomento ricordava l'aneddoto di un professore moscovita, che aveva tradotto un enorme volume inglese al solo scopo di far vedere al mondo che l'opera non aveva proprio nessun valore (Protokoll citato del III Congresso, p. 641).

(93) Trad. it. in La terza Internazionale etc., a cura di A. Agosti, cit., II, pp. 352-353.

(94) Lo stesso numero della R.F. reca una dichiarazione di Brass e Geyer del 6/IV a Mosca, in cui - polemizzando con la citata risoluzione dell'EKKI del 4 aprile - essi negano di voler costituire una frazione di destra e, per quanto riguarda il giudizio su Livorno, precisano che "in discussione non era la politica del gruppo di capi centristi intorno a Serrati, ma la tattica dei rappresentanti dell'Esecutivo a Livorno, il cui risultato è che 90.000 proletari appartenenti all'Internazionale e ansiosi di rimanervi hanno seguito questo gruppo invece di aderire al PCd'I".

(95) Cfr. I. Degras, op. cit., tr. it., vol. I, pp. 238-239.

(96) Progetto di Tesi per il III Congresso del PCd'I presentato dalla Sinistra, Lione 1926, parte III, cap. 4, in In difesa della continuità del programma comunista, cit., pag. 116.

(97) Tesi di Lione, loc. cit.

(98) I due articoli figurano, insieme ad altri del 1921-1922 e del 1946-1951, nel volumetto di nostra edizione Partito e classe, nr. 1 dei Testi del PCInt., Milano, reprint 1972, pp. 31-47.

Archivio storico 1952 - 1970