Proprietà e Capitale (3)
Capitoli già pubblicati:
"Prometeo" n. 10:
1 - Tecnica produttiva e forme giuridiche della produzione.
Al fine di vagliare esattamente la tradizionale formula che definisce il socialismo come abolizione della proprietà privata, si richiamano i concetti marxisti sul succedersi delle rivoluzioni di classe quale conseguenza del contrasto tra le nuove forze ed esigenze della produzione e i vecchi rapporti di proprietà. Dei vari regimi di classe, fondati su istituti di proprietà individuale esercitata su oggetti diversi a seconda delle diverse caratteristiche della organizzazione produttiva e della tecnica del lavoro, il più recente è il regime capitalistico.
"Prometeo" n. 11:
2. L'avvento del capitalismo e i rapporti di proprietà.
Il capitalismo trionfa in una rivoluzione che rompe una serie di rapporti. Tra questi, il diritto del feudatario sui contadini servi ed il diritto delle corporazioni sugli artigiani sono rapporti tra persone, non rapporti di proprietà su cose.
Il capitalismo sopprime inoltre la proprietà dei lavoratori artigiani sui loro prodotti e sui loro strumenti, e in larga misura quella dei piccoli contadini sulla terra, per trasformarli, come gli ex-servi della gleba, nelle masse di nullatenenti salariati.
3 - I termini della rivendicazione socialista
La lotta della classe dei salariati contro la borghesia capitalista ha per obiettivo, conservando la divisione tecnica del lavoro e la concentrazione di forze produttive arrecate dal capitalismo, di abolire insieme all'appropriazione padronale dei prodotti ed alla proprietà privata sui mezzi di produzione e di scambio, il sistema di produzione per intraprese e quello di distribuzione mercantile e monetaria, poiché solo sopprimendo tali forme può cessare il sistema di sfruttamento e di oppressione costituito dal salariato.
4. La rivoluzione borghese e la proprietà sui beni immobili.
Sono beni immobili, nella accezione corrente, la terra e le costruzioni ed impianti attuati dall'uomo su di essa e non trasportabili di luogo in luogo. All'epoca dell'avvento del regime capitalistico la proprietà immobiliare poteva avere per proprio oggetto principalmente i terreni agrari, i fabbricati di abitazione, i fabbricati per opifici; e solo successivamente col diffondersi di macchinismi fissi o trasportabili, e poi ancora di reti di comunicazione di trasporto e di trasmissione e distribuzione di energie diverse si ebbero casi sempre più complessi in cui la distinzione tecnica sociale e giuridica tra beni immobili e mobili dà luogo a maggiori sottigliezze.
Ci soffermeremo per chiarezza dapprima sulla proprietà del suolo. La distribuzione di questa negli ultimi tempi del regime feudale era piuttosto complessa, avendosi zone di demanio collettivo appartenenti ai comuni o allo stato, grandi feudi assegnati dai poteri politici centrali alle famiglie della nobiltà, ed anche piccoli possessi indipendenti di contadini agricoltori. La prima forma era una derivazione di antichissime gestioni comuniste della terra soggetta a continui attacchi e dei signori, e dei contadini, e della nascente borghesia; essa traeva le sue origini soprattutto dai popoli e dai sistemi di diritto germanico, presso i quali all'epoca delle migrazioni ed invasioni nel sud si svolse nel feudalesimo militare e dinastico.
La terza forma del piccolo possesso autonomo derivava dall'impero e dal diritto romano, in quanto l'ordinamento di Roma nella madre patria e nei paesi conquistati si fondava sulla spartizione del suolo agrario ai cittadini liberi, soldati in tempo di guerra, mentre sussistevano poi altri molto più grandi lotti di suolo in possesso del patriziato, che li sfruttava col lavoro delle masse di schiavi, privi questi del diritto politico ma anche esenti dall'obbligo del servizio militare. Nel sistema romano, mancando sia la gestione in comune della terra sia l'istituto di un diritto sovrano che potesse spostarla ad arbitrio da un signore all'altro, salvo il controllo dello stato nella suddivisione dei nuovi territori occupati, si era pervenuti ad una precisa delimitazione e parcellazione dei lotti fondiari, classicamente disciplinata dal diritto civile vigente in tutto l'impero e storicamente ordinata anche in quello d'Oriente. Accennato così alle due forme collaterali alla proprietà feudale, osserviamo ora quali siano le caratteristiche di questa. È il condottiero vincitore, l'eletto di un gruppo di capi e principi alleati, poi il monarca assoluto ed anche la gerarchia ecclesiastica, che compie assegnazioni e spartizioni di autorità tra i vari signori e vassalli distribuiti in successivi ordini di gerarchia, fissando o mutando anche frequentemente e ad arbitrio i limiti delle circoscrizioni. Entro queste forme più o meno intricate tutta l'impalcatura di signori di guerrieri e di sacerdoti vive del lavoro della massa contadina vincolata a non abbandonare il feudo cui appartiene.
Come più volte osserva Marx, prevale in questo sistema sociale più che il rapporto giuridico fra il proprietario e la terra, quello tra il titolare del feudo, e del titolo nobiliare che lo accompagna, e la massa delle famiglie dei suoi servi. Non interessa al signore avere molta terra quanto molti servi, essendo a sua disposizione una certa parte del prodotto del lavoro di tutti costoro. Un altro cardine dell'ordinamento feudale è quello che il signore, comunque vada la sua gestione economica, non può perdere il suo feudo; esso non è alienabile, non è espropriabile, ed il sistema del maggiorasco ne evita anche la suddivisione ereditaria, istituto così importante invece nel sistema romano. Per conseguenza, ed almeno quanto alle enormi estensioni di terra oggetto di investitura feudale, non vi è mercato dei suoli, la terra non può essere scambiata con la moneta.
Questa valutazione del regime preborghese da cui partiremo nel valutare la posizione del capitale trionfante rispetto alla proprietà fondiaria è fondamentale nell'analisi marxista. È detto nel capitolo 24° del Capitale con riferimento all'epoca della servitù della gleba: "In tutti i paesi d'Europa la produzione feudale è caratterizzata dalla ripartizione del suolo fra il più gran numero possibile di vassalli. La potenza del signore feudale, come quella di qualsiasi altro sovrano, non poggiava sull'ammontare dei livelli percepiti, bensì sul numero dei suoi sudditi, e quest'ultimo dipendeva dal numero dei contadini stabiliti sui suoi domini".
Poiché non vorremmo che sembrassero nuovi od originali gli svolgimenti che trarremo da queste premesse, richiamiamo anche, circa il rapporto tra il suolo e la moneta, un passo fondamentale del capitolo 2°: "Gli uomini hanno spesso fatto dell'uomo stesso, nella figura dello schiavo, il materiale primitivo della moneta; ciò non è mai avvenuto per il suolo. Una tale idea non poteva nascere che in una società borghese già sviluppata. Essa data dall'ultimo terzo del secolo decimo settimo, e la sua applicazione non venne tentata su grande scala, da tutta una nazione, se non un secolo più tardi, durante la rivoluzione del 1789, in Francia".
Il capitale moderno non è dunque la stessa cosa della proprietà in generale, e non basta abolire questa, in teoria e nel diritto, per averlo debellato. Il capitale è una forza sociale la cui dinamica ha aspetti ben più complessi di un platonico diritto di proprietà. Esso si presenta come contrapposto alla proprietà fondiaria tradizionale, ed uno dei principali elementi dell'antitesi è che la seconda è veramente personale, il primo esce dai limiti della facoltà del privato: "Quando si studia storicamente il capitale nelle sue origini, lo si vede ovunque star di fronte alla proprietà fondiaria nella sua forma di moneta come patrimonio monetario o come capitale usurario", dice Marx al capitolo IV, per stabilire che la circolazione mercantile ha per prodotto finale il denaro e che questo è la prima forma sotto cui appare il capitale (che incontreremo poi come opificio, come macchinario, come provvista di materie prime, come massa di salari). In una delle suggestive note al testo è poi detto: "La opposizione che esiste tra la potenza della proprietà fondiaria (feudale) basata sopra rapporti personali di dominio e la potenza impersonale del denaro, si trova chiaramente espressa nei due motti francesi: "non c'è terra senza padrone - il denaro non ha padrone".
Il senso poi della economia moderna che succede alla distruzione dei rapporti feudali è racchiuso in un'altra citazione che trarremo dal capitolo ventiduesimo: "Noi arriviamo perciò a questo risultato generale, che il capitale, incorporandosi la forza lavorativa e la terra, queste due fonti primigenie della ricchezza, acquista una potenza di espansione che gli permette di aumentare i suoi elementi di accumulazione oltre ai limiti apparentemente fissati dalla sua grandezza, vale a dire dal valore e dalla massa dei mezzi di produzione già prodotti nei quali esso consiste".
Quando poi Marx tratta diffusamente dell'interregno di benessere che si pone nella storia inglese tra la soppressione della medioevale servitù della gleba e l'avvio brutale della grande accumulazione capitalistica, che fonda la ricchezza borghese sul dilagare di una spietata miseria delle masse, un'altra nota ricorda che la società giapponese del tempo, con una organizzazione feudale della proprietà fondiaria fiancheggiata da una piccola proprietà rurale assai diffusa, offriva una immagine più fedele del medio evo europeo che i libri di storia imbevuti di pregiudizi borghesi.
Sul corneo volto dei contemporanei opportunisti che inorridiscono ogni qualvolta pretendono (nella loro incommensurabile asinità) che stiano per ritornare gli ordinamenti medioevali ponendo in pericolo le civili conquiste dell'era capitalistica, che non sanno più in quale altro modo impastare le bastarde combinazioni tra gli ideali della borghesia e le rivendicazioni socialiste, si applichi come un ceffone la battuta finale di questa nota di Marx: "È davvero troppa comodo essere liberali a spese del Medioevo" .
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Negli ultimi tempi dell'antico regime, quando la potenza della borghesia nel campo economico è già rilevante, il capitale liquido radunato nelle mani di mercanti e banchieri esercita una violenta pressione per sopprimere gli ostacoli che gli impediscono di impossessarsi delle proprietà immobiliari. Indubbiamente il fatto centrale dell'accumulazione capitalistica consiste nell'approvvigionare col danaro ammucchiato materie prima da sottoporre al lavoro degli operai salariati e sussistenze da corrispondere a questi. Ma occorre pure per la formazione dei primi opifici disporre di luoghi di lavoro ed acquistare fabbricati da ridurre a stabilimenti manifatturieri e suoli per poterveli costruire. Inoltre, la nuova classe padrona di ricchezze è spinta a gareggiare con gli antichi signori feudali che aspira a superare e spossessare anche nel disporre delle case dei palazzi e della terra agraria, mentre i fittavoli arricchiti tendono a togliersi da una posizione di dipendenza acquistando la proprietà del locatore ed esercitando da assoluti padroni l'impresa agricola, che, come Marx nota più volte, è una vera e propria industria.
Tutta la storia e la stessa letteratura degli ultimi periodi antecedenti alla rivoluzione borghese è piena delle manifestazioni di questa lotta che i borghesi, gli arricchiti, i parvenus conducono per gareggiare anche in prestigio con i nobili. Questi, anche quando sono a corto di danaro e devono ricorrere ad affaristi ed usurai per mantenere il proprio lustro di vita, non solo disprezzano ed umiliano colui che vive di mercatura e di traffici, ma lo stesso diritto vigente li aiuta nel difendersi da loro, nel negare la restituzione dei prestiti, ed è tradizionale la scena del creditore molesto cui i servi del signore spianano le spalle a legnate.
Da questo stato di soggezione e di inferiorità il terzo stato non potrà liberarsi completamente che con la conquista rivoluzionaria del potere politico, e fino ad allora invano gareggerà stupidamente, profondendo i frutti delle sue speculazioni, con la grandezza dei suoi rivali di classe.
Nella commedia di Molière Il borghese gentiluomo vediamo ferocemente satireggiato il mercante che vuole atteggiarsi a nobile. L'autore lo fa vedere beffato in una finta cerimonia di investitura cavalieresca da una troupe di comici che gli cantano in quella specie di italiano proprio della commedia dell'arte: "Ti star nobile, non star fabbola, pigghiar schiabbola". Il borghese, quasi a dimostrare con molto anticipo la tesi marxista che non è il lavoro che permette di accumulare capitale, vorrebbe far dimenticare di aver maneggiato il martello del fabbro, e cingere la spada del cavaliere.
Ma ben presto la classe dei capitalisti si rifece delle umiliazioni delle nerbate e delle derisioni sconfiggendo nella rivoluzione sociale le classi dei nobili e dei preti, instaurò il proprio dominio e non trovò freni alla espansione delle sue forze economiche. Cadde allora il sistema della proprietà feudale e dilagò l'acquisto di beni immobili da parte dei portatori di capitale monetario che fino ad allora assai difficilmente avevano potuto soddisfare questa particolare esigenza. Tale fu uno dei caratteri più importanti della rivoluzione capitalistica, ed essa, sempre nelle lapidarie frasi di Carlo Marx, pervenne a "fare della terra un articolo di commercio" e, come potè vantarsi di avere liberato i lavoratori della campagna dalla servitù feudale e i lavoratori della città dai vincoli corporativi, per poterne fare i suoi dipendenti e i suoi sfruttati, potè egualmente menare il vanto di avere "incorporato il suolo al capitale".
Potremmo indicare questo primo periodo di consolidamento del capitalismo vincitore come periodo di immobilizzazione del capitale mobile, intendendo per immobilizzazione l'investimento su larga scala nell'acquisto di proprietà e fondi agrari e di edifizi urbani, necessario complemento economico del possesso dei grandi mezzi industriali di produzione. E questa necessità economica diveniva al tempo stesso una necessità di ordine politico, poiché per debellare completamente gli antichi signori e le pretese di restaurazione dell'ordine feudale conveniva mortificarli anche nelle posizioni di prestigio da loro assunte nelle grandi metropoli che erano sorte per effetto del prorompere delle forme capitalistiche e nelle quali tuttavia re, cortigiani, militari ed ecclesiastici occupavano le dimore più imponenti, mentre era altra pretesa di dominio e di prestigio di tali classi il conservare larghissime estensioni di terreno coltivabili della provincia per le varie finalità di lusso, di svago, di caccia, di soggiorno, di comunità religiose e così via, laddove urgeva alla economia borghese mettere il tutto a reddito, sia per ulteriori investimenti affaristici di capitale che per l'intensificata produzione di sussistenze necessarie all'esercito dei lavoratori industriali.
Abbiamo voluto ricordare questo primo periodo di conquista della proprietà immobiliare da parte del capitale perché spingendoci innanzi vedremo che ad esso si contrappone un periodo modernissimo nel quale il capitale intraprenditore tende invece sempre più a svincolarsi dalla titolarità dei possessi immobiliari, poiché ben può esplicare con intensità massima le sue funzioni e realizzare il prodursi di profitti vertiginosi senza bisogno di detenere il possesso locale degli immobili, e senza d'altra parte avere più alcun motivo storico di preoccuparsi che questi ricadano nelle mani delle classi aristocratiche terriere ormai scomparse.
Nel periodo intermedio di un capitalismo stabile, che ci conviene esaminare un poco prima di venire all'analisi di questo terzo periodo modernissimo a cui per chiarezza dell'esposizione abbiamo accennato, i rapporti tra proprietà ed intrapresa si pongono in modi svariati. Quando però si esaminino attentamente le varie forme economiche e le corrispondenti forze sociali, riesce sempre ben chiaro che il carattere distintivo dell'epoca capitalistica deve rinvenirsi nell'intrapresa e non nella proprietà.
Il borghese del primo periodo, il romantico Padrone delle Ferriere, non lo potremmo concepire se non come una specie di unico patrono nelle cui mani si concentrano tutti gli elementi e i fattori della produzione. La terra, su cui sorge la fabbrica, gli appartiene, così pure la miniera che gli dà il minerale, lo stabilimento in cui lo si lavora, le macchine e gli utensili. Egli acquista tutte le materie prime e tutte quelle accessorie che entrano nella lavorazione ed acquista la forza di lavoro assoldando i suoi operai. Egli è padrone esclusivo di tutto il prodotto e lo colloca ove crede o gli torna più utile sul mercato. Egli stesso è un tecnico del ramo di produzione in cui lavora, tuttavia stipendia egualmente come suoi impiegati dei tecnici e dei contabili. In un primo periodo le cosiddette spese generali sono limitate, poiché l'officina deve tutto prodursi da sé, luce, calore, forza motrice; le stesse tasse che si pagano allo stato sono assai ridotte perché nei primi regimi liberali la borghesia applica in pieno la politica economica di lasciar fare, lasciar passare, e sopprime tutti i limiti e i balzelli che possono essere di ostacolo alle iniziative di produzione e di commercio. La registrazione contabile riesce quindi semplice e unitaria e tutto l'utile risultante dall'eccesso delle entrate sulle spese finisce nelle tasche del capitalista che non deve prelevarne affitti e canoni per gli spazi, gli impianti, gli edifizi di cui fa uso. In questo caso classico, iniziale, il capitalista dispone anche di abbastanza abbondante liquido per poter fare il banchiere di se stesso e quindi non si addebita interessi del capitale numerario che gli occorre per i suoi acquisti di merci e le anticipazioni di salario.
Se volessimo considerare nell'agricoltura il parallelo di questa azienda modello, lo troveremmo in un caso in cui il gestore è nello stesso tempo proprietario fondiario del suolo e di tutte le scorte morte e vive, ossia macchine, attrezzi, provviste di sementi e di concimi, mandrie di bestiame ecc. ed inoltre dispone di sufficiente capitale contante per anticipare i salari dei lavoratori giornalieri o ingaggiati ad anno. In tutti questi casi l'unica differenza attiva, che il padrone realizza come premio tra il ricavato della vendita dei prodotti e la somma di tutte le anticipazioni, comprende in sé la rendita fondiaria propria della terra, l'interesse del capitale finanziario, e l'utile dell'intrapresa, elementi economici che possono considerarsi distinti tra loro.
L'economista borghese li considera distinti perché pretende che sorgano da pretese fonti bastevoli ciascuna a generare ricchezza: la terra generatrice di rendita fondiaria, il danaro generatore di un frutto d'interesse, l'intrapresa generatrice di un profitto che viene a compensare l'attività capacità e accortezza di colui che ha saputo mettere insieme razionalmente i vari elementi della produzione.
Per l'economia marxista, tutti questi margini sono prodotti dal lavoro umano e rappresentano la differenza attiva tra il valore che questo ha prodotto e la minor somma che i salariati hanno ricevuto in cambio della loro forza lavoro.
La distinzione tra i vari elementi del guadagno padronale è tuttavia una distinzione storica, corrispondendo ad una spartizione della plusvalenza estorta alla classe lavoratrice tra proprietario fondiario, capitalista prestatore di danaro, ed intraprenditore.
La distinzione è di natura storica perché anche prima che sorgesse la vera e propria industria capitalistica che occupa salariati, la terra era suscettibile di dare una resa utile al proprietario fondiario, come il danaro bruto poteva dare un frutto a chi ne disponeva, banchiere o strozzino.
Trattasi ora di vedere quale sia la vera caratteristica della produzione capitalistica rispetto a questi vari elementi quando essi anziché trovarsi riuniti nelle mani di un unico titolare si trovano separati, quando cioè il proprietario giuridico del suolo o della fabbrica, il banchiere anticipatore del numerario, e l'intraprenditore, che dopo aver soddisfatto i due primi e tutti gli altri svariati enti di natura pubblica e semipubblica che vanno accavallandosi nell'economia moderna resta arbitro di incassare a proprio compenso e benefizio il prezzo commerciale dei prodotti rovesciati sul mercato, sono persone diverse.
In tutti questi casi il proprietario del terreno, dell'area, del fabbricato e perfino, in dati casi, del macchinario viene compensato con adeguati canoni di locazione, il banchiere anticipatore riceve un adeguato interesse per le somme prestate, allo Stato o ad altri enti eventualmente concessionari si corrispondono tasse e diritti diversi, e tutto quanto rimane costituisce un utile della intrapresa pura che la contabilità capitalistica tende a mettere falsamente in evidenza come qualche cosa che sorge dopo aver già remunerato i vari capitali, immobili e mobili.
Il marxismo venne a stabilire che questa terza forma, orpellata nelle apologie di classe come esponente di progresso, di scienza, di civiltà, è più delle altre due velenosa e virulenta, esaltatrice di sfruttamento di estorsione e di miseria. Il socialismo è tutto nella negazione rivoluzionaria dell'impresa capitalistica, non nella conquista di essa al lavoratore aziendale.
Questi vari elementi ed i loro rapporti si smistano nelle forme capitalistiche moderne in modi diversissimi, ma è già un rapporto economico tutt'altro che nuovo quello in cui rinveniamo aziende capitalistiche cui non corrisponde più nessuna forma di proprietà immobiliare, ed in taluni casi nemmeno una sede fissa ed un apprezzabile macchinario e utensilaggio, mentre tuttavia la dinamica del processo capitalistico sussiste in pieno, e nella sua forma più squisita. Si avvia così una specie di divorzio tra proprietà e capitale per cui il secondo si smobilizza sempre più e la prima si diluisce, si dissimula, o viene anche presentata come una proprietà di enti collettivi nelle statizzazioni, socializzazioni e nazionalizzazioni che pretendono di essere considerate forme di gestione non più capitalistiche.
Nota: Il preteso feudalismo nell'Italia Meridionale.
Un formidabile repugnante "chiodo" del peggiore opportunismo che regna nel movimento socialista e comunista italiano è quello della deprecata esistenza e sopravvivenza del feudalismo nel sud d'Italia e nelle isole, specie a proposito dell'abusata questione del latifondo agrario meridionale, vero cavallo di battaglia dell'istrionismo retorico e del ruffianesimo politico italiano. Il dedurre da quest'immaginaria e inventata constatazione una tattica politica bloccarda e di collaborazione coi partiti borghesi radicali anche dell'Italia del nord (cui sì e no si concede da questi signori la patente di paese capitalistico) sul piano e nel quadro del limaccioso stato unitario di Roma, bastava e basterebbe a qualificarli di rinnegati della dottrina e dell'azione rivoluzionaria. Ma essi, i socialcomunisti nostrani, campioni della collaborazione demoborghese, mostrano ogni disprezzo per il rispetto ai principii, rivendicando l'impegno dell'arma generale del compromesso e tutto fanno derivare dalla contingente valutazione delle situazioni. È quindi il caso di mettere in tutto rilievo che quel loro giudizio sulla situazione semifeudale del meridione calpesta qualunque seria conoscenza della reale situazione dell'economia e dell'agricoltura meridionali, di quelle che sono le caratteristiche distintive della gestione feudale della terra, ed infine dei grandi tratti delle vicende storiche delle Due Sicilie.
Quella che banalmente si considera come arretratezza dello sviluppo sociale del Mezzogiorno, analogamente alla pretesa scarsa e deficiente evoluzione sociale dell'Italia in generale, non ha nulla a che fare con un ritardo storico nell'eliminazione di istituti feudali, ed anche dove presenta le famose zone depresse è invece un diretto prodotto dei peggiori aspetti ed effetti del divenire capitalistico, nell'Europa specie mediterranea, nell'epoca postfeudale. In pochi paesi come nel reame delle Due Sicilie, se guardiamo alla storia delle lotte politiche, il feudalesimo come influenza dell'aristocrazia fondiaria fu combattuto, fronteggiato e debellato dai poteri dell'amministrazione centrale dello Stato, sia sotto il regno dei Borboni e la dominazione spagnuola, che sotto le precedenti monarchie, e si possono prendere le mosse fin da Federico di Svevia. La lotta fu a molte riprese appoggiata da moti delle masse contadine ed urbane, e ben presto arbitri della situazione del regno furono gli intendenti e i governatori dei solidi ed accentrati poteri di Palermo e di Napoli. I risultati della lotta si tradussero in una legislazione anticipata di molto rispetto a quella degli altri staterelli italiani, compreso l'arretratissimo Piemonte, e lo stesso può dirsi nei riguardi del controllo a cui si sottoponevano le comunità religiose e la chiesa secolare da parte dell'autorità politica; né occorre colorire questa ovvia rievocazione con le lotte in Napoli degli eletti del popolo e la impossibilità di stabilire in quella città il tribunale dell'inquisizione. Il processo storico e giuridico, dopo la rivoluzione repubblicana del 1799 condotta da una borghesia audace e cosciente, si perfezionò sotto il robusto potere di Murat, e i restaurati Borboni ben si guardarono dall'intaccare la compatta e avveduta legislazione lasciata da quel regime nel diritto pubblico e privato. È quindi un errore triviale confondere la storia sociale del Mezzogiorno d'Italia con quella dei boiardi e degli Junkers dell'Europa nordorientale, che seguitarono a governare in feudi autonomi i loro servi, a taglieggiarli e giudicarli ad arbitrio, quando da secoli gli abitanti dell'Italia mediterranea erano cittadini di un sistema giuridico statale moderno, per quanto assolutistico.
Quanto alla struttura economica agraria, il quadro di un paese feudale ci presenta il rovescio di quello a cui si collegano le deficienze delle zone latifondistiche del Mezzogiorno italiano. Quel quadro presenta una agricoltura sia pure non decisamente intensiva ma omogenea e diffusa in piccoli esercizi con la popolazione lavoratrice allogata con uniformità sulla superficie coltivata, in abitazioni sparse e in piccoli casali. Il villaggio, che il nostro mezzogiorno purtroppo ignora, è la cellula di base della ricchezza agraria dei tanti paesi di Europa che i signori feudali sfruttavano per le loro grandezze e su cui si precipitò lo strozzinaggio dei borghesi, facendo talvolta il deserto e la brughiera, come descrive Marx a proposito dell'Inghilterra, lasciando altra volta vivere tale ricco cespite e limitandosi a smungerlo, come nella campagna francese.
I latifondi del sud e delle isole sono grandi zone semi-incolte su cui l'uomo non può soggiornare, e non vi si incontrano case coloniche e villaggi, in quanto la popolazione è stata ammassata da un urbanesimo pre-industriale e tuttavia nettamente antifeudale in grossi centri di diecine e diecine di migliaia di abitanti come in Puglia e in Sicilia. La popolazione sovrabbonda, ma la terra non può essere occupata per difetto di organizzazione e di un investimento di lavoro e di tecnica che da secoli nessun regime statale riesce a realizzare, o trova conforme alle esigenze della classe dominante, sia tale regime nazionale o meno. Non vi è casa, non vi è acqua, non vi è strada, la montagna è stata denudata, la pianura ha le acque naturali sregolate e vi domina la malaria. L'origine di questo decadimento della tecnica agricola è molto lontana, più lontana del feudalesimo che, ove fosse stato forte, l'avrebbe contrastato (come il bonificamento tecnico ed economico avrebbe meglio consentito nei secoli di mezzo un vero regime di signoria feudale decentrata ed autonoma). Se si pensa che tali plaghe all'epoca della Magna Grecia erano le più floride e civili del mondo conosciuto, che restarono sotto Roma fertilissime, si deve considerare che le cause del loro scadimento si trovano sia nella posizione marginale rispetto al dilagare del germanesimo feudale con la caduta dell'Impero romano (che le espose alle alternative di invasioni e distruzioni dei popoli del nord e del sud) sia alla depressione dell'economia mediterranea con le scoperte geografiche oceaniche, sia appunto al prorompere del moderno regime capitalistico industriale e coloniale, che fu condotto a localizzare altrove, giusta la ubicazione delle materie prime di base dell'industrialismo, i suoi centri di produzione e le sue grandi vie di traffico, sia infine alla costituzione dello Stato unitario italiano la cui analisi ci condurrebbe molto lungi e che istituì un rapporto tipicamente moderno, capitalistico e imperialistico, perfino precursore dei tempi più recenti.
Tuttavia, prima e dopo tale unificazione, il gioco delle forze e dei rapporti economici fu più che conforme ai caratteri dell'epoca borghese, costituendo un settore essenziale dell'accumulazione capitalistica in Italia, la cui limitatezza è in quantità e non in qualità.
Infatti, prima e dopo il 1860, malgrado lo scarso sviluppo industriale (su cui non va dimenticato che l'influenza dell'unità nazionale fu gravemente negativa, determinando il decadimento e la chiusura d'importanti opifici), l'ambiente economico è stato di natura completamente borghese. Si può dire del Mezzogiorno d'Italia e del suo preteso feudalesimo ciò che disse Marx per la Germania del 1849 parlando al processo di Colonia — si noti bene — proprio per mettere in rilievo che la rivoluzione politica borghese e liberale doveva ancora trionfare: "L'antico grande possesso fondiario era realmente la base della società feudale medioevale. La moderna società borghese (corsivi del testo), la società nostra, quella in cui viviamo, poggia invece sull'industria e sul commercio. Anzi, la proprietà fondiaria ha perduto tutte le caratteristiche d'esistenza di una volta, e dipende dal commercio e dall'industria. Oggigiorno l'agricoltura è gestita industrialmente e gli antichi signori feudali si sono abbassati a divenire produttori di bestiame, lana, grano, barbabietole, acquavite e così via, gente cioè che fa commercio di questi prodotti come ogni altro mercante! Per quanto ancora possano essere attaccati ai loro vecchi pregiudizi di classe, praticamente essi si trasformano in borghesi, che cercano di produrre il più possibile ai più bassi costi possibili, che comprano dove i prezzi sono più bassi e vendono dove sono più alti. Il modo di vivere, produrre ed acquistare di questi signori mostra già la menzogna delle loro affettate e tradizionali fantasticherie. La proprietà fondiaria, come elemento sociale dominante, presuppone il modo di produzione e di scambio del medioevo".
Se la disposizione soprattutto del carbone e del ferro minerale ha fatto sì che dopo quel tempo (e dopo anche la stesura del Capitale, che a modello di una società pienamente capitalistica dovette prendere l'Inghilterra) la Germana è divenuta un grande paese di industria estrattiva e meccanica, oltre che di agricoltura condotta al modo economico e più moderno, riesce tuttavia evidente come quel giudizio di ambiente e di situazione sociale si applichi ancora più radicalmente al mezzogiorno d'Italia dopo un secolo, e dopo ben 90 anni di regime politico del tutto borghese liberale e democratico, regime che, dopo le sconfitte del '48, la Germania attese fino al 1871, e, secondo i soliti sgonfioni chiacchieroni sul feudalesimo teutonico, fino a molto più tardi.
Nel sud d'Italia vige un attivissimo mercato del suolo, con frequenza di trapassi certamente molto più alta che in province di alto industrialismo; ed è questo il criterio discriminante cruciale tra economia feudale ed economia moderna. Vi si accompagna un non meno attivo mercato del grande e piccolo affitto e naturalmente dei prodotti del suolo. Proprio dove la coltura è latifondistica ed estensiva, essa si fa per grandi unità economiche con impiego esclusivamente di lavoratori giornalieri salariati e braccianti, e da molti decenni primeggia, economicamente, su quella del proprietario fondiario spesso in gravi difficoltà di cassa e oberato di ipoteche, la figura del grande affittuario capitalista, largo possessore di contanti e di scorte. Sia laddove il prodotto si riduce al grano, sia dove prevale l'allevamento zootecnico di tipo arretrato e perfino brado, non solo il capitale mobile è nelle mani dei grandi fittavoli e non dei proprietari fondiari, ma molti dei primi incettano e sfruttano a fondo, talvolta determinandone non la bonificazione ma il deperimento, le proprietà appartenenti a titolari diversi.
A considerazioni analoghe conduce l'esame della gestione della proprietà urbana. Anche a prescindere dalla attività industriale diffusa nelle zone più evolute, attorno alle città principali ed ai porti, tutto questo movimento di mercati ormai a giro e ciclo moderno determina da decenni e decenni un'accumulazione di capitali che è servita largamente di base alle industrie libere, semiprotette e protette del Nord (l'Italia, molto prima di Mussolini, era un paese protezionista di avanguardia). Non solo i depositi in banca di borghesi meridionali, proprietari, intraprenditori e speculatori, hanno alimentata sempre con forti correnti la finanza privata nazionale, ma alle risorse del sud ha largamente attinto il fisco, che raggiunge assai più facilmente la ricchezza immobiliare ed ogni movimento economico legato alla terra che non i profitti e sovrapprofitti industriali commerciali e affaristici. L'economia capitalistica italiana sta dunque a cavallo di questi rapporti di carattere del tutto moderno, e che è semplicemente risibile voler paragonare ad una situazione feudale, e presentare, anziché come una solida alleanza, sotto la maschera di un conflitto inesistente tra una borghesia evoluta e cosciente, avida tuttora di perfezionate e rinnovate rivoluzioni liberali o meridionali, e i leggendari "ceti retrivi" e "strati reazionari" della sporca demagogia alla moda.
In rapporto a questa chiara inquadratura di legami economici sta la spregevole funzione della classe dirigente del sud. I resti della storica aristocrazia depauperata vivacchiano in qualche palazzo semicrollante delle città maggiori; in tutta la regione spadroneggiano non signori feudali ma borghesi arricchiti, proprietari, mercanti, banchieri, affaristi, di taglio più cafonesco che signorile. Al margine del movimento della costoro ricchezza, la così detta "intelligenza" è discesa al rango d'intermediaria e mezzana del potere centrale dello Stato borghese di Roma, cui offre il meglio del suo pletorico personale, succhione delle forze produttive di tutte le province, dal commissario di pubblica sicurezza al giudice togato, dal deputato sostenuto da tutti i prefetti e che vota per tutti i governi, all'uomo di stato pronto a servire monarchie e repubbliche capitalistiche.
La lotta sociale nel Mezzogiorno, non meno che quella nel quadro dello Stato italiano in generale, ha posto per i veri marxisti all'ordine del giorno, prima durante e dopo l'abusatissimo ventennio, il superamento delle ultime e più recenti forme storiche dell'ordine capitalistico e mai più l'aggiornamento a modelli oltremontani di rapporti e istituti rimasti "indietro".
Questa tesi della sopravvivenza feudalistica meridionale merita di essere appaiata con l'altra che interpretava il movimento fascista quale una riscossa delle classi agrarie contro la borghesia industriale. L'indirizzo del gruppo che tolse ai marxisti rivoluzionari il controllo del partito comunista d'Italia (il cosiddetto gruppo dell'Ordine Nuovo) poggia fino dai primi anni su queste due cantonate, su queste due piattonate basilari. Esse bastavano in partenza a costruire tutta una prassi e una politica di alleanza tra capitalisti industriali e rappresentanti traditori del proletariato, come si è poi vista in atto in Italia. Non era indispensabile la iniezione degenerante di virus disfattista da parte della centrale internazionale staliniana, nel suo indirizzo mondiale di patteggiamento e collaborazione tra i poteri del capitalismo e quello dello Stato falsamente definito socialista e proletario.
Da "Prometeo" n. 12, gennaio-marzo 1949
Proprietà e Capitale
Quaderni di n+1 dall'archivio storico.
Il lettore d'oggi che pagina dopo pagina arriverà al capitolo finale in cui si tirano le somme sul piano politico, avrà la netta sensazione di avere tenuto fra le mani un libro straordinario. Presa dimestichezza con un linguaggio potente dal punto di vista letterario ma fuori da canoni della saggistica divulgativa, sarà costretto ad ammettere che il metodo d'indagine adottato ha permesso di intravvedere fenomeni poco evidenti all'epoca in cui il libro fu scritto e ancora in embrione nel 1991.