Mai la merce sfamerà l'uomo (11) (CXXX)
XI. Mai la merce sfamerà l'uomo
Tendenti al mercantilismo
Tutto il nostro sforzo, per quello che vale, è volto a far risaltare che la presente "serie" sulla questione agraria mira a dar luce alle questioni basali, centrali, essenziali della teoria comunista, identica col programma sociale comunista. Che non si tratta di un'esposizione diffusa, di una descrizione in dettaglio, di una analisi approfondita delle minuzie per un settore preso come isolato dagli altri, in cui si voglia particolarmente erudirsi. Non abbiamo prescelta una disciplina, una materia come dicono a scuola, su cui dopo digerito tutto lo zibaldone siate chiamati a dare l'esame; il che significa acquisto del legale diritto di non tirarne più, vita natural durante, il succo vitale.
Tale diritto vi contestiamo, dichiarandovi con rammarico che la conquista del risultato completamente vivo e, nel senso non da buffoni, politico ed attuale (attuale per noi è il risultato in quanto, fondato poderosamente sui passati fatti, pretende di contenere audacemente i fatti futuri) non è possibile senza aver digeste le masse di dati, numeri, relazioni, formule e considerazioni che vi si arrecano.
Senza la teoria della questione agraria e della rendita fondiaria non è dato afferrare quel punto, a cui si riduce tutta la resistenza contro le degenerazioni dal marxismo, che premono in soffocanti volumi da tutti i lati.
La dottrina della rendita conduce direttamente alla condanna del mercantilismo, della distribuzione secondo scambi di equivalenti, che sola lascia afferrare quale è la vera e sola istanza, la rivendicazione una ed unitaria della rivoluzione comunista e del suo partito di classe.
La dottrina della rendita è indispensabile per giungere alla condanna senza attenuanti dei postulati, di falso socialismo, consistenti nell'utopia che la miseria sociale vada eliminata attraverso una purificazione della equazione di scambio, dalla quale debba espellersi lo "sfruttamento", la famigerata "exploitation", riducendo a zero il termine del plusvalore; togliendo la frode dal rapporto lavoro-merce-lavoro-moneta; lasciando vivere le forme, su cui gravita la condanna del lavoro; ossia la forma-merce e la forma-moneta, dunque la forma-salario.
Non vi è altra via e soprattutto non vi è più rapida via, per sciogliere il problema storico della nostra epoca: la Russia è capitalismo non socialismo.
Non solo l'assimilazione della geniale ricerca marxista sulla rendita agraria rende chiari i continui fendenti che nelle opere di Marx colpiscono il fantasma dell'equilibrio, della proporzionalità mercantile, ma rende incontrovertibile l'altro caposaldo per cui da sempre lottiamo: la struttura essenziale e irrevisionabile del marxismo esiste integra e conforme dai primi testi come la Miseria della Filosofia del 1847, agli ultimi e postumi a Marx.
Alle citazioni che con varia ma sempre rigorosa e impeccabile forma esprimono la verità: abbattere capitalismo significa abbattere mercantilismo, siamo di continuo ritornati: è a bella posta che ogni tanto le ripetiamo, nostra sola funzione essendo di ripetitori; chi vuol più brillìo di esercizi vada altrove con dio.
Ossature maestre
Nella classica Settima Sezione del Libro Primo del Capitale è affrontato il tema dell'accumulazione del capitale con un paragrafo dal titolo lapidario: Conversione delle leggi di proprietà della produzione delle merci in leggi dell'appropriazione capitalistica.
In tale sviluppo è messo in primo piano come non si colpisca affatto il sistema della proprietà sul capitale (e della proprietà sulla terra) se non si colpisce il principio della proprietà sul prodotto e ciò (intendasi bene) anche quando vantato da chi ha dato contro di esso altro prodotto "equivalente".
Proprio l'equivalenza, principio e norma borghese in essenza, è quella che frega la classe che lavora.
Quando mi abbiate provato che in una società la terra sia "res nullius" (cosa di nessuno) e il capitale industriale "res nullius", non mi avete ancora affatto provato che è società socialista. Dovete prima rispondere come si attribuisce, si appropria, si distribuisce, si fa circolare, il "prodotto del lavoro" e soprattutto contro che si scambia "la forza di lavoro".
Chi, come inavvedutamente Stalin prossimo a fine, dice: con la legge dei valori equivalenti; ha detto che la forma economica è capitalismo. Autenticità di una confessione in punto di morte.
Ripetiamo ancora che tutto questo "sta scritto" e licenziamo la banderelle di fessi che, magari anche in odio a Stalin e a stalìnidi, vorrebbero provarlo con apporti inediti, intrugliandoci le cristalline formule con ingredienti fasulli, contributi originali.
Nel ricordato paragrafo è detto:
"Ma è anche a partire da quel momento soltanto che la produzione delle merci [storicamente ben precedente al capitalismo] si generalizza, diventando forma tipica della produzione; e solo a partire da quel momento ogni prodotto viene prodotto fin da principio per la vendita, e tutta la ricchezza prodotta passa per la circolazione. Solo dove il lavoro salariato costituisce il suo fondamento, la produzione delle merci s'impone di forza alla società nel suo insieme; ed è anche solo a questo punto che essa dispiega tutte le sue potenze arcane. (...) Nella stessa misura in cui la produzione delle merci si sviluppa secondo le proprie leggi immanenti in produzione capitalistica, le sue leggi della proprietà si capovolgono in leggi dell'appropriazione capitalistica. Si ammiri la furberia [ecco il passo famoso che a Stalin contestammo] di Proudhon che vuole abolire la proprietà capitalistica facendo valere di contro ad essa... le eterne [secondo lui Proudhon!] leggi di proprietà della produzione di merci!"
Abbiamo indicato con puntini in parentesi un periodo che ora spieghiamo. Vogliamo facilitare la pigrizia di certi lettori, non truccare le citazioni.
L'economia classica borghese era da tempo arrivata al punto in cui tuttora si invischiano gli "aggiornatori" e maniaci dell'ultimo portato. (Leggi se vuoi ordinovisti, leggi se vuoi socialbarbaristi e loro flirts). Il valore di scambio di una merce non viene da sismi (terremoti o brividi) del mercato, ma dalla quantità di tempo medio di lavoro che la realizza. E va bene. Lo scambio sul mercato avviene tra merci comprate e vendute secondo la legge celeberrima: esse contengono pari tempo-lavoro. Sta bene. Ma la merce forza lavoro fa eccezione: la si paga con un valore-tempo (salario) minore di quello che fornisce al compratore.
Dunque nel pagare l'operaio si "viola" la legge dello scambio equivalente.
Di qui il solito sgarro, anche di molti socialistoidi anteriori a Proudhon: La legge degli equivalenti è naturale, eterna, giusta, bisogna solo far sì che la si estenda anche alla remunerazione in moneta del lavoro.
E Marx a dare sul duro chiodo martellate tremende (poche a tuttoggi!): proprio finché vige la legge del valore, vige l'oppressione di classe, lo sfruttamento del proletariato. E' proprio la legge dell'equivalenza negli scambi che dobbiamo buttare giù. Socialismo non è l'equità nello scambio, ma è la distribuzione senza scambio. Chiariamo un'altra cosa: quando leggete scambio individuale non pensate subito e solo al pettegolo individuo umano al mercato, ma meglio al blocco di merce in corso di singolo scambio: ci arriverete meglio.
Ed ecco il passo sospeso: ora calza come un guanto.
"Dire che l'intervento del lavoro salariato falsifica la produzione delle merci è come dire che la produzione delle merci non si deve sviluppare se vuole rimanere genuina".
Sono dunque connotati infallibili del capitalismo, più che l'abusata privata proprietà dei mezzi di produzione e di scambio, lo scambio tra equivalenti, la produzione di merci e il conseguente sistema del salario.
Giovanili certezze
Questa critica sta tutta e con le stesse formule nell'opera del 1847 contro Proudhon. Nel 1865 Marx, richiesto di un giudizio su quell'autore in un breve testo eccezionalmente importante, condensa i termini della sua critica sul terreno filosofico, economico storico; cita brani decisivi di 18 anni prima e aggiunge: per duro che sembri questo giudizio, io mi sento obbligato di mantenerlo ancora oggi, parola per parola. E si chiamano discepoli di Marx quelli che ad ogni passo rigurgitano: non vogliamo mica ripetere le frasi di trent'anni fa...!
E' notevole che Marx, nel fare di ulteriori scritti del Proudhon non meno recisa condanna, dà atto a costui di un coraggioso atteggiamento di fronte a Thiers dopo la controrivoluzione del giugno 1848. Ma straordinario è lo schizzo della natura del piccolo borghese, anche quando ha coraggio ed ingegno:
"Due correnti opposte, contraddittorie, dominano i suoi interessi materiali, e di conseguenza le sue opinioni religiose, scientifiche e artistiche, la sua morale, insomma tutto il suo essere. E' la contraddizione personificata. Se oltre a questo è, come Proudhon, un uomo di spirito, saprà subito giocar di prestigio con le sue proprie contraddizione ed elaborarle, secondo le circostanze, in paradossi sorprendenti, chiassosi, talvolta brillanti. Ciarlatanismo scientifico e accomodamenti politici. Sono inseparabili da un tal punto di vista. Non resta più che un solo movente, la vanità dell'individuo, e allora, come per tutti i vanitosi, non si tratta più che dell'effetto del momento, del successo del giorno. Così si perde necessariamente anche quella semplice finezza morale che, ad esempio, preservò Rousseau da qualsiasi compromesso, anche apparente, con i poteri costituiti".
Avanti, cacherelli soliti, potete meglio descrivere quanto avviene in questo 1954? Ammutolite dunque?
"Forse i posteri diranno, per caratterizzare questa più recente fase della storia francese, che Luigi Bonaparte è stato il suo Napoleone e Proudhon il suo Rousseau-Voltaire".
Forse diremo, per caratterizzare questa presente fase della storia italiana, che siamo ulteriormente discesi da "Boustrapa" Ugo Montagna, da Proudhon a Gianchetti Paiarli.
Chiudiamo il nostro excursus sulla scomunica del mercantilismo con pochi brani dell'opera su Proudhon, anteriore al Manifesto.
Dicemmo altra volta che Marx cita autori precedenti al Proudhon circa l'egualitarismo sempliciotto. Già il Bray, scrivendo nel 1839, concludeva per quel contrasto tra le corrette transazioni sul mercato e quella che si fa col pagare salario all'operaio; questa era definita non solo mere farce, una pura farsa, ma legal robbery: un furto legale: prima dunque che Proudhon avesse definita un furto la proprietà.
Non dobbiamo ripetere che la critica alla proudhoniana teoria della rendita fondiaria anticipa identicamente le costruzioni posteriori da noi ampiamente sviluppate: lo abbiamo fatto nella puntata "Metafisica della terra capitale" nel n. 3 del 1954.
Dopo aver largamente citato il Bray, Marx così confuta la sua illusione che il principio dell'uguaglianza negli scambi deve condurre al lavoro universale.
"Dunque, se si suppone che tutti i membri della società siano lavoratori immediati, lo scambio di quantità eguali di ore di lavoro non è possibile se non alla condizione che sia stato convenuto in anticipo il numero delle ore che sarà necessario impiegare nella produzione materiale. Ma una simile convenzione nega lo scambio individuale".
...Ma oggi, dice Marx, il dato storico non è il produttore immediato, bensì l'azienda capitalista.
"Quello che è oggi il risultato del capitale e della concorrenza degli operai fra loro, domani, eliminato il rapporto del lavoro col capitale, sarà il risultato di una convenzione, basata sul rapporto fra la somma delle forze produttive e la somma dei bisogni esistenti".
Ed avete qui, al solito senza preavviso, altra definizione della società socialista.
Ancora: tale convenzione è la condanna dello scambio individuale. Leggi (ombra di Stalin): il socialismo è la condanna della legge del valore.
E questo taglierà la testa al toro:
"Alla radice, non si ha scambio dei prodotti, ma scambio dei lavori che concorrono alla produzione". (Quel tale comunismo primitivo che con la negazione della negazione attendiamo di ritorno). Nel seguito: "E' dal modo di scambio delle forze produttrici che dipende il modo di scambio dei prodotti. In generale, la forma dello scambio dei prodotti corrisponde alla forma della produzione. Mutate quest'ultima, e di conseguenza muterà la prima. Così, possiamo riscontrare che, nella storia della società, il modo di scambiare i prodotti viene regolato dal modo di produrli. Lo scambio individuale corrisponde pertanto a un determinato sistema di produzione, il quale a sua volta riflette l'antagonismo delle classi. Non può esistere perciò scambio individuale senza l'antagonismo delle classi".
Parafrasi: dove troverai scambio individuale ossia legge del valore, ivi dirai: ecco il modo capitalista di produzione. Hoc feci. Questo abbiam fatto.
La teoria della rendita che consente di stabilire la formazione del prezzo di mercato del grano (delle sussistenze alimentari) permette la dimostrazione che col grandeggiare della produzione capitalista non si arriva ad alimentare la specie umana, per alto che divenga il livello delle forze produttive. Ne deriva la previsione del crollo del capitalismo. Ma la cosa importante è la dimostrazione che per aversi tale crollo, è lo scambio di mercato, colla sua legge di equivalenti, che deve crollare.
La migliore fabbrica e il peggiore terreno
Esiste una netta antitesi tra la meccanica della formazione del prezzo delle merci per i manufatti industriali e per le derrate agrarie: questo il punto. Il marxismo sa che il modo capitalistico di ottenere i manufatti ne ha ridotto e seguita a ridurne il costo, il prezzo, il valore, il tempo di produzione, utilizzando le nuove caratteristiche: la cooperazione di grandi complessi di lavoratori nella manifattura; la divisione tecnica del lavoro entro l'azienda; la divisione professionale del lavoro entro la società. A tale grandioso passo in avanti della produttività del lavoro ha corrisposto la separazione del lavoratore libero (artigiano) dalle sue condizioni di lavoro (luogo proprio, propri strumenti e materie) e la sua trasformazione in proletario. Ma è indubitato che la conseguenza sociale generale è positiva: i manufatti rappresentano oggi un tempo di lavoro molto inferiore a quello che esigevano col lavoro parcellare: per esempio il falegname doveva forse sacrificare alcune giornate della sua opera per dotare la sua bottega di una nuova sedia, ma lavorando in una manifattura di sedie con poche ore di salario riesce a comprare una sedia dal capitalista.
Di qui la innegabile legge, non capita dall'altra nostra testa di turco Lassalle, che il tenore di vita dell'operaio storicamente migliora, quanto a soddisfazione di bisogni soddisfacibili con merci manifatturate; compatibilmente anche, dopo un duro periodo iniziale, con una certa riduzione delle medie ore di lavoro.
Infatti dal momento che siano sul mercato sedie fatte dall'artigiano, a tremila lire, e sedie della fabbrica a cinquecento lire, tutte le sedie hanno il prezzo di mercato di cinquecento: anche quella dell'artigiano. Conseguenza pratica: questo serra la sua autonoma bottega e si va a vendere al cancello dell'opificio.
Così ha trionfato la legge degli equivalenti, perché due sedie della stessa forma e grandezza e materia si pagano lo stesso e dieci sedie si pagherebbero il decuplo (qui la famosa proporzionalità di Proudhon), ma proprio in virtù di essa un altro produttore libero ha dovuto cadere nella schiavitù del salario. Gli ingenui ugualitari non hanno pensato che sul terreno dell'eterna giustizia cui sono così deboli da credere, se vanno date cinquecento lire al capitalista (che non ha fatto nessuna sedia) ne andrebbero date tremila all'artigiano che vi ha sgobbato sopra più giorni.
Comunque pare assicurato il progresso civile del nostro organo sedentario, dalle nuove risorse tecniche nella fabbricazione delle sedie, che ovunque abbondano: una volta nelle campagne erano un lusso e forse ricorderete uno sketch radiofonico in cui una vecchietta ricupera penosamente quella presa dai militari di occupazione per legarvi un ribelle da fucilare
Dunque il prezzo di una sedia è quello della sedia della fabbrica migliore, in cui a pari lavoro e capitale si ottengono più sedie; e soprattutto a pari capitale variabile, investito in salari operai (alta produttività, alta composizione organica del capitale).
Il capitalismo guadagnerebbe la sua partita di presentarsi come alfiere del maggiorato benessere se provasse che questo avviene, e con ritmo di sviluppo teoricamente illimitato (crisi, guerre e altre storie a parte), anche nella produzione dell'alimento base.
Qui cascò l'asino: e Ricardo stesso, che asino non era, dovette riconoscere che nell'agricoltura il prezzo di mercato non si regola su quello della più utile azienda produttiva, bensì su quello della peggiore. La dottrina della rendita differenziale, che egli fondò, si regge sul pilastro del prezzo di vendita del grano che, anche se raccolto sui terreni migliori, si adagia su quello che si determina nel caso della meno fertile tra le terre poste a coltura.
Ciò dà al capitalista Ricardo molto fastidio. Egli ha bisogno di un basso prezzo delle derrate perché questo significa basso salario, in quanto scema per l'industriale il livello del costo di sussistenza bastevole a riprodurre la forza umana di lavoro consumata nella sua officina. Tuttavia Ricardo non trova la scappatoia di negare che il prezzo del grano non sia quello, altissimo, che corrisponde alla produzione nel caso più sfavorevole e ciò sia quando è possibile estendere su altre terre la coltura, sia quando sulle stesse si porti capitale.
C'est la faute au foncier
La via di uscita di Ricardo e dei suoi è altra. Egli attribuisce la legge del peggiore terreno all'esistenza della rendita fondiaria, del monopolio della terra da parte del giuridico proprietario e constatando che già dal suo tempo è visibile l'esaurimento delle terre libere anche oltremare, sostiene che sarà possibile, salvi al capitalista agricolo i suoi redditi normali, ridurre i prezzi del grano e di ogni derrata se si sopprime il diritto del proprietario fondiario. Egli è per la nazionalizzazione della terra: lo Stato si sostituirà ai proprietari incassando la rendita sotto forma di imposta. Ricardo che non può dire: c'est la faute à Voltaire, o è colpa del capitalismo, dice che la colpa è del proprietario fondiario.
L'analisi di Marx che abbiamo seguito mostra che non è affatto così. O lo Stato applica un'imposta proporzionale alla produttività del terreno, ossia non fa che incamerare il canone che prima ritirava il proprietario, ed allora tutti gli specchi di computo stabiliti restano identici e il prezzo del grano seguita ad essere regolato come prima.
Ma di certo Ricardo proponeva che lo Stato stabilisse una quota fissa per unità di superficie. Allora sarebbe rimasto lo stesso, per i terreni migliori rispetto al peggiore che convenga coltivare (quello che dà il solo profitto medio dopo pagata ogni spesa di coltura), quel sopraprofitto che si convertiva nella rendita padronale: lo stesso andrebbe a vantaggio dei capitalisti fittavoli e non scemerebbe il prezzo del grano.
La dimostrazione di Marx stabilisce che la rendita padronale è la manifestazione di classe del fenomeno, ma non ne è la causa. La causa sta altrove, se tra il definirsi sul mercato, dopo le solite magiche oscillazioni di offerte e domande, del prezzo delle sedie e di quello del grano, vi è una così radicale differenza. Quando nella capanna della vecchietta nascono altri nipotini mentre la sedia è quella sola, ebbene, si siederanno col culetto sul pavimento. Ma nella madia le cose andranno in modo diverso: bisognerà pure che essa contenga ogni giorno una maggiore quantità di farina.
Quando tutta la terra coltivabile è occupata e quella da tempo utilizzata è stata migliorata con apporti di capitale, non si ha dove prendere altra farina per la popolazione. Mentre per le sedie la richiesta dipende dal prezzo, cosa su cui tanto vuotamente schiamazza l'economia borghese (lo stesso mercato che assorbe mille sedie a tremila, ne assorbirà diecimila a cinquecento) per la farina la richiesta non dipende dal prezzo, ma dal numero delle bocche.
Ecco perché, come Marx dice in quelle pagine ad ogni passo: tutta la farina si paga al prezzo dell'ultimo indispensabile quintale, prodotto sul peggiore terreno.
Supponiamo che la sedia fosse indispensabile ad ogni umano, in modo che la si debba acquistare senza discutere: credete voi che l'industriale seggiolaro avrebbe scrupolo a venderla a tremila, sebbene il prezzo di produzione sia cinquecento? Giusta la santa legge dell'equivalenza potrebbe farlo: fino a che trovo chi paga tremila l'ultima sedia, non ne venderò nessuna per 2.999 e incasserò su ogni sedia 2.500 di sopraprofitto.
Basterebbe per questo che la stessa importanza del numero delle bocche fosse assunta dal numero dei...!
Ed allora la chiave del problema non è nella presenza del fondiario, bensì nella natura del bisogno umano, nel carattere dei "valori di uso" che sono di due tipi: naturali e artificiali. Il capitalismo è l'epoca della soddisfazione dei bisogni artificiali e della insoddisfazione dei naturali. Per i primi non vi sono limiti alle quantità offerte: basta aprire nuove fabbriche (in generale) e adesso per "forzare la domanda", come trovammo detto in Marx, vi è tutta una scienza, coi suoi professori, i suoi corsi, i suoi congressi. Si tratta del marketing, dell'arte di lanciare sul mercato nuovi prodotti e trovare sempre maggior numero di consumatori e volume di piazzamento. Pubblicità e artifizi di ogni genere concorrono a far sorgere dal nulla la nuova "domanda". Ormai nel gergo capitalista non è produttore chi si rompe le mani e il resto a mettere insieme oggetti manufatti indispensabili, ma chi suscita nuove richieste di acquisto; quella specie di ruffiano ambulante che convince a comprare colui che non ne aveva il minimo prurito, prima che gli applicassero le magiche risorse del marketing.
Per i generi alimentari di prima necessità non occorre fare opera alcuna per persuadere a desiderarli: la natura ha provveduto. La legge del valore farebbe considerare insensata l'idea: facciamo mangiare a metà e un quarto di prezzo i consumatori cui possono provvedere i terreni buoni B, C, D e a caro prezzo, pazienza, quei soli pochi che assorbono lo scarso grano del terreno A. E' troppo ovvio e facile prenderli tutti per la gola: data la limitatezza della terra, saranno ridotti a pagare tutti lo stesso: tutti la massima quota.
Sarà compito ulteriore vedere come il mondo capitalista, avallato da non pochi stenterelli nella sua sgonfiata di produrre sempre più ed oltre ogni misura, corre in vari altri settori verso la saturazione dei campi di produzione cui attingere e verso le rendite di monopolio e la "fame di tutto".
La produzione borghese, avviata verso la possibilità di prendere il consumatore "non de solo pane" ugualmente per la strozza, si allena in tutti i campi colla sfacciata pubblicità ed il marketing all'arte di prenderlo per il sottosedia.
La legge differenziale vige
Ma, si potrebbe dire, vige proprio questa legge così strana, su cui convennero economisti borghesi e comunisti, che il prezzo del grano è dettato dal terreno peggiore? E se Ricardo fosse stato troppo pessimista nelle sue previsioni, se non avesse fatto i conti colle moderne risorse tecniche? Le statistiche non starebbero a mostrare che ormai abbiamo anche il pane a buon mercato, non solo le pennine di acciaio e gli aghi da rammendo?
Marx e Ricardo studiavano la questione a poca distanza dall'uscita della moderna economia dal mondo feudale, nel quale si attuava un certo compenso tra la produzione rurale di alimenti e quella urbana di merci varie. La popolazione urbana ridotta costituiva una domanda quantitativamente limitata di derrate, per quanto entro i dati limiti inderogabile (al che molto provvedevano gli Stati del tempo in vista di periodi di emergenza). La popolazione rurale di norma si nutriva dei suoi stessi prodotti in giri locali, e malgrado il maggior numero, qualitativamente faceva uso ridotto di merci manufatte, le più essenziali producendole con la diffusa industria domestica.
L'avvento delle nuove forme produttive, che nell'Europa continentale coincideva circa con l'avvento delle unità nazionali e delle forme costituzionali, allargò i bisogni e il ritmo della vita, ma si rese sensibilissima l'esperienza del relativo rincaro dei generi di consumo popolare: relativo sì ma reale, ossia riferito non solo all'inflazione quasi generale delle monete, ma anche alla reale disposizione dei mezzi di acquisto, specie delle masse urbane.
Gli stessi appartenenti alla generazione degli ultimi anni del secolo scorso ricordano che i vecchi della loro infanzia, soprattutto tra la povera gente, rimpiangevano ancora come una specie di età dell'oro perduta l'epoca che aveva preceduta l'unità nazionale, soprattutto per il buon mercato delle derrate sotto il Borbone o l'austriaco. Tutta la storia economica dei primi decenni dell'Italia unita è una storia di lotte delle classi misere contro il crescere del costo della vita, i dazi sul grano, le imposte sul macinato e il farinato e altri moderni oneri che avevano sostituita la fame generale ad una perduta e sia pure esagerata nel ricordo abbondanza di alimento.
Ora la corrente opinione considera che dopo di allora tutti gli indici dei consumi anche nelle regioni arretrate siano saliti generalmente, malgrado i periodi di gravi crisi che accompagnarono le prime campagne africane e le due guerre mondiali.
Non è dunque male avere l'aria di prendere sul serio il dubbio sulla verifica contemporanea della legge del "terreno peggiore" che determina il prezzo regolatore delle derrate agricole.
Ricordiamo il procedimento seguito fin qui. Abbiamo accettato la spiegazione ricardiana che la rendita sorge da un sopraprofitto, nei terreni condotti da un'impresa a tipo capitalistico con lavoratori salariati. Tra due terreni in cui lo stesso capitale e la stessa massa di giornate-lavoro danno diverse quantità di prodotto, si hanno diversi guadagni: se in entrambi i casi il fittavolo ha lo stesso profitto (dello stesso capitale) il premio che sorge nel caso del terreno più fertile è una differenza, un sopraprofitto, che si converte in maggiore canone di affitto, in rendita versata al proprietario fondiario.
Marx chiarisce che ciò dipende dal fatto che in ambo i casi il grano è assorbito dal mercato allo stesso prezzo, ossia al prezzo di produzione che compete al minimo prodotto, per compensare: salari, capitale costante, profitto normale. Ora appena si va in un terreno migliore questo stesso prezzo di produzione, che già ha remunerato lavoratore e capitalista, si può applicare ad un prodotto in quantità cresciuta, a più misure di grano: questa la rendita differenziale.
Passando ai numeri, ogni volta che il grano aumenta di una misura sale la rendita di 60 scellini; ovvero ad ogni quintale di 8.000 lire; ovvero ad ogni due staia 12 scellini.
Ora in tutti i quadri si sono applicati prezzi di vendita calcolati sul prezzo di produzione del caso peggiore, del primo terreno, nel quale si ha il profitto giusto giusto di capitale; ma rendita, come sappiamo, zero.
Un poco di scalette
Dunque abbiamo menata per buona la "ipotesi" che viga in tutti i terreni il prezzo dato dal terreno peggiore, a gran gioia del fondiario, a gran fregatura del consumatore. Ne è seguito che la rendita segue la legge differenziale nello scatto da un terreno all'altro: ossia, dicemmo, la rendita non è in proporzione del prodotto ottenuto, bensì gli "scatti" di rendita sono in proporzione degli "scatti" ottenuti nel prodotto.
Colla forma prima, mostrammo avverarsi tale legge quando si passa da un tipo all'altro di terreno. Colla forma seconda vedemmo che lo stesso avviene se sullo stesso terreno, per potenziarlo, si investe più lavoro e più capitale. Anche in questo caso abbiamo applicato sempre il prezzo di vendita del terreno peggiore ed abbiamo visto che, qualunque effetto abbia l'apporto di capitali sulla produttività e sullo stesso prezzo generale e sociale della derrata, non solo la rendita sopravvive, ma resta valida la legge del suo "scattare" per differenze proporzionali agli "scatti" del quintalaggio ottenuto.
Ed allora, come in ogni questione scientifica, se vediamo che nell'economia agraria effettiva questo avviene, ossia si va per scatti di rendita secondo gli scatti di fertilità, avremo dimostrato che la nostra ipotesi (prezzo stabilito dal terreno peggiore) era la giusta. Così l'ipotesi di Newton sulla attrazione dei corpi celesti resta dimostrata vera dalle leggi di Keplero tratte dalla osservazione, perché da quella "supposizione" si deducono proprio quelle leggi, che di fatto seguono i pianeti muovendosi nel cielo.
Per una tale verifica e fatte le debite riserve sulla validità dei dati, vogliamo ancora una volta ricorrere alle tariffe del catasto agrario italiano, formate coi valori monetari del 1939, in quanto queste tariffe per tutta una serie di colture e di tipi di terreno ci forniscono due dati: la rendita padronale ed il profitto di impresa agraria, chiamate imponibile dominicale e imponibile agrario. Abbiamo detto che dobbiamo fare riserve trattandosi di accertamenti burocratici legati a tutta una serie di formalismi, per quanto la burocrazia tecnica 1939 non fosse tanto rilasciata e debosciata quanto la odierna. Non pretenderemo quindi conferme nette, come quelle dei quadri fatti con formule teoriche, ci contenteremo di una certa collimazione fra il dato teorico ed il pratico.
Abbiamo dunque a disposizione alcune serie di terreni, per cui ci sono date cifre all'ingrosso attendibili, della rendita da una parte e del profitto dall'altra. Ma a noi occorre la cifra di valore del prodotto (la quantità non ci occorre poiché, derrata per derrata, tanto scatta la quantità tanto scatta il valore ricavato al mercato: da 1 quintale a 10 di grano, poniamo, da 8.000 ad 80.000 lire). Come sapere il valore del prodotto? E' semplice.
Tutto il prezzo trovato al mercato si divide in questo modo. Il fittavolo lo incassa e paga la rendita al padrone. Poi verifica se si è rifatto di tutte le sue spese dell'anno: operai, sementi, concimi, interessi, ecc. Il di più che gli resta è il suo profitto di impresa: lo conosciamo perché il fisco ce lo presume nel suo reddito agrario. Ma sappiamo anche che nella media questo profitto è una certa parte della spesa, o capitale investito. Assumiamo in tutti i casi il 20 per cento, per tener conto che i redditi delle tabelle sono un poco più compressi delle rendite padronali, data la generale tenerezza per coloni, mezzadri e simili. Se quindi la tabella mi dice che il reddito è stato 1.000, io so che il capitale anticipato è stato 5.000, per rendere quei 1.000 al 20 per cento e che quindi il ricavo del fittavolo (a rendita pagata) è 6.000: sei volte il reddito. La vendita al mercato ha dovuto coprire quelle 6.000 lire più la detta rendita: se questa è stata 4.000, ho assodato che il prodotto totale è stato venduto per 10.000. Ripeto per chiarezza: ricavo al mercato 10.000. Rendita al proprietario 4.000. Spese del fittavolo capitalista 5.000. Profitto dello stesso 1.000.
Allora rizzando una scaletta di rendite e a fianco una scaletta di prodotti potremo vedere che salendo o scendendo scalini della prima si fa lo stesso per la seconda, che ad uno scalino forte della prima corrisponde uno forte della seconda, e via.
I numeri, questi furbacchioni
Italo comune di Vattelapesca. Cinque classi di agrumeto. Rendite dominicali progressive lire 1950, 2400, 3300, 4600, 5800. Redditi progressivi: 240, 250, 300, 330, 350.
Abbiamo detto che il valore ricavato dal prodotto, per il primo caso (V classe), risulta da sei volte il reddito di 240 e quindi 1.440, aggiunta la rendita di 1.950: il che fa 3.390. Se facciamo lo stesso conticino negli altri quattro casi avremo la serie dei prodotti lordi: 3.390, 3.900, 5.100, 6.580, 7.900.
Ora si tratta di fare le "differenze" che abbiamo chiamato scatti per la serie di rendite e poi per la serie di prodotti e comparare gli andamenti. Scriveremo il risultato dei quattro scatti in due righe sovrapposte:
Scatti del prodotto 510 1.200 1.480 1.320
Scatti della rendita 450 900 1.300 1.200
Riesce evidente la concordanza di andamento tra gli scatti considerati. Quindi si verifica che vige la legge della rendita differenziale. Se vogliamo renderci conto di quanto detto nella precedente puntata, ossia che la rendita non è proporzionale alla fertilità (prodotto totale sull'ettaro in questione), la cosa è immediata. Il peggiore terreno col prodotto 3.390 dà una rendita 1.950. Nel migliore il prodotto sale a 7.900. Se la rendita salisse nello stesso rapporto sarebbe (la regoletta del tre) di 1.950 moltiplicato 7.900 diviso 3.390 e quindi 4.500. Invece la rendita effettiva è molto maggiore: 5.800. Poiché la cosa andrebbe in lungo sceglieremo un solo altro esempio.
Seminativo irriguo del comune di Scaricalasino. Rendite 240, 400, 675, 925. Redditi agrari 160, 180, 220, 240. Prodotti calcolati come sopra caso per caso 1.200, 1.480, 1.995, 2.365. Avendo la scala solo quattro pioli, sono tre gli scatti:
Scatti del prodotto 280 515 370
Scatti della rendita 160 275 250
Anche qui si vede come la relazione tra gli scatti armonizzi bene.
Abbiamo svolto questi esempi su dati economici dell'attualità per dimostrare come la persistenza del gettito delle rendite agrarie in condizioni tra loro molto diverse e l'esaltarsi di un tale gettito quando anche l'impresa dell'affitto è più produttiva, confermando la legge differenziale dell'ascesa dei due gettiti, del proprietario da un lato, dell'industriale agricolo dell'altro, conferma la causa che mancando la renderebbe impossibile: il prezzo alto delle derrate agricole, che il pubblico dei consumatori paga secondo lo sforzo che la loro produzione costa nelle più sfavorevoli condizioni.
Non occorre insistere sul rilievo che tale onere del consumo alimentare rispetto al consumo di beni manufatti grava soprattutto sui bilanci più poveri, in quanto sono quelli in cui l'alimentazione forma una aliquota più alta che nei bilanci di maggior volume, comprendenti consumo ed utenza di svariate merci e prodotti non derivati dalla terra.
Riprendendo l'agenda
Dopo avere in quanto precede messa avanti la portata delle conclusioni cui arriva la marxista teoria della rendita e dopo avere mostrata la sua applicabilità piena alla moderna produzione agraria come corollario sia della prima che della seconda forma della rendita differenziale, siccome restano ancora molte cose notevoli da rilevare nello sviluppo di Marx per questa parte decisiva della sua opera, sarà il caso di riprendere l'agendina dall'autore stesso tracciata e da noi fin qui seguita.
Svolte le due forme della rendita differenziale, si passa al comma: Trasformazione del sopraprofitto in rendita.
Il testo originale come è noto è stato ricomposto in un dato ordine, che potrebbe non essere quello che l'autore aveva in mente nel predisporre i materiali delle varie stesure, diversamente condotte a compimento. Difatti la sintesi cui ci riportiamo viene data non all'inizio, ma proprio al punto cui nel nostro studio siamo giunti: dopo i capitoli sui vari casi e sottocasi della II forma della rendita differenziale, da noi seguita rimettendo a posto le tabelle di Engels.
Qui Marx svolge altri confronti sull'effetto delle successive collocazioni di capitale in uno stesso terreno B; fermo restando che vi è almeno altro terreno A il quale produce di meno e determina il prezzo di regolazione del mercato. Quando in B vi è un primo capitale uguale a quello speso in A, il maggiore prodotto di B rispetto ad A è come sappiamo tutta rendita.
Non è male insistere sul concetto dei vari prezzi, ancora una volta. Quello di A sia di 3 sterline (60 scellini) per la sola misura prodotta. B produca 3 misure e mezzo; e le può vendere, data la ressa dei mangiatori, lo stesso a 3 sterline ricavando 10 sterline e mezza. Ma un tale aumento di fertilità in B si suppone ottenuto non solo per la migliore qualità (che avrebbe condotto solo a due misure nel primo quadro di Marx) bensì anche da un maggiore investimento di spese, portato al doppio, ossia a 6 sterline. Vi è un margine di quattro sterline e mezza, che è rendita. La rendita di B prima di questo raddoppio di capitale agricolo sarebbe stata solo di 3, dovute alla misura in più che vi si raccoglie.
Non occorre seguire tutto questo sviluppo perché abbiamo già date le conclusioni cui Marx perviene, domandandosi quanti nuovi apporti di capitale B potrà attirare, anche ammettendo che ad ogni nuovo apporto lo scatto di prodotto in più sia meno sensibile.
Importa la definizione dei prezzi.
Terreno A. Prezzo di costo: spesa di 2 sterline e mezza per ara. Prezzo di produzione (occorre aggiungere il 20 per cento di profitto di capitale): 3 sterline. Prezzo di vendita: lo stesso, dato che terreni peggiori di A non ve ne sono. Quindi il prezzo di produzione proprio di A, 3 sterline la misura, diviene anche il prezzo regolatore del mercato, il prezzo generale.
Terreno B. Fino a che collo stesso capitale di 3 (compreso profitto) dà 2 misure, le vende lo stesso al prezzo regolatore di 3. Ma possiamo anche dire che il suo prezzo individuale di produzione è la metà: ossia solo una sterlina e mezza per ciascuna misura.
Ora il capitale sale al doppio, 6 sterline, il prodotto non al doppio (che sarebbe 4) ma a 3 e mezzo. Si vende per 10 e mezzo come detto: quale il prezzo di produzione individuale? Si capisce anche qui che individuo è il campo, non una persona umana o un praticante il mercato! Tale prezzo, con 3 misure e mezzo e la spesa di 6 sterline, sarà circa una sterlina e 14 scellini. Ora il punto è questo: il prezzo di produzione individuale è sempre più basso di quello generale di mercato, di 3 sterline. Dunque vi è tuttora rendita.
Il proprietario dunque può consentire molte successive messe di capitale sul suo terreno, senza temere che la rendita sparisca, ed anche se fosse vera in ogni caso la regola della decrescente produttività degli investimenti successivi. I fittavoli disposti ad investire si troveranno sempre, fin che è salvo il medio saggio di profitto dei capitali.
La conclusione è quindi che fino a che l'origine del fenomeno è una origine mercantile e vige la norma ferrea di ugual prezzo a merce uguale, il prezzo degli alimenti, ad una loro maggiore richiesta, non solo non scende come per i manufatti prodotti in grandissimi volumi, ma tende anzi a salire se è indispensabile, per nutrire le popolazioni, forzare il prodotto sui terreni già disponibili per l'esercizio.
Non culpa l'istituto proprietà - culpa l'istituto mercato.