Storia della Sinistra comunista Vol. III - Parte settima
Dal II al III Congresso dell'Internazionale Comunista. Settembre 1920 - giugno 1921
VII. Il Partito nel vivo dell'azione di classe
L'arduo compito di condurre a termine il trapasso dalla vecchia alla nuova organizzazione venne assolto, fra l'inverno e la primavera del '21, nonostante il doppio ostacolo del ripetersi delle scorrerie fasciste alla periferia e del perdurare delle angherie poliziesche al centro.
Il 9/II era stata incendiata da squadristi la sede del secondo quotidiano del partito, Il Lavoratore di Trieste, arrestata quasi tutta la sua redazione, interrotte le sue pubblicazioni; il 27/II, a Firenze, era stato assassinato Spartaco Lavagnini, segretario regionale comunista del Sindacato ferrovieri e direttore del periodico locale Azione comunista e, fra questo e l'assassinio a Pavia di un altro giovane dirigente, Ferruccio Ghinaglia, il 21/IV, erano intercorsi numerosi altri fatti di violenza e di sangue, mentre il 20 e il 21/III forze di polizia protette da un pomposo reparto di bersaglieri perquisivano ed occupavano, per non restituirla che il 29/V, la sede centrale del partito a Milano (il casello daziario o "Palazzina" di Porta Venezia) procedendo all'arresto di un gruppo di militanti, specie della Federazione giovanile, e sequestrando abbondante materiale di propaganda e di lavoro (1). Si cercava di imbastire la montatura di un "complotto comunista" sedicentemente ordito dalla Russia bolscevica per sventare, tramite le sue agenzie partitiche europee, un nuovo attacco delle potenze dell'intesa alla roccaforte della rivoluzione mondiale (2): il pallone non tardò a sgonfiarsi, ma intanto il nerbo della direzione migrava da una via all'altra di Milano (la seconda sede provvisoria, in via P. Sarpi, venne a sua volta occupata dalla Guardia regia il 22/V) servendosi di mezzi di fortuna per riprendere o mantenere i contatti con sezioni e federazioni nel mirino delle squadracce nere, e impartir loro le necessarie direttive in ogni settore dell'attività.
In questa come in ogni altra occasione non si cadde, diversamente che in casa socialista, negli squallori del vittimismo: si era in fase di guerra civile, e la prima condizione per non soccombervi e, se possibile, uscirne vittoriosi, era di preparare i militanti all'inevitabilità di vicissitudini alterne e, spesso, decisamente sfavorevoli, non abbandonandosi al panico e, peggio, a piagnistei o a manifestazioni di ravvedimento. Bisognava, dopo i fatti di Milano, assicurare il partito che gli organi direttivi non avrebbero né rallentato il loro impegno, dando anzi prova di fermezza, ne versato acqua nel vino della propaganda rivoluzionaria. Tutti, compresi i nemici, dovevano sapere (comunicato del CE apparso il 23/III ne L'Ordine Nuovo quotidiano) che "è assicurato il pieno funzionamento politico e amministrativo del partito, e ciò in qualunque attività, legalmente o illegalmente, con o senza il beneplacito del governo borghese [...] e altrettanto deve dirsi per gli organi della Federazione giovanile". È un fatto che l'intenso lavoro iniziato a Livorno non conobbe restrizioni né arresti. La direzione trasse anzi dai ripetuti attacchi nemici un motivo di accresciuta durezza, continuità ed urgenza nell'organizzare e stringere le file del partito come punta avanzata della classe. "Ci troviamo - spiegava il citato rapporto a Mosca - in un periodo di preparazione, non ancora di azione diretta. Ma questa preparazione deve compiersi sul piede di guerra, perché l'avversario non ci concede una tregua per organizzare le nostre forze - ed è bene che essa si compia in questo modo, perché urge esercitare il proletariato alla lotta alla quale i suoi stessi avversari non cessano di provocarlo". Di più: "La ventata di reazione che ha sorpreso il nostro Partito - era già stato scritto nell'articolo Il nostro Partito nel nr. XIX, 7/IV/'21 de Il Comunista - nel suo nascere è stata, per certi riguardi, salutare. È servita quale addestramento agli individui ed agli organi grossi e piccoli di comando". Quanto alla difesa dei perseguitati politici (ai casi macroscopici dei Misiano, dei Peluso, degli Ambrogi, si aggiungevano quelli di innumerevoli militanti oscuri, tallonati dalla polizia o dalla giustizia), un articolo intitolato Contro la reazione, che pubblichiamo in appendice, metteva in guardia dall'interpretare il problema "come quello di riportare l'avversario nella legge, nella sua legge", di invocare il ristabilimento di "metodi di lotta civili" o il ritorno ad una giustizia sedicentemente superiore alle classi, e così "mostrar di assumere o di lasciare assumere l'impegno che, se la borghesia rispetterà i limiti delle sue leggi, noi faremo dal canto nostro altrettanto", perdendo così le stesse ragioni di vita del partito in quanto organo della preparazione rivoluzionaria all'abbattimento della società presente con tutti i suoi "valori", le sue leggi, le sue "garanzie".
Due sono le questioni di vibrante attualità, nonché di grande rilievo teorico, che nel periodo considerato impegnarono con particolare urgenza gli organi direttivi del partito: la risposta da dare all'offensiva squadrista in pieno corso, e l'azione da svolgere in seno ai sindacati e, in genere, nel fertile campo delle lotte rivendicative dei lavoratori, due questioni che coinvolgevano al contempo il problema dei rapporti col PSI da un lato e, dall'altro (e per motivi in parte diversi), con Mosca, e alle quali si aggiungeva la questione contingente, ma non perciò meno delicata, della partecipazione alle elezioni politiche precipitosamente indette da Giolitti per il 15 maggio. Occorre dedicare a ciascuna di esse tutta l'attenzione richiesta anche dal fatto che sulla loro impostazione e soluzione non si è cessato da allora di speculare, il più delle volte in completa malafede.
1. - Contro l'offensiva fascista
Non si può separare l'azione svolta dal partito in questo campo, e i criteri che la ispirarono, da una preliminare valutazione critica del fenomeno storico fascista e delle interpretazioni, diverse od opposte alla nostra, che generalmente se ne danno.
La vera e propria offensiva fascista armata ha inizio in un momento ben preciso del dopoguerra, l'autunno 1920. A quell'epoca, il periodo più critico del passaggio dalla situazione di guerra alla situazione di pace, e dei connessi sussulti sociali, si è concluso per l'economia nazionale in modo complessivamente felice, grazie sia al freno imposto alle fiammate di guerra di classe dal riformismo politico e sindacale con la connivenza del massimalismo, sia alle riforme promesse o realizzate dai governi democratici "illuminati" di Nitti prima e di Giolitti poi, peraltro tutto fuor che teneri nel maneggio della repressione antioperaia e nel potenziamento dei suoi utensili (3). In gran parte superata la crisi economica, ma gonfiatosi l'esercito dei senza lavoro, temporaneamente l'onda delle agitazioni operaie tende inoltre a rifluire, riflusso del quale la malinconica fine dell'occupazione delle fabbriche è insieme conferma e ulteriore fattore accelerante. L'offensiva armata si scatena, dunque, non perché lo spettro di moti rivoluzionari a scadenza vicina vaghi minaccioso sulla scena, ma perché urge approfittare della nuova situazione per colpire alla schiena, maramaldescamente, un proletariato inerme e privo di guida, impedendogli di risorgere nel prossimo avvenire con tutta la forza della sua massa organizzata: controrivoluzione preventiva, come si disse fin da allora.
Sintomo e dimostrazione di debolezza dello Stato, come tanto spesso si è ripetuto? Niente affatto: nel "biennio rosso", lo Stato democratico-parlamentare ha dato ottime prove di vitalità e resistenza; ha dovuto affrontare violente burrasche e ne è uscito illeso, fra l'altro liquidando senza colpo ferire la crisi dell'occupazione delle fabbriche.
Tuttavia, per condurre a termine integralmente il compito caro al cuore del grande capitale di far tabula rasa delle organizzazioni di un proletariato infetto di "bolscevismo" - sindacati, leghe, partiti, dirigenti, ecc. - il braccio "legale" dello Stato non è più sufficiente: occorre che al suo fianco, e col suo tacito consenso, si formi e abbia carta bianca un braccio "extralegale", un'organizzazione di partito armata: appunto il fascismo nella sua veste squadrista. Antistato, quest'ultimo? Ma è una circolare dello Stato maggiore del ministro della guerra Ivanoe Bonomi, a disporre il 20/X/1920 l'invio nei più importanti centri urbani dei circa 60.000 ufficiali in corso di smobilitazione, con invito ad aderire ai fasci e provvedere al loro inquadramento, avendo assicurati a tal fine i 4/5 dello stipendio. Durante i più drammatici episodi di furore antiproletario, sarà la polizia non solo a lasciar correre, ma a dare man forte agli aggressori. In moltissimi casi, saranno i fucili, le mitragliatrici, addirittura i cannoni dell'esercito a piegare la resistenza delle Camere del Lavoro e dei Circoli operai assediati, così spianando la via ai milites gloriosi di cui si compongono le squadre di "spedizione punitiva". Sarà la giustizia ad assolvere regolarmente i rei in camicia nera di infrazione del codice, e sui primi del '21 sarà il ministro Fara a disporre che la magistratura lasci "dormire le pratiche sugli atti criminali dei fascisti" (4). Infine, dopo che il decreto di revoca del porto d'armi nelle tre provincie più calde dell'Emilia-Romagna avrà servito all'unico scopo di disarmare i lavoratori di contro al riarmo effettivo del nemico, e le superstiti amministrazioni comunali socialiste già duramente colpite dallo squadrismo saranno state sciolte per decreto ministeriale, suggellando in linea di diritto la cessazione imposta di fatto delle loro funzioni, sarà Giolitti ad inserire i fascisti nel Fronte Nazionale costituito in vista delle elezioni politiche della primavera 1921, dando loro un brevetto non soltanto di costituzionalità democratica, ma di necessaria complementarità nella salvaguardia dell'ordine costituito.
Altrettanto privo di senso è parlare di obiettivi per principio "antidemocratici" dell'offensiva fascista nel cruciale autunno 1920-autunno 1922. A parte l'ovvia considerazione che, storicamente, l'impiego della violenza antiproletaria nelle sue forme più feroci non appartiene affatto in esclusiva alle camicie nere, e la democrazia postbellica non aveva avuto nessuno scrupolo nel farne l'uso più spregiudicato, avendo alle spalle una lunga tradizione di repressione armata e disponendosi a prolungarla, a riprova della sua massima longevità come forma di dominio della borghesia, con squisita raffinatezza e su scala mondiale nel secondo dopoguerra - dunque, a fascismo e nazismo sconfitti -, a parte tutto ciò, gli stessi fasci che fra l'autunno '20 e tutto il '21 e parte del '22 si lanciano in spedizioni punitive "extralegale" o addirittura "illegali" (termine improprio, dato l'avallo fornito loro dal legittimo potere di Stato) appaiono perfettamente inseriti nei meccanismi della democrazia parlamentare, e i maggiori e a volte riottosi esponenti dello squadrismo attivo non hanno difficoltà a sedere in parlamento buttandosi alle spalle il programma demagogicamente antimonarchico, anticlericale, "antiplutocratico" e piazzaiolo del 1919. Vanto supremo dell'eclettismo mussoliniano era stato e rimarrà fino all'ultimo quello di non lasciarsi vincolare da programmi ("Siamo degli antipregiudizialisti, degli antidogmatici, dei problemisti, dei dinamici", aveva detto Mussolini nel marzo '19). Verranno i tempi del totalitarismo di governo del partito nazionale unico, prima con la graduale esautorazione del parlamento, poi con la sua soppressione. Ma verranno solo quando e perché l'antico personale liberal-democratico, integralmente compromesso nella genesi e nell'ascesa vittoriosa del fascismo, si sarà dimostrato inferiore al compito di unificare - insieme o accanto al personale in camicia nera - la classe dominante, e di contrapporla come un solo blocco, al di là di interessi e contrasti di categoria, alla classe lavoratrice non ancora fiaccata (5): questione di opportunità, non di principio, che, negli anni di cui parliamo, non si pose nemmeno. Né era lecito allora, come non lo sarà poi, caratterizzare il fascismo come reazione di destra nel senso nel quale l'Italia post-risorgimentale l'aveva periodicamente conosciuta, ignorando le radici sociali ben diverse del fenomeno rispetto ai partiti e gruppi della classica reazione destrorsa e dimenticando la forte componente di riformismo sociale che lo contrassegnò non solo nella retorica di ambiziosi programmi e di fumosissimi discorsi, ma nella prassi di partito costituzionale in avanzata (creazione di sindacati d'industria e di agricoltura; lancio di piattaforme rivendicative; proclamazione, se necessario, di scioperi) e, più tardi, nella prassi di partito di governo (cfr. soprattutto la legislazione sociale in campo assicurativo, previdenziale e assistenziale, di cui quella del secondo dopoguerra sarà l'esecutrice testamentaria, così come la legislazione sociale fascista aveva ereditato i piani di riforma sfamati dalla destra politica e sindacale del PSI) (6).
Il fatto che l'offensiva squadrista abbia avuto per teatro iniziale soprattutto le campagne, e per suoi arnesi prediletti i figli della piccola borghesia, dà solo un'apparenza di verità a due tesi spesso commiste e in pari grado inconsistenti: la prima, che il fascismo abbia rappresentato un "ritorno", se non alla tipica "reazione di destra" a sfondo aristocratico-militare-clerico-monarchico, almeno ad una forma di reazione agraria, intendendosi per agrari o (spregiativamente) rurali un confuso coacervo di "forze sociali originariamente anticapitalistiche - per dirla con Antonio Gramsci, progenitore in seno al movimento operaio della teoria della rivoluzione borghese incompiuta in Italia e del blocco storico chiamato a completarla -, coordinatesi al capitale ma non assorbite interamente da esso", e che, ribellatesi alla debolezza mostrata dalla grande borghesia urbana nei confronti del movimento operaio, si assumono il compito, da questa assolto in modo insufficiente, di mettergli la museruola "portando nell'attività reazionaria tutto il fondo di ferocia e di spietata decisione che è sempre stata loro propria": fenomeno, in sostanza, "di regressione storica" (7). La seconda, che il fascismo rappresenti il tentativo dei ceti medi di organizzarsi ai fini di una propria rivoluzione, antiproletaria non meno che anticapitalista (cioè antidemocratica), armata di una particolare ideologia e di obiettivi indipendenti.
Il marxismo respinge queste due teorie. La prima, perché fa un solo fascio della grande proprietà e azienda pienamente capitalistiche e del latifondo assenteista e retrogrado, e a quelle attribuisce caratteristiche e tendenze proprie di quest'ultimo, presentandole come contraltare alla presunta classe grande-borghese delle città "illuminata" e "progressista" nei confronti del movimento operaio. La seconda perché conferisce una patente di iniziativa storica e di autonomia di indirizzo a sottoclassi borghesi che non l'hanno mai avuta e non potevano averla, condannate come sono sempre state e sempre saranno ad oscillare a seconda delle contingenze fra l'una e l'altra classe della società presente, accodandosi in ogni caso alla più forte. Le due teorie poggiano su una registrazione puramente sociologica delle componenti del movimento squadrista (fra l'altro, nel primo caso, sbagliata, non avendo le "baronie feudali" del Sud avuto alcuna parte nella genesi e nell'avvento del fascismo) e fanno di tale registrazione la pietra angolare di un edificio sedicentemente teorico.
A parte tuttavia la valutazione negativa che ne dà il marxismo, esse sono clamorosamente smentite dai fatti stessi dell'offensiva antiproletaria in camicia nera, che confermano punto per punto l'unica interpretazione marxisticamente corretta del fenomeno, vigorosamente e coerentemente sostenuta dalla direzione di sinistra del PCd'I, e da questa assunta a base della sua tattica, secondo cui il movimento fascista andava inteso come "un grande tentativo unitario della classe dominante, capace di mettere al proprio servizio [...] tutti i mezzi, tutti gli interessi parziali e locali di gruppi di imprenditori agricoli e industriali", capace inoltre di arruolare "elementi diversi da quelli che l'alta classe dominante poteva fornire dai suoi ranghi" attingendoli, questo sì, alla variopinta fauna giovanile di piccoli-borghesi, semi-borghesi, bottegai, mercanti, intellettuali, studenti, ecc., rientrati delusi dall'esperienza che si era voluta "rigenerante" della guerra, insoddisfatti della posizione labile e sussidiaria loro offerta nella società e, appena viste sfumare nell'immediato le prospettive rivoluzionarie del proletariato (il cui partito, del resto, li ignorava nella sua tattica, come si vede, per es., dall'atteggiamento sprezzante di Serrati verso i piccoli contadini), buttatisi in braccio al fascismo per "riscattarsi moralmente" e sentirsi finalmente "protagonisti" per il fatto di indossare "la toga della lotta antiproletaria" (8). Seguiamo rapidamente le grandi linee dell'ascesa squadrista nel '20-21.
Il movimento non nasce in un punto qualsiasi della penisola, ma nel cuore stesso della grande industria e soprattutto dell'alta finanza, Milano: vi trova appoggi, consensi, foraggiamenti; vi è coccolato dalla stampa liberale con a capo Il Corriere della Sera di Luigi Albertini; è ben visto nella cerchia della buona società e dell'alta e media cultura; qui, nello stesso tempo, compie le sue prime prodezze nell'arte della violenza antioperaia. Nei suddetti ambienti, la demagogia del suo programma "sansepolcrista" o "primogenito" non fa scandalo: è un ingrediente necessario per allettare la piccola borghesia degli sbandati, a sua volta massa di manovra per la mobilitazione di più vasti strati popolari, rissosi e privi di scrupoli, a favore e al servizio del capitale; esaurita la sua funzione, sarà buttato a mare.
Rapidamente gonfiatosi nel corso del 1920 e, nell'autunno, organizzatosi anche su base militare, il movimento dà inizio alla offensiva controrivoluzionaria, come squadrismo nero, in un certo numero di città minori, ciascuna costituente un campionario delle molteplici stratificazioni storiche della borghesia, dai piccoli e medi industriali ai commercianti, dai proprietari terrieri inurbati ai funzionari statali e ai liberi professionisti: di qui, dunque da una base urbana, si irradia, facendovi man bassa, nelle campagne. Quali campagne? Le terre a grande coltura intensiva e a conduzione pienamente capitalistica dell'Emilia-Romagna, sede appunto perciò di un vasto e vigoroso movimento di salariati agricoli, i braccianti. Perché? Per ragioni strategiche basate su dati di fatto materiali. Se il decisivo attacco alle grandi concentrazioni proletarie urbane, come quelle del "triangolo industriale" Milano-Torino-Genova e dintorni, è da rimandarsi a quando si sarà fatta terra bruciata nel retroterra rurale e, nel loro isolamento, gli operai di industria non potranno più offrire la resistenza di cui ora sono capaci, la Bassa emiliana offre ad uno squadrismo tutt'altro che eroico due vantaggi strategici: i suoi proprietari-imprenditori e i suoi fittavoli-capitalisti hanno vecchi conti da saldare con un movimento bracciantile dalle roventi tradizioni di lotta, le cui Leghe esercitano di fatto il monopolio del collocamento della manodopera e di questa difendono tenacemente gli interessi, non arretrando di fronte né allo sciopero senza limiti di spazio e di tempo, né allo scontro a viso aperto con le forze dell'ordine (quante volte l'hanno già fatto con la polizia e l'esercito regi e democratici!): per loro, una dura lezione inflitta ai braccianti non verrà mai troppo presto; quindi non lesineranno appoggi diretti e indiretti alle squadre nere di fresca costituzione a Ferrara, a Bologna, a Modena.
Dalla parte opposta, i braccianti, formidabili in tempi di mobilitazione e concentrazione, soffrono invece nella vita di tutti i giorni del terribile handicap della dispersione in borghi, villaggi, perfino casolari isolati; sono quindi estremamente vulnerabili dal punto di vista sia della difesa personale, familiare e di gruppo, sia della salvaguardia dei propri luoghi di riunione, le Leghe, i Circoli, le Sedi di partito, perfino le Cooperative; possono reggere all'urto di una guerra sociale "di posizione", reggono male all'urto di una guerra sociale "di movimento". Per squadre volanti foraggiate dagli imprenditori e, in genere, dai borghesi di città, e accolte a braccia aperte dai "datori di lavoro" rurali; alle quali le autorità locali assicurano l'impunità e offrono addirittura l'avallo; che possono spostarsi rapidamente da un punto all'altro della pianura rasa, non è poi così difficile "farla da padroni" bastonando, assassinando, devastando, incendiando e, in ogni caso, intimidendo.
Le borgate rurali sono le prime a soffrirne, e la loro storia non sarà mai completamente narrata, tanto straripa di episodi drammatici; ma è caratteristico che, "sistemate" quelle, le squadracce rifluiscano in città per avventarsi sulle sedi del proletariato urbano, sull'obiettivo strategicamente cruciale delle Camere del Lavoro, dei Circoli operai, delle Sezioni socialiste e poi comuniste, sempre però attaccate, anti-eroicamente, per ultime.
Che l'offensiva antiproletaria armata non emani da ceti "originariamente anticapitalistici, coordinatisi al capitale ma non assorbiti interamente da esso", ne dà ulteriore conferma il fatto che non la si trova proprio là dove, altrimenti, starebbe logicamente di casa. Nel Sud, essa è presente soltanto in Puglia e soprattutto nella Capitanata (dove raggiunge estremi di inaudita ferocia) perché ivi ha sede da decenni un salariato agricolo puro, numericamente considerevole, socialmente attivissimo e tradizionalmente battagliero, poggiante su una rete di grandi affittanze ad agricoltura industrializzata, mentre non ve n'è traccia, e neppur dopo metterà solide radici, nelle aree a grande latifondo, nelle "baronie rurali" (9).
All'estremo opposto, è indicativo il caso delle grandi scorrerie squadriste nella Venezia Giulia, cronologicamente le prime in tutta Italia (già nell'agosto '20) (10). Senza dubbio, qui gioca in alto grado la febbre nazionalista e xenofoba diffusa nella piccola borghesia tricolore, molto spesso di immigrazione, nelle città e cittadine di recente conquista (pardon, di recente liberazione!). Ma dalle città la sua furia si riversa non sulle campagne, piccolo-contadine e tutt'altro che ben disposte verso i crociati di una bieca slavofobia, bensì sui centri politici e organizzativi urbani, a Trieste ma anche a Pola, Pirano, poi anche Fiume, di un proletariato industriale e portuale cresciuto in tradizioni saldamente internazionaliste e dimostratosi anche in seguito pronto non solo alla difesa, ma, in fulgidi episodi di iniziativa operaia, al contrattacco. Un buon inizio, per il grande capitale!
A Bologna in novembre (11) la classe lavoratrice si era lasciata cogliere di sorpresa: il 4 e il 20, i fascisti avevano potuto assalire la CdL e, il 21, fare 9 morti e un centinaio di feriti, con una sola perdita per giunta casuale, nell'adunata popolare celebrativa dell'insediamento della nuova amministrazione comunale rossa: vittime ne erano stati socialisti e simpatizzanti (fatti di Palazzo d'Accursio). A Ferrara, il 20/XII, i fascisti avevano avuto la peggio (3 morti) nella zuffa con un corteo operaio: ma se ne erano rivalsi mettendo a sacco le organizzazioni proletarie locali (eccidio di Palazzo Estense). Dal centro di irradiazione nazionale dello squadrismo, appunto l'Emilia-Romagna, nel 1921 l'offensiva controrivoluzionaria si sguinzaglia, secondo un piano facilmente ricostruibile su qualunque atlante, nel resto della penisola: a nord, dilaga nelle socialmente omologhe aree contadine di Reggio, Parma, Piacenza, poi Mantova, Cremona, Pavia e Rovigo, di qui spingendosi in tutto il Veneto; a nord-ovest si slancia nell'Alessandrino per organizzarvi puntate sia verso Novara, che verso Genova; a sud, sud-est e sud-ovest si abbatte sulla Toscana, l'Umbria e le Marche, dove colpisce non tanto le campagne (salvo là dove esistono fiorenti Leghe di mezzadri, figure classiche di quelle plaghe), quanto i capoluoghi di provincia e cittadine e borgate prosperanti intorno a piccole industrie che si avvalgono di una manodopera scarsamente concentrata, quindi intrinsecamente vulnerabile, benché estremamente combattiva; nel Mezzogiorno, invade la Puglia e compie isolate scorrerie in Campania; è presente solo marginalmente nel Lazio.
Questa prima fase occupa tutto il 1921; molto più tardi avverrà l'attacco, sempre guardingo e circospetto, alle grandi e medie concentrazioni industriali lombardo-ligure-piemontesi, nelle quali però nel frattempo - non lo si sottolineerà mai abbastanza - la mitica borghesia illuminata e tollerante delle città avrà provveduto a fiaccare gli operai con una gragnuola di serrate, licenziamenti, ritorsioni giudiziarie e poliziesche, "oculate epurazioni" del personale, impegnandone le energie in lunghe agitazioni economiche e così offrendoli sfibrati o disillusi alla furia "vendicatrice" di aggressori freschi dell'aver ripulito le campagne circostanti. Occorreranno due anni di lenta manovra avvolgente per spezzare nel cuore stesso dell'economia capitalistica la resistenza accanita di un proletariato di città e di campagna eroicamente solo, di fronte agli apparati, alle forze, ai partiti dell'intera classe dominante e infine pagarsi il lusso della messinscena pagliaccesca della Marcia su Roma e della realtà molto banale del viaggio di Mussolini in vagone-letto, per farsi investire della carica di presidente del consiglio e del fregio di collare della S.S. Annunziata dal re.
Prescindendo per forza di cose dall'interminabile calvario nelle campagne aperte, e limitandoci al primo semestre 1921, diamo un rapido quadro delle vicende dell'escalation squadrista. Emilia-Romagna: l'anno si apre con 2 proletari assassinati a Correggio, assiste il 24/I alla distruzione della CdL di Modena per ritorsione contro l'uccisione di 2 fascisti durante un corteo, e ad una nuova scorreria a Bologna il 25; si completa, mentre nel Ferrarese prosegue fino a tutto maggio la Notte di S. Bartolomeo contadina, con il saccheggio di circoli operai e socialisti ancora a Bologna il 3/IV, con l'incendio della CdL di Reggio l'8/IV e, poco dopo, della Casa del Popolo di Borgo S. Domino; il 19 e 20, l'assalto alla Casa del Popolo dell'USI scatena a Parma una furibonda battaglia, coi proletari asserragliati nell'Oltre Torrente, loro tradizionale quartiere, e le camicie nere bloccate nel vano tentativo di penetrarvi, benché sostenute dalla polizia accorsa a disarmare i "sovversivi"; il 22/IV è devastata la Cooperativa agricola di Piacenza. Delle conseguenze del "disarmo" delle province di Fe-Bo-Mo (12) si è già detto: aggiungiamo solo che Arpinati e Balbo, trovati in possesso illegale di armi, vengono subito rilasciati. Bassa lombarda: a Mantova il 20/IV, distruzione delle diverse CdL, del Circolo ferrovieri, dell'Università popolare, imposizione di salari ridotti e dell'obbligo di iscriversi al fascio per aver lavoro, aumento della giornata lavorativa a 10 ore. Il Pavese, ma soprattutto la Lomellina, da decenni teatro di poderose battaglie nelle risaie, è investito da un ciclone spaventosamente distruttivo: si è già detto dell'assassinio di F. Ghinaglia. Piemonte: lo squadrismo concentra per ora i suoi sforzi su Alessandria e provincia, spingendosi a nord fino a Casale, dove il 6/III si lamentano 4 morti e 20 feriti fra i proletari, e a sud fino a Novi. Veneto: a partire dalla provincia di Rovigo, dove le prediche evangeliche di Giacomo Matteotti ai braccianti ("Restate nelle vostre case, non rispondete alle provocazioni; anche il silenzio, anche la viltà sono talvolta eroici!"), non trattengono certo i fascisti dal distruggere sistematicamente le Leghe, le CdL e i Circoli operai; tra febbraio e maggio le spedizioni punitive prendono a bersaglio le istituzioni sindacali e politiche operaie di Vicenza, Padova, Belluno, Udine, Pordenone - e si tratta di vere e proprie operazioni militari. Avviene così la saldatura con l'offensiva nella Venezia Giulia: dopo la distruzione de Il Lavoratore, il 28/III è attaccata per la terza volta e distrutta la CdL di Trieste; per rappresaglia, gli operai di Muggia incendiano i cantieri navali di S. Marco, mentre in una successione di scontri armati quasi tutte le sedi sindacali e di partito della regione vengono distrutte. Toscana: L'uccisione di Lavagnini il 27/II per rappresaglia contro il lancio di una bomba ad un corteo fascista scatena una furibonda battaglia a Firenze e dintorni: a S. Frediano i proletari si scontrano con la polizia, a Scandicci fascisti e carabinieri vengono accolti a fucilate, è necessario il cannone della Benemerita per demolirvi la Casa del Popolo; a Bagno a Ripoli i bersaglieri usano le mitragliatrici in appoggio agli squadristi; a Ponte a Ema torna in scena papà-cannone, tanto rabbiosa è la reazione proletaria. Il 4/IV è bombardata e poi incendiata la Casa del Popolo; le CdL di Lucca, Siena, Arezzo, Prato, Pisa, Grosseto vengono assalite e devastate rispettivamente il 31/III, il 4/IV, il 12/IV, il 17/IV, il 2/V, il 28/VI, sempre con l'appoggio dell'artiglieria e delle mitragliatrici del regio legalissimo esercito e con un numero elevato di morti; il 17-18/III, una feroce rappresaglia fascista con tanto di esecuzioni capitali ha luogo a Foiano della Chiana. Umbria: Vengono fra l'altro devastate le sedi operaie a Perugia il 22/III e a Terni il 26/IV. Puglia: il 22 e il 23 febbraio vengono assalite e distrutte le CdL di Minervino Murge e di Bari: ne scaturisce una fiammata di rivolta bracciantile che tiene lungamente a bada le forze di polizia e i reparti dell'esercito inviati a rinforzare mazzieri e fascisti, due generazioni di bravacci usi ad eseguire punto per punto gli ordini dei padroni: seguono da marzo a maggio gli incendi delle CdL di Taranto, Corato, Adria, Barletta. Campania: 6 proletari uccisi in uno scontro a Castellammare di Stabia il 20/I; il corteo di Primo Maggio attaccato a Napoli.
Restano colpi di mano isolati, non seguiti se non a distanza di mesi e mesi da attacchi in grande stile, l'incendio della Casa del Popolo a Torino, tradizionale roccaforte politico-sindacale operaia, il 25/IV, e la devastazione della tipografia dell'Avanti! a Milano dopo i fatti - a cui accenneremo - del Diana. Ma il primo è, caratteristicamente, coevo della serrata della Fiat, proclamata dalla direzione "di fronte all'opposizione sistematica delle organizzazioni operaie e delle Commissioni interne in riguardo ai licenziamenti imposti dalle circostanze e di fronte all'abusiva permanenza di numerosi operai licenziati", allo scopo apertamente dichiarato di ristabilire "la disciplina e l'autorità nell'interno della fabbrica [...] senza inframmettenze arbitrarie" (13), e precede di poco l'occupazione militare dello stabilimento: la seconda segue di pochi giorni l'occupazione ad opera della polizia della sede centrale del PCd'I - chiari esempi tutt'e due di fraterna divisione di compiti tra industriali, squadristi, forze dell'ordine. Un calcolo senza dubbio ottimistico valuta in 110, 83, 151, 59 rispettivamente le CdL, le Leghe contadine, i Circoli operai, le Case del Popolo distrutte nel primo semestre '21.
***
Il fatto stesso che l'offensiva controrivoluzionaria abbia impiegato tanto tempo a raggiungere i suoi più importanti obiettivi; che, per farlo, abbia dovuto ricorrere a ben altro che al manganello, alla bomba incendiaria e all'olio di ricino; che ogni volta abbiano dovuto spianarle il terreno, e coprirle la retroguardia (o, in molti casi, la ritirata), le forze dell'ordine, dimostra che, passato lo choc dell'attacco a sorpresa nel novembre '20, nel pieno dell'euforia per le vittorie nelle elezioni amministrative, i proletari si batterono con una decisione, una compattezza ed uno spirito d'iniziativa tanto più ammirevoli, quanto meno sostenuti da un'organizzazione centrale adeguata e da un armamento che non fosse di fortuna, subendo perdite gravi ma infliggendone non poche all'avversario; difendendosi rabbiosamente e, molto spesso, non esitando ad offendere; dando prova di audacia quanto di sangue freddo; scrivendo, insomma, pagine di autentico eroismo la cui storia oscura forse non troverà mai - appunto perché tutta e soltanto rossa - chi la tramandi ai posteri. Essi (e parliamo sia di proletari di tutti i partiti e gruppi operai - comunisti, anarchici, socialisti -, quali che fossero le direttive impartite dai loro organi direttivi, sia di proletari senza partito) avevano contro di sé il blocco compatto della classe avversa, il suo Stato, il suo Parastato; e non avevano guida, non avevano - e lo ebbero troppo tardi - il partito. La loro fu una resistenza (e, non di rado, controffensiva) spontanea - il che non significa assenza di decisione e sforzi di organizzazione locali di natura politica, ma, per il periodo considerato, assenza anche solo di un tentativo di organizzazione centralizzata con obiettivi e metodi univoci, se non da parte comunista, quindi con ritardo.
Il PSI, dominante senza contrasti sulla scena proletaria fino a Livorno, non solo non aveva fatto nulla per preparare psicologicamente e materialmente i propri militanti, e per il loro tramite la classe, ad una lotta che non fosse soltanto economica ed elettorale, nonostante lo sfoggio di una retorica rivoluzionaria tanto chiassosa, quanto vacua, e nonostante le solenni, e presto dimenticate, risoluzioni dei congressi (14), ma non trovava di meglio che esortarli al disarmo morale e pratico di fronte a un nemico in pieno assetto di guerra.
Abbiamo già ricordato (cap. III e IV) le parole di Turati in occasione dei fatti di Palazzo Accursio e (in questo stesso capitolo) quelle di Giacomo Matteotti in piene scorrerie fasciste nel Polesine: parole di aspra rampogna ai proletari per aver sedicentemente "provocato" l'avversario, e di perentorio richiamo alla necessità di rientrare, tutti ma essi per primi, nella legalità (15). Ora, nel primo caso non c'era ancora stata Livorno, nel secondo era appena avvenuta; e, in ogni caso, si trattava di portavoce dell'estrema destra socialista. Sennonché, a scissione avvenuta, il massimalismo trionfante nel troncone sopravvissuto del PSI, oltre a tollerare che turatiani e prampoliniani propugnassero nei comizi, sulla stampa di partito e in parlamento le virtù della resistenza passiva o, addirittura, della non-resistenza al nemico, tendeva sempre più a fare proprie le loro posizioni, si spostava a destra (come si può vedere confrontando le parole che qui sotto citiamo con il programma di Reggio Emilia, riprodotto nel par. 1 del capitolo III) con la stessa velocità con cui aveva solennemente dichiarato di volersi spingere a sinistra: e questo fin dall'inizio dell'escalation squadrista del primo semestre '21.
Sull'Avanti! del 17/II usciva sotto il titolo A proposito di fascismo un comunicato della direzione in cui erano già indicati senza mezzi termini i nodi permanenti della posizione socialista nei mesi venturi fino alla suprema vergogna dei "patti di pacificazione" conclusi in luglio-agosto coi fascisti: 1) il Gruppo parlamentare obblighi "Governo e maggioranza [buoni, quelli] a rispettare e far rispettare le leggi esistenti a favore delle pubbliche libertà"; 2) "Le organizzazioni economiche della classe lavoratrice apprestino gli elementi [quali, non è detto] della difesa contro qualsiasi attentato alla loro esistenza e allo svolgimento della loro propaganda"; 3)
"i nostri compagni evitino qualunque provocazione e siano fermi a difendere, con i metodi che sono propri della civiltà socialista, il patrimonio ideale e materiale del nostro partito. Se i compagni si comporteranno in tal modo, l'azione fascista sarà presto infranta [sentite un po'!] dal senso universale di disgusto che spontaneamente si solleverà contro di essa".
Dunque, non muovere un dito, in attesa della Provvidenza sotto forma di "senso universale di disgusto". E l'Avanti!, rincarando la dose: "Si guardino gli operai e contadini dalle insane rappresaglie che da consiglieri molto equivoci vengono loro suggerite contro le cosiddette proprietà. Le fabbriche e i campi debbono essere più che mai rispettati. Sono infine l'arma migliore degli stessi lavoratori. Le cose sono utili, anzi necessarie, e non hanno colpe. La proprietà privata diverrà collettiva non già con la distruzione, ma con lo sforzo civile di tutto il proletariato cosciente".
Così, dopo le persone dei nemici, il PSI si premura, in nome della civile rivoluzione futura, di salvarne le "cosiddette proprietà".
Da poco era stata distrutta la sede del "Lavoratore". Non molto tempo dopo la stessa sorte tocca alla CdL di Trieste, e gli operai rispondono pagando il nemico della stessa moneta: incendiano il Cantiere S. Marco. La Direzione socialista si precipita a richiamare compagni e sezioni al dovere di "restare fermi sulla difensiva, né aizzando, né provocando" e, pur rendendosi conto dell'estrema difficoltà di farlo, ribadisce:
"Di fronte agli incendi delle Case del Popolo, delle Redazioni dei giornali, delle Camere del Lavoro che tanti sacrifici costarono ai lavoratori, già viene risposto con incendi di cantieri e di ville. Violenza chiama violenza, sangue chiama sangue. A chi giova, se questa non è la soluzione del grande storico fatale conflitto tra classe lavoratrice e classe capitalistica? (16). Sono stati compiuti atti che fanno inorridire. Bisogna rientrare tutti nel grembo della civiltà.
La Direzione esige la disciplina di tutte le Organizzazioni e di tutti gli organizzati a questo appello, ed è sicura di non parlare inutilmente ai suoi. Ma gli altri? Pensi la borghesia bancaria, industriale, terriera alla tremenda responsabilità che si assume, se supporrà che l'appello socialista sia ispirato a men che legittimi interessi, a men che alto senso di dignità di Partito e di uomini, e se perciò volesse continuare la lotta sopra un terreno di sangue e distruzione" (17).
Dunque, ancora una volta, fermi in attesa del "grande storico fatale conflitto" al quale il partito non si prepara né prepara i proletari; mediti il nemico sulla "tremenda responsabilità" accollatasi scegliendo il terreno di lotta ad esso più propizio - comunque, il solo decisivo offertogli dalla storia - e si ravveda!
Più l'offensiva si inaspriva, più il PSI era destinato a precipitare nel baratro di una totale capitolazione. Esso aveva nuove frecce polemiche al suo arco: il marxismo, proclama, come è contro la violenza individuale, cosi è contro le iniziative isolate; d'altra parte, nulla può fermare "l'inesorabile marcia dell'Idea!".
È lo stesso Serrati a sgranare il rosario delle direttive tattiche socialiste:
"Porsi sulla difensiva, non provocare, non compiere atti individuali, rintuzzare come è possibile gli attacchi; perché non è quando il nemico si sente forte, quando sceglie lui il tempo e il terreno della lotta, che noi possiamo accogliere l'invito e la provocazione alla battaglia... Quanto più si è convinti della storica necessità del trionfo del proletariato, tanto meno lo si compromette con azioni isolate e caotiche. Quanto più si è convinti della necessità di preparare le proprie forze per una lotta forte e decisiva, tanto meno si può vedere con lietezza che queste forze si vadano sgretolando in azioni individuali che, mentre risvegliano la reazione, mettono i proletari coscienti dei propri fini, e dei mezzi necessari per raggiungerli, in condizioni di evidente inferiorità. [...] Il proletariato aspetta serenità, decisione, azione in difesa dei nostri ideali" (18).
L'insufficienza delle "azioni" individuali è dunque presa a pretesto dell'inazione generale; la necessità di una preparazione adeguata serve di avallo all'assenza completa di preparazione. "Non vi può essere seria azione d'insieme ove essa non sia il frutto di un maturato esame e di una ponderala preparazione di organismi specializzati i quali si muovano con consapevolezza e con metodo": ma intanto, questi organi il PSI non si sogna nemmeno lontanamente di cominciare a prepararli. Occorre quindi "restare incrollabilmente al proprio posto, prepararsi, non offrire pretesti di facili vittorie avversarie, e attendere operosamente. Lavorare e vigilare. Il loro giorno [il giorno cioè dei 'lavoratori coscienti'] non è lontano" (19). Addosso, intanto, ai proletari... incoscienti che sono stati la vera "causa" o, almeno, "concausa" dell'offensiva fascista, al cui nascere ha largamente contribuito "l'incomposta agitazione delle masse proletarie" - loro, le eterne colpevoli!
"Attesa operosa". Qual meraviglia che, apertasi in aprile la campagna elettorale, il manifesto del PSI, apparso sull'Avanti! del 12/IV, annunzi beato:
"Se noi adoperiamo oggi il voto legale per rispondere all'illegalità dei partiti dell'ordine, ciò significa essere prossimo l'istante nel quale la legge saremo noi, noi tutori del nuovo ordine sociale, contro gli ultimi, imbelli conati di un'era morta e superata. Con le frecce non si spengono le stelle, con le bombe non si uccidono le idee",
come se bersaglio delle spedizioni punitive fossero le "Idee"? D'altra parte, perché agitarsi tanto? Il socialismo verrà da sé, è lì a portata di mano (20).
Qual meraviglia se, dalla "savia e oculata resistenza passiva" della cui predicazione il direttore dell'Avanti! si faceva un vanto (21), si sia passati, nel corso delle elezioni, al lancio delle ancor più savie parole d'ordine: "Alla violenza nemica i proletari oppongano la forza della scheda!", "In difesa della vostra dignità calpestata, alle urne!", "Sopra il turbine dell'odio borghese, il Socialismo elevi l'Idea!", ecc. ecc.? E se, finita la baldoria elettorale, si arriva al grido di trionfo: "I proletari d'Italia hanno seppellito sotto una valanga di schede rosse la violenza fascista", solo per correre a firmare con i seppelliti, poco meno di tre mesi dopo, i patti di pacificazione? (22).
Quando in agosto, questi vennero solennemente firmati e, mentre socialisti, fascisti e confederali emanavano severe disposizioni affinché i rispettivi gregari si attenessero alle norme in essi contenute, Bonomi avvertiva per circolare i prefetti che "il non aver partecipato al patto, o il non aver voluto localmente ottemperarvi, non esime, anzi obbliga di più, i cittadini ad obbedire alla legge, che non può e non deve essere violata" - chiara minaccia ai comunisti e a chiunque non avesse preso parte al turpe mercato, o si rifiutasse di adeguarvisi, nonostante l'elevazione delle sue clausole a dignità di legge - Il Comunista rispose (14/VIlI, articolo L'Assente):
"L'Assente dice ai socialisti ed ai fascisti, al Governo e a tutti i partiti della borghesia, quanto segue:
Il programma comunista, e la tattica dei comunisti tanto nei confronti della classe borghese, quanto verso i socialtraditori, restano immutati.
Il Partito comunista continua, legalmente ed illegalmente, la sua propaganda intesa alla preparazione rivoluzionaria del proletariato ed al suo inquadramento.
L'azione dei partiti comunisti mira al rovesciamento dello Stato borghese per mezzo della insurrezione della classe lavoratrice.
Non è dimostrato che la soppressione dei capi nuoccia gravemente all'avvenire della rivoluzione. Socialisti e governo, fascisti e polizia, facciano quanto loro più aggrada per toglierci la libertà di propaganda e di azione. Essi ne hanno il diritto e - dal loro punto di vista - ne hanno il dovere. Sarebbe strano che si lasciasse ad un partito la libertà di attentare alla vita dello Stato borghese. Ma noi dichiariamo ai traditori di ieri e di oggi della classe lavoratrice, a Bonomi, a Mussolini e a Bacci, che ci infischiamo in modo superlativo delle loro sanzioni punitive [...]. Ci infischiamo delle leggi che essi valorizzano e di quelle che essi formulano. È per questo che siamo stati assenti dal turpe mercato. È per questo che rimaniamo soli, pochi e forti, fortissimi, invincibili.
Perché non vogliamo la tregua dei vinti, perché non imporremo la tregua dei vili".
Per i comunisti, il proprio isolamento nella lotta non solo era scontato, non era quindi motivo di stupore o di pianto, ma, se ben messo a frutto, poteva costituire un fattore altamente positivo di chiarificazione nelle file della classe e un elemento di forza, non di debolezza, per la sua guida politica, il partito. "La salvezza", anche qui, "veniva dal nemico": tutto stava nell'averne lucida coscienza ed agire in conformità, affilando le proprie armi e tracciando ancor più nettamente i propri confini, invece di correre a nascondere le prime e ad attenuare o sbiadire i secondi. Non sarà la meno importante lezione ricavata dalla dura e solitaria lotta contro l'offensiva fascista.
Sullo sfondo del quadro che abbiamo tratteggiato nelle sue grandi linee e nella più stretta aderenza ai fatti, per mostrare che l'urto non era fra democrazia e antidemocrazia, ma fra tutta la classe dominante e tutto il proletariato, l'azione propugnata e condotta dal PCd'I contro l'offensiva fascista si staglia con tanto maggior lucidità. "Le condizioni della lotta proletaria al principio del 1921 erano state ormai compromesse dalle insufficienze del partito socialista - scrivevano nel 1924 i compagni della nostra corrente, da un anno estromessi dalla direzione del partito - tanto che non appariva possibile una offensiva rivoluzionaria da parte di un partito, come il nostro, di minoranza. Ma l'azione del partito poteva e doveva prefiggersi di ottenere la maggiore efficienza della resistenza del proletariato alla sferrata offensiva borghese e, attraverso tale resistenza, conseguire il concentramento della forza operaia nelle migliori possibili condizioni, intorno alla bandiera del partito, il solo che possedesse un metodo capace di garantire la preparazione di una riscossa" (23). La borghesia era scesa senza mezzi termini sul terreno della controrivoluzione armata: la controrivoluzione armata può essere combattuta e vinta soltanto con metodi rivoluzionari.
È stato scritto (Lenin) che la rivoluzione insegna; in termini rovesciati, si può dire che anche la controrivoluzione è maestra. Essa è l'annuncio e il monito che la classe dominante si è dovuta tagliare alle spalle i ponti della finzione democratica, per far valere nella realtà vissuta, non nel regno delle idee, la sola legge del bastone. Con ciò stesso, il problema del rapporto fra le classi si pone in termini che non ammettono più scappatoie: o loro, o noi; o la dittatura controrivoluzionaria non più dissimulata della borghesia, o la dittatura rivoluzionaria, che non ha mai bisogno di dissimularsi, del proletariato. In questa luce, la grande e generale "spedizione punitiva" delle squadracce nere non era un fatto abnorme, mostruoso, assurdo, o da deprecare: era la manifestazione nuda e cruda della legge, così bene illustrata da Trotsky al III Congresso mondiale, per cui è proprio quando la classe, come l'individuo, si avvicina alla fase pre-agonica, che essa tende ed affina al massimo le proprie forze di resistenza alla minaccia incombente della morte (24). La sfida era dunque nelle cose: bisognava accettarla, non eluderla e, meno che mai, illudersi di allontanarla appellandosi al codice di una "normale" convivenza fra le classi; e accettarla - pur riconoscendo apertamente che le condizioni oggettive e soggettive di un attacco rivoluzionario non esistevano ancora - nel duplice senso di rendere evidente ai proletari la necessità di difendersi dalla reazione sul suo stesso terreno, coi suoi stessi metodi, con le sue stesse armi, e di organizzarsi come partito per raccogliere intorno a queste indicazioni il massimo possibile di proletari disposti alla lotta senza quartiere, e prepararsi, attraverso l'organizzazione e la disciplina cementatesi nello scontro diretto con l'avversario, al fine di poter passare a propria volta - su quello stesso terreno, con quegli stessi metodi, con quelle stesse armi, con l'addestramento così ottenuto, e quando le condizioni oggettive lo consentissero - all'offensiva.
Ma indicare questa via ai proletari e agli stessi militanti da poco strettisi nelle file del partito, significava nello stesso tempo respingere con la massima energia, nell'interesse della lotta oltre che per coerenza teorica e programmatica, ogni propaganda tendente, come quella socialista, a illudere i proletari sulla possibilità di spostare i termini dell'urto fra le classi dal terreno della lotta all'ultimo sangue al terreno del dialogo, della conciliazione, del rispetto delle leggi (le leggi, beninteso, della classe dominante) o, come esortava a fare la propaganda di esili gruppi piccolo-borghesi, a mettere le rideste energie del proletariato al servizio di un cambiamento di governo a favore di una restaurazione dei valori democratici calpestati. Che la priorità, nell'opera preventiva di smascheramento, toccasse alla propaganda socialista, è ovvio: essa agiva in seno alla classe operaia con tutte le suggestioni di un passato non di rado glorioso, del possesso di istituti di difesa e di assistenza proletaria, e soprattutto del terribile peso dell'inerzia storica, della forza d'abitudine. Lo sforzo di demolirla senza pietà non era una fissazione, una fobia, uno sport: era una necessità terribilmente pratica, una esigenza inderogabile della lotta, per non farsi trovare sul cammino l'ostacolo, oltre che del nemico, anche del supposto amico.
Questi concetti erano ormai chiari nel Partito (ne fanno fede numerosi articoli del febbraio '21); ma fu solo all'indomani dell'assassinio di S. Lavagnini che essi trovarono pubblica codificazione nel celebre Appello contro la reazione fascista del 2 marzo, apparso quattro giorni dopo ne Il Comunista. Lo riproduciamo integralmente:
"Compagni!
Nella tragica ora che passa, il Partito comunista ha il preciso dovere di rivolgervi una sua parola.
In molte plaghe e città d'Italia episodi sanguinosi della lotta tra il proletariato e le forze regolari od irregolari della borghesia, si susseguono con un crescendo eloquente. Tra le tante vittime note od oscure il Partito comunista deve registrare la perdita d'uno dei suoi militi più valorosi: Spartaco Lavagnini, caduto a Firenze al suo posto di responsabilità dinanzi al proletariato ed al suo partito. Alla sua memoria e a quella di tutti i proletari caduti, mandano i comunisti il saluto dei forti, temprandosi nell'azione e nella fede.
Gli eventi che incalzano mostrano che il proletariato rivoluzionario d'Italia non cede sotto i colpi del metodo reazionario, inaugurato da alcuni mesi dalla classe borghese e dal suo Governo a mezzo delle bande armate dei bianchi, assalitori prepotenti dei lavoratori anelanti alla propria emancipazione. Dalla rossa Puglia, da Firenze proletaria, da tanti altri centri giungono notizie che il proletariato, malgrado l'inferiorità dei suoi mezzi e della sua preparazione, ha saputo rispondere agli attacchi, difendersi, offendere gli offensori.
L'inferiorità proletaria - che sarebbe inutile dissimulare - dipende dalla mancanza nelle file del generoso nostro proletariato d'un inquadramento rivoluzionario quale può darlo solo il metodo comunista, attraverso la lotta contro i vecchi capi e i loro metodi sorpassati di azione pacifistica. I colpi della violenza borghese vengono ad additare alle masse la necessità d'abbandonare le pericolose illusioni del riformismo e di disfarsi dei predicatori imbelli d'una pace sociale che è fuori delle possibilità della storia.
Il partito comunista, che con la dottrina e la tattica della Internazionale di Mosca ha chiamato a raccolta le forze coscienti del proletariato italiano per la preparazione e l'organizzazione che finora mancavano, o venivano solo demagogicamente vantate, non predica il disarmo degli spiriti e la rinunzia alla violenza, dice alto ai lavoratori che le loro armi non possono essere solo le armi metaforiche o astratte della propaganda della persuasione o della legalità schedaiola, proclama con entusiasmo la sua solidarietà con quei lavoratori che hanno con gli stessi loro mezzi risposto all'offensiva dei bianchi. Il partito comunista addita ai lavoratori come i peggiori nemici i capi di quegli organismi, che ipocritamente rinculano dinanzi a queste responsabilità, e che con una propaganda, di cui gli avversari giustamente si ridono, inseguendo utopie idiote di civiltà e di cavalleria nella lotta sociale, seminano il disfattismo tra le masse, ed incoraggiano la baldanza della reazione.
La parola d'ordine del partito comunista è dunque quella di accettare la lotta sullo stesso terreno su cui la borghesia scende, attrattavi irresistibilmente dal divenire della crisi mortale che la dilania; è di rispondere con la preparazione alla preparazione, con l'organizzazione all'organizzazione, con l'inquadramento all'inquadramento, con la disciplina alla disciplina, con la forza alla forza, con le armi alle armi. Non vi potrà essere allenamento migliore all'offensiva immancabile, che un giorno sarà sferrata dalle forze proletarie contro il potere borghese, e che sarà l'epilogo delle lotte attuali.
Mentre l'azione e la preparazione devono sempre più divenire effettive e sistematiche, lasciando ogni traccia di retorica demagogica, nella situazione che si è delineata fino a questo momento è inevitabile la constatazione che molto deve ancora compiersi perché la risposta proletaria agli attacchi dell'avversario assuma quel carattere d'azione generale e coordinata, che sola potrà assicurare la decisiva vittoria.
Per un'azione di tutto il paese il proletariato non potrebbe oggi ricorrere ad altre forme di azione di sicura attuazione che non siano quelle più volte adottate, e la cui direzione, allo stato di sviluppo degli organismi di classe, resterebbe, se non in tutto, in gran parte nelle mani di quegli organismi nazionali, sia politici che economici, i cui metodi e la cui struttura non possono condurre che a nuove delusioni, lanciare le masse su di una via senz'altro sbocco che l'inevitabile situazione di essere o fermate, o abbandonate da coloro che le guidano, poiché ancora usurpano posti importanti di dirigenza dell'apparato in cui la massa è inquadrata. Il partito comunista non inizierà un movimento generale con simili prospettive ed attraverso rapporti con simili elementi se non in una situazione che chiudesse ogni altra via, e che ci costringesse a subirla. Allo stato dei fatti, il partito comunista afferma che non si deve accettare un'azione nazionale diretta da coloro il cui metodo non può condurre che al disastro. Se quest'azione si dovrà iniziare, il partito comunista farà il suo dovere perché il proletariato non sia tradito nel massimo del suo sforzo, e vigilerà da tutti i lati sugli avversari della rivoluzione.
Oggi quindi il partito comunista dà ai suoi militanti la norma della resistenza locale su tutti i fronti dell'attacco dei bianchi, della rivendicazione dei metodi rivoluzionari, della denunzia del disfattismo dei socialdemocratici, che una psicologia debole ed errata potrebbe indurre i meno coscienti a considerare come possibili alleati nel pericolo.
Sia che la linea di condotta da tenere resti questa, sia che essa debba essere accentuata, la centrale del partito sa che tutti i comunisti, dal primo all'ultimo, memori dei nostri recenti martiri, consci della responsabilità di rappresentare l'Internazionale rivoluzionaria di Mosca, faranno l'intiero loro dovere!
Viva il comunismo! Viva la rivoluzione mondiale!
Il Partito comunista d'Italia
La Federazione giovanile comunista d'Italia"
Non v'è qui neppure un'oncia né del velleitarismo che ci si dovrebbe aspettare da una direzione accusata fino alla noia di "infantilismo di sinistra" - neppure un'oncia, dunque, della "teoria dell'offensiva" di li a poco propugnata dalla "sinistra tedesca" -, né del passivismo, anzi del nullismo che ci si dovrebbe attendere da una direzione accusata fino alla noia d'essere affetta da astrattismo e, come tale, aliena sia dal considerare la realtà storica nella sua concretezza, sia dall'intervenire attivamente in essa; né, infine, del meccanicismo con cui i massimalisti, e specie Serrati (al quale, appunto su questo terreno, gli storici delle Botteghe Oscure amano avvicinare... Bordiga), guardavano ai problemi della rivoluzione futura. L'Appello non illude i militanti e i proletari in genere né circa la possibilità di ottenere rapidi successi nella lotta di resistenza all'ondata fascista e di renderla non più frammentaria, ma generale, né sulla possibilità di un passaggio a scadenza non troppo lontana all'azione rivoluzionaria diretta - e ne spiega le ragioni, prima fra tutte l'ostacolo rappresentato dalla perdurante influenza sulle masse di un fattore di ritardo o addirittura di sabotaggio della preparazione rivoluzionaria come il PSI. Indica tuttavia le linee dorsali di una difesa attiva, anche se inizialmente soltanto locale, possibile senza donchisciottismi pur nelle condizioni estremamente difficili in cui, sciaguratamente, è stata posta la classe. Il partito non si trincera dietro la constatazione che non si è alla vigilia dell'urto finale, per respingere, more serratiano, le iniziative di azione forzatamente episodiche prese da gruppi audaci di proletari o da proletari isolati contro il nemico in camicia nera: sa che "la violenza finale rivoluzionaria è necessariamente preceduta da un periodo in cui gli scontri sono episodici" e che, "in tale periodo, compito del partito rivoluzionario è preparare e organizzare la forza proletaria; ma ciò non può ottenersi predicando l'astensione da quel mezzo di azione fondamentale, di cui non basta dimostrare l'indispensabilità finale, ma pel quale occorre un vero addestramento tecnico" (25). Non prende pretesto dalla giusta esigenza che lo stadio della violenza individuale venga superato elevandosi a quello della violenza collettiva organizzata, per condannare i proletari a non difendersi anche individualmente: sa che "distinguere la violenza collettiva dalla violenza individuale in guerra vuol dire cavillare intorno alla possibilità di un combattimento dal quale possa essere bandita la violenza individuale; e - il più spesso - significa non voler combattere la guerra [...] Se [dunque] si accede alla necessità storica della guerra civile, si deve accettare questa con tutte le intemperanze che l'accompagnano, pur domandandone, attraverso una disciplina politica, l'indirizzo, e prevedendone gli abbocchi" (26). Non si fa scudo dell'esigenza della centralizzazione della lotta ad opera del partito - esigenza affermata in primo luogo dalla Sinistra - per bollare di un marchio d'infamia le azioni locali (non escluse le rappresaglie), le uniche possibili del resto nelle condizioni di allora (27) e appunto perciò additate ai militanti e ai proletari in genere come parte di una strategia destinata a raggiungere al più presto il livello di una battaglia su tutti i fronti e a direzione unica.
Da allora l'azione del PCd'I si svolse su due piani, diversi ma convergenti: 1) appoggiare, incoraggiare, promuovere azioni proletarie di difesa e di attacco per ora locali, dando particolare pubblicità ad atti di vigorosa iniziativa sul piano anche dell'offesa e, come si è visto a proposito di Trieste e analoghi episodi (28), facendoli politicamente propri, e ciò al fine di sostenere i lavoratori nei loro sforzi disgraziatamente ancora isolati, e di rafforzarli nella convinzione, cui erano giunti per istinto, che la partita si giocava sul terreno della forza, non su quello del diritto; 2) allenare i propri militanti, dando loro un preciso inquadramento organizzativo, a fungere da polo centralizzatore e, infine, direttivo dell'azione di classe contro il nemico di classe, in modo che dall'azione locale si potesse passare ad un azione generale. Sull'onda della prima fra le due direttrici di marcia, si sarebbe passati dall'aperta solidarietà, ideale e materiale, verso ogni azione di difesa fisica alla propaganda diretta dei metodi di lotta comunisti e dei princìpi del marxismo rivoluzionario, traendo dall'intervento attivo nella battaglia classista sia lo spunto per la diffusione della teoria e del programma che soli potevano illuminarla ed orientarla verso il suo storico sbocco rivoluzionario, sia la controprova che se, come scriveva il manifesto del Partito per il 1° Maggio,
"la borghesia italiana, che nell'immediato dopoguerra si addimostrava sbigottita e quasi incapace di contrastare il passo alla marea rivoluzionaria, organizza oggi, senza alcuno scrupolo e con ferocia inaudita, una sua difesa controffensiva assalendovi [voi, lavoratori delle città e delle campagne], questo non è che la riconferma che tutta la situazione ci conduce verso un urto supremo, nel quale il proletariato non può che ricorrere alte stesse armi che oggi la reazione bianca brandisce contro di lui".
L'opera di chiarificazione, incitamento e propaganda doveva costituire nello stesso tempo la base di un'opera sistematica di organizzazione di partito come perno di una futura organizzazione di massa, sul piano militare come su quello (di cui parleremo subito dopo) economico e sindacale.
Quanto al primo aspetto della questione, è un fatto che così il partito poté legittimamente apparire agli occhi delle grandi masse come il solo disposto a solidarizzare apertamente e incondizionatamente con le loro coraggiose "azioni di guerra" e a non scendere neppure verbalmente a patti col nemico, il che doveva attirargli dei consensi e, in senso più lato, delle simpatie destinati a durare ben oltre i fatti che li avevano suscitati. Quanto al disegno strategico di più vasto respiro di cui si è appena accennato, esso partiva dal presupposto, ovvio per il marxismo rivoluzionario, che non solo della preparazione all'assalto rivoluzionario finale, ma della stessa difesa coerente ed incondizionata contro la violenza di classe borghese, "legale" od "illegale", di Stato o "extrastatale" (o meglio, parastatale), può farsi carico unicamente il partito che non se ne attende la restaurazione dei "normali meccanismi democratici" o, come proclameranno gli Arditi del popolo, la "realizzazione della pace interna" (29), ma l'abbattimento seppur non immediato dei primi e la rottura presente e futura della seconda; altrettanto ovvio è che una simile pretesa venga (e sia stata fin da allora) respinta come "settaria" e quindi "irrealistica" dai teorici e dagli storiografi di parte democratica, siano essi di destra, di centro o di sinistra. Quella pretesa noi la rivendichiamo, in linea di principio, come la sola legittima, anzi, per dirla col loro linguaggio, la sola concreta; in linea di fatto, ci limitiamo ad opporre ai critici della nostra intransigenza il fatto indiscutibile che la molto tardiva Resistenza democratica armata al fascismo, impensabile del resto senza la situazione di guerra e l'appoggio anglo-russo-americano, ha bensì spazzato via la facciata esterna del fascismo italiano e internazionale, ma non ha esitato ad offrire agli uomini e ai monconi di partito superstiti il ramoscello d'olivo della riconciliazione nazionale con relativa assoluzione dai peccati e ripristino in seno al rinnovato quadro istituzionale, a conservare del fascismo, diciamo così, classico gran parte della legislazione economica e sociale, del codice penale, dell'apparato amministrativo e, soprattutto, poliziesco (reso, anzi, più potente e completato da una rete capillare di servizi segreti nazionali ed extranazionali), e a ereditarne le direttive di intervento statale nell'economia, nella politica, nella vita privata dei cittadini, insomma di "totalitarismo" più o meno integrale come vuole l'evoluzione imperialistica del capitalismo contemporaneo, lasciando cosi intatta la sostanza del regime dopo averne rimosso l'apparenza e non intaccando minimamente le radici dalle quali era sorto e potrà sempre risorgere il nazifascismo, cioè l'alta finanza, la grande e grandissima industria, il mercato mondiale delle merci e del capitale e le sue feroci lotte di concorrenza - ad ennesima riprova del postulato che la controrivoluzione o, come dicono gli storici di stampo democratico, la reazione può essere prima rintuzzata e poi vinta unicamente con mezzi ed armi, ed in funzione di obiettivi, rivoluzionari, o la lotta contro di essa si risolverà non tanto nel ristabilimento, quanto nel rafforzamento del modo di produzione e di vita associata dal quale essa periodicamente scaturisce e che è, comunque, per il comunismo non adulterato, il nemico da abbattere, quale che ne sia la forma contingente.
L'inquadramento militare del Partito si compì, nella tarda primavera del 1921, superando enormi difficoltà legate sia all'arduo compito di provvedervi nell'atto stesso in cui si stava completando l'opera di inquadramento politico ed organizzativo visibile del partito e si facevano solo i primi passi nella non meno difficile organizzazione della sua rete clandestina, o, com'era definita, illegale. Come in quest'ultimo campo (30), cosi in quello dell'inquadramento militare, il PSI non solo non aveva fatto né faceva nulla, ma aveva creato nei militanti una mentalità per entrambi negativa di noncuranza, di pressapochismo, di individualismo e quindi di indisciplina (o di insofferenza ai rigori della disciplina), e di resistenza ad affrontare anche solo il problema di un'attrezzatura militare dopo anni ed anni di azione puramente "legale", una mentalità infine autonomistica sul piano sia delle azioni, sia delle decisioni, se non per i singoli militanti, almeno per le sezioni e, ancor più, le federazioni, specie se giovanili. Ora, per il partito nato a Livorno, tale inquadramento, come doveva sorgere su base di partito e non di equivoci accordi interpartito, così poteva agire come polo di attrazione dei proletari anche di altri partiti o senza partito, ma ansiosi di battersi, e come loro guida, solo in virtù della inconfondibilità dei propri obiettivi, dell'unitarietà della sua azione pratica, della disciplina e quindi efficienza della sua organizzazione.
Non si può separare il problema militare della difesa e dell'attacco dal problema politico: il primo dipende dal secondo, è quest'ultimo che traccia all'altro non solo l'obiettivo, ma la via, quindi i metodi, quindi l'organizzazione. La chiarezza d'impostazione politica o, per usare un termine più consono al problema specifico, strategica è condizione della potenza, della continuità, dell'omogeneità dell'azione pratica o, se preferisce, della tattica, e questa è la premessa dell'efficacia e della saldezza organizzativa. L'inquadramento militare del partito non poteva quindi sorgere su una base qualsiasi, avulsa cioè dalle finalità programmatiche e dai criteri generali di organizzazione e di azione pratica del partito stesso. Questo aveva, e non poteva non avere contro di sé l'intero spettro dei partiti costituzionali, PSI compreso, e sul piano politico li combatteva quotidianamente tutti: era essenziale che i militanti non si lasciassero abbacinare dal solito miraggio dell'"unità" accedendo ad alleanze sia pur temporanee e a scopi ingenuamente ritenuti di "difesa operaia" - come quella già citata (unico caso verificatosi allora, tuttavia) che il PCd'I aveva dovuto condannare ad Imola perché conclusa con la sezione locale del PSI -, o entrando a far parte di organismi militari senza dubbio allettanti ai fini immediati, ma equivoci per origine e per composizione, e di orientamento squisitamente e dichiaratamente democratico, come gli "Arditi del Popolo"; questione, questa, che fece allora gran scalpore e che ci riserviamo di trattare a fondo in un successivo volume, essendo per ora sufficiente indicare i motivi di fondo di una posizione che, da parte nostra, rivendichiamo integralmente, perché investe tutto l'arco dei problemi riguardanti la tattica del partito rivoluzionario, e che stabilisce l'impossibilità - ripetiamolo, ai fini stessi dell'efficienza pratica - di ubbidire a due diverse discipline, a loro volta dipendenti da diverse impostazioni politiche e programmatiche. Con ciò non si escludeva affatto che, nel corso della lotta, azioni comuni e in varia misura concertate potessero verificarsi, e rendersi perfino necessarie, con altre organizzazioni a carattere militare (31); era tuttavia essenziale tener fermo il principio che non dovessero sorgere organi direttivi e permanenti comuni, e che l'inquadramento comunista non dovesse sottostare a disposizioni e ad una disciplina che non fossero quelle sue proprie, la loro autonomia essendo condizione di possibili sviluppi della guerra civile di allora in senso non interclassista ma classista, non democratico ma rivoluzionario, non neutro nei confronti delle istituzioni fondamentali dello Stato ma intransigentemente antagonistico.
L'unitarietà e centralità dell'obiettivo perseguito, sia pure in prospettiva, dal partito doveva poi riflettersi nel modo più rigoroso, al suo interno, nella unitarietà e centralizzazione del proprio apparato militare (e, ovviamente, di quello illegale), e una disciplina non meno severa, anzi più severa di quella vigente nei rapporti normali di partito, doveva essere richiesta a salvaguardia dei due citati caratteri essenziali, non temendo a questo fine di inculcare nei militanti il concetto di gerarchia liberamente ma inequivocabilmente accettata - altra faccia, sul terreno organizzativo, della subordinazione dei militanti, di tutti i militanti, ai princìpi e al programma del partito.
Non bastava più organizzare la propaganda disfattista nelle file dell'esercito, come sin dall'inizio andava facendo la Federazione giovanile, consolidare i gruppi comunisti in seno alla Lega proletaria reduci di guerra, e legare strettamente l'azione rivendicativa e sindacale all'esigenza primordiale di difendere sul terreno della forza le organizzazioni proletarie, le loro sedi centrali e periferiche, le loro Leghe e Camere del Lavoro. Occorreva uno speciale inquadramento che assorbisse e disciplinasse i nuclei già esistenti di squadre comuniste organizzate dalle principali federazioni provinciali o sezioni cittadine giovanili (32) e ne generalizzasse le esperienze e i criteri di organizzazione, dando al nuovo apparato una struttura unica e centrale. Questo sorse, significativamente, come branca particolare dell'apparato illegale del partito, e suo organo direttivo fu lo stesso "Ufficio Primo" - affidato alla responsabilità di Bruno Fortichiari - che dell'apparato illegale era il centro.
Non è questa la sede per illustrare la struttura dell'inquadramento militare di partito che così si venne concretando (33). Importa invece, superando benché di poco i limiti temporali del presente volume, riportare i testi fondamentali che ne resero di pubblica ragione l'iniziativa e poi l'avvenuta costituzione. Il Comunista del 14 luglio recò le seguenti disposizioni di massima:
Per l'inquadramento del Partito
In base al lavoro svolto finora in molte località per l'inquadramento a tipo militare degli iscritti e dei simpatizzanti del Partito comunista e della Federazione Giovanile comunista, ed alle esperienze che ne sono risultate, la Centrale del Partito e quella della Federazione giovanile allestiscono un comunicato che conterrà le norme da applicare dovunque in questo indispensabile lavoro di organizzazione e preparazione rivoluzionaria.
Poiché intanto sorgono in diversi centri italiani iniziative di tal genere da parte di elementi non dipendenti dal Partito comunista e delle quali il Partito comunista non è ufficialmente partecipe né responsabile, si avvertono tutti i compagni di restare in attesa di tali disposizioni prima di creare fatti compiuti locali che ostino alle direttive generali adottate dal Partito.
Ciò vuol dire che il lavoro di esercitazione delle squadre comuniste deve dovunque continuare, ed iniziarsi dove ancora non lo si è affrontato, ma attenendosi al rigoroso criterio che l'inquadramento militare rivoluzionario del proletariato deve essere a base di Partito, strettamente collegato alla rete degli organi politici del Partito, e quindi i comunisti non possono né devono partecipare ad iniziative di tal natura provenienti da altri partiti o comunque sorte al di fuori del loro partito.
La preparazione e l'azione militare esigono una disciplina almeno pari a quella politica del Partito comunista. Non si può ubbidire a due distinte discipline. Il comunista dunque, come il simpatizzante che al Partito si sente realmente legato (e non merita la definizione di nostro simpatizzante chi non milita nel Partito per "riserve disciplinari") non possono né debbono accettare di dipendere da altre organizzazioni di inquadramento a tipo militare.
In attesa di più precise disposizioni, che del resto attraverso la pratica stessa si andranno sempre meglio elaborando, la parola d'ordine del Partito comunista ai suoi aderenti ed ai suoi seguaci è questa: formazione delle squadre comuniste, dirette dal Partito comunista, per la preparazione, l'allenamento, l'azione militare rivoluzionaria, difensiva ed offensiva, del proletariato.
L'esigenza di un inquadramento militare trasse con sé quella di una ulteriore e più complessa articolazione della struttura organizzativa del partito in rapporto sia ai compiti permanenti insiti nella sua natura, sia alle necessità immediate della situazione in piena offensiva "nera".
Un comunicato del CE intitolato Disposizioni per l'inquadramento delle forze comuniste; apparso ne Il Comunista del 21 luglio, ne diede al contempo lo schema pratico e la giustificazione teorica, mostrando come il partito dovesse anche in questo differenziarsi nettamente dalla prassi tradizionale del PSI e, in genere, della socialdemocrazia [i corsivi, salvo quando diversamente indicato, sono nostri]:
"Il partito politico proletario di classe deve assolvere con la sua organizzazione molteplici compiti e formarsi gli organi adatti per tutte le sue funzioni.
Un primo compito del partito è di natura ideologica e politica, consistente nella formazione di una coscienza sociale e storica dell'avanguardia della classe lavoratrice, che critica ed interpreta gli avvenimenti per trarne le esperienze utili ai suoi fini rivoluzionari. Nella funzione di tracciare le conclusioni generali a cui così si perviene, il partito appare come un organo di discussione e deliberazione (nella sua rete internazionale), ed a ciò corrisponde una struttura organizzativa a base di democrazia interna, con criterio di prevalenza del parere delle maggioranze che si determinano nelle sezioni e quindi nei congressi provinciali, nazionali, internazionali.
Da questo compito di ordine consultivo e deliberativo si passa per logica concatenazione ai compiti esecutivi, come dalla teoria del partito e dai principi generali che ne reggono la tattica si passa all'applicazione dell'azione. Qui intervengono criteri organizzativi di disciplina e di gerarchia, che vanno tanto più accentuandosi in quanto, per lo sviluppo generale della lotta proletaria, dall'epoca della critica teorica si passa a quella della propaganda e del proselitismo, ed infine a quella della azione e del combattimento rivoluzionario.
In questo secondo ordine di funzioni e di organi può intervenire ancora un utile distinzione risultante da quanto abbiamo or ora detto. Finché il partito non è in presenza delle necessità immediate di un'azione 'militare', basterà ch'esso abbia una rete esecutiva di cariche disciplinari e gerarchiche, che curino la propaganda, il proselitismo, la stampa, l'attività sindacale, elettorale e simili. A tal uopo ogni sezione avrà un suo Comitato esecutivo, che dirigerà tutta l'azione sulla base dei deliberati delle assemblee e dei superiori congressi; e un Comitato esecutivo sarà pure emanazione dei congressi periodici provinciali, nazionali, internazionali. Non è però sufficiente, come è stato finora quasi universalmente ritenuto nei partiti tradizionali, demandare l'esplicazione delle attività del partito a questi comitati, e ad altri comitati speciali (stampa ecc.) o occasionali (per le elezioni o altre agitazioni). Anche questa prima rete esecutiva normale deve essere completata da un più esteso inquadramento che utilizzi, sotto la dirigenza dei Comitati competenti, l'opera di tutti gli iscritti al partito secondo la loro capacità. Al concetto borghese che il militante di un partito si limita ad impegnare la propria adesione ideologica e il proprio voto politico e a pagare una quota periodica in denaro, si sostituisce quello che chi aderisce al Partito comunista è tenuto a dare in modo continuo la sua attività pratica secondo le esigenze del partito.
Ciò si realizza con l'inquadramento di tutti [corsivo nel testo] gli iscritti al partito e alla federazione giovanile, effettivi o candidati, in gruppi locali anche più ristretti delle sezioni, che nominano un loro capo, salvo conferma del CE della sezione. Questo gruppo, composto dai compagni che abitano un villaggio, un rione o un gruppo di case contigue, per mezzo del suo capo è a continua disposizione del partito per il lavoro di propaganda, distribuzione di giornali e stampati del partito, proselitismo, attività elettorale, informazioni, partecipazione a dimostrazioni di partito ecc. [Il comunicato prosegue disponendo per l'immediata distribuzione dei soci delle sezioni, senza distinzione di sesso, età o attitudine fisica, in questi gruppi, sempre convocabili dall'Esecutivo sezionale in termine brevissimo in modo da poter chiamare sicuramente e in poco tempo a determinate azioni tutti i militanti. Quanto all'inquadramento militare, esso sarà suddiviso per province, zone, compagnie e squadre:]
Alla testa dell'organizzazione militare di ogni provincia sarà un fiduciario, nominato d'intesa tra il Comitato esecutivo della Federazione adulta e quello della Federazione giovanile, nella persona di un compagno di provata fedeltà al partito e di competenza tecnica adeguata.
Le squadre [composte di non più di 10 elementi] sorgeranno presso tutte le sezioni del Partito e della Federazione giovanile. A tal uopo tutte le sezioni (d'intesa tra la giovanile e l'adulta quando in uno stesso luogo vi siano entrambe) nomineranno a mezzo dei loro CE un fiduciario locale provvisorio, che si occuperà della scelta degli elementi da organizzare nelle squadre. Essi saranno costituiti: da tutti i compagni adulti e giovani che non abbiano reale impedimento fisico a tale funzione, siano essi effettivi o candidati, e da simpatizzanti non iscritti ad altro partito politico, provatamente fedeli al nostro partito ed impegnatisi formalmente alla più stretta disciplina. [Divisa ogni provincia in zone, le squadre sorte in ciascuna di queste dovevano essere raggruppate in compagnie, di 5 fino a 10 squadre ciascuna, i capi-squadra essere soci effettivi del partito e della FG, le grandi città essere considerate come zone ecc. Il comunicato conclude:]
Più precise disposizioni sull'inquadramento verranno opportunamente comunicate alle federazioni e alle sezioni. Fin d'ora si stabilisce che esso deve fondarsi sulla disciplina più severa e sullo spirito di sacrificio di quanti vi partecipano. Deve dovunque essere sistematicamente organizzata una vera istruzione tecnica delle squadre con periodiche esercitazioni per completare la loro preparazione ad ogni specie di movimento.
Quando la rete si sarà sufficientemente estesa, tutti gli ordini del partito si trasmetteranno per la stessa via da essa costituita, dal centro alla periferia, così per le precise norme regolamentari come per gli obiettivi dell'azione da svolgere. I fiduciari provinciali e i comitati esecutivi riceveranno precise indicazioni sui limiti delle iniziative che sono autorizzati a disporre.
Nessun socio del partito o della federazione giovanile può fare parte di altre organizzazioni similari, che non siano quella costituita e diretta dal partito.
Attendiamo che in questo campo tutti indistintamente i compagni si pongano al lavoro col massimo slancio, per dare al partito una forza reale ed una capacità effettiva di azione. Il proletariato non può contare, per la propria emancipazione, che sulla sua forza, sull'organizzazione e il disciplinamento di essa".
"Strettissimamente disciplinata e centralizzata, senza alcun organismo elettivo e democratico, senza possibilità di critica o di recriminazioni" (34), l'organizzazione faceva capo ad un comando generale composto dal rappresentante del CE, appunto Fortichiari, da un membro del CE della FGCd'I, e da un tecnico; ma, ovviamente, questo il comunicato non lo dice, come tace sia il fatto che era prevista la costituzione di speciali "squadre d'azione comunista", composte dagli elementi più combattivi e di provata disciplina, i quali dovevano restare segreti al resto delle squadre, sia altri particolari di carattere riservato indispensabili al buon funzionamento di un apparato militare.
L'esame degli sviluppi ulteriori dell'organizzazione, del suo contributo alla lotta contro la reazione antiproletaria, delle questioni e anche delle polemiche che esso sollevò, specialmente sul tema dei rapporti con altre organizzazioni di stampo militare, deve forzatamente essere rinviato ad un volume successivo. Qui aggiungiamo soltanto che essa sorse proprio nel mese della "gran vergogna socialista", e dimostrò nell'anno e mezzo successivo una vitalità quale nessun altro inquadramento analogo poté mai vantare, anche se, nato tardi come tardi era nato il partito, poté assolvere solo in misura limitata i suoi compiti.
Serva da ponte a questa ulteriore trattazione un nuovo comunicato del CE apparso ne Il Comunista del 31 luglio e destinato a sgombrare il terreno da malintesi da un lato, da atti di indisciplina di elementi intemperanti di origine massimalista dall'altro [corsivi nostri]:
Inquadramento
"Poiché siamo tempestati da una copiosa corrispondenza con la quale ci si domandano informazioni intorno all'inquadramento del Partito, avvertiamo i compagni che sono a capo delle federazioni e delle sezioni che norme sono state da noi date pubblicamente a tale proposito, alle quali seguiranno altre più dettagliate a giorni, e che i comunisti non possono aderire ad altre iniziative che non ci riguardano. In tale occasione, ribadendo i concetti di disciplina cui tutti gli iscritti ad un partito comunista debbono obbedire, dobbiamo avvertire che l'inquadramento militare del Partito non può essere compiuto e rispondere allo scopo se non attraverso la rinunzia nei compagni a particolari punti di vista tattici che possono essere sostenuti soltanto in sede opportuna (assemblee, congressi).
L'ordine di inquadramento militare del Partito è stato dato dal C.E. in accordo col C.E. della Federazione Giovanile e non solo da questa, come taluni compagni hanno erroneamente creduto.
L'inquadramento militare del Partito Comunista d'Italia non è da noi 'inventato' per imitazione di altre organizzazioni simili oggi create. Il nostro inquadramento risponde ai criteri di organizzazione rivoluzionaria di tutti i partiti comunisti aderenti alla Terza Internazionale.
E, se esso non fu da noi iniziato prima d'ora, ciò trova ragione nel fatto che l'inquadramento militare dei Partiti Comunisti deve essere preceduto dall'inquadramento politico, al quale furono rivolte le nostre cure speciali dal Congresso di Livorno in poi.
I due inquadramenti non si sostituiscono né si ostacolano, ma si completano a vicenda".
2. - Per un'azione d'insieme del proletariato contro l'attacco padronale alle sue condizioni di vita, di lavoro e d'organizzazione.
Si è già notato come, nella primavera 1921, all'offensiva squadrista corse parallelo un attacco generale alle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia, a livello di fabbrica come a livello legislativo.
L'industria si andava risollevando dalla crisi 1919-20, e, prevalentemente, tramite il prolungamento della giornata lavorativa oltre le 8 ore di recente conquistate e l'intensificazione del lavoro: l'esercito industriale di riserva, lungi dall'essere almeno in parte riassorbito, tendeva quindi ad ingrossarsi (era ufficialmente di 102.156 unità a fine 1920; salì a 388.744 in giugno). D'altra parte, nelle grandi fabbriche (a cominciare, a Torino, dalla Michelin e dalla Fiat, seguite poi dalla Barberis e dalla Scat) fioccavano i licenziamenti, intesi per lo più a sbarazzare il terreno dagli elementi di punta delle maestranze e dagli organi periferici (commissioni interne, commissari di reparto) in più diretto contatto con la manodopera, e a ristabilire il massimo di disciplina in fabbrica così come le forze statali e parastatali dell'ordine procedevano a ristabilirlo nella società: entravano in crisi l'Ilva e l'Ansaldo, due dei maggiori complessi dell'epoca. Quanto al potere di acquisto dei salari, d'altronde rimasti da tempo pressoché immobili, concorrevano ad una sua progressiva caduta sia l'abolizione del prezzo politico del pane - votata il 23 febbraio alla Camera dopo un ostruzionismo socialista che lo stesso Giolitti ebbe a definire "lungo ma non energico", e Luigi Sturzo, molto più realisticamente, "una farsetta" -, sia la progressiva svalutazione della lira, per non parlare del più tardo avvio, ancora regnando Giolitti, di una politica doganale protezionistica.
L'attacco padronale aveva anche qui carattere preventivo: chiari sintomi lasciavano prevedere che al declino delle agitazioni operaie seguito al primo impatto delle spedizioni punitive fasciste da un lato, all'incombente minaccia della perdita su vasta scala di posti di lavoro dall'altro, stesse per subentrare un periodo non breve né tranquillo di ripresa, dal quale urgeva per il padronato premunirsi in tempo; alleato fedele, il riformismo sindacale si adoperava per neutralizzare la propaganda comunista nelle file della CGL rendendo sempre più difficile la vita agli organizzatori "rossi". Difesa proletaria sul terreno della lotta armata e difesa proletaria sul terreno della salvaguardia delle condizioni di vita, di lavoro e di organizzazione, erano quindi due facce dello stesso problema, la soluzione del quale era a sua volta conditio sine qua non di una possibile "riscossa", dunque del passaggio dalla difensiva all'offensiva, in futuro. Se, come si è visto, l'obiettivo prefissosi dal partito sotto direzione di sinistra era di ottenere, attraverso una resistenza proletaria più efficiente all'attacco della classe avversa, il concentramento della forza operaia nelle condizioni migliori possibili intorno non a qualsiasi bandiera, ma a quella della rivoluzione proletaria e, quindi, del partito, tutta la tradizione della Sinistra, suffragata dalla grandiosa esperienza bolscevica e dalle tesi della III Internazionale, portava a concludere che il problema poteva essere correttamente ed utilmente risolto solo impostandolo nel senso di "assicurare il massimo di unità difensiva proletaria di fronte alla pressione padronale e, nel tempo stesso, evitare che le masse ricadessero nella illusione di quella unità apparente, miscuglio di indirizzi contrastanti, che già era denunziata come impotente da una dolorosa esperienza" (35) e che, viceversa, continua ad essere il sogno delle cosiddette Sinistre attuali. All'attuazione di questo grande disegno strategico, la lotta di difesa economica, spinta fino all'azione di insieme di tutto il proletariato e delle sue organizzazioni, offriva un terreno ideale: terreno di scontro con l'opportunismo in tutte le sue forme, terreno di incontro coi proletari di qualunque o di nessuna affiliazione politica e ideologica, spinti però dalle comuni condizioni di vita e di lavoro ad agire in difesa intransigente dei propri interessi e resi così accessibili ad una più rapida acquisizione della coscienza di classe, quindi anche all'assimilazione delle direttive generali del partito.
Tutto, nelle dichiarazioni e nella prassi dei vertici confederali, giustificava la convinzione del PCd'I che, complice anche l'apertura della campagna elettorale, i dirigenti confederali avrebbero sempre meno osato affrontare l'alea della lotta diretta, per ripiegare invece sul terreno ad essi congeniale della proposta di timide riforme da presentare in parlamento e, candidandosi alla collaborazione governativa come da tempo li invitava a fare Giolitti, muoversi anche in campo rivendicativo nella stessa direzione della pace sociale e del disarmo proletario, che il PSI, in termini non più soltanto di propaganda o di discorsi parlamentari, ma di impegni contrattuali, stava per battere sul piano più strettamente politico.
L'acuirsi del problema dei licenziamenti e, in generale, della disoccupazione li indusse a promuovere per il 31/III-1/IV a Milano un convegno di rappresentanze delle Federazioni di mestiere, delle CdL di Milano, Torino e Genova, e della stessa segreteria confederale, per "discutere della crisi". Ne uscì una mozione occupata per la maggior parte da magniloquenti piani di controllo sindacale sulle aziende, di espropriazione del suolo e di un certo numero di industrie, di riforma tributaria, di soluzione della gravissima crisi edilizia ecc. e, per quanto riguarda la disoccupazione, di richiesta allo Stato di non meglio specificati sussidi straordinari per i senza lavoro, ma specialmente (non era né sarà in tutto il resto del secolo una novità, con i... grandiosi risultati che tutti sanno), dell'"immediata formulazione ed inizio di un largo programma di lavori pubblici da affidarsi prevalentemente a cooperative di lavoratori", e finanziabili al modo che era di norma nei casi di pubblica calamità. Come osservò U. Terracini in un articolo omonimo apparso l'1/IV ne L'Ordine Nuovo, era il tipico "programma elettorale" sfornato per l'ennesima volta dalla cucina confederale battendo in tempestività il PSI, e agitato come demagogica panacea al più vistoso flagello del modo di produzione capitalistico: non piano di lotta, ma piattaforma di collaborazione, diretta o indiretta, alla gestione del sistema.
Esso confermava esplicitamente l'aperta rinunzia da parte della CGL, come scriveva Il Comunista del 7/IV,
"ai mezzi di azione sindacale che sono a disposizione dei massimi organi proletari per ingaggiare o soltanto saggiare una lotta diretta con gli industriali, allo scopo di frenare quanto vi è, nelle minacce e negli annunci di licenziamenti su vasta scala, di libidine reazionaria, di intendimenti offensivi contro le maestranze, di propositi di sfruttare la situazione generale economica e politica per recare colpi decisivi non solo alle tendenze politiche e ai partiti estremisti che reclutano i loro seguaci nel proletariato industriale, ma alla stessa compagine dell'organizzazione professionale".
E sarà il leit-motiv dei mesi successivi, in chiaro parallelismo con le manovre parlamentari sia per un "disarmo degli spiriti", sia per una partecipazione confederale, anche dai banchi dell'opposizione se era troppo presto per andare al governo, alla politica economica e sociale dello Stato. Latitanza completa o aperto sabotaggio: tali saranno i due volti della direzione confederale nei confronti di lotte per il momento sparpagliate, è vero, ma di forte combattività.
La vertenza per i "serrati della Fiat" si trascinò per tutto il mese di aprile senza che l'organizzazione sindacale decidesse, in appoggio a quei lavoratori, un'azione di solidarietà locale o, meno ancora, nazionale: scontassero pure i frequenti atti di indisciplina verso la CGL; avrebbero messo giudizio! (36). Soli, sfiancati da mesi ed anni di battaglie, "uomini di carne ed ossa", come disse Gramsci prendendone giustamente le difese l'8/V, i gloriosi operai dello stabilimento torinese - per giunta, fatto occupare da soldati e guardie regie per ordine di Giolitti - piegarono infine la testa.
In giugno scoppiò, imprevista, la violenta agitazione di una categoria solitamente aliena dal ricorrere a forme di lotta diretta: gli impiegati statali. Lo sciopero, se aveva alla base motivazioni puramente economiche, assunse però "innegabile portata politica"; un comunicato del CE e del CS del partito comunista (cfr. L'Ordine Nuovo, 11/VI), denunziò tuttavia la gravità del fatto che "i dirigenti delle Grandi Organizzazioni proletarie offrono, sì, una loro solidarietà verbale agli impiegati, ma non si pronunciano chiaramente sul problema dei rapporti fra lo Stato e i suoi dipendenti, né si impegnano a sostenere incondizionatamente, contro le resistenze, le insidie e le sopraffazioni del governo, la causa degli statali". Esso aggiungeva:
"Il Partito comunista rivendica il diritto di lotta, con tutti i mezzi sindacali fino allo sciopero, per gli addetti ai servizi e alle amministrazioni statali (postulato che accomuna la causa degli impiegati con quella dei ferrovieri, degli operai dell'industria di Stato e simili), coerente in ciò alla propria dottrina, che nega allo Stato borghese il carattere di esponente di interessi collettivi e vede in esso l'organo di politica degli interessi parassitari della classe capitalista, e incita i suoi dipendenti, peggio trattati e retribuiti di quelli delle aziende private, a combatterlo con le stesse armi che valgono contro il privato imprenditore nelle battaglie del lavoro [...] Pertanto [e abbondiamo nella citazione per rispondere a quanti accusano noi e il partito di allora di guardare dall'alto e con indifferenza le lotte e le rivendicazioni di ceti non strettamente proletari] il CE e il CS del PCd'I invitano tutti i membri del Partito e gli organismi sindacali che ne seguono le direttive a sostenere vigorosamente nel seno dei grandi organi proletari nazionali la necessità di un appoggio positivo e tangibile alla lotta degli impiegati statali, a cui mandano un augurale saluto di vittoria insieme a quello di compiere un passo ulteriore sulla via della solidarietà degli sfruttati fino ad intendere come si debba sboccare in un rinnovamento radicale dei rapporti di classe, attraverso il quale l'apparato di repressione e di oppressione che è lo Stato borghese cederà il posto alle civili istituzioni di un ordine nuovo".
La direzione della FIOM si baloccava intanto con iniziative come la proposta al governo (che l'accettò; ma poi Giolitti cadde, trascinandosela dietro nel crollo) di affidare al Consorzio operai metallurgici la gestione in forma cooperativa di 5 stabilimenti statali per la produzione di armi, navi, ecc., mentre la Federazione tessile prendeva, facendo gran chiasso, l'iniziativa di mettere in vendita a prezzi "stracciati" un ingente stock di tessuti (cfr., in appendice al capitolo, Riformismo sindacale). A tanto si era ridotto il... classismo dei sindacati!
Fu dai primi di aprile, come risulta dalla lettura del Comunista, che andò definendosi, in questo come nel precedente settore, il grande disegno strategico del partito che, dall'agosto in poi, divenne il tema martellante della vigorosa campagna Per la difesa e la riscossa proletaria contro l'offensiva borghese (37). Ricordiamone i termini essenziali, del resto coerenti con tutte le direttive emanate da Livorno in poi.
I comunisti, mentre fanno della piaga della disoccupazione, come fenomeno inseparabile dal ciclo della produzione di merci, uno dei temi della loro propaganda per la soluzione rivoluzionaria contrapposta alle pseudo-soluzioni socialdemocratiche e riformiste, lanciano ai proletari la parola d'ordine di un'azione d'insieme di tutta la classe operaia, basata su una piattaforma rivendicativa i cui punti, non da chiedere ma da difendere, vengano "elevati dall'organizzazione sindacale a questioni di principio" nel senso che ogni concessione, anche limitata, su di essi vada respinta come "creazione di un precedente che darebbe battaglia vinta agli avversari": salvaguardia delle otto ore, rispetto dei concordati (e patti colonici) vigenti e del valore globale dei salari; "assicurazione dell'esistenza per i lavoratori licenziati e le loro famiglie attraverso la corresponsione di un indennizzo proporzionato al costo della vita e al numero dei componenti la famiglia, tendendo a raggiungere il livello dell'integrale salario per una media famiglia operaia"; integrità del diritto di organizzazione e riconoscimento di questa.
Elevare questi punti a questioni di principio significava rispondere con la proclamazione dello sciopero generale di tutte le categorie organizzate degli operai e dei contadini non appena "su un qualunque fronte delle organizzazioni di classe, per una qualsiasi categoria o in una qualsiasi zona, le classi padronali intaccheranno le posizioni raggiunte dai lavoratori sui detti capisaldi". Avanzarli pubblicamente agli operai, proponendoli nello stesso tempo alla CGL, all'USI e al Sindacato ferrovieri, significava gettare le basi reali - perché scaturite non da ipocriti ed impotenti miscugli di indirizzi politici contrastanti, ma dal riconoscimento di esigenze vitali dell'intera classe a prescindere dalle opinioni politiche dei singoli proletari, e cementate dalla lotta - di quello che lo stesso partito chiamò allora il "fronte unico proletario", di gran lunga il primo e, fuori delle chiacchiere, l'unico esperimento del genere che, nella storia dell'Internazionale comunista, non sia rimasto sulla carta. Farne il perno della "difesa" e della "riscossa" proletaria, significava capovolgere l'impostazione minimalista senza cadere nelle secche dell'infantilismo di sinistra: nessun miglioramento duraturo delle condizioni di vita e di lavoro è, certamente, conseguibile nella società borghese, solo il comunismo potrà risolvere definitivamente il problema della disoccupazione, e il partito comunista è il primo ad ammonirne i proletari; ma ciò non soltanto non esclude che spazi di vita meno indegna, di più efficace organizzazione e di meno aleatoria "guerriglia contro il capitale", possano essere conquistati e difesi nell'ambito di questa società, ma fa della lotta per conseguirli o conservarli, specie se impostata in base a quei criteri d'intransigenza classista e a quegli obiettivi d'interesse urgente e collettivo, l'occasione più propizia per lo sviluppo in seno ai proletari di sentimenti di unità e solidarietà di classe, di orgoglio per le battaglie sostenute, di fierezza per la propria causa; tutti coefficienti d'inestimabile valore ai fini della preparazione rivoluzionaria e, al contempo, della conquista alla direzione del partito, come interprete anche delle esigenze immediate dei lavoratori prima ancora che le grandi masse siano in grado di assimilarne il programma finale, di strati sempre più vasti di proletari (37 bis).
Una visione del genere era preclusa, ovviamente, alla direzione riformista della CGL, che anzi cercava di elevare solide barriere all'infiltrazione di una propaganda così efficacemente impostata, sia col metodo diretto dell'esclusione dai sindacati degli elementi più "ingombranti", sia disponendosi ad introdurre nelle proprie strutture elementi atti ad assicurare il massimo di disciplina formale e ridurre al minimo le manifestazioni di dissenso. In questa direzione si muovevano già le proposte di riforma statutaria avanzate da D'Aragona con molta cautela al Consiglio nazionale della CGL tenutosi a Milano dal 22 al 24 aprile, che miravano, in particolare, a trasformare le Camere del Lavoro in sezioni della Confederazione rette da uomini di fiducia della sua dirigenza, a fondere i movimenti cooperativo e mutualistico con quello della resistenza (cioè sindacale in senso proprio) e a conferire maggiori poteri sia al Consiglio nazionale, sia all'organo direttivo da esso nominato. Ora è chiaro che nessuno più dei comunisti era favorevole alla centralizzazione e al disciplinamento del movimento sindacale come di ogni forma di lotta del proletariato; ma esautorare le CdL riducendole a pure e semplici appendici di un apparato di cui si lamentava già la pesantezza e la rigidità burocratiche avrebbe voluto dire infrangere i vitali legami che proprio attraverso quegli organi periferici si erano per lunga tradizione stabiliti fra sindacato e masse, e privare il primo della linfa di una vita politicamente e sindacalmente attiva (quindi anche di una salutare reazione all'opportunismo dei vertici) come quella che normalmente si svolgeva nelle CdL, non a caso bersaglio privilegiato dell'offensiva padronale e squadrista. Allo stesso modo, era giusto che movimenti come quelli cooperativo e mutualistico si coordinassero col massimo organo di "resistenza operaia", a condizione però che la direzione dei movimenti d'insieme della classe restasse a quest'ultimo e, col pretesto della centralizzazione e della disciplina, non si tendesse - come osservò per i comunisti Repossi - a creare una "Triplice del lavoro" dando alla Confederazione "un indirizzo apertamente laburistico in contrasto con le aspirazioni delle masse e con le stesse tradizioni confederali", e traendo dagli organismi tradizionalmente pantofolai di cui si auspicava l'assorbimento un apporto ulteriore alla castrazione delle lotte di classe da un lato, alla burocratizzazione degli apparati sindacali (già allora sulla via che doveva portare, passo passo, alla situazione miseranda dei nostri giorni) dall'altro, col risultato di spegnere le voci dissenzienti dalla linea capitolarda della Confederazione e di accrescere nelle file di quest'ultima il peso delle componenti opportunistiche.
Tutto questo fu detto dai rappresentanti del PCd'I nel corso di un dibattito che vide fra l'altro rinnovarsi l'ennesimo attacco ai comunisti torinesi, rei di... difendere proprio in quei giorni le commissioni interne e i commissari di reparto contro la volontà padronale di esautorarli, e, in tema di offensiva fascista, l'invito dei massimi calibri alla resistenza passiva e alla dignitosa rassegnazione in attesa che la bufera si placasse... da sé (38). E fu anche merito loro se le proposte di revisione dello statuto, cioè di ulteriore burocratizzazione e sterilizzazione della CGL, vennero rinviate a nuovo esame.
A qualunque espediente ricorressero i dirigenti confederali per escludere o almeno neutralizzare i comunisti nelle loro file e cosi proseguire indisturbati la loro opera di sterilizzazione delle lotte operaie, nulla poteva in ogni caso distogliere il PCd'I dal lancio di un'altra iniziativa, del tutto convergente, del resto, con le tesi della Sinistra e, insieme, dell'Internazionale, sul ruolo dei sindacati (39), e con l'appello per un'azione di insieme di tutto il proletariato: l'invito cioè "ai lavoratori organizzati nei sindacati", e più specificamente a tutte le forze sindacali avverse alla "politica disfattista e rovinosa dei riformisti" di confluire tutti insieme nella massima organizzazione operaia per battervisi uniti contro i suoi dirigenti, e realizzare, con la fusione di tutte le organizzazioni sindacali che si richiamavano alla lotta di classe (CGL, USI, Sindacato ferrovieri), "la massima messa in valore di tutte le opposizioni alla politica del socialtradimento che tante volte ha compromesso le sorti delle lotte decisive del proletariato italiano". L'invito, contenuto nel manifesto Per l'unità proletaria firmato dal CC del PCd'I e dal suo Comitato sindacale e apparso l'8 maggio ne Il Comunista, anticipava su un altro piano, quello dell'"unità sindacale", l'appello al "fronte unico proletario" dell'agosto. Era alla sua base, da un punto di vista teorico generale, il concetto che il sindacato costituisce "il primo stadio della coscienza e della pratica associativa degli operai" perché e nella misura in cui riunisce nella stessa organizzazione di combattimento e in un solo fronte di lotta contro il capitale i proletari di diverse località e di diverse categorie - e tale compito può tanto meglio assolvere, in quanto sia unico (e, come tale, aperto ad ogni lavoratore, senza pregiudiziali politiche e ideologiche) -; a sua volta l'unità sindacale, essendo "un coefficiente favorevole alla diffusione dell'ideologia e dell'organizzazione rivoluzionaria politica" e il partito svolgendo "nel seno del sindacato unico il suo migliore reclutamento e la migliore sua campagna contro i metodi errati di lotta che da altre parti si prospettano al proletariato" (40), accelera il processo attraverso il quale la classe operaia o almeno, all'inizio, la sua avanguardia si avvia a riconoscere la necessità di un programma unico non solo di difesa contro l'attacco quotidiano del capitale, ma di offensiva contro il regime capitalista ai fini del suo abbattimento rivoluzionario, la necessità quindi del partito che di quel programma è il portatore. Dal punto di vista più immediato, l'unificazione delle tre organizzazioni avrebbe risposto all'obiettivo di dare alla ventilata azione d'insieme del proletariato un inquadramento organizzativo unico, così come unica sarebbe stata la piattaforma rivendicativa e unica la tattica da adottare contro il padronato, convogliando nello stesso alveo le forze più decise a combattere il nemico di classe e, per logica conseguenza, l'opportunismo che lo aiutava a prolungare il proprio spietato dominio.
Del tutto coerente con le direttive dell'Internazionale Sindacale Rossa per un unico sindacato operaio in ogni paese, e con le Tesi del II e, più tardi, del III congresso dell'IC, la proposta di unità sindacale - appunto perché rispondente ad esigenze comuni a tutti i lavoratori, e da tutti accettabile a prescindere da qualunque affiliazione o simpatia politica - andava nel senso di tutta l'azione condotta dal partito per raccogliere intorno alla bandiera del comunismo gli strati possibilmente più vasti della classe lavoratrice, senza che ciò comportasse, o sembrasse comportare agli occhi dei più, la minima tregua nell'azione propria e specifica del partito stesso sul piano dei principi, del programma, della tattica e dell'organizzazione, il minimo pregiudizio al rigore della sua delimitazione dagli altri partiti politici, la minima attenuazione nella sua campagna anti-opportunista, come invece sarebbe avvenuto nel caso della solita proposta di falsa unità fra partiti "operai".
Il Manifesto diceva:
Ai lavoratori organizzati nei sindacati per l'unità proletaria
Compagni!
Per il Partito comunista uno dei problemi che si pongono in primissima linea tra quelli della preparazione rivoluzionaria è il problema sindacale.
In tutti i paesi del mondo la questione è all'ordine del giorno. Il grado di coscienza e di forza rivoluzionaria della classe lavoratrice è collegato strettamente alla situazione delle organizzazioni economiche, nelle cui file si raggruppano i lavoratori di tutte le categorie, di tutte le professioni.
In Italia il Partito comunista, al suo sorgere, si trova davanti ad una situazione, che se non è sostanzialmente diversa, certo non è meno difficile ad essere affrontata di quella degli altri paesi, dal punto di vista dei rapporti del Partito con le grandi masse organizzate, della propaganda del comunismo e dell'efficiente preparazione rivoluzionaria.
Il Partito socialista, dalla scissione dal quale il nostro partito è recentemente sorto, ha sempre nella sua opera affiancato la più numerosa delle grandi organizzazioni sindacali italiane: la Confederazione generale del lavoro. Da questa negli anni precedenti alla guerra si staccarono molte organizzazioni, allorché dal Partito socialista uscirono i sindacalisti: ed ancora oggi quelle organizzazioni sono nazionalmente collegate in un altro organismo, la Unione sindacale italiana.
Vi sotto poi delle grandi organizzazioni nazionali di categoria che, dinanzi a questa situazione, non sapendo scegliere tra le due centrali sindacali esistenti, sono estranee ad entrambe: il Sindacato ferrovieri italiani, la Federazione dei lavoratori del mare, la Federazione lavoratori dei porti e qualche altro minore aggruppamento sindacale. S'intende che qui non parliamo neppure di quei movimenti a carattere pseudo-sindacale, che apertamente affiancano partiti dichiaratamente borghesi, spesso sotto la solita maschera reazionaria dell'apoliticità, e sono sorti ad opera di popolari, interventisti o fascisti.
Nell'uscire dal Partito socialista, i comunisti hanno considerato il problema sindacale secondo le vedute che derivano dalla loro dottrina marxista e dalla disciplina, incondizionatamente da essi osservata, alle direttive tattiche della terza Internazionale.
Secondo i comunisti italiani e di tutti i paesi, il mezzo più efficace per far guadagnare terreno alle tendenze rivoluzionarie tra le masse organizzate, non è quello di scindere quei sindacati che si trovino nelle mani di dirigenti destreggianti, riformisti, opportunisti, controrivoluzionari. Tagliati i ponti, nazionalmente come internazionalmente, con questi traditori della classe lavoratrice; costituito nel Partito politico comunista l'organismo che abbraccia i soli lavoratori pienamente coscienti delle direttive rivoluzionarie dell'Internazionale comunista; i membri e i militanti del partito rivoluzionario non escono dai Sindacati, non spingono le masse ad abbandonarli e boicottarli, ma dentro di essi, dall'interno dell'organizzazione economica, impostano la più fiera lotta contro l'opportunismo dei capi.
Senza qui ripetere tutte le ragioni di principio e le esperienze pratiche su cui si basa questa precisa e immutabile tattica adottata dai comunisti del mondo intiero, vogliamo esprimere la convinzione che tutti i lavoratori italiani abbiano ben compreso lo spirito dell'atteggiamento preso dai comunisti col non uscire dalla Confederazione del lavoro, notoriamente diretta da elementi riformisti, che sono sempre stati alla estrema destra del vecchio partito, che sono responsabili di tutta una costante politica antirivoluzionaria, di una vera serie di tradimenti a danno del proletariato italiano e di compromessi con la borghesia.
Noi siamo più che qualsiasi altro aggruppamento di operai rivoluzionari decisi a lottare contro la politica di quei nemici della nostra causa. Se credessimo che un altro metodo - poniamo quello di uscire in massa dalla Confederazione per entrare nell'Unione sindacale italiana o di fondare un altro organo nazionale sindacale - offrisse un vantaggio nella lotta contro i D'Aragona e C. della Confederazione, e conducesse più rapidamente a liquidarli, noi questo altro metodo abbracceremmo con entusiasmo. Ma così non è. Se il nostro Partito avesse preso quell'atteggiamento, avrebbe fatto il più gran piacere e reso il servigio migliore ai controrivoluzionari che siedono sui supremi scanni confederali. Tra le tante prove che nei nostri scritti di propaganda sono recate di questa elementare verità, efficacissima è quella che in molti altri paesi del mondo i socialdemocratici hanno intrapreso una campagna per escludere con ogni mezzo più sleale, dai sindacati da loro capeggiati, quegli organizzati e quegli organizzatori comunisti che - come benissimo essi andavano accorgendosi - minavano le basi della loro dittatura, aprendo gli occhi alle masse.
Questo accenna a verificarsi anche in Italia, come risposta dei capi della Confederazione e di certe grandi organizzazioni alla campagna vigorosamente da noi iniziata e svolta contro di essi nel seno delle organizzazioni stesse. Il Partito comunista ha rapidamente affasciato le forze sindacali che ad esso fanno capo, ed organizzato l'opposizione ai riformisti - ossia a tutti i socialisti, ché nulla più distingue oggi i Serrati dai Turati e dai D'Aragona - dominanti nella massima nostra organizzazione. Una prima battaglia si è avuta al congresso confederale di Livorno, e battaglie parziali si svolgono ogni giorno, in seno alle leghe, alle Camere del lavoro, alle Federazioni nazionali.
Nessun lavoratore organizzato, sia esso comunista, sindacalista od anarchico, vorrà dunque vedere una contraddizione tra la nostra presenza nelle file della Confederazione, e la nostra fermissima risoluzione ad una lotta a fondo contro i suoi capi attuali.
Oltre agli operai comunisti, vi sono migliaia e migliaia di altri organizzati avversi fieramente alle direttive dei riformisti confederali, e sono appunto molti di quelli compresi nelle altre organizzazioni che più sopra abbiamo ricordate. È a questi nostri compagni, organizzati od organizzatori, che intendiamo rivolgere il nostro appello.
Sappiamo benissimo, e non abbiamo nessuna ragione di dissimulare, che vi sono divergenze di vedute politiche tra i comunisti, i sindacalisti, e gli anarchici. Sappiamo altresì molto bene che queste differenze si riflettono anche sull'atteggiamento che ciascuna di tali tendenze piglia appunto in merito alle questioni sindacali.
Ma queste tendenze hanno questa posizione comune: togliere il dominio sulle masse lavoratrici ai riformisti, ai socialpacifisti, ai negatori e sabotatori di ogni azione rivoluzionaria. Nel campo internazionale tutte queste tendenze, come sono contro la defunta seconda Internazionale politica dei traditori, così sono aspramente avverse all'Internazionale sindacale di Amsterdam, che considerano concordemente come un'organizzazione di traditori asserviti alla borghesia imperialista mondiale, alla lega dei grandi capitalismi negrieri dell'Intesa.
Sindacalisti ed anarchici hanno con le tesi dell'Internazionale comunista politica divergenze che li trattengono fuori dalle sue file e dalla precisa sua disciplina. Ma quelle divergenze, che dividono organismi politici e scuole politiche proletarie, non hanno ragione di dividere il movimento sindacale, che deve contare sul grosso dell'effettivo numerico proletario. Sindacalisti ed anarchici possono accettare il piano di azione dei comunisti contro Amsterdam: demolire l'Internazionale sindacale gialla, non col boicottare i sindacati nazionali ad essa affiliati, perché comprendono il grosso del proletariato organizzato, la cui dirigenza è, con una serie di espedienti ben noti, usurpata dai grandi mandarini sindacali, ma lottare dentro questi organi nazionali sindacali, per strapparli uno ad uno alla tutela insidiosa dei gialli di Amsterdam.
Quindi, a fianco dell'Internazionale comunista politica, sorge l'Internazionale sindacale, alle cui file convergono tutti i lavoratori organizzati con l'obiettivo della lotta contro la borghesia fino al rovesciamento di questa. Quest'Internazionale sindacale rivoluzionaria rossa, contrapposta senza possibilità di confusione a quella opportunista e gialla di Amsterdam, terrà prossimamente il suo Congresso mondiale, e ad esso prenderanno parte tutti i sindacati che accettano la lotta contro la borghesia e contro l'opportunismo riformista.
In Italia la proposta, ventilata da alcuni elementi di sinistra del movimento operaio, che i comunisti, uscendo con le notevoli loro forze sindacali dalla Confederazione del lavoro, dessero opera a costituire un più grande organismo sindacale rivoluzionario, se dimostra non esatta conoscenza della posizione presa da tempo dai comunisti in Italia e fuori sul problema sindacale, dimostra però anche la tendenza ad intensificare con tutte le forze sindacali di sinistra la lotta per distruggere l'influenza nefasta dei riformisti sulle masse, salvo a delineare poi più esattamente le nuove direttive da adottare, e se esse debbano essere quelle dei comunisti, dei sindacalisti o anarchici.
Mentre d'altra parte i comunisti fanno una questione fondamentale della loro presenza nella Confederazione, i lavoratori organizzati nell'Unione sindacale e negli altri organismi non solo non sono per principio fautori dell'esistenza di due opposti organismi operai, ma spesso hanno dimostrato e dichiarato di essere propensi all'unificazione delle organizzazioni sindacali italiane.
Se - ferme restando le differenze di dottrina e di metodo - vi è un ostacolo da togliere di mezzo, questo è il dubbio, che noi riteniamo dissipato, che l'atteggiamento dei comunisti sia dettato da poca decisione nella lotta antiriformista, anziché, come vedemmo, dal proposito di colpire i riformisti nel punto più vulnerabile e nel modo più deciso.
Tutte le forze sindacali che sono contro la politica disfattista e rovinosa dei riformisti, potrebbero dunque porsi sulla piattaforma comune di lavorare nella Confederazione contro i suoi capi attuali, realizzando la fusione di tutte le organizzazioni sindacali, ma soprattutto la massima messa in valore di tutte le opposizioni alla politica del social-tradimento che tante volte ha compromesso le sorti delle lotte decisive del proletariato italiano.
Compagni lavoratori!
È per tutte queste ragioni, su cui dovete portare la massima attenzione, che il Partito comunista, assolvendo un suo formale impegno e preciso dovere, lancia il suo appello per la entrata nella Confederazione di tutti i sindacati proletari rossi che ne sono fuori.
A questo risultato si oppongono mille sottili artifizi burocratici e procedurali, che i maneggiatori riformisti sfrutteranno al massimo. Lo sappiamo. Ma lo scopo di tutte queste macchinazioni, di quest'ostruzionismo burocratico, sotto il quale è soffocato il proletariato organizzato, è appunto quello di escludere gli elementi rinnovatori, che soli potrebbero condurre la massa dei loro compagni a scuotere la dittatura dei bonzi. Tenersi fuori per paura di queste loro armi sleali, ma non invincibili, è il modo più diretto di dar battaglia vinta a questi nostri avversari.
Il Partito comunista si rivolge a tutti i compagni lavoratori dell'industria e dell'agricoltura e alle loro organizzazioni, che sono al di fuori della Confederazione, e li invita caldamente a superare gli ostacoli derivanti da piccole questioni di procedura e di forma per badare alla sostanza.
Il Partito comunista è convinto che quei lavoratori, che sentono insormontabile la ripugnanza per gli elementi di destra del movimento operaio, intenderanno come diverso e più leale sia incomparabilmente questo suo appello dalle ipocrite dichiarazioni che i socialdemocratici fanno quando a lor volta parlano di unità sindacale. Il recente Congresso confederale votava unanime un analogo invito, ma esso aveva senso e valore ben diverso dal nostro, e noi domandiamo che col nostro non venga confuso. Mentre nelle masse organizzate vive spontaneo e diffuso il desiderio dell'unità proletaria, nell'intendimento dei capi socialisti, che a Livorno ostentarono di votare questo principio, si cela una sottile ipocrisia, e l'intendimento di precludere con un'abile politica di ostruzionismo la via ad una valorizzazione delle forze a loro avverse. Essi sottilmente confondono l'unità delle masse organizzate con la benevola neutralità verso di loro, col disarmo dell'opposizione all'attuale maggioranza confederale da loro diretta. Noi, all'opposto, vediamo nell'unità organizzativa delle masse sindacate la condizione indispensabile per menare felicemente a termine la campagna contro l'opportunismo annidato nel movimento proletario, e che pretende di parlare in nome del proletariato, mentre fa un'opera che solo avvantaggia la borghesia.
Noi quindi esortiamo ancora gli organizzati, che sono in organismi estranei alla Confederazione, a vincere le esitazioni. Non si tratta di andare verso gli opportunisti, di accogliere un loro invito impegnandosi a risparmiarli, ma di accettare dal Partito comunista e dall'Internazionale di Mosca la proposta di adottare un metodo tattico che vuole servire e servirà a smontare spietatamente la dittatura dei controrivoluzionari e degli opportunisti sulle masse sindacate.
Certo, dopo che questo nostro appello e tutta l'opera nostra avranno - e noi ardentemente lo auguriamo - convinto i lavoratori a cui ci rivolgiamo, non pochi altri problemi ed ostacoli si presenteranno, per giungere alla sistemazione del movimento sindacale italiano, in relazione naturalmente a quello internazionale, nel senso da noi auspicato.
Noi confidiamo però che non si tratterà di problemi insolubili e di ostacoli insormontabili, purché vi si ponga della buona volontà, della chiarezza, della sincerità. Noi confidiamo che la nostra parola non cadrà nel vuoto, che della questione come noi la tratteggiamo si occuperanno le assemblee proletarie, tutti gli organismi che raggruppano i lavoratori d'ogni categoria, che ognuno porterà il suo contributo perché i punti più difficili del lavoro da compiere siano felicemente superati. Chi questo avrà fatto, avrà fatto il suo dovere verso la causa della rivoluzione proletaria.
Il Partito comunista attende con interesse l'esito di questa sua iniziativa, esso impegna al suo successo tutte le energie di cui dispone, l'attività di tutti i suoi aderenti, e soprattutto degli organizzati, degli organizzatori, delle organizzazioni, che sono sulle direttive del Partito, tanto nel seno della Confederazione che degli altri organismi sindacali. Il Partito comunista d'Italia saluta con entusiasmo tutti i lavoratori rivoluzionari che gli verranno incontro in questa sua opera fondamentale per la preparazione del proletariato italiano alle supreme battaglie della sua liberazione.
Compagni lavoratori organizzati!
Noi siamo sicuri che avrà presso di voi eco formidabile il nostro grido:
Viva l'Internazionale dei Sindacati rossi! Abbasso l'Internazionale dei gialli e dei rinnegati!
Viva la vittoria di Mosca su Amsterdam, della rivoluzione sul tradimento opportunista!
Viva l'unità dei lavoratori sul terreno della lotta rivoluzionaria per l'abbattimento della borghesia e il trionfo del comunismo!
Viva l'unità delle forze proletarie italiane, che farà di esse un fascio solo, contro la dittatura dei pompieri, attorno alla bandiera dell'Internazionale!
All'invito, confederali e socialisti risposero... tacendo, come se neppure fosse stato lanciato, mentre anarco-sindacalisti e ferrovieri, entrambi irretiti in un gretto autonomismo e, i primi, in una visione distorta della natura e della funzione del sindacato operaio - presupposto come apolitico, eppure chiuso a tendenze che non fossero la loro, e concepito come sostitutivo del partito nella preparazione e nella guida della rivoluzione -, gli opponevano un netto rifiuto (poco dopo gli uomini dell'USI uscirono anche dall'Internazionale sindacale rossa, alla quale frattanto i ferrovieri decidevano di non aderire); ma esso lasciò una traccia non superficiale nelle grandi masse proletarie, e l'indifferenza o la ripulsa con cui era stato accolto rappresentò nei mesi successivi una formidabile arma di battaglia non soltanto polemica in mano al partito. Non solo, ma poco più di mezzo anno dopo, nel febbraio '22, la parola dell'"unità sindacale" trovò una prima realizzazione - tanto più significativa, in quanto non promossa direttamente dal Partito - nell'Alleanza del Lavoro, mentre, un anno dopo, quella dell'azione d'insieme del proletariato si concretava nello sciopero generale dell'agosto '22, purtroppo proclamato tardivamente e con scarsa o nessuna convinzione da parte confederale, socialista e anarco-sindacalista, quindi nelle condizioni peggiori per recare i frutti che avrebbe potuto dare molto tempo prima e con un impegno serio e deciso dei partecipanti. E fu un'altra arma polemica nelle mani del partito che delle due iniziative si era fatto promotore, nulla contando per esso quali forze - costrette a ciò dalla lezione inesorabile dei fatti - le avrebbe fatte proprie. Si pensi, in effetti, che l'intensa campagna per l'azione d'insieme del proletariato contro l'offensiva padronale e squadrista e per il fronte unico sindacale, svolta dal PCd'I in tutta la seconda metà del 1921, non solo non aveva trovato eco nei vertici della CGL, ma nel Consiglio nazionale dei primi di novembre a Verona questi ne avevano esplicitamente respinte le proposte, prima fra tutte quella di uno sciopero generale. Più di un anno si era dunque lasciato passare nell'inerzia, per decidersi infine ad agire quando la situazione, diversamente da allora, era ormai pregiudicata. Quale miglior prova del ruolo costituzionalmente disfattista del riformismo e, alle sue spalle, di un massimalismo che ne avalla ogni atto di abdicazione di fronte al nemico di classe?
Affiancata all'azione di difesa proletaria armata, l'azione sindacale del partito di allora rappresenta uno dei suoi massimi titoli storici e un indice sicuro della sua efficienza.
Partito settario? Partito chiuso? Al suo interno e rispetto ai suoi princìpi e al suo programma, senza alcun dubbio. Ma partito aperto, nelle azioni d'interesse comune, ai proletari di qualunque colore ed alle organizzazioni sorte esplicitamente in difesa non di particolari programmi politici, ma delle condizioni elementari di vita, lavoro e lotta dei proletari. E, in questa unità dialettica di chiusura ed apertura, partito operante col massimo di coerenza, continuità ed efficienza in una situazione che appunto quelle doti richiedeva perché si potesse giungere ad uno sbocco favorevole alla causa del comunismo, non a quella della controrivoluzione.
Va da sé che un'azione intensa e capillare di agitazione delle due grandi direttive convergenti sul piano sindacale e rivendicativo, come quella che ebbe inizio allora e nei mesi immediatamente seguenti, presupponeva non solo chiarezza di idee al vertice, ma rigore e disciplina organizzativa alla base. Già il comunicato del 13/III sull'"organizzazione e il coordinamento" dei Gruppi comunisti d'azienda, di cui abbiamo parlato nel par. 6 del cap. V, aveva disposto: 1) che con l'insieme dei gruppi di una data industria si costituisse il gruppo del Sindacato dell'industria stessa, e che il Comitato sindacale comunista di ogni località agisse a stretto contatto e sotto la direzione della sezione locale del Partito, 2) che i Gruppi partecipassero alle elezioni degli organi rappresentativi e direttivi della rispettiva azienda e del rispettivo Sindacato, "presentando liste proprie composte di comunisti iscritti ed anche di simpatizzanti, purché non iscritti ad altri partiti politici" evitando così i consigli misti eletti d'accordo tra vari partiti.
Un altro comunicato del 28/IV ribadì che i Gruppi comunisti di azienda dovevano essere costituiti da soci, candidati, e iscritti alla FGC (nonché da simpatizzanti, senza però voto deliberativo) e stabilì l'obbligo di rendere nota mediante apposita marchetta distribuita ai componenti il gruppo l'appartenenza all'Internazionale Sindacale Rossa.
L'intera materia venne poi definitivamente codificata nelle Norme per la costituzione e l'organizzazione dei gruppi comunisti, apparse sul Comunista del 31 luglio: numero minimo dei componenti (tre); composizione (i soli iscritti al Partito, con facoltà ai simpatizzanti di aderirvi); funzione (essere "la lunga mano del Partito nella fabbrica, nella Lega, nella cooperativa, nel circolo, ecc."); compiti speciali in seno ai Sindacati; elezione dei fiduciari e loro partecipazione al Comitato sindacale centrale, e così via.
L'inquadramento generale - politico, militare, sindacale, non parliamo per ora di quello illegale - del Partito poté così dirsi completo, e l'insieme dell'organizzazione si dispose non soltanto con entusiasmo e con fiducia, ma con una salda e articolata rete di collegamenti, ad affrontare i duri compiti del successivo anno e mezzo, nella consapevolezza di lavorare al potenziamento, non in vitro ma nel vivo dell'azione di classe, del partito della rivoluzione comunista. Quanto sia stato intenso il lavoro svolto in quel breve arco di tempo, e quali frutti sarebbe stato lecito aspettarne se lo si fosse lasciato concludere il suo ciclo non rimettendone continuamente in causa i metodi e gli indirizzi (come purtroppo avvenne, da parte degli organi direttivi dell'IC, per una fatale incomprensione degli obiettivi perseguiti non meno che della situazione in cui ci si trovava ad agire), vedremo in un volume successivo.
3. - La partecipazione alle elezioni del maggio 1921
Qualunque cosa si attendesse Giolitti dallo scioglimento della Camera e dal rinvio dei cittadini alle urne il 14 maggio - un ridimensionamento dei partiti socialista e popolare che ne favorisse l'entrata in un governo di coalizione, l'istituzionalizzazione del movimento fascista come partito parlamentare, ecc. (41) - la campagna elettorale e i suoi strascichi ebbero l'effetto, salutare per l'ordine costituito, di allentare la vigilanza operaia nei confronti di un'offensiva squadrista sempre più virulenta, di distogliere l'attenzione dei proletari dai problemi più urgenti dell'ora, di rafforzare la presa del riformismo sulla direzione massimalista del PSI, e d'impegnare le energie del giovane PCd'I in uno sforzo che non poteva non andare a discapito di una sollecita realizzazione dei programmi sia di inquadramento anche militare del partito, sia di intervento attivo ai fini dell'unità sindacale e di un'azione d'insieme del proletariato contro l'offensiva padronale, che infatti subirono, per forza di cose, un'infausta battuta di arresto (42).
Indubbiamente, da parte comunista ci si sarebbe augurati - come dirà A. Bordiga nell'articolo Per chi hanno votato i proletari del 26/V (cfr. l'appendice a questo capitolo), pensando al prossimo futuro - di "essere lasciati svolgere la propria opera di preparazione, così aspra e difficile, prima che una nuova elezione" sopravvenisse "a ripetere il rischio di sviare in essa tutte le energie". Ma le tesi del II Congresso erano anche su questo punto esplicite, e l'Esecutivo non ebbe esitazioni nell'assumersi la responsabilità di decidere di partecipare: una questione elezionista o antielezionista poteva e forse doveva tornare ad affacciarsi alle discussioni del III congresso dell'IC, "ma oggi - si legge nelle Norme per le elezioni politiche apparse ne Il Comunista del 14/IV - la Sezione italiana della III Internazionale obbedisce, disciplinata ed unita, alle norme fissate a Mosca lo scorso anno"; i suoi organi dirigenti non hanno indugiato "neppure un attimo nell'esaminare se il Partito potesse, date le speciali sue condizioni organizzative, appena all'inizio, astenersi dai comizi di Maggio". Le "speciali condizioni" tanto care ai nostalgici dell'autonomia relativa dei partiti comunisti non vennero quindi invocate neppure in considerazione delle difficoltà pratiche, finanziarie ed organizzative, in cui ci si dibatteva in Italia: la disciplina internazionale doveva prevalere, e prevalse, su qualunque ragione di opportunità contingente.
Ciò non significa che ostacoli anche interni al partito non fossero sorti:
"La preparazione elettorale nel suo primo periodo ha presentato notevoli difficoltà - ebbe a registrare il CE nelle Disposizioni per la lotta elettorale, apparse su Il Comunista del 5/V -; in molti compagni ed organizzazioni del partito si era manifestata una vivissima avversione alla partecipazione alle elezioni. Siamo lieti di poter assicurare che questa, salvo in rarissimi casi, non ha avuto origine dalle inammissibili considerazioni che hanno reso molti socialdemocratici astensionisti di occasione (43), come la paura di superare pericoli ed ostilità avversarie, o la evidente coartazione da parte della borghesia della cosiddetta volontà del corpo elettorale, bensì dalla preoccupazione che l'attività elettorale non avesse a turbare, nell'attuale momento di sviluppo, il lavoro e la funzione del nostro partito, che ha dinnanzi a sé un così vasto compito specificamente rivoluzionario (44).
Il CE, forte anche dell'unanime decisione del Comitato Centrale [riunitosi per la prima volta dopo Livorno il 14-15-16/IV, per approvare, fra l'altro, le decisioni già prese in materia dall'Esecutivo] ha adoperato la massima energia per garantire l'osservanza da parte di tutti i compagni della disciplina internazionale e degli impegni programmatici del partito: e le proposte astensioniste sono state universalmente ritirate".
Trattandosi non di raccattare voti ad ogni costo, ma di approfittare dell'occasione per far propaganda dei princìpi, dei postulati programmatici e degli indirizzi d'azione del partito, chiedendo voti unicamente a "coloro che sono sulla precisa linea del programma comunista" e sapendo in anticipo che sarebbero stati, specie poi nella congiuntura storica data, una minoranza esigua della classe, l'intervento doveva avvenire, ed avvenne, in base a criteri di assoluta intransigenza e di massimo rigore politico e organizzativo, escludendo nel modo più radicale le manovre tipiche invece del PSI (45), come "ogni combinazione proposta, sia di presentare compagni che non avessero i precisi requisiti statuiti, sia di accordi con altre correnti estremiste, anche sotto pretesto di portare vittime politiche (che non mancano nelle nostre file)", candidando unicamente soci effettivi e imponendo l'uso di liste bloccate o, in assenza di queste, vietando la distribuzione di schede sulle quali non fossero indicate le preferenze fissate dal partito; un partito deciso "a dare un esempio di vera organizzazione e disciplina, scartando ogni considerazione tattica basata sulla probabilità di ottenere più larghe votazioni" (dal comunicato già cit. col titolo Disposizioni per la lotta elettorale).
Contro ogni illusione di successi elettorali notevoli, non diciamo poi strepitosi, stavano da un lato considerazioni generali come quella che, se il partito rivoluzionario è sempre (perfino dopo la presa del potere) una minoranza della classe, a maggior ragione lo è il numero dei suoi simpatizzanti nei tornei schedaioli, dall'altro considerazioni contingenti come l'impossibilità di presentare una lista in tutte le circoscrizioni (in origine si era previsto di partecipare in 33 su un totale di 40, numero che infine si ridusse, non certo per libera scelta, a 27), la scarsità di mezzi finanziari o la necessità di farne l'uso il più possibile parsimonioso per non pregiudicare lo svolgimento del lavoro in altri e ben più vitali campi di azione, la brevità dei termini concessi per la presentazione delle liste, l'impossibilità (per buona sorte!) di contare come il PSI sul concorso dei "più abili maneggiatori elettorali", la penuria di oratori e propagandisti e, soprattutto, il fatto, su cui richiamavano l'attenzione le già citate Norme, che, anche a prescindere dalle violenze in atto dovunque, "decine di migliaia di lavoratori rivoluzionari sono in galera e 'non usciranno se non ad elezioni avvenute'; centinaia di migliaia di lavoratori presumibilmente elettori sovversivi sono stati cancellati dalle liste elettorali dei comuni borghesi e, là dove i comuni erano socialisti, per viltà di questi e per l'azione delle guardie regia e bianca, sono subentrati i commissari regi o prefettizi a preparare le liste elettorali".
Come si è detto, non si registrarono nel partito (come invece vi furono nelle grandi masse) "nostalgie astensioniste": a disperderle sul nascere aveva comunque provveduto tempestivamente un articolo di A. Bordiga, in qualità di massimo esponente dell'ex Frazione astensionista, apparso il 17/IV ne Il Comunista col titolo Le elezioni e anticipato da un comizio tenuto a Torino il 4/IV (corsivi nostri):
Speravamo anche noi, e si capisce il perché, che non si facessero. Ma bisogna deporre oramai ogni speranza. Le elezioni si fanno. Che cosa farà il P.C.?
A parte tutte le modalità che gli organi competenti potranno stabilire, secondo alcuni compagni occorrerebbe porsi la domanda: Deve o no il PC partecipare alle elezioni? Secondo me, questo problema non ha ragione di esistere. Per chiare ragioni di disciplina tattica internazionale, il PC deve intervenire, ed interverrà, nelle elezioni.
Non intendo dire che il problema della tattica elettorale sia nel seno dell'IC definitivamente risolto colle decisioni del II Congresso. Credo anzi che il numero di noi astensionisti sia aumentato in molti Partiti comunisti occidentali, e non è escluso che la questione ritorni al prossimo III Congresso. Se questo avvenisse, io sarei per le stesse tesi che presentai e che furono bocciate al Congresso dell'anno scorso: per il migliore svolgimento della propaganda comunista e della preparazione rivoluzionaria nei paesi 'democratici' occidentali, nell'attuale periodo di crisi universale rivoluzionaria, i comunisti NON dovrebbero partecipare alle elezioni. Ma finché vigono le tesi opposte di Bucharin e Lenin per la partecipazione alle elezioni e ai parlamenti con direttive e finalità antidemocratiche e antisocialdemocratiche, bisogna partecipare senza discutere e procurare di attenersi a queste norme tattiche. Il risultato di questa azione fornirà nuovi elementi per giudicare se noi astensionisti avevamo torto o avevamo ragione. C'è qualche compagno astensionista, e anche qualcuno elezionista, che dice: Ma non si può trovare nelle tesi di Mosca un appiglio per astenersi dalle elezioni senza incorrere in indisciplina? A ciò rispondo anzitutto che l'astensionismo, che cerchiamo di fare passare dalla porta, non deve entrare dalla finestra a mezzo di pretesti e sotterfugi. E poi tutte le circostanze in cui ci troviamo in questa campagna elettorale concorrono a rendere più chiara l'applicazione delle tesi di Mosca, nello spirito e nella lettera, nel senso della partecipazione.
Rileggano i compagni tutti gli argomenti di Lenin e Bucharin, e vedranno che essi corrispondono meglio a circostanze di reazione e di conculcamento della libertà di movimento del partito. Rileggano gli argomenti recati da me, e vedranno che essi si riferiscono soprattutto a situazioni di 'democrazia' e 'libertà' - senza, intendiamoci, che io li pensi superati nelle circostanze attuali. Quando Lenin disse: Abbiamo partecipato alla Duma più reazionaria, io risposi che il vero pericolo è nei parlamenti più liberali. Lenin è convinto che un partito veramente comunista può e deve partecipare, ma ammette con me il valore controrivoluzionario della partecipazione nelle condizioni del 1919, con un partito non comunista.
Le due tesi che parlano dell'eventualità che i partiti comunisti boicottino il parlamento e le elezioni, si riferiscono a circostanze nelle quali 'si possa passare alla lotta immediata per prendere il potere'. Vorrei che così fosse, ma così oggi non è: non è escluso che domani la situazione si capovolga; ci vorrebbe allora poco per mandare all'aria, con la baracca parlamentare, i comitati elettorali che il nostro partito avrà costituiti.
A Mosca, se avessi accettato i suggerimenti di alcuni compagni, avrei forse potuto ottenere un 'allargamento' di quelle eccezioni, ed oggi si potrebbe, forse forse, applicarle - sebbene noi siamo, ripeto, nelle condizioni specifiche pensate da Lenin per l'utile partecipazione. Ma invece preferii presentare conclusioni nettamente opposte. Ciò ha condotto al beneficio di avere direttive chiare e sicure, e di non sentirsi 'serrateggiare' col noiosissimo argomento delle 'speciali condizioni'. La centralizzazione è il cardine del nostro metodo teorico e pratico: come marxista, prima sono centralista e poi astensionista.
Per altre tesi non si fece così. Si rabberciarono alcuni punti per soddisfare piccole opposizioni (ma più grandi della nostra pattuglietta di astensionisti) coûte que coûte. La conclusione, nell'applicazione di queste tesi che hanno un po' smarrita una precisa direttiva teorica, non la ritengo favorevole per l'efficacia e sicurezza dell'azione rivoluzionaria.
Noi astensionisti fummo i soli che contrapponemmo alle tesi proposte da uomini, la cui autorità era ed è giustamente formidabile, precise conclusioni in contrario. (Tacevano intanto molti critici della ventesima giornata, che nulla seppero opporre a conclusioni contro cui si sono poi ribellati). Noi astensionisti dobbiamo anche essere quelli che daranno l'esempio della disciplina, senza sofisticare e tergiversare.
Il PC, dunque, non ha ragione di discutere se andrà o no alle elezioni. Esso vi deve andare. Con quali modalità, sarà opportunamente deciso. Con quale obiettivo, lo dicono le tesi di Mosca, e si riassume in poche parole: Spezzare il pregiudizio parlamentare e quindi accettare se invece dei voti si vogliono contare le legnate e peggio. Spezzare il pregiudizio socialdemocratico, e quindi volgere le batterie, con inflessibile intransigenza, contro il Partito socialdemocratico. Gli astensionisti sono al loro posto (46).
Sistemata la questione teorica con la doppia dimostrazione che, 1) per i comunisti l'osservanza del principio della centralizzazione prevale su qualunque opinione in merito a problemi di strategia e tattica del movimento, 2) una volta accettato, per disciplina internazionale, di intervenire senza per questo rinunciare alle proprie convinzioni, è giocoforza riconoscere che, se v'è momento storico in cui abbia senso partecipare alle elezioni (sempre, beninteso, in funzione antiriformista), questo è un periodo - come la primavera del '21 - di conculcamento della libertà di azione del partito e di tentato soffocamento della voce sua e, in genere, dei proletari, il pesante lavoro di partecipazione alla campagna elettorale fu svolto "coraggiosamente, con spirito di sacrificio e di disciplina, senza infatuazione per immediati successi, senza scoraggiamenti per le difficoltà da affrontare, con la severità e con la perseveranza che devono essere proprie del rivoluzionario marxista, il quale valuta il momento storico da superare, riconosce la necessità dell'opera specifica da fornire, foggia e salda un nuovo anello della catena che conduce all'emancipazione della sua classe e alla liberazione dell'umanità" (dal manifesto del 21/IV), fermo restando che, nelle circoscrizioni in cui non figurava la lista del partito, si doveva partecipare "egualmente alla campagna, facendo propaganda dei princìpi e del programma comunista e per l'astensione dal voto" (Disposizioni, ecc.) o, più precisamente, facendo "opera per l'astensione attiva, parlando in contraddittorio con gli avversari nei loro comizi, diffondendo appositi manifesti e servendosi di ogni altro mezzo di propaganda, considerando alla stessa stregua le liste di tutti gli altri partiti" (ulteriori Disposizioni del 15/V) (47).
Fin dall'inizio si era avvertito che, da parte del PCd'I, le elezioni sarebbero state fatte "in economia", come d'altronde voleva un tipo di intervento basato non tanto sull'uso su vasta scala di manifesti ed altre forme di propaganda stampata, quanto su "una attiva propaganda orale". Due furono (a parte un breve appello del Comitato sindacale comunista) i manifesti centrali del partito. Con il primo, apparso ne Il Comunista del 21/IV come Manifesto per le elezioni politiche. Ai proletari italiani, esso dava inizio al suo intervento
"senza amarezze sentimentali, senza esitazioni, sicuro di compiere così una non trascurabile parte della sua missione storica [...] aprendo il fuoco su due fronti [attenti: gli storici di oggi rinfacciano alla 'direzione bordighista' di allora di averlo aperto su un fronte solo, il secondo]: contro l'imperialismo capitalista, ormai capace di soddisfare le esigenze vitali delle masse proletarie solo col piombo e con la mazza ferrata delle guardie bianche - e contro il Partito socialista, che ha rinnegato l'Internazionale comunista pur di esimersi dall'aspro dovere di preparare la rivoluzione; che, per non aver voluto sistematicamente preparare la classe operaia alla rivoluzione, è incapace oggi d'infrenare qualsiasi attacco reazionario e deve assistere paralizzato dallo stupore e dal panico all'incendio e alla distruzione degli edifici proletari e al sistematico massacro dei militanti rivoluzionari" (48).
Il Partito comunista doveva diventare "l'unico partito politico della classe operaia italiana": tale era il senso di tutta la battaglia condotta allora con coerenza inflessibile; tale doveva essere l'insegna anche di quello strumento accessorio della propaganda e del proselitismo comunisti, che sono i comizi elettorali.
Il secondo manifesto, del 15/V, apparso Alla vigilia delle elezioni, può essere preso a modello del giusto modo di "sfruttare" il mezzo sussidiario propagandistico delle elezioni senza valorizzarle, anzi dimostrandone l'impotenza come preteso strumento di emancipazione dalla schiavitù capitalistica e ridimensionandone il valore anche come mezzo di propaganda:
Proletari italiani!
Alla vigilia della conclusione della lotta elettorale il Partito comunista, che presenta le proprie liste ai vostri suffragi, vuole e deve rivolgervi ancora la sua parola.
La ferma nostra coerenza alla verità delle nostre dottrine ed all'onore della nostra bandiera, anche e soprattutto tra le avversità del presente periodo, è stata ribadita nei manifesti lanciati dal nostro Partito all'inizio della lotta elettorale e in occasione del Primo Maggio, ed anche l'Internazionale comunista, di cui il Partito nostro è parte integrante, a voi ha rivolto il suo appello per l'una e per l'altra circostanza.
Voi sapete adunque che scendiamo in lotta, che affrontiamo anche questo episodio della lotta di classe, che le elezioni costituiscono, con l'intiero immutato bagaglio del nostro programma rivoluzionario, della nostra fede nell'avvento del comunismo.
Vi chiediamo di deporre nell'urna la scheda comunista per riaffermare che in Italia un numero immenso di sfruttati, di ribelli, è solidale col pensiero e con l'opera della rivoluzione comunista mondiale, la cui bandiera è piantata vittoriosa a Mosca, le cui falangi combattono in tutti i paesi del mondo contro lo stesso nemico: il capitalismo.
Affermiamo, con la terza Internazionale, e traduciamo in atto, la necessità che la voce della propaganda comunista e dell'incitamento rivoluzionario sia portata nei comizi elettorali e nei Parlamenti borghesi da rappresentanti del proletariato, scelti e severamente disciplinati dal suo Partito di classe, dal Partito comunista.
Nello stesso tempo affermiamo che né la scheda, né l'azione in Parlamento potranno mai darvi, nonché le conquiste della emancipazione economica, politica, morale dal giogo borghese, neppure la vittoria contro la controffensiva reazionaria, che oggi la classe dominante ha contro di voi scatenata, o l'attenuazione della bufera di violenza che si abbatte sulle vostre istituzioni di classe. Affermiamo che, deponendo nell'urna la scheda comunista voi avrete, non già posto mano ad un'arma decisiva che possa debellare l'avversario, ma solo affermato e cementato, nella forza morale d'una concorde affermazione collettiva delle moltitudini proletarie, il proposito di seguire nell'azione rivoluzionaria sullo stesso terreno, con le stesse armi, quelle ben altrimenti offensive che l'avversario brandisce contro di voi.
Né l'azione elettorale, né l'azione parlamentare vi daranno il mezzo di mutare le condizioni di sfruttamento in cui vi tiene il regime borghese, d'iniziare minimamente un'opera di ricostruzione tra le rovine di cui esso ha seminato il mondo. La lotta contro la reazione borghese, l'opera di ricostruzione della vita economica non possono essere intraprese che sulla base dell'organizzazione della forza proletaria con l'obiettivo di rovesciare il potere della classe capitalistica, sconfiggendo prima le sue forze armate regolari ed irregolari, spezzando in seguito lo stesso apparato della menzognera democrazia parlamentare per instaurare la dittatura dei Consigli proletari. Votare per i comunisti significa aderire alle falangi dell'armata rivoluzionaria che domani mobiliterà le sue forze per questa guerra santa dell'emancipazione proletaria.
Lavoratori!
Chi vi chiama alle urne con altri propositi, prospettandovi il vostro intervento ad esse come il mezzo per uscire definitivamente dalle asprezze della situazione, v'inganna; e più colpevole è l'inganno se esso viene, anziché dai partiti borghesi, dal partito socialista, che ostenta di rappresentare gli interessi della vostra classe.
L'elezionismo del partito socialista vale solo ad addormentare in voi lo slancio rivoluzionario, e si risolverà in tutto vantaggio della borghesia governante. Servirà a disperdere la vostra azione nelle insidie e nelle manovre parlamentari, in fondo alle quali già s'intravede la collaborazione con la borghesia, ossia il tradimento della vostra causa.
La partecipazione alle elezioni del Partito comunista tende a svegliare le masse rivoluzionarie italiane, ad incitarle alla imminente battaglia, con cui raccoglieranno la sfida e rintuzzeranno la provocazione avversaria; è lo squillo d'una diana che dice al nemico di classe quanto sia folle la sua illusione d'aver debellato la classe lavoratrice, di poter spegnere in essa la fiamma della volontà rivoluzionaria.
Dopo le elezioni, nel Parlamento, ma soprattutto fuori del Parlamento, i comunisti continueranno senza un attimo di sosta la battaglia di classe, in intimo contatto con le falangi proletarie.
Operai e contadini d'Italia!
Dimostrate il quindici maggio come siano ancora in piedi, come ogni giorno s'accrescano di numero e di fede gli effettivi dell'esercito della rivoluzione. Accorrete alle urne, e sia il vostro grido:
Abbasso il parlamentarismo borghese!
Abbasso la prepotenza della reazione!
Viva la dittatura del proletariato e la repubblica italiana dei Consigli!
A scrutini avvenuti si constatò che i risultati non divergevano sostanzialmente dalle previsioni degli organi dirigenti (si erano previsti 20 deputati eletti in 33 circoscrizioni: se ne ebbero 15 per le 27 circoscrizioni in cui si era presentata una lista; in altre 3, il quoziente non fu raggiunto per uno scarto minimo di voti); i suffragi ammontarono a 291.952. Nel 1919, il PSI ne aveva riscossi 1.840.593 sulla base di una demagogia rivoluzionaria, tagliata su misura per una fase ancora ardente di attacco proletario; nel 1921, a situazione capovolta, ne riscosse 1.569.553 (mantenendo quindi, poco più poco meno, le posizioni di allora, se si tien conto della "defezione comunista") sulla base di una demagogia ultrariformista: poté gloriarsi d'essere rimasto il maggior partito italiano, con 123 deputati eletti contro i 156 di quasi due anni prima, anche se tallonato da vicino dal Partito popolare (capostipite dell'attuale DC) forte di 1,3 milioni di voti e 108 rappresentanti in parlamento.
L'esito, sia dal punto di vista dei voti andati al PCd'I, sia da quello del loro rapporto con la "valanga di suffragi" andata al PSI, parve deludente in campo comunista, soprattutto in Francia, a chi continuava a valutare la forza del partito di classe in termini non solo di consistenza numerica, ma, peggio, di "seguito elettorale", quasi che, marxisticamente, la conta delle teste potesse mai considerarsi qualcosa più di un riflesso pallido e ritardato dei reali rapporti di forza sul piano politico come sul piano sociale, e quasi che il numero genericamente considerato degli iscritti, non diciamo poi dei votanti, bastasse da sé a garantire la "buona salute" e la capacità di azione dell'organismo. È amaro dover aggiungere che perfino in ambienti moscoviti si cominciò da allora a nutrire qualche dubbio sulla fondatezza dell'operazione chirurgica eseguita a Livorno, traendo dal risultato delle elezioni l'oroscopo sui danni che il settarismo e il dottrinarismo della nostra corrente avrebbero arrecato al movimento operaio e alla causa internazionale del comunismo, quasi che la sopravvivenza sulla scena sociale di un partito "operaio" tanto imponente per successi schedaioli e numero di seggi conquistati in parlamento e nei comuni, quanto impotente anche solo a difendere le condizioni più elementari di vita della classe lavoratrice (impotenza che il "trionfo" elettorale, come previsto, aggraverà), non fosse una controprova sufficiente che se di una cosa poteva rammaricarsi la Frazione astensionista era di non aver potuto accelerare e rendere ancor più drastica la scissione, e ciò, in gran parte, per le resistenze e le esitazioni di quanti, in odio agli "schemi" e alle "astrazioni" a noi continuamente rinfacciati, non avevano occhi se non per l'immediato, il concreto, il "possibile", che poi si riduce, per lo più, a quanto sovranamente stabilisce il "responso delle urne".
Felice di poter smentire i pronostici di Zinoviev e dei suoi "informatori" su un successo comunista ben più consistente, e di poter dimostrare che il PSI era, come testimoniavano... i suffragi ottenuti, "un organismo vivo, attivo, robusto, destinato ancora a grandi cose nella vita politica italiana e in quella internazionale", Serrati si premurò di indirizzare a Mosca il monito: "Il giudizio degli elettori è stato conforme a quello dei congressisti livornesi ed ha cresimato il risultato del congresso di Livorno in modo inequivocabile. I deputati socialisti eletti sono 125, i comunisti 15" (49). La verità è che, come non v'è termine possibile di confronto fra un congresso di partito e una consultazione elettorale, così non v'era termine possibile di confronto, anche sul puro terreno elettorale, fra i due partiti usciti dal congresso di Livorno. L'uno aveva mendicato consensi invitando il "popolo" a banchetto intorno ad una tavola imbandita di piani di riforma immediatamente appetibili (e destinati a svanire nel nulla ad elezioni concluse): sotto la sua bandiera si erano infoltite, trovando espressione in voti di fiducia a candidati prevalentemente di destra, le "categorie grigie" che, come scriveva lo stesso Serrati, "seguono sempre i partiti che credono più forti e dai quali più sperano di ottenere favori di categoria". L'altro non aveva chiesto il voto se non di chi era disposto a sacrificare il piacere di quella imbandigione al rude assaggio di una milizia rivoluzionaria che non prometteva nulla per il presente ed esigeva sacrifici personali e collettivi per il futuro; da chi, insomma, accettava integralmente le posizioni programmatiche e politiche del comunismo rivoluzionario. Il primo ebbe ciò che si attendeva, un "trionfo" elettorale dietro il quale stentava a nascondersi la crisi - come si vedrà ben presto - galoppante del partito; il secondo ebbe ciò che a sua volta si attendeva, una "conta" sia pure approssimativa degli aderenti potenziali alla causa della rivoluzione, e l'indizio di quello che poteva essere, e fu nel periodo successivo, un seguito proletario crescente.
Nulla distingueva più il "glorioso partito" di Serrati e Turati da una pia e benpensante società di mutuo soccorso fiorita sotto l'alto patrocinio delle classi sfruttatrici e del loro Stato; il giovanissimo partito staccatosi dal suo seno incarnava invece l'impegno, non verso il "popolo" ma verso la "classe", di lavorare all'abbattimento di questo Stato, di queste classi, di questi istituti di beneficenza, e all'instaurazione di una società poggiante su basi capovolte rispetto alle attuali. Trionfatore alle elezioni, forte di una rete di clientele consolidata dal tempo e dall'abitudine, subito dopo la vittoria il PSI chiamerà il gregge dei suoi elettori a stringere patti di sedicente mutuo disarmo col gregge dei suoi avversari; subito dopo quella che passava per una sua sconfitta, il PCd'I riprenderà, ampliandone la portata e il contenuto, l'appello alla lotta di tutti i proletari, e avrà al suo fianco molti di quegli stessi lavoratori che, nel chiuso delle cabine elettorali, a tu per tu con la propria "coscienza" come il credente a tu per tu con il suo Dio o il suo confessore, gli avevano negato il suffragio. I collitorti di oggi, siano pure storici di grido, possono gemere: "è chiaro che il PCd'I non ha potuto trasferire nell'elettorato proletario la percentuale raccolta nelle sezioni per la scissione" (50). Ma questo "trasferimento" non è mai possibile se non in misura limitata, a meno di allargare - come non poteva e non doveva il PCd'I, e come invece possono e devono i partiti opportunisti - le maglie del proprio programma, accessibile in quanto tale solo ad una minoranza (spesso esigua) della classe. Lo era tanto meno nelle condizioni interne ed esterne, soggettive ed oggettive, di allora. Le parabole dei due partiti andavano in senso inverso: ditale antitesi la difformità dei risultati elettorali era lo specchio fedele. Verrà il giorno sciagurato in cui si cercherà, con successo, di avvicinare le due parabole: allora sarà il PCI, prima a gareggiare col PSI come partito elettorale di massa, poi a raggiungerlo e superarlo. Segno che avrà definitivamente perduto la bussola rivoluzionaria. Chi, nel 1921, aveva vinto; chi perduto?
Su tutti questi punti, di fatto e di principio, dà una spiegazione che non si potrebbe più esauriente l'articolo Per chi hanno votato i proletari, che riproduciamo in appendice al capitolo. Aggiungiamo soltanto che, oltre tutto, il maggio elettorale 1921 rappresentò uno splendido test della compattezza, della disciplina, della serietà, della vitalità del partito comunista. Le disposizioni per l'intervento erano state severissime; gli atti di indisciplina si contarono sulle dita, e quei pochi vennero rigorosamente puniti. Il 5/V, nelle già citate Disposizioni, il CE aveva potuto "constatare che i casi che hanno richiesto sanzioni disciplinari sono in numero trascurabile, e che l'esperimento di partecipazione ad una forma di azione tattica così difficile come quella elettorale, soprattutto per le tradizioni dell'opera del vecchio partito socialista, e tenuto conto di tutte le accennate circostanze, mostra già di dar luogo ad un bilancio soddisfacente dal punto di vista della serietà e della compattezza del Partito comunista e della sua preservazione da ogni debolezza opportunistica", successo - quest'ultimo - che valeva centinaia di migliaia di schede.
Il bilancio finale non fu diverso.
4. - PSI e PCd'I alla vigilia del III Congresso mondiale
L'articolo Un partito in decomposizione, che abbiamo citato nella nota 27 a proposito dell'atteggiamento del PSI di fronte alla violenza fascista, e che è del 10/III, scriveva:
"Gli avvenimenti ultimi di questo breve periodo iniziale di vita del Partito comunista vengono a concorrere assai felicemente alla chiarificazione della coscienza delle masse, in quanto tutto l'atteggiamento odierno degli organi e degli uomini del PSI sta a provare l'assoluta analogia tra il pensiero e il metodo proprio degli attuali 'comunisti unitari' del Partito socialista e quello dei riformisti loro compagni, che hanno almeno il merito di essere rimasti sempre gli stessi […] I capi del PSI sembrano aver gettato uno sguardo sull'inizio della realizzazione di quel processo rivoluzionario scritto nei loro programmi di una volta, e ritrarsene nella stessa misura in cui quel programma si svolge in realtà".
L'articolo si riferiva specificamente alla questione della lotta contro la reazione, ma un processo di sempre più rapida identificazione del massimalismo col riformismo contro i propositi solennemente proclamati a Livorno si registrava in tutti i campi dell'azione di partito. Diremo di più: era la destra a dare il tono e quasi sempre il contenuto a quest'ultima, e lo faceva sia attraverso la CGL da essa dominata e, sussidiariamente, la massa enorme degli amministratori comunali (quasi tutti suoi figli), sia e soprattutto tramite un Gruppo parlamentare libero ormai di agire in ogni circostanza a propria discrezione, senza attendere e, meno che mai, rispettare il parere degli organi dirigenti del partito.
Della CGL si è già detto l'essenziale. Era quindi scontato che, nelle elezioni, intervenendo a sostegno del PSI essa trovasse modo di rincarare la dose degli inviti ad una lotta "civile", dell'esaltazione dei valori ideali del socialismo di contro alla bestiale violenza del nemico, e della predicazione della resistenza passiva e del disarmo morale, presentando il ricorso alle urne come un mezzo sicuro per "salvare le posizioni sindacali" dei lavoratori e "impedire che la bufera reazionaria abbia a schiantare tutte le istituzioni" da essi in tanti decenni create (dal Manifesto successivo al Consiglio nazionale di fine aprile). Celebrato, poi, il trionfo elettorale, in un articolo di fondo del 21/V, Battaglie sindacali si affrettò ad esporre, una volta di più battendo sull'anticipo il partito, un dettagliato programma di riforme - ulteriormente precisato dal Consiglio direttivo del 28/VI - da presentare al governo con l'offerta di collaborare alla sua realizzazione, purché fossero pregiudizialmente garantiti "il ristabilirsi delle condizioni normali e il ripristino delle pubbliche libertà", e, il 28/V, inserì fra le rivendicazioni che il governo avrebbe dovuto soddisfare "il risarcimento dei danni sofferti dalle nostre istituzioni" - parola d'ordine implicitamente fatta propria dell'Avanti! nell'elogiare, a proposito di quei due articoli, il... non-collaborazionismo della CGL. Tout se tient: fu uno dei pezzi grossi confederali, Gino Baldesi, il primo a riprendere alla Camera, verso la fine di giugno, il tema sollevato da Mussolini di un "disarmo concordato degli spiriti": la CGL si candidava così sia per quella partecipazione ad un "governo migliore" che almeno da un anno era nei suoi sogni, e alla quale non cessavano di giungerle teneri inviti, sia per il raggiungimento di quegli accordi di pacificazione coi fascisti che però, astutamente, lascerà al partito in prima persona la responsabilità di sottoscrivere. In tutto il periodo elettorale e dopo, comunque, le masse operaie non conobbero "piani di riforma" e iniziative politiche di partito, che non fossero preceduti da interventi, ricchi di particolari e brillanti per sfoggio d'immaginazione, della CGL in veste di battistrada.
Riunitisi a loro volta a Rimini il 3-6/IV, gli amministratori comunali socialisti ebbero l'onore di vedersi riservare dall'Avanti! titoli e colonne degni di un congresso di partito, e mettere in rilievo, come parte integrante del programma socialista, le molteplici e ben specificate rivendicazioni del convegno. Elogio ben meritato: esse contenevano il progetto di Banca socialista (!) uscito dal filosofico cervello di Adelchi Baratono.
In tutto il periodo considerato, il Gruppo parlamentare si distinse, infine, tanto per la completa libertà concessa ai suoi membri di parlare a titolo personale, quanto per la tendenza non più dissimulata ad uscire dalla posizione di intransigenza di principio nei confronti del governo, per adottarne una di fiancheggiamento o addirittura di adesione. Pareri favorevoli in tal senso erano già stati espressi in marzo dai Casalini e C., dell'estrema destra del partito: lasciata cadere allora, la proposta non poteva non essere rinverdita un mese dopo le elezioni, allorché, dimessosi Giolitti, si trattò di dargli un successore. "Pur tenute ferme le direttive tattiche e programmatiche già tracciate dal Gruppo all'atto della propria costituzione", il Direttorio decise allora di "proporre al Gruppo stesso di non disinteressarsi dell'andamento e della soluzione della crisi", cioè, in parole meno involute, di darvi opera attiva. Colta la palla al balzo, il Gruppo deliberò quanto segue: "Il Gruppo, mentre si trova quasi unanime nel giudicare - per ragioni teoriche secondo gli uni, per ragioni concrete secondo gli altri - che non è il caso [si noti la raffinatezza dei termini usati in tutto il testo] di parlare di una partecipazione dei socialisti al Governo, ritiene che sul terreno parlamentare i deputati socialisti non debbano ostacolare a priori il tentativo che altri partiti si proponessero di fare per attuare sinceramente e durevolmente una politica contraria al perdurare dell'uso della violenza contro il movimento proletario". Era la fine dell'"intransigenza" classica: come nota uno degli articoli del Comunista qui riprodotti in appendice, "collaborare" si può anche solo (meglio, anzi, perché così si salva la faccia) astenendosi dal voto: interna od esterna, positiva o negativa, la collaborazione resta collaborazione.
Forse che la Direzione se ne adontò? Al contrario: "questo deliberato - precisava il Gruppo - vede consenziente la rappresentanza della Direzione del Partito" (50 bis).
Il massimalismo, tuttavia, non sarebbe stato massimalismo, se non avesse provveduto, poco tempo dopo, a ridimensionare la svolta per reintrodurre dalla finestra l'intransigenza cacciata dalla porta. La direzione aveva agito come sopra - spiegò il 20/VII - "allo scopo di valorizzare la forza parlamentare del Gruppo socialista alla Camera" anche durante l'ultima crisi per la formazione del nuovo Gabinetto; "dovuto a ragioni contingenti", questo atteggiamento non poteva trovare applicazione indefinita e considerarsi "buono a qualunque situazione". E poiché essa aveva constatato - con enorme sollievo, è da credere - che "la maggiore elasticità data all'azione del Gruppo" non aveva influito sulla risoluzione della crisi, sulla nascita del governo Bonomi e sulle sue direttive, troppo vaghe per soddisfare i gusti del massimalismo (a parte un accenno alla volontà di "ristabilire l'imperio della legge"), la Direzione dichiarò di non riscontrare, "innanzi alla concreta situazione creatasi" [dunque, in situazione diversa, nulla escludeva un rovesciamento di posizioni] "l'opportunità" [dunque, non si trattava più di una questione di principio, come la concepiva il vecchio Lazzari] "di derogare, nei confronti del ministero attuale [e nei confronti di un governo diverso?] dalla formale opposizione parlamentare dettata dai congressi", il che sottintendeva il riconoscimento della possibilità per la Direzione di mettersi sotto i piedi le roboanti decisioni congressuali se e quando così le fosse garbato di fare. (Turati ed altri protestarono per questo ridimensionamento di una mossa prima decisa di comune accordo; ma l'ipocrisia massimalista, ingrediente indispensabile della sua funzione sociale, voleva così).
L'episodio tragicomico si chiuse perché, nel frattempo, se ne era aperto un altro tutt'altro che burlesco. Nell'intervista al Giornale d'Italia riprodotta testualmente nel Popolo d'Italia del 22/V, Mussolini non si era limitato a filosofeggiare sulla possibilità che il suo movimento si trasformasse o no in partito, ma, ansioso di presentarsi in parlamento nella veste più perbene, aveva annunciato che il suo contegno alla Camera sarebbe stato "estremamente corretto", non escludendo né di partecipare prima o poi ad un governo ("nessun partito può piétiner sur place: o la rivoluzione o le riforme garantite da una partecipazione alle responsabilità del potere"), né di collaborare con i socialisti, ai quali anzi poteva allearsi senza difficoltà nel "programma di tutela del lavoro e di redenzione dei lavoratori", avendo fatto propri "taluni dei postulati immediati avanzati dalle massime organizzazioni operaie italiane". E sul tema della violenza aveva aggiunto: "Smettano gli altri e smetteremo anche noi a nostra volta". Il 21/VI, prendendo la parola alla Camera, aveva ribadito quanto sopra, e concluso: "Siamo disposti a disarmare se voi disarmerete a vostra volta, soprattutto gli spiriti [...] Il disarmo non può essere che reciproco". D'altronde, aggiunse lo stesso giorno, "ho l'impressione che la smobilitazione si stia iniziando".
Non parlava a vanvera. Poco dopo l'assenso di Baldesi alla sua offerta di pace, il 24/VI, Turati teneva alla Camera un lungo sermone sulla violenza in generale e sulla necessità di evitar di ricorrervi ("chi saprà patirla e non renderla, sarà domani [nel regno dei Cieli, supponiamo] il più forte"), facendo proprio il vangelo matteottiano della viltà, e proclamando, come se si fosse tratto di dirimere una questione morale astratta: "Meglio, mille volte meglio, essere uccisi che uccidere, meglio essere dileggiati che non dileggiare altrui, cioè dileggiare noi stessi nel simile nostro: aver fiducia in se stessi e nelle cose; avere fiducia negli stessi avversari", per concluderne, rivolto a questi ultimi: "Disarmiamo davvero, da ambo le parti", e, dopo una breve sosta causata da "rumori": "Lo dico con parola serena: disarmiamo davvero da ambo le parti. Ho invocato le reciproche amnistie: le invoco ancora". Per il bene "dell'Italia e dell'umanità", era così spianato il terreno alle trattative, svolte - more solito - nell'ambito montecitoriano, che condussero infine il 3 agosto alla firma del patto di pacificazione, in presenza questa volta dello stesso segretario del partito, Bacci, e di una nutrita rappresentanza della Direzione, del Gruppo e della CGL, da parte socialista, e da Mussolini, De Vecchi, Cesare Rossi ed altri amabili ceffi, da parte fascista, pronubo il presidente della Camera, De Nicola (Bonomi, De Nicola: cada il mondo, sono sempre li, a testimoniare - immaginiamo - il valore perenne della democrazia) (51). Una volta di più, la Direzione aveva lasciato al Gruppo il compito di lanciare il sasso; ma non poté nascondere la mano...
Da buon concretista, d'altra parte, Turati non si era limitato in quel discorso agli aspetti, diciamo così, negativi del problema. Senza che la Direzione ci avesse nulla da ridire, aveva esposto il programma positivo di "un governo forte" come egli augurava che potesse, un giorno non lontano, vedere la luce - un governo in grado non solo di ristabilire "l'impero della legge", ma di "avviarsi a rinnovare l'Italia" - non escludendo, fra le tante ipotesi sul modo in cui sarebbe nato, quella di "una partecipazione nostra" o, quanto meno, di una "benevola attesa", purché tutto ciò avvenisse in presenza di "un nuovo Parlamento, non nato dalla violenza organizzata, impunita, e dall'insidia dei blocchi". Senza più nessun velo, era la candidatura riformista al governo, da soli o con chi altro fosse disposto a battere la stessa via, del Paese. A buon diritto, quindi, l'orazione si chiudeva, "non già per ottenere un effetto da comizio, ma per esprimere la sintesi del mio pensiero", al patetico grido da allora divenuto moneta corrente in campo socialista e "comunista-italiano": "Viva l'Italia; e nell'interesse dell'Italia e del mondo, Viva il socialismo".
Quanto abbiamo documentato prova a sufficienza fino a che punto la destra riformista si trascinasse dietro il centro massimalista, facendo del Gruppo parlamentare il vero polo d'iniziativa del partito. Il massimalismo, tuttavia, non si limitò a chiudere un occhio. La questione é più sottile. Il nocciolo e la funzione storica del serratismo risiedevano, é vero, nella capacità di far passare nella pratica di partito il riformismo, nel quale esso stesso era immerso, celandolo dietro la cortina fumogena intransigente (nel senso tradizionale di avverso alla partecipazione ministeriale, e persino all'appoggio parlamentare, ai governi borghesi) da offrire come contentino alle masse. Ma, come osserva uno degli articoli riprodotti in appendice, su una posizione del genere non si può rimanere in eterno: bisogna uscirne, e non lo si può fare che in un senso (anche se costa fatica), quello del passaggio più o meno rapido, comunque esplicito, al riformismo proclamato e praticato.
La "conversione" poteva passare inavvertita finché tutto, intorno, filava liscio: ma l'offensiva fascista da un lato, la denunzia comunista dall'altro, obbligavano il massimalismo a prendere esso stesso - un passo dopo l'altro per non perdere del tutto "l'immagine" - le posizioni, tali e quali, della destra; e si è visto come, sulle diverse facce del problema della violenza, reso terribilmente scottante dagli attacchi squadristi, nulla più lo distinguesse dall'evangelismo prampoliniano, o dal... gandhismo. Vennero le elezioni, e bisognò compiere un altro passo avanti: occorreva elevare la scheda, ufficialmente, ad arma squisita di difesa, e contrapporre Idea e Civiltà a Forza Bruta: "dare la più fervida opera - recitò il Consiglio nazionale socialista del 5/V - affinché i voti socialisti esprimano l'alta protesta contro le violenze borghesi e il fermo proposito di rivendicazione socialista"; e il lettore ha già avuto un saggio degli slogan lanciati all'occasione.
Venne il responso delle urne, e fu un trionfo. Non bastava però dire ai lavoratori (Avanti! del 19/V): "Ricordatevi della forza immensa del pensiero e del sentimento, della suggestione della bellezza di un'idea, della bontà di una causa, del martirio sofferto per essa [...] È moralmente alto essere contenuti e forti davanti al dolore come davanti alla gioia. Sappia tutto il mondo a quale potenza civile voi siete assurti! La riflessione, il ragionamento, la maturata delibera del pensiero infine e il sentimento, sono tra le armi formidabili". E che fare, adesso? Il quotidiano del partito intitolava il 18/V: Mai come in questo Maggio le urne sono state dei "forti". Si trattava di dimostrare praticamente questa forza. Come? Una volta di più, gareggiando con la destra in "collaborazione indiretta" parlamentar-governativa!
Scendere dal cielo delle proclamazioni di intransigenza al limbo della transigenza e del concretismo, non era facile: ma bisognava. Ci si provò Vincenzo Vacirca il 31/V sull'Avanti! (articolo Il programma) illustrando la forma di "collaborazione 'indiretta' nella quale possiamo consentire con quei partiti e gruppi politici, se ancora ce ne sono in Italia, che non abbiano smarrito il senso della decenza [finalmente un po' di questione morale!]". Essa si articolava in quattro punti: 1) abbattere l'odiato governo Giolitti; 2) ottenere l'annullamento delle elezioni nelle circoscrizioni in cui la libertà elettorale era stata "cinicamente violata"; 3) "non dar tregua ad alcun altro governo che pregiudizialmente non restauri l'impero della legge sul serio e non ponga fine agli incendi, ai saccheggi, agli assassini, alle violazioni domiciliari, sistematicamente impuniti" (un modo negativo di dire: Dar tregua ad un governo che restauri ecc.); 4) servirsi dei mezzi "parlamentari ed extraparlamentari" (la piazza, evidentemente) "per il raggiungimento rapido di questi fini". Perfino un portavoce del PSI ultrariformistico di oggi commenta così questa mirabolante proposta di collaborazione: "Nell'attesa della rivoluzione, i socialisti demandano al governo borghese il compito di difendere i loro diritti e di salvare la loro libertà"! (52).
Segue un breve silenzio (tacere è una delle armi di cui amano servirsi gli "unitari" per mantenere intatto il mito della loro intransigenza mentre CGL e Gruppo parlamentare nuotano nella più gaia transigenza), poi è Serrati a dire la sua nella stessa nota in cui rampogna Mosca per essersi sbagliata nel pronostico sull'esito delle elezioni. Il suo piano d'azione è rivolto al Gruppo parlamentare che, secondo lui, per quanto esposto alla perniciosa influenza delle "categorie grigie" al cui voto deve in gran parte la supremazia che si è assicurata in parlamento, può ancora svolgere un utile, fecondo lavoro: "Vogliamo che - dopo la difesa delle conquiste fatte, dopo la loro integrazione, dopo la difesa delle violate libertà, dopo la garanzia che ogni offesa sarà opportunamente riparata ecc. - il Gruppo Parlamentare studi e presenti alla Camera sia delle profonde e socialiste modifiche a progetti di legge borghesi, sia dei propri programmi di legislazione, i quali, in confronto a quelli dei nostri avversari, mostrino ai proletari e a quanti si interessano dell'opera dei socialisti, quanto sia sostanzialmente diversa la nostra concezione della vita e del divenire sociale. Vogliamo che sia finito l'impero della violenza brigantesca impunita e protetta dallo stesso governo. Non chiediamo persecuzioni contro nessuno, non chiediamo scioglimenti di associazioni che, in quanto esercitano una funzione politica e sociale, hanno tutte e debbono avere pieno diritto all'esistenza". In nuce, è già il patto di pacificazione. Se si vuole, è già, ventisei anni prima, l'amnistia ai fascisti.
Si sarebbe spinto oltre, il massimalismo, costretto com'era ad uscire in qualche modo dalla formula ormai vuota dell'"intransigenza classista"? Come si vedrà dall'appendice, secondo il PCd'I per i Serrati e C. l'ora di una "collaborazione diretta" avrebbe forse ancora tardato a suonare: il verbalismo intransigente aveva ancora da recitare un suo ruolo. "I socialisti - aveva precisato nella stessa nota Serrati - possono, in un dato momento della politica, bordeggiare [e come avevano bordeggiato!], ma non per entrare nel porto della collaborazione, sibbene per spiegare, appena è possibile, le vele alla conquista della mèta agognata". Se questa possibilità si fosse allontanata nel tempo, le vele si sarebbero volte al "porto della collaborazione"? Tutto lasciava credere di sì, e il nostro partito lo disse, augurandosi anzi che il ciclo mostruoso del massimalismo si chiudesse al più presto: l'equivoco massimalista si sarebbe finalmente dissolto. Il terrore non tanto di perdere voti, quindi la faccia, quanto di assumere responsabilità di governo in una situazione destinata a logorare irrimediabilmente qualunque partito si fosse assunto di avviarla in qualche modo a soluzione, e (bisogna aggiungere con rammarico) lo sforzo disperato dell'Internazionale per ritardare un simile sbocco, tuttavia augurabile per le sorti del movimento comunista ed operaio, nella vana speranza di recuperare almeno un'ala del vecchio partito, impedirono che così fosse: in altra forma, ma con efficacia non minore, il massimalismo doveva continuare a svolgere la sua funzione controrivoluzionaria fuori da governi per entrare nei quali a vele spiegate aveva tutti i titoli. Non sarà una delle minori sconfitte del proletariato rivoluzionario europeo.
***
La parabola da esso percorsa nella prima metà del 1921 suscitava frattanto la vigorosa, incessante polemica del PCd'I. Seguiamone i principali filoni sulla traccia degli articoli della stampa comunista di allora (salvo il primo, tutti gli articoli citati o riportati recano la firma A. Bordiga), perché da essi balzano in chiara luce i motivi di fondo della nostra intransigenza nei confronti anche di un massimalismo eventualmente… pentito.
V'è anzitutto il filone della lotta contro l'offensiva violenta della borghesia e dei metodi per affrontarla. Già il 13/II, a proposito della distruzione della sede del Lavoratore a Trieste, Il Comunista aveva sottolineato, in diretta antitesi alle prese di posizione socialiste, la necessità che "all'organizzazione avversaria, formidabile perché creata dalla classe che ha nelle mani il potere statale" si contrapponesse "l'organizzazione proletaria armata", aggiungendo (e il Manifesto per la manifestazione del 20 riprodotto in appendice al cap. 5 lo ribadì): "Dinnanzi a questa necessità […] ogni suggerimento pacificatore deve essere interpretato come intenzionalmente rivolto a tradire la causa proletaria".
Ai proletari che, come a Trieste e Muggia, cercavano non solo di difendersi ma di passare al contrattacco, lo stesso periodico lanciava un messaggio diametralmente opposto a quello proveniente nella medesima occasione da un massimalismo sempre più imbelle:
"Le masse sappiano questo: Il metodo della violenza per combattere la violenza borghese, che noi sostenemmo sempre, ininterrottamente, è un caposaldo del programma comunista, del Partito Comunista. Il quale fa sua e difende in linea di principio e di tattica tutte le manifestazioni di violenza delle masse rivoluzionarie italiane contro le provocazioni della borghesia, e tende ad organizzare quelle di iniziativa proletaria contro il dominio della classe avversa […] Il proletariato che si arma e si difende ed offende è il nostro proletariato cosciente, è il proletariato comunista" (53).
Abbiamo già citato l'articolo, di poco successivo all'Appello contro la reazione fascista, in cui, sotto il titolo Un partito in decomposizione, si svolge il tema del modo corretto di prepararsi alla battaglia finale non predicando l'astensione comunque dalla violenza, anche isolata, ma allenandosi "tecnicamente" a praticarla. Al contrario - vi si scrive -, mentre "la borghesia trasporta all'interno il suo armamentario di guerra esterna", "i pretesi massimalisti, anziché vedervi la conferma della dottrina abbracciata ieri, rispondono con l'invocare il disarmo" sforzandosi di ricondurre le masse "sul terreno della lotta pacifica, con armi e forze che, per essere di natura affatto spirituale e morale, fanno ormai paura solo ai seguaci dell'idealismo storico, fra i quali lo Stato borghese non suole reclutare i suoi governanti e i suoi sicari". E l'articolo conclude: "Dinanzi a questa situazione, il nostro dovere primo è l'attacco a fondo contro questi sabotatori della rivoluzione; è solo di pari passo con la liquidazione degli ultimi residui della loro influenza che si può esplicare la serrata preparazione rivoluzionaria che è compito del nostro Partito".
Nell'articolo Serenità mistificatrice, che riportiamo in appendice ed è in polemica con Serrati, si chiariscono i due punti fondamentali delle cause oggettive della violenza borghese e del giusto modo di inquadrare, organizzare e dirigere la controviolenza proletaria, dimostrando come l'insidiosa formula serratiana del "prepariamoci meglio, ma evitiamo gli scontri in questo momento" equivalesse
"in realtà a disporre una ritirata illimitata, che non potrebbe che rompere la compagine morale e materiale delle forze rivoluzionarie, facendo sì che quella preparazione rivoluzionaria che si voleva garantire sia per sempre compromessa e spezzata, perché preparazione vuol dire esercizio ed abitudine collegati alla reale esplicazione degli eventi […] non negazione passiva di essi ed attesa nirvanica".
Dire che il PSI non faceva nulla per preparare le masse alla lotta aperta contro il fascismo, dunque, era troppo poco: in realtà, esso era un ostacolo diretto a questa preparazione. La vittoria sull'uno era inseparabile dalla vittoria sull'altro.
Ai problemi di tattica e di azione militare sollevati dall'offensiva fascista, si intrecciavano intanto quelli riguardanti la natura di quest'ultima, vista in rapporto al modo di agire degli altri partiti costituzionali, PSI compreso. L'apertura del periodo elettorale, obbligando le diverse formazioni politiche a scoprire le loro carte, mostrava ai proletari - è questo il tema dell'articolo Nella torbida vigilia elettorale, del 28/IV, che riproduciamo in appendice - come l'assenza in ognuna di esse di un programma che tale fosse non soltanto di nome corrispondeva e, nello stesso tempo, contribuiva alla loro obiettiva convergenza verso l'obiettivo comune di difendere l'ordine costituito: già si profilava il loro disarmo concordato; non meno chiaro appariva lo sforzo della borghesia liberale di assicurarsi l'appoggio governativo della destra socialista; svaniti gli schermi la cui presenza avvalorava il mito di una lotta all'ultimo sangue fra democrazia e fascismo, fra socialdemocrazia e reazione, balzava agli occhi il rapporto di complicità che univa tutte queste "figure" della scena politica italiana contro la minaccia di "moti rivoluzionari della classe lavoratrice che investano l'impalcatura stessa del potere democratico borghese. Fascisti e socialdemocratici sono due aspetti dello stesso nemico di domani".
Uno degli espedienti del massimalismo (usato in particolare da Serrati in un suo intervento al Consiglio nazionale della CGL a fine aprile) consisteva nell'agitare lo spettro di un possibile colpo di stato di destra - di cui sarebbero stati ideatori ed esecutori i fascisti - per chiamare proletari e borghesi coscienti dei loro interessi a far blocco per sventarne la minaccia. La conclusione dei comunisti era che nulla di simile si stesse profilando o potesse profilarsi in avvenire, e che in ogni caso - scrive Il Comunista, nr. XXV dell'1/V - (54),
"il proletariato combatterà la sua battaglia non per proteggere il regime vigente da minacciati rinculi a destra, né per sospingerlo a forme più 'a sinistra'. Non la combatterà, difensivamente o offensivamente, al fianco di una ipotetica sinistra borghese di cui nessuno sa i connotati. Non correrà il rischio di consegnare il potere ai Noske di domani, né darà il suo sangue per difenderlo dai D'Annunzio che potrebbero essere non più malvagi di quelli. I pretoriani militari ed i ruffiani del socialismo rinnegato, nelle loro contorsioni e finte manovre, non cessano di essere le due ali della grande armata borghese, che non si sognano di dilaniarsi tra loro, ma contro cui dovrà domani tenere il campo l'esercito della rivoluzione, non per preservare gli istituti dello stato attuale né per rabberciarli, ma per frantumarli sotto i suoi colpi più formidabili, perché essi sono gli ingranaggi dello sfruttamento da cui stilla il sangue degli oppressi, qualunque sia il colore e la foggia delle soprastrutture politiche di questa o quella fazione borghese, di cui sono alternativamente ammantati".
Che esistesse un'obiettiva convergenza fra il PSI e tutti i partiti dello schieramento parlamentare era pure dimostrato - secondo il PCd'I - dal fatto che i socialdemocratici non agitavano più nei confronti del fascismo la parola d'ordine tradizionale del ricorso alla violenza qualora la democrazia avesse corso il pericolo d'essere distrutta. Perché infatti gli ex-predicatori della non resistenza al male e della rinuncia alla violenza, pronti a convertirsi all'uso organizzato della violenza popolare ove si trattasse di difendere una conquista borghese, una istituzione borghese (in quanto assumevano "essere le istituzioni democratiche terreno indispensabile per il cammino di emancipazione del proletariato"), erano invece contro la reazione violenta al fascismo che pur si diceva mettesse in serio pericolo quelle tali conquiste e istituzioni? La risposta di I socialdemocratici e la violenza, nel nr. XXVIII, 12/V/1921, de Il Comunista, era che
"i classici nostri riformisti [...] vedono bene che lo scopo della violenza fascista non è la soppressione della democrazia borghese e neppure lo schiacciamento della socialdemocrazia operaia; esso è soltanto l'organizzazione difensiva del regime democratico borghese contro l'assalto proletario. I lavoratori comunisti escono dai quadri della lotta parlamentare e proclamano l'intendimento di muovere alla conquista violenta del potere. La borghesia, con le guardie bianche, si organizza per la lotta, non per sopprimere dunque essa la democrazia, bensì per difenderla da noi comunisti che la vogliamo violentemente sopprimere". Se perciò e nei limiti in cui il fascismo si avventa sui massimalisti, non lo fa perché spera "di distruggere subito quanto vi è di vero movimento comunista - oggi organizzato nel nostro partito - ma" perché spera (e ci riesce) "di ridurre il grosso del PSI al rinnegamento definitivo del comunismo e all'alleanza cogli altri difensori della democrazia borghese".
Lo svolgersi della campagna elettorale spingeva ognor più il PSI a scartare "tutti i mezzi di lotta e di agitazione che rendono la vittoria, dal punto di vista puramente numerico, del computo dei voti e dei mandati soltanto, meno facile e sicura: il coraggio, la coerenza, la disciplina", non esitando neppure ad eludere gli attacchi del PCd'I, o ad ignorarli, per non sviare gli elettori ai quali, del resto, non aveva nemmeno il coraggio di dire che non votassero per il partito comunista:
"Noi comunisti non temiamo affatto l'effetto opposto - si legge nell'articolo Ipocrisia, apparso nel nr. XXIX, 15/V, de Il Comunista -, di perdere voti di elementi oscillanti per l'asprezza della nostra campagna e della nostra rampogna ai socialdemocratici. Noi spregiamo l'opportunismo e l'ipocrisia. Noi diciamo alto ai proletari il nostro pensiero: per lottare con successo contro la borghesia, bisogna liquidare il partito socialista, quel partito che sfrutta il suo passato, di cui noi rappresentiamo le nobili tradizioni, nella sempre più spinta dedizione ai metodi controrivoluzionari della sua ala destra, quel partito il cui metodo si compendia in una demagogia che è per le masse insidia peggiore delle manovre dei partiti borghesi e delle prepotenze fasciste.
La nostra parola d'ordine è: proletari, non votate per il partito socialista! E noi la sosteniamo soprattutto dove non vi è la nostra lista comunista, in quanto queste nostre direttive sono al disopra del conseguimento di una maggiore o minore messe di voti per le liste del nostro partito".
Ci rendiamo ben conto che la durezza di questa posizione sconvolgerà le anime timorate di Dio dei nostri bravi democratici. Ma il fatto è che proprio il tenace persistere in vita del massimalismo, con la sua demagogia rivoluzionaria e la sua prassi ultrasocialdemocratica, concorse allora in modo decisivo a determinare la sconfitta del comunismo, non solo, ma dell'intera classe operaia, e ad assicurare la sopravvivenza di quell'ordine economico e sociale contro il quale il massimalismo diceva - ma diceva soltanto - di voler combattere. Era questione di mors tua vita mea: oggi il massimalismo, finalmente spogliato delle sue vesti barricadiere, vive e prospera; del comunismo non c'è, almeno sulla scena politica ufficiale, manco più la traccia, meno che mai alle Botteghe Oscure, dove se si venera un antenato o sì segue un modello, è quello delle "socialdemocrazie europee". Se ne rallegrino i buoni democratici timorati di Dio, nella buvette del cui parlamento, del resto, c'è posto anche per i discendenti dello squadrismo 1921! Per essi, quella nostra parola d'ordine era ed è anatema: per noi, era ed è sacrosanta.
Trionfalmente vinte le elezioni, il PSI si trovò nello stesso circolo vizioso del 1919, solo capovolto. Allora, ottenuto il successo sull'onda del malcontento e delle aspirazioni rivoluzionarie del proletariato, aveva risolto il dilemma fra l'andare avanti e il ripiegare su posizioni blandamente riformiste, facendo gettito del programma di Bologna e arrancando al seguito della destra. Ora aveva ottenuto vittoria sull'onda della paura, della delusione o del quieto vivere; avrebbe quindi avuto il dovere di dire che cosa intendeva farne. Due, a questo punto, erano le ipotesi, scrive Il circolo vizioso ne Il Comunista del 22/5: o si "attendeva il successo elettorale solo per rialzare il morale delle masse, per ristabilire nel proletariato quella capacità offensiva che aveva avuto negli ultimi anni e che appariva perduta; e allora lo slancio della vittoria doveva essere svolto subito in una controffensiva al fascismo" - invece, nonostante i segni di vigorosa ripresa proletaria, la parola del PSI continuava ad essere: disarmare! Restava l'altra ipotesi: "e questa non ha che un nome: collaborazione", qualunque forma dovesse, per il momento, assumere.
Di più vasto respiro teorico sono i due scritti La collaborazione socialista e Intransigenza. Il primo riprende il concetto, fondamentale per Lenin come per noi, che "nella odierna situazione storica è politica di collaborazione anche il semplice riconoscimento dell'utilità del mezzo parlamentare per gli scopi dell'emancipazione proletaria": a maggior ragione "può dirsi che per collaborare non occorre proprio arrivare alla partecipazione ministeriale, ma basta appoggiare un ministero nei voti al parlamento, basta astenersi da un voto, basta squagliarsi al momento buono, basta in certi casi fare una opposizione intelligente che spinga altri fattori politici all'appoggio ministeriale", come appunto stavano facendo massimalisti e riformisti uniti. Avrebbero compiuto un nuovo passo, quello decisivo? Probabilmente no; era forse troppo presto perché "il voltafaccia, la rinunzia definitiva alle gloriose tradizioni del partito" riuscisse a passare senza sconquassi. Ma "gli indizi che la turpe eventualità si profili" erano ormai numerosi, né i socialisti si preoccupavano più di occultarli. Il secondo articolo mostra come la vecchia formula negativa dell'intransigenza, sulla quale i massimalisti avevano ripiegato per nascondere l'abbandono del programma di Bologna, poteva in parte giustificarsi quando ancora la crisi del regime non poneva con l'asprezza dei giorni in cui si viveva alla fine della guerra l'alternativa: dittatura del proletariato o dittatura della borghesia. Su una posizione simile non si poteva più rimanere fermi: dalla previsione negativa era necessario che scaturisse una norma positiva. "Chi non risponde nel senso comunista: preparazione all'azione rivoluzionaria e alla dittatura proletaria, per quante possano essere le difficoltà da vincere, deve per forza rispondere: intervento nel governo borghese per rimediare al dissesto sociale [...] E se la partecipazione ministeriale è la forma estrema e palese di tale collaborazione, l'equivoco in cui permangono i pretesi intransigenti del PSI, in quanto serve solo, non a tracciare una direttiva sicura e chiara, che invano chiederemmo ai suoi assertori di precisare, ma a coprire la conversione verso il dichiarato ministerialismo, è la peggiore delle insidie che tengono il sacco alla causa della conservazione borghese" (55).
Lento a maturare allora, lo sbocco della collaborazione ministeriale socialista e perfino "comunista" è oggi pane quotidiano. Era fin da allora che bisognava tagliargli la strada: questo il valore, questo il senso di una polemica che guardava lontano.
***
È un dramma di portata internazionale che, per raggiungere quello che poteva allora ritenersi lo stesso obiettivo - lo sfasciamento di quanto rimaneva del PSI -, Mosca abbia creduto di dover seguire una via diversa dalla nostra, una via per giunta contrastante con le basi costitutive sia dell'IC, sia delle sue sezioni nazionali.
Nella seduta del 4 aprile, come si è ricordato nel capitolo precedente, il CE dell'Internazionale comunista aveva approvato una risoluzione che, riconoscendo il diritto del PSI al ricorso contro il deliberato di Livorno (mozione Bentivoglio, vedi il cap. V, par. 5), lo invitava al III Congresso mondiale proponendo che la sua delegazione, possibilmente numerosa e rappresentativa non solo della Direzione, ma anche delle "più forti organizzazioni del partito" (in realtà, la delegazione si ridusse a soli tre elementi, abilmente scelti fra i meno entusiasti, non però al punto di auspicare una frattura, del corso seguito dalla Direzione, a sua volta rimasta a casa) e chiedendo, poiché era "postulato primario" dell'IC "l'immediata esclusione della corrente riformista Turati-Modigliani", che il PSI facesse pervenire al Congresso "una chiara e precisa dichiarazione scritta, se esso insiste che il gruppo della 'Critica Sociale' (Turati-Modigliani) possa e debba essere membro della Internazionale Comunista" (dichiarazione che non vide mai la luce).
In una successiva circolare (apparsa su L'Ordine Nuovo del 26/V, come la risoluzione precedente era stata pubblicata nel numero del 24/IV), aveva ribadito gli stessi concetti, pur confermando al contempo la decisione presa a Livorno di espellere "il partito di Serrati, che di fatto non si era attenuto alle risoluzioni del II Congresso", e di riconoscere come sezione dell'IC il solo PCd'I.
Inchinandosi per disciplina alla decisione dell'Esecutivo internazionale, il PCd'I, prima ancora che si riunisse (a partire dal 22/VI) il III Congresso mondiale, non poté non esprimere nell'articolo che pubblichiamo in appendice, e che risale al 2/VI, aperto dissenso dalla forma e dalla sostanza di essa. A parte la discutibilità del "diritto al ricorso" per un partito che non solo non apparteneva all'organizzazione internazionale, ma ne era stato escluso per fondate ragioni nella sede di un regolare congresso nazionale, la decisione del CE rimetteva in causa i deliberati di questo stesso congresso, che - ripetiamolo ancora - traevano origine e significato non dal puro e semplice rifiuto dei serratiani di scindersi dai destri, ma dalla loro sostanziale dissonanza dai postulati programmatici fissati dal II Congresso mondiale ed elevati a "condizioni di ammissione" all'IC. Ritornando sui suoi passi, il CE poneva, inoltre, ancora una volta, la pregiudiziale di rompere con il "gruppo Turati-Modigliani" ad un partito che, da Livorno in poi, lungi dal differenziarsene e, meno ancora, dal sottoporlo ai rigori di una stretta disciplina politica, si era andato sempre più identificando con esso nelle dichiarazioni pubbliche, nella prassi sindacale e parlamentare, negli indirizzi di azione (o meglio di inazione) di fronte all'attacco borghese, da un lato abbracciandone la filosofia gradualista e riformista, dall'altro disarmando i proletari dinnanzi all'avversario armato per finire poi nell'obbrobrio dei patti di pacificazione coi fascisti.
L'Internazionale partiva dall'ipotesi gratuita che la "mozione Bentivoglio" fosse stata imposta ai serratiani dalla pressione degli "operai rivoluzionari" ancora membri del PSI. Il PCd'I era invece "del fondato parere" che tale mozione facesse "parte dell'armamentario centrista per corbellare gli operai rivoluzionari e dare loro ad intendere che solo piccoli dettagli di forma inducessero il Partito socialista a respingere le decisioni del II Congresso" (56). L'Internazionale credeva di poter convincere "gli operai rivoluzionari" di cui pensava che il PSI contasse ancora un numero abbastanza consistente, mettendolo con le spalle al muro grazie alla richiesta difficilmente esaudibile di rompere con Turati e C. Il PCd'I riteneva invece, a giusta ragione, che gli operai ancora iscritti al PSI potessero, "se sentivano gli interessi della loro classe, diventare rivoluzionari solo col volgere le spalle" ai loro capi e "aderire individualmente al loro partito, il Partito comunista, quale la storia lo ha organizzativamente 'definito' a Livorno, col distacco dagli opportunisti", e che appunto e solo questo bisognasse incoraggiarli a fare, convincendoli non tanto con la propaganda, quanto con l'esempio pratico quotidiano di atti e direttive d'azione inequivocabilmente classisti. Secondo l'Internazionale, nessun tempo poteva considerarsi perduto se speso nel tentativo di porre il PSI, in certo modo, in contraddizione con se stesso. Secondo il PCd'I, ciò significava mantenere vivo l'equivoco massimalista invece di disperderlo e, di conseguenza, sprecare (come si sprecò fin troppo) un tempo che, agli effetti del consolidamento del giovane partito, data la situazione in cui esso si muoveva, sarebbe sempre stato troppo breve. L'Internazionale si illudeva d'ingrossare così le file di un partito nato forzatamente minoritario. Il PCd'I risponderà pochi mesi dopo la famosa decisione: "È desiderabile che il partito sia il più possibile numeroso; è un assioma. Ma questa condizione è desiderabile come mezzo per raggiungere il fine rivoluzionario del partito. Bisogna sapere che, se non nelle file del partito, almeno in quelle dei proletari simpatizzanti per esso e che domani vi entreranno, si potrebbe perdere una parte degli effettivi guadagnati a destra. La situazione è tale che non potrebbero non derivare conseguenze negative dal periodo inevitabile di incertezza che seguirebbe ad un cambiamento delle basi del partito, nell'atto in cui gli avvenimenti sono tali che l'interesse delle masse è richiamato ogni giorno più sul nostro programma e sulla nostra azione" (57). L'Internazionale contava sulla possibilità che in seno al vecchio partito si formasse una corrente "di sinistra". L'ipotesi era smentita - se occorrevano prove - dal fatto stesso che nessuna reazione di qualche peso era seguita al corso apertamente controrivoluzionario tenuto senza interruzione dal gruppo dirigente da Livorno in poi (58). Ed è un fatto che la decisione, prima, di ammettere il ricorso del "partito di Serrati" e la presenza di quest'ultimo al III Congresso, poi di rinnovargli sic et simpliciter la richiesta di separarsi dal gruppo di "Critica Sociale", da un lato ridiede un minimo di fiducia ad operai tormentati da dubbi più che legittimi sulla natura classista del loro partito, con l'effetto - tra le altre cose, ma non è la meno grave - che i patti di pacificazione passarono senza che si registrasse da parte loro una vigorosa protesta, dall'altro provocò delusione e non di rado disgusto in strati di proletari coscienti non iscritti al PCd'I, ma simpatizzanti con le sue direttive, e nella sua stessa "base".
Il problema come lo pose la Sinistra e, con essa, tutto il partito di allora, andava tuttavia oltre i termini della "questione italiana": investiva le stesse basi costitutive dell'Internazionale. Il II Congresso aveva formulato le tesi di principio - che, appunto perché tali, non ammettevano deroghe - la cui accettazione integrale era insieme presupposto e suggello dell'adesione di qualunque partito all'IC. Sulla loro base si erano svolti i congressi nazionali con relative scissioni, in forza appunto di quelle tesi, dal corpo imputridito dei vecchi partiti socialisti. In tal modo, il processo di costituzione dei partiti comunisti si era definitivamente concluso. I partiti comunisti esistevano: chiunque, singoli o gruppi, si fosse deciso ad abbracciare il corpo di tesi della III Internazionale, non aveva che da chiedere d'esservi regolarmente ammesso. Non si poteva e non si doveva tornare indietro, pretendendo che bastasse rompere col "riformismo che collabora" per lavarsi dal peccato, ben più grave ed insidioso, di "riformismo che non collabora". Non si poteva e non si doveva interrompere e, peggio, sconvolgere (come si fece poi regolarmente) il duro lavoro di inquadramento e rafforzamento di un giovane partito, qualunque fosse, nato nel pestifero ambiente occidentale, rimettendolo ogni volta di fronte all'obbligo disciplinare di far posto nel proprio delicato organismo ad un corpo che esso sapeva (ed era di fatto) estraneo, e per accogliere il quale Mosca era costretta ad introdurre sempre nuove eccezioni alla regola delle Condizioni di Ammissione.
Così come venne posta, prima del III Congresso e nel suo corso, dal CE dell'Internazionale, la "questione italiana" creava, a nostro giudizio, un precedente pericoloso e, alla lunga, fatale: quello di sottoporre a periodiche revisioni le basi di partenza dell'IC per guadagnarle il dubbio apporto di questo o quel partito, convinto solo a metà (nella migliore delle ipotesi) della loro fondatezza, illudendosi di poterlo "digerire" e renderlo diverso da quel che era, senza perdere in tale processo i propri connotati, mentre si trattava di mantenere come condizione invalicabile dell'adesione all'IC (o, se un partito comunista esisteva già localmente, a quest'ultimo) l'accettazione senza riserve di quelle basi di partenza. Così agendo (e non diversamente avevano agito, nel loro processo di formazione, i bolscevichi) si sarebbe più che guadagnato in qualità, cioè in vigore, compattezza, efficienza, ciò che si fosse stati costretti a perdere in bruta quantità: non si sarebbe disfatto ad ogni volgere di tempi, o meglio ad ogni nuova valutazione del volgere dei tempi, ciò che si era faticosamente costruito sulle fondamenta, non soggette ai capricci della contingenza, dei principi e del programma.
A Livorno, la soluzione della "questione italiana" era assurta a modello della stabilità e universalità dei criteri di costituzione dei partiti comunisti; al III Congresso, pur fra energiche lavate di capo ai "pellegrini" del PSI, la sua nuova soluzione (seguita poi, come sempre avviene, da altre, di anno in anno) rischiava di assurgere a modello inverso, del modo cioè di costituire partiti sempre meno stabili ed omogenei, quindi sempre meno comunisti. Perciò era necessario reagire, come si fece prima ancora che la questione venisse sul tappeto del III Congresso (59), sollevando un problema non locale ma internazionale, non contingente ma di principio. Le maglie di quello che al II congresso era sembrato un quasi ferreo tessuto si andavano allentando: il nostro sforzo fu di impedire che il processo dilagasse. Per ragioni soprattutto oggettive che in parte abbiamo già indicato nelle ultime pagine del II volume, arrestarlo risultò impossibile e, un passo dopo l'altro, attraverso le progressive smagliature l'opportunismo cacciato nel 1920 dalla porta dell'Internazionale vi rientrò dalla finestra. Non è un caso che, all'Esecutivo del febbraio-marzo 1926, la voce della Sinistra si sia levata, unica, a denunciare le fatali deviazioni che, nell'Internazionale, accompagnavano l'ascesa peraltro ancora contrastata dello stalinismo: cresciute nell'atmosfera di eclettismo gradualmente instauratasi al centro e di sfibrante quanto vana rincorsa di brandelli di partiti socialisti eventualmente recuperabili alla periferia, le altre sezioni nazionali e, per quella italiana, la sua direzione ufficiale, tacquero - acconsentendo. Si erano socialdemocratizzate.
Si vuole una controprova che la nostra rigidezza era giustificata, era anzi la sola alla cui osservanza fosse legata, condizioni obiettive concorrendo, la sopravvivenza dell'Internazionale come organizzazione mondiale comunista? Eccola.
Note
(1) L'organico della sede centrale si riduceva, come si desume dal già citato rapporto del CE all'Esecutivo di Mosca (reperibile presso l'Archivio del PCI), ai 5 membri dello stesso CE, "due impiegati per l'amministrazione, uno per la corrispondenza, un redattore del Comunista, un redattore della rivista, un incaricato del lavoro editoriale e dei rapporti internazionali". Secondo la stessa fonte, le federazioni provinciali erano 63 (con Porto Maurizio annesso a Savona, e Ravenna a Ferrara); le tessere fin allora erano pagate 30.000, ma si contava di raggiungere le 60 e, coi giovani, le 100.000; oltre al bisettimanale centrale e ai due quotidiani, si contavano 27 periodici locali, la rivista teorica e il Bollettino d'informazioni per i compagni esteri. Aveva pure sede a Milano il C. sindacale comunista.
(2) Alla preparazione della montatura dovevano indubbiamente servire 18 circolari sedicentemente emanate dal CE tra la fine di gennaio e la fine di marzo, e contenenti minute istruzioni sia per l'allestimento di una presunta Guardia rossa, sia, nientemeno, per la preparazione di un attacco rivoluzionario al potere con inizio a Torino, dove esse furono rinvenute e misero in grande allarme le autorità locali. Sull'autenticità di esse il prefetto di Milano e la Direz. gen. di polizia si pronunciarono negativamente (cfr. G. Palazzolo, L'apparato illegale del PCd'I nel 1921-22 e la lotta contro il fascismo, in Rivista storica del socialismo, sett.-dic. '66, p. 100, nota 10), nulla di simile essendosi scoperto durante le perquisizioni eseguite centralmente. Del resto, basta un'occhiata al dossier per accorgersi che si tratta del falso marchiano di un provocatore fra l'altro sprovveduto: le "circolari" sono firmate, diversamente da tutte le autentiche, non dal CE, ma un "Comitato centrale" che non ebbe modo di riunirsi prima del 14-16 aprile, o da una "Commissione esecutiva" inesistente di fatto come era inesistente nel lessico di partito la sua designazione; il linguaggio è sciatto, sgrammaticato, disgustosamente retorico spesso, approssimativo sempre; vi ricorrono termini non solo estranei alla tradizione di Sinistra, ma da essa rifiutati come inconsistenti, quali lo "sciopero espropriatore"; emanerebbero da un centro che pure, il 20/V, a proposito di apparato illegale, scriveva a Mosca di stare soltanto allora, e per forza di cose, "cominciando a costruire anche questa macchina". Ciò non ha impedito ad uno storico di grido come Renzo De Felice di pubblicarle, quali testimonianze con buone probabilità di essere fededegne, in Il primo anno di vita del PCd'I, Edizioni del Gallo, Milano, 1966!
(3) Sotto Nitti, alla graduale smobilitazione delle armate di guerra corrispondono un rapido aumento degli effettivi dell'arma dei carabinieri, della guardia di finanza, dei servizi investigativi, e la creazione della guardia regia. Secondo un documento del PCd'I forse del 1923, Appunti sull'esperienza delle forme militari nella 'guerra civile 1919-1922' in Italia (riprodotto in Rivista storica del socialismo, genn.-apr. 1966, cfr. p. 108), nei primi 3 casi gli effettivi furono portati rispettivamente a 65.000, 35.000, 12.000 uomini; nel quarto raggiunsero d'emblée i 45.000. Le cifre possono essere più o meno esatte, ma il dato di fatto del potenziamento resta e, lo si è visto nel nostro II volume, i proletari lo assaggiarono sulla loro pelle, in ripetute occasioni, appunto in quel biennio sotto Nitti come sotto Giolitti, e, nel biennio seguente, sotto Bonomi e successori.
(4) A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, op. cit., p. 194.
(5) Il punto è svolto acutamente nel Rapporto sul fascismo tenuto da A. Bordiga al IV congresso dell' IC (Protokoll des Vierten Kongresses der Kommunistischen Internationale, Amburgo, 1923, pp. 330-360): "L'offensiva controrivoluzionaria esigeva l'unificazione delle forze della classe dominante nella lotta sociale e nella politica di governo. Il fascismo è stato la realizzazione di questa esigenza necessaria. Ponendosi al disopra di tutti i partiti borghesi tradizionali, esso li priva a poco a poco del loro contenuto, li sostituisce nella loro attività e, grazie agli errori ed agli insuccessi del movimento proletario, riesce anche a sfruttare, nel perseguire i propri fini, la forza politica e il materiale umano della classi medie". E, nell'articolo Mosca e Roma apparso ne Il Lavoratore del 17/1/1923, si istituisce un parallelo, ovviamente a parti rovesciate quanto a basi di classe e a finalità programmatiche, tra il compito del Partito comunista in Russia, a capo dello Stato come rappresentante della classe proletaria "nella sua unità", e quello del partito fascista in Italia "rispetto alla classe borghese e ai vari ceti semi-borghesi": "Tra gli interessi di questi e di tutte le frazioni della borghesia esistono innumeri conflitti i quali mettono a serio rischio il successo della difesa contro la rivoluzione proletaria. Con una organizzazione unitaria di partito di governo, il fascismo interviene a centuplicare la forza di resistenza controrivoluzionaria. Ed il partito fascista, postosi alla testa dello Stato borghese, sostituisce i vecchi aggruppamenti di politicanti con una sintesi unitaria delle forze sociali che stavano, nel caos della disorganizzazione politica borghese, dietro di quelli". Nel '23-25 lo fece ancora combinando "i metodi della violenza reazionaria [...] alla demagogia democratica"; dal '26 in poi, li combinò alla demagogia riformista, magari con etichetta "antiplutocratica", come già previsto in quell'articolo; nel 1921-22, aveva perseguito gli stessi obiettivi di unificazione della difesa antiproletaria nella classe non al vertice dello Stato, ma col suo avallo ed appoggio.
(6) Che la questione del partito unico di governo e della sua gestione totalitaria del potere non si ponesse nel 1921 e neppure nel '22-24 risulta sia dalle ripetute manovre mussoliniane per entrare in un governo democratico di coalizione, eventualmente con i socialisti di destra, e dall'imposizione alla "fronda" dei bastonatori puri di partecipare lealmente alla vita del parlamento, sia dalla politica economica apertamente liberista propugnata nel '21 e praticata poi fino al '26, in particolare sotto De Stefani. Il ventaglio delle possibili soluzioni, per Mussolini, restava aperto, esclusa quella di un colpo di Stato "di destra" nel senso classico del termine.
(7) Così nel Discorso alla Camera del 16/V/1925, riprodotto in "2000 pagine di Gramsci", Milano, 1964, I, pp. 751, ma anche 750 in fondo. Inutile dire che, sciaguratamente, questa tesi divenne, dal 1925 in poi, la tesi ufficiale del PCd'I.
(8) Tutte le citazioni risalgono al già ricordato Rapporto sul fascismo al IV congresso dell'IC.
(9) "Fu chiaro sin dall'inizio che nel Mezzogiorno, per le stesse cause che [salvo in Puglia] vi avevano reso impossibile la nascita di un forte movimento socialista, un movimento fascista non poteva sorgere. Il fascismo rappresenta così poco un movimento della parte reazionaria della borghesia, che ha fatto la sua prima comparsa non nell'Italia meridionale, ma là dove il movimento proletario era più sviluppato e la lotta di classe aveva assunto le forme più decise". Così il citato Rapporto sul fascismo al IV congresso (Protokoll etc., p. 336).
(10) Cfr., più sopra, l'ultima parte del II capitolo.
(11) Cfr. il cap. III, più sopra, paragr. 4, e l'appendice al cap. IV.
(12) Abilmente, per dividere i piccoli proprietari e mezzadri dai braccianti, il 25/II nel Ferrarese viene intanto fondato il primo "sindacato economico fascista", all'insegna del motto: "La terra a chi la lavora".
(13) Cfr. A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, cit., pp. 219-220.
(14) In piena crisi di smarrimento, lo riconosceva lo stesso Serrati in una lettera a Jacques Mesnil del 28/IV/'21 (cfr. P. Spriano, Storia del PCI: I, da Bordiga a Gramsci, op. cit. Torino, 1967, p. 123 nota), in cui, a proposito del "bassofondo sociale" armatosi di tutto punto per dare la "caccia al socialista", egli scrive: "E non vi è nulla da fare contro tanta impunita prepotenza, perché, purtroppo, mentre tutti parlavano di rivoluzione, nessuno la preparava" (e chi doveva prepararla, dopo averne tanto parlato, se non il massimalismo vittorioso a Bologna 1919?). E ancora: "La borghesia, impaurita dal nostro abbaiare, morde e morde sodo", come se il mordere sodo non dipendesse proprio dall'aver capito che si abbaiava a vuoto e che, lungi dall'impaurirsene, era venuto per la classe dominante il momento di passare all'attacco nella certezza di uscirne vincitrice.
(15) Il 31/I, alla Camera, Matteotti rivendicherà per i dirigenti del PSI, "contrario al metodo della violenza" e favorevole ad una lotta politico-sociale combattuta "con armi civili", il merito di aver fatto "opera di pacificazione". Purtroppo, aggiungerà, "essi non sanno quanto la loro parola potrà essere ancora ascoltata se questo stato di cose [prendi nota, governo, e provvedi!] non dovesse immediatamente cessare".
(16) L'argomento tornerà di continuo: prima della grande journée, la violenza proletaria non ha diritto di cittadinanza; come ci si arriverà, a quel giorno, senza scontri preliminari implicanti per forza di cose "la violenza e il sangue", lo sa soltanto il Dio dei massimalisti.
(17) Avanti! dei 4/III/1921.
(18) "Una parola serena", in Avanti! del 13/III.
(19) In Comunismo, nr. XII, 1-15/III/1921.
(20) Già prima, il 29/III, l'Avanti! aveva scritto: "All'assassinio politico, alla violenza organizzata, sintomi di decomposizione di una civiltà agonizzante, la civiltà che sorge dal suo seno come il bene dal male, come la vita dalla morte, deve rispondere in un sol modo: col lavoro e colla invincibile potenza dell'idea che sa trasformarsi in realtà pratica e realizzatrice"!
(21) in "Fuori della realtà, fuori della vita, fuori della Storia!", nel nr. 6/IV dell'Avanti!, polemizzando con... Turati.
(22) Da tempo il partito andava predicando in sede parlamentare la necessità di un "disarmo" concordato fra le parti: cfr. per esempio, il discorso di V. Pagella alla Camera a proposito dei fatti di Casale Monf. (Avanti! del 16/III). Che poi i patti di pacificazione non siano stati rispettati dai fascisti a tutto danno della controparte, è solo una legge empirica di guerra, così come il fatto che l'attitudine imbelle del massimalismo non gli abbia risparmiato gli attacchi, le aggressioni, gli assassini, non è che la conferma della verità antica quanto il mondo che più si fa gli agnellini, più ci si presta a farsi divorare dal lupo. Angelo Tasca, a proposito della rapidità di movimento con cui i fascisti passavano a distruggere l'una dopo l'altra le Case del Popolo e le CdL, osserva che "invece non ci sono quasi esempi di attacchi socialisti contro le sedi dei Fasci" (op. cit. p. 109). Ma perché avrebbero dovuto essercene, se la chiave di volta della "strategia" massimalista consisteva nella resistenza passiva? Allo stesso modo, a proposito dell'invito matteottiano al silenzio e alla viltà nel Polesine, Tasca scrive: "Questo atteggiamento non disarma le squadre fasciste, che percorrono la zona su camion forniti dagli agrari o presi a prestito dalla Commissione di requisizione dei cereali, i cui servizi sono assicurati dalla autorità militare" (ivi, p. 174). Ora, quando mai e accaduto che, in guerra, le professioni di evangelismo abbiano trovato una risposta diversa dal cannibalismo? Ci si obietterà che dell'attacco fascista caddero vittima anche numerosi organizzatori e militanti socialisti alla base, e che dalla violenza nera non furono risparmiati neppure grossi calibri del PSI. Ma i primi vennero colpiti o in quanto erano a capo di istituzioni proletarie che urgeva comunque distruggere, o perché, disubbidendo agli ordini del partito, erano scesi, come spesso avvenne, in lotta coraggiosa contro il nemico; i secondi furono fatti oggetto di angherie ed anche di violenze per indurli più rapidamente sia a patti di pacificazione (come avvenne), sia a forme di collaborazione paragovernativa o (come non avvenne per cause che appariranno più chiare in seguito) governativa tout court.
(23) In Postille alle tesi della Sinistra, ne Lo Stato operaio, nr. XVII del 22/V/1924.
(24) Si veda L. Trotsky, Die neue Etappe, etc., op. cit., p. 55. Ma si veda anche l'articolo La crisi nel mondo borghese e la situazione italiana nel nr. III, 15 maggio 1921, di Rassegna comunista: "La situazione sfugge dalle mani della classe dominante, e tuttavia questa infierisce sulla classe dominata, l'attacca sulle piazze e nelle posizioni già conquistate, e la sconfigge quasi dovunque. Vi è in questo una contraddizione? Certo, ma è di quelle contraddizioni di cui vive il processo storico che sbocca nelle rivoluzioni. Tutte le classi che sono al sommo della scala sociale evolvono da rapporti tollerabili e quasi patriarcali coi loro sudditi e dipendenti, sino a forme di prepotente arbitrio". Più sopra abbiamo scritto "da non deprecare" a ragion veduta, sia perché la reazione fascista era un annuncio di agonia del regime borghese (il che non significa necessariamente morte: dall'agonia di un regime si può uscire solo se interviene il colpo di mazza della classe sfruttata), sia perché essa avrebbe causato, come già stava causando, il crollo di troppe illusioni pacifiste e di molti istituti democratici. Si è fatto grande scandalo del nostro augurio che la borghesia andasse "fino in fondo" e, "nella reazione bianca", strozzasse "la socialdemocrazia" preparando così, "non sembri un paradosso, le migliori condizioni per la sua rapida sconfitta da parte della rivoluzione" (in Tra le gesta fascista e la campagna elettorale, in Rassegna comunista, nr. II, del 15/IV/'21), o della dichiarazione contenuta nella stessa rivista (nr. V del 30/VI) a proposito dell'espulsione armata manu del comp. Misiano dalla Camera ad opera dei fascisti: "I comunisti non si dolgono dell'accaduto [... Essi], che tendono alla distruzione del Parlamento, non soltanto metaforica, non possono dolersi se un loro rappresentante venga cacciato dal palazzo dell'Assemblea elettiva. Essi vedono confermata nei fatti le ragioni della loro critica. E non possono non compiacersene, mentre si augurano di essere presto in grado di cacciare essi, armi alla mano, tutti gli altri, compresa la nota cocotte internazionale: Madama Maggioranza". Perché, allora, non scandalizzarsi dell'esultanza di Engels per l'effetto educativo (in senso rivoluzionario) della legislazione bismarckiana contro i socialisti? ("La legge contro i socialisti avrà […] un successo eccellente per noi. Essa compirà l'educazione rivoluzionaria degli operai tedeschi", liberandoli dall'illusione, creata da anni di agitazione legale, "che non ci fosse più bisogno d'altro per conseguire la vittoria finale del proletariato. Questa cosa [...] poteva diventare pericolosa. Fortunatamente [udite! udite!] l'azione brusca di Bismarck e la vigliaccheria della borghesia tedesca hanno mutato le cose". Peggio ancora: "Quando ebbe luogo l'attentato a Bismarck, a un borghese che mi scriveva: 'Tutta la Germania (borghese) è in gioia perché Bismarck non fu ucciso', io risposi: 'Noi pure siamo contenti, perché lavora per noi come se fosse pagato per questo'" (F. Engels, Scritti italiani, Milano, Edizioni Avanti!, 1955, pp. 127 e 123). O perché non scandalizzarsi delle molte parole di saluto lanciate da Marx nel 1848 alla controrivoluzione perché essa "è l'anticamera della rivoluzione" e il terreno della prima è quello stesso della seconda?
(25) Cfr. Un partito in decomposizione, ne Il Comunista del 10/III, riportato in appendice a questo capitolo.
(26) Cfr. Mentre si prepara la 'spedizione pacificatrice'. Ancora due parole, ne Il Comunista del 31/VII/1921, nr. XLVI. Si vedano inoltre gli articoli in polemica coi massimalisti da noi riportati in appendice. Non è fuori luogo ricordare anche le direttive impartite già dai CE della Federazione giovanile in seguito alle perquisizioni e agli arresti del 20-21/III: le sezioni continuino nel loro lavoro, ma, se fatte oggetto di violenze poliziesche sia direttamente che tramite i fascisti, "nessuna esitazione, nessun dubbio, nessuna vigliaccheria" - la parola d'ordine, proprio all'inverso dei socialisti, è: "Accettare le provocazioni! Raccogliere la sfida degli avversari! Rispondere con la violenza alla violenza, con le armi alle armi, con gli incendi agli incendi!" (Il comunicato si legge ne L'Ordine Nuovo del 24/III).
(27) Cfr. i lunghi brani dell'articolo Partito e azione di classe da noi riportati nel capitolo precedente.
(28) Si trattava anche di reagire alla smania del PSI e dei dirigenti della CGL, in occasione di eventi luttuosi ma di origine più che dubbia - come il celebre attentato del 23 marzo al teatro Diana di Milano -, di correre non solo a presentarsi all'opinione pubblica nella veste di organizzazioni osservanti in ogni caso dell'ordine e della legge, ma ad unire la propria voce a quella dell'intera canea borghese levatasi ipocritamente ad urlare contro ogni forma di violenza e, direttamente o indirettamente, a segnare a dito il proletariato come autore attuale o potenziale di ogni obbrobrio, per scatenargli contro le furie della "massa grigia delle classi intermedie e di tutti gli incerti ed i senza partito". Proprio in occasione dei fatti del Diana, la codardia politica e il servilismo socialisti avevano toccato il vertice, e il PCd'I si era dovuto assumere con coraggio esemplare il compito di mettere in guardia i lavoratori (nelle parole del manifesto Per i funerali delle vittime del Diana) dal "lasciarsi impressionare dall'abile messa in scena di un simulato cordoglio da volgere in odio contro i lavoratori ed in sopraffazioni del loro movimento". Il partito di classe non aveva da giustificarsi di fronte al tribunale della cosiddetta opinione pubblica: il suo programma rispondeva da solo per lui. Mai, però, esso avrebbe accettato, come PSI e CGL, di dare la propria adesione, sia pure silenziosa, a manifestazioni di cordoglio e di deprecazione non di quella specifica violenza, ma di qualunque violenza, il che poi, in linguaggio borghese, significa violenza proletaria, quella borghese essendo per definizione legittima, o tanto sotterranea da non aver bisogno di farsi… legittimare: non si vede, quindi non c'è!
(29) Cfr. l'intervista ad Argo Secondari, col titolo Chi sono e che cosa vogliono gli 'Arditi del Popolo', ne L'Ordine Nuovo del 12/VII/'21.
(30) Spiegando come si stesse soltanto allora iniziando a costruire una "macchina illegale", il CE scriveva a Mosca nel rapporto già più volte citato del 20/V: "Bisogna pensare che nel suo periodo di organizzazione il PC ha dovuto constatare l'assenza di ogni preparazione sistematica all'armamento del proletariato, alla propaganda nell'esercito, all'inquadramento delle forze rivoluzionarie ecc.; e pensare a risolvere questi gravi problemi. La maggiore difficoltà è costituita dalle idee confuse ed infantili della maggior parte dei compagni, che, vedendosi consigliati a rinunciare ad alcuni metodi ingenui senza essere messi al corrente, come è naturale, della diversa direzione data al lavoro e delle iniziative serie, immaginano che in loro assenza non si farà nulla, chiedono di sapere tutto, e non riescono mai ad imparare la disciplina dell'esecuzione silenziosa e della obbedienza devota e discreta". Figurarsi come fosse difficile sbarazzare il campo da queste eredità massimaliste-riformiste nella materia, per certi versi ancor più delicata, dell'organizzazione militare.
(31) Sarà questo il caso del movimento verificatosi a Roma dal 7 al 12 novembre, durante il congresso nazionale fascista, e dominato sia dagli Arditi del Popolo, sia dal prevalentemente socialista Comitato di difesa proletaria, al quale il PCd'I partecipò con le sue squadre mantenendo tuttavia la propria autonomia politica ed organizzativa e ottenendo in tal modo che l'azione iniziata non si fermasse agli obiettivi genericamente antifascisti perseguiti dagli organizzatori, ma assumesse un carattere classista con la prosecuzione dello sciopero generale fino all'evacuazione dei quartieri popolari da parte dei fascisti (cfr. il lungo rapporto pubblicato da L'Ordine Nuovo del 10/XI). Non avvertiva già Marx, nell'Indirizzo del marzo 1850 che "nel caso di una battaglia contro un nemico comune non c'è bisogno di nessuna unione speciale: appena si deve combattere direttamente tale nemico, gli interessi dei due partiti coincidono momentaneamente e, com'è avvenuto sinora così per l'avvenire, questo collegamento, calcolato soltanto per quel momento, si stabilirà spontaneamente"?
(32) Come la sezione milanese, uno dei cui appelli ai giovani proletari perché si iscrivano alle squadre di azione della Gioventù comunista, chiamate ad "inquadrare e organizzare l'avanguardia rivoluzionaria del proletariato, che per prima sferrerà la sua controffensiva alla violenza fascista", si può leggere ne La Comune, organo della Federazione comunista di Como, del 17/VI/'21. Esso reca l'avallo del CE della Federazione giovanile, impegnatosi a diffonderlo in migliaia di copie. Dell'esistenza di "squadre armate comuniste poggianti sull'apparato della FGCd'I" testimoniano rapporti della polizia anche a Trieste e Torino (cfr. G. Palazzolo, L'apparato illegale etc, cit., p. 101). Che poi, specie a Torino, sopravvivessero squadre proletarie delegate, per esempio, alla difesa della CdL, della Casa del Popolo e della stessa redazione dell'Ordine Nuovo, risulta dalla lettura delle Cronache torinesi di quest'ultimo quotidiano, dove un cenno sulla loro convocazione ricorre quasi ad ogni numero nei primi mesi dopo Livorno.
(33) Per i dettagli di maggior rilievo, si vedano i già citati L'apparato illegale del PCd'I nel 1921-22 etc. e Appunti sull'esperienza delle forme militari nella 'guerra civile 1919-1922' in Italia.
(34) Frase tratta da un documento ufficiale e riportata nel citato studio di G. Palazzolo, p. 112.
(35) Dalle già citate Postille alle Tesi della Sinistra, 22.V.1924.
(36) Una campagna di solidarietà per i "serrati della Fiat" sotto forma di raccolta di aiuti venne lanciata il 1° maggio dal Comitato sindacale comunista. La vertenza era stata seguita appassionatamente dalla stampa comunista (vedi in particolare L'Ordine Nuovo dal 10/IV al 6/V, giorno in cui la vertenza si chiuse, e Il Comunista del 5 e 10/IV e dell'1/V) ed energicamente appoggiata dalla sezione locale: una serie di articoli intitolati La lotta su due fronti dei metallurgici torinesi ne trasse il bilancio nei num. 16, 18, 21, 23, 29/V de L'Ordine Nuovo.
(37) Titolo del manifesto indirizzato il 14/VIII ai Lavoratori italiani dal CS, e contenente il testo della lettera inviata alle grandi organizzazioni nazionali in vista dell'azione proposta, che citiamo, benché posteriore al limite del nostro racconto, perché chiarisce una direttiva già contenuta in nuce in prese di posizione e articoli precedenti (Cfr. per esempio un articolo di L. Repossi ne Il Comunista del 14/IV e un altro anonimo del 22/IV).
(37 bis) Poiché queste pagine devono, nel nostro intento, servire anche di ponte al fecondissimo periodo successivo, di cui dovrà trattare il IV volume della Storia della Sinistra Comunista, rinviamo subito il lettore all'articolo di A. Bordiga intitolato Il fronte unico, apparso il 28/X/1921 ne Il Comunista, assai prima che se ne parlasse in seno all'Internazionale.
(38) Si veda il resoconto del discorso Baldesi ne L'Ordine Nuovo del 25/IV, dove si legge pure l'o.d.g. presentato per i comunisti da A. Tasca in merito alle proposte di modifica degli statuti. Per altri commenti sullo stesso tema, cfr. Il Comunista del 28/IV. Quanto all'azione repressiva dei confederali nei confronti di organizzatori e semplici iscritti comunisti alla CGL, si veda il comunicato del CS apparso il 4/VI ne L'Ordine Nuovo.
(39) Si ricordi fra l'altro l'articolo riprodotto in appendice al V capitolo e intitolato Il Partito comunista e la Confederazione del Lavoro, dove si legge: "Il sindacato non potrebbe da solo sostituire il partito e condurre la lotta rivoluzionaria proletaria ma d'altra parte, per compiere la sua preparazione, il partito ha bisogno che i sindacati esistano e comprendano la più gran massa proletaria, nella quale il partito può e deve svolgere il suo lavoro", rivendicando il principio di non spezzare il sindacato, ma di condurre al suo interno la lotta contro il riformismo.
(40) Dal cit. articolo Il fronte unico.
(41) Obiettivo mancato il primo, pienamente raggiunto il secondo: ben 35 deputati fascisti sederanno nella nuova Camera.
(42) Vi concorse, oltre allo spreco di tempo e di forze, quello di denaro. "È indubbio che dalla esperienza della sua azione elettorale il partito ha tratto la convinzione che è eccessivo il costo di questa forma di azione in risorse economiche: mentre la partecipazione dei nostri militanti alla lotta si risolve in una effettiva campagna di propaganda tra le masse e lascia un utile risultato, le spese che bisogna affrontare lasciano esauste e talvolta immobilizzate le organizzazioni locali del partito, che per un lungo periodo successivo devono rinunziare alla loro attività in molti campi per l'onere residuato dalla partecipazione alle elezioni. Questo dato di esperienza è qui citato al di fuori di ogni esame della questione generale di tattica elettorale e parlamentare". (Relazione del Comitato centrale al II Congresso nazionale, Roma, 1922, ora in reprint Feltrinelli, p. 15).
(43) L'impossibilità di intervenire senza suscitare nuove violenze fu invocata dalla pur potente Federazione provinciale socialista di Reggio Emilia, "feudo" prampoliniano, per giustificare l'astensione; la necessità di astenersi per protesta contro il clima di illibertà in cui si sarebbero svolte le elezioni era stata d'altro canto propugnata da elementi di destra e, in particolare, del Gruppo parlamentare socialista, per es. da A. Momigliano in Consentire alle elezioni o astenersi? (vedi l'Avanti! del 16/III), a proposito dei quali il Comunista del 20/III scriveva: "L'astensione non è pensata da questi signori per spezzare il ritmo della legalità borghese, ma per invocarne la continuità di funzionamento. Essi pongono alla borghesia un dilemma: 'elezioni fatte col rispetto delle guarentigie democratiche' o, se si vuole ricorrere dal governo e dalla borghesia a mezzi violenti, astensione per 'lasciare che le masse trovino da sé il loro sfogo, in qualunque modo, per quelle altre vie che la necessità dovrà loro additare'", così come, in genere, per i socialdemocratici, "ove la borghesia rispetti le norme costituzionali, essa avrà diritto ad una tregua indefinita, ossia alla rinunzia all'uso di quei mezzi violenti che non si negano per principio, ma si ammettono legittimi solo quando manchino le pubbliche libertà". (A. Bordiga, in Le depît amoureux). Si veda però anche la discussione in sede di Consiglio Nazionale del PSI, il 5/V (Avanti! del 6), quando venne infine decisa la partecipazione socialista, malgré tout, alle elezioni.
(44) Su questi e analoghi tasti aveva insistito in particolare, fra i vecchi astensionisti, Nicola Loverso, ne Il Soviet del 16/IV, con argomenti subito rintuzzati dalla redazione e, nel numero successivo, da una lettera di precisazioni di Amadeo Bordiga.
(45) Nella fregola di raccogliere voti, il PSI non esitò, per esempio in Puglia, ad accettare nelle sue liste esponenti del pur odiatissimo anarco-sindacalismo (Cfr. l'articolo Comunisti e unitari dinanzi al sindacalismo e... alla sincerità ne Il Comunista del 24/V). E non fu ancora il peggio!
(46) Con qualche aggiunta preliminare, l'articolo apparve anche, col titolo Il PC e le elezioni politiche, nel nr. 1-4, febbr.-maggio 1921, del Bollettino d'informazione per i comunisti stranieri del PCd'I.
(47) "Anche questo - vi si aggiungeva - è un preciso impegno disciplinare".
(48) Grande scandalo fra i nostri candidissimi democratici per la frase: "Ogni operaio consapevole del processo storico delle rivoluzioni proletarie deve ormai essere persuaso che la sua classe non riuscirà a procedere oltre in Italia se non passando sul cadavere del Partito socialista, deve ormai essersi persuaso che non è possibile vincer la borghesia se prima non si sgombra il campo della lotta da questo cadavere in putrefazione, che svigorisce e spesso annienta le energie proletarie, ritardando il risveglio e l'organizzazione delle masse proletarie". Ma è esattamente a questo risultato che l'opera congiunta del riformismo e del massimalismo stava conducendo, così come in Ungheria e in Germania essi avevano fatto spingendosi fino al massacro diretto dei proletari in lotta. Che poi la cosa non faccia né caldo né freddo ai cultori degli "eterni principi" della democrazia, ed essi piangano sui "disastri" causati dalla scissione di un baluardo di quest'ultima come era il vecchio PSI, non ci meraviglia di certo. Per essi, la socialdemocrazia è un fattore di stabilità; per noi, appunto perciò, è una terribile forza controrivoluzionaria: dunque, se possibile, da abbattere.
(49) Dopo la vittoria elettorale socialista, editoriale del numero 15 maggio-15 giugno 1921 della rivista Comunismo.
(50) P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, I, op. cit., p. 129.
(50 bis) Quando il neo-ministero Bonomi si presentò alla Camera, i socialisti si astennero dal voto, astensione - osservava C. Treves ne La Critica Sociale, nr. XIII, 1-15/VII - "che praticamente non si distingue di molto da un voto favorevole"; essa non esclude né "una diretta collaborazione", né un atteggiamento critico nei confronti del governo.
(51) Le citazioni dagli spassosi o.d.g. socialisti provengono dall'Avanti!, del giorno successivo alla data di ognuno di essi: quelle dal discorso Turati, dal testo apparso nel numero appena citato della Critica Sociale. È noto che il Patto statuiva l'impegno delle parti "a fare immediata opera perché minacce, vie di fatto, rappresaglie, punizioni, vendette, pressioni, violenze personali di qualsiasi specie abbiano a cessare. I distintivi, gli emblemi, le insegne dell'una e dell'altra parte saranno rispettati. Le parti reciprocamente si impegnano al rispetto delle organizzazioni economiche. Ogni azione o comportamento in violazione a tale impegno e accordo è fin d'ora sconfessato e deplorato dalle rispettive rappresentanze", ecc.
(52) G. Arfé, Storia dell'Avanti!, Milano, 1956, p. 186.
(53) Il nemico, ne Il Comunista del 6/III/1921. Naturalmente, prescindiamo in questa rapida scorsa dai manifesti, disposizioni, norme etc. già riprodotti nel paragrafo 2.
(54) Antica fissazione.
(55) Tralasciamo qui di considerare gli articoli riguardanti le vicende interne del movimento fascista (in particolare La fronda fascista e Il pioniere di Bergson, rispettivamente nei nr. 29/V e 26/VI de Il Comunista) perché essi troveranno posto con maggior efficacia nel successivo volume, in collegamento con la serie di articoli del novembre successivo, scritti a commento del pomposo Congresso fascista.
(56) Citaz. da Il Congresso Internazionale comunista decide sulla Situazione italiana, ne Il Comunista del 24/VII/1921.
(57) Rapporto del PCd'I sulla "questione italiana" (originale in francese) inviato il 19. IX. 1921 al CE dell'IC e conservato negli archivi del PCI.
(58) Dopo aver rifatta la storia reale del PSI da Livorno in avanti, il suddetto rapporto argomentava: "Ce n'è abbastanza per concludere che siamo in presenza di un partito che non è comunista, nemmeno in parte; che batte per forza d'inerzia la via di una tradizione socialdemocratica; e che cadremmo in un enorme abbaglio se pensassimo che questo insieme organizzato, nel grosso delle sue forze, si sia separato dal movimento comunista solo per un errore momentaneo e vi ritornerà un giorno così com'è, oppure che racchiuda un 'nucleo' che se ne può ancora far sbocciare". Gli avvenimenti successivi confermarono il giudizio di allora: cerca e ricerca, il "nucleo" passato tre anni dopo al PCd'I, i cosiddetti "terzinternazionalisti" o "terzini", non recò al partito di Livorno nulla più che una copia sbiadita del massimalismo pre-Livorno, per giunta senza seguito proletario.
(59) Vedi l'articolo riprodotto in appendice e apparso il 2/VI col titolo La questione italiana al III Congresso mondiale, il primo di una folta serie.
FINE